"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

giovedì 27 febbraio 2014

Michel Vâlsan, L’Islam e la funzione di René Guénon

Michel Vâlsan
L’Islam e la funzione di René Guénon[1]

Dì: O gente del Libro! Elevatevi fino ad una Parola egualmente valida per noi e per voi: che noi non adoriamo se non Allàh, che noi non Gli associamo nulla, che noi non prendiamo fra noi alcuni come signori all’infuori di Allâh.[2]

Avendo la morte di René Guénon attratto l’attenzione pubblica su suo caso spirituale, molti sono rimasti stupiti nell’apprendere in quella occasione che egli fosse musulmano. Nei suoi libri, niente indicava un tale collegamento tradizionale; inoltre, il posto che diede all’Islam nei suoi studi fu, in confronto a quello che vi trovano l’Induismo o il Taoismo, abbastanza ristretto, malgrado i frequenti riferimenti che egli fa alla metafisica e all’esoterismo islamici.
È così che alcuni si sono domandati se poteva esservi un accordo tra la sua prospettiva dottrinale e la sua posizione tradizionale personale. Altri sono arrivati a pensare che il suo insegnamento metafisico e intellettuale non potesse essere considerato compatibile con la dottrina islamica. È appena necessario rilevare quello che c’è di superficiale o anche di stupefacente in questo tipo di opinioni o di supposizioni, ma noi reputiamo utile dare qui alcune precisazioni e fare alcune messe a punto, ritenendo che certi problemi possano essere posti a questo proposito in modo più pertinente, e che, come tali, meriterebbero di essere presi in considerazione.
C’è così una questione concernente l’ortodossia islamica dell’opera di Guénon, e un altro concernente il rapporto che la sua posizione tradizionale personale può avere con la sua funzione dottrinale generale. Per la prima di tali questioni, dato che in effetti non c’è stata a nostra conoscenza alcuna critica precisa, non dobbiamo rispondere ad una tesi determinata, ma cercheremo solamente di mostrare in quale prospettiva si collochi una tale questione. Per la seconda, porteremo a conoscenza dei lettori alcuni elementi documentari quasi sconosciuti in Occidente.
Innanzitutto, ci è necessario ricordare o precisare alcune questioni di principio.
La nozione di ortodossia può essere considerata principalmente su due livelli: l’uno è dell’ordine delle idee pure, l’altro dell’ordine del loro adattamento formale sull’economia tradizionale[3]. Se le verità universali sono in se stesse immutabili, per i loro adattamenti ciclici alle condizioni umane esse comportano forme che sono solidali poi con certi criteri di ortodossia contingente. Nello stesso tempo la sapienza che dispone le verità e le forme dottrinali nei differenti domini e condizioni del mondo tradizionale, determina anche i gradi di giurisdizione e i limiti di competenza dalle istituzioni e delle autorità che devono esserne a conoscenza.
Il relativo adattamento della Verità Universale o delle verità immutabili nelle differenti forme tradizionali, varia innanzitutto a seconda che si tratti di forme di carattere intellettuale o di carattere religioso: le prime, come l’Induismo, hanno un carattere più direttamente metafisico, le seconde, quelle che vengono chiamate le “tradizioni monoteiste”, comportano sul piano generale modalità concettuali dogmatiche e una maggiore partecipazione sentimentale. I criteri dell’ortodossia generalmente variano in ognuna di queste forme in funzione delle loro definizioni specifiche e particolari. Per di più, nel quadro di certe forme tradizionali, e più in particolare nelle forme religiose, è necessario fare una distinzione tra ortodossia esoterica e ortodossia exoterica: malgrado una relazione organica esistente fino ad un certo punto tra i due domini esterno ed interno di una stessa forma tradizionale, i criteri applicabili all’uno sono naturalmente diversi da quelli applicabili all’altro. D’altra parte, come i criteri di ortodossia propri all’exoterismo di una tradizione non possono essere applicati a quanto appartiene ad un’altra forma tradizionale, così quelli che concernono il campo iniziatico ed esoterico di una di queste forme non possono essere considerati come direttamente applicabili ai domini corrispondenti di un’altra: vi sono in effetti, per la via esoterica di ognuna di queste, delle modalità particolari, benché di un ordine più interno, tanto per la dottrina quanto per i metodi corrispondenti, e sarebbe completamente insufficiente parlare di unità esoterica delle forme tradizionali senza precisare che questa unità riguarda solamente i principi universali, al di fuori dei quali gli adattamenti tradizionali si traducono in certe particolarità, anche nell’ordine iniziatico ed esoterico; se non fosse così, non vi sarebbe che un solo esoterismo ed uno stesso dominio iniziatico, per tutte le forme exoteriche esistenti o possibili. Una tale identità ed universalità è reale solo per l’aspetto più alto della metafisica: è in questo senso che i maestri islamici dicono: «La dottrina dell’Unità è unica» (Al-Tawħîdu wâħidun). Ora, questa dottrina è essa stessa identica solo per quanto concerne il suo senso, non quanto alla forma che essa riceve nell’una o nell’altra tradizione; inoltre, nel ciclo di una stessa forma tradizionale, l’espressione della medesima dottrina può ricevere successivamente o contemporaneamente forme diverse[4]. In ogni caso, data la relazione necessaria fino ad un certo punto tra l’insegnamento iniziatico e la forma exoterica di una stessa tradizione, relazione che vale d’altro canto sia per la dottrina sia per le forme simboliche e tecniche, le particolari-tà di cui si tratta sono ancora più sensibili quando si confronta l’insegnamento iniziatico in una tradizione di carattere intellettuale con quello di una tradizione di carattere religioso.
Nondimeno, malgrado la diversità di condizioni che abbiamo ricordata o precisata, non vi è in ciò una molteplicità irriducibile. Al contrario, esiste necessariamente un principio di intelligibilità dell’insieme, corrispondente alla sapienza che dispone questa molteplicità e questa diversità. Ma questo principio può essere solo metafisico. Similmente, il criterio supremo di ortodossia tra i differenti domini con le loro particolarità può solo appartenere alla metafisica pura.
In via generale, l’opera dottrinale di René Guénon si riferisce alle verità più universali come alle regole simboliche e alle leggi cicliche che reggono il loro adattamento tradizionale. Sotto questo aspetto, il criterio della sua ortodossia si trova per la natura delle cose nell’intelligenza dei principi metafisici e delle conseguenze che ne derivano. È solo a titolo secondario che questa ortodossia potrebbe essere sottoposta a una verifica letterale nelle differenti dottrine tradizionali esistenti; in primo luogo, per un lettore ordinario, questa verifica è immediata solo laddove nelle sue opere René Guénon si è dedicato in modo particolare a stabilire lui stesso le prove documentali a sostegno dei punti di dottrina che esponeva e sotto il rapporto della tradizione cui egli così si riferiva; per tutto il resto, sono l’intelligenza e la ricerca personali a essere richieste; si suppone, nello stesso tempo, che questa ricerca sia fondata su una retta intenzione, condizione che assicura il suo orientamento e il suo risultato.
Scrivendo in un tempo in cui le condizioni psicologiche e speculative non avevano più niente di caratteristicamente tradizionale, ed esponendo verità insospettate dai contemporanei, i suoi modi di formulazione metafisica hanno avuto necessariamente un carattere indipendente in rapporto ai modi di espressione dottrinale conosciuti, o praticati, in Occidente. D’altra parte, dato che non si è dedicato esclusivamente all’insegnamento di una sola tradizione orientale, ma si è appoggiato opportunamente su tutto ciò che era suscettibile di servire all’espressione delle idee universali di cui offriva la sintesi, questo carattere di indipendenza formale sussiste in una certa misura anche in rapporto ai modi di espressione dottrinale dell’Oriente; la cosa era del resto inevitabile, per il solo fatto che René Guénon scriveva in una lingua culturale completamente diversa da quelle da cui sono diffuse regolarmente queste dottrine. Come si sa, René Guénon ha dovuto realizzare nei suoi studi un lavoro di sintesi ad un tempo concettuale e terminologico – queste due cose procedendo necessariamente insieme – che appare d’altronde come uno dei risultati più meravigliosi dell’insegnamento tradizionale. Ma ciò stesso lega la sua opera a condizioni speciali di intelligibilità. Così, se si trattasse di tradurre le sue opere di dottrina generale nella lingua di una civiltà orientale qualsiasi, la traduzione dovrebbe essere accompagnata da uno speciale commento ideologico e terminologico, variabile per ognuna di queste lingue. L’ortodossia del senso profondo delle idee non sarebbe sufficiente da sola, con una traduzione letterale – seppure ciò fosse sempre possibile – per far riconoscere dappertutto, in queste opere di dottrine generale, ad un Orientale non prevenuto e che conoscesse solo la propria forma tradizionale, lo stesso fondo dottrinale presente in quest’ultima. La difficoltà sarebbe ancor più accentuata quando si trattasse di traduzione nella lingua di una civiltà di forma religiosa, per la ragione che René Guénon ha pensato e si è espresso in modi appartenenti a quella che si potrebbe chiamare una “spiritualità sapienzale”, modi specificamente diversi da quelli che sono regolarmente seguiti nei trattati di dottrina a base di “religione rivelata”. I modi spirituali di “sapienza” come quelli dell’Induismo mettono per esempio sul primo livello della coscienza tradizionale generale le idee di identità del Sé e del Principio Universale (Brahma), di coincidenza del conoscere e dell’essere, come pure il ruolo attivo dell’Intelletto trascendente nella realizzazione metafisica, verità che nelle tradizioni di tipo religioso hanno non solo una circolazione esoterica ma anche – ed è questo un punto cui bisogna accordare un’attenzione particolare – una forma che è immediatamente piuttosto analogica che identica; l’identità di senso finale esiste sempre, ma quella della forma stessa è rara[5]. Ora, sono queste stesse idee che René Guénon ha sostenute con vigore mettendo nello stesso tempo a profitto certe nozioni speculative dell’aristotelismo, esso stesso una delle forme sapienzali dell’Occidente[6].
Per contro, una nozione religiosa come quella del “Dio personale”, che è propria della concezione teologica del Principio, non poteva intervenire nella sua speculazione puramente metafisica. Egli non ne nega la legittimità in una dottrina teologica, poiché è proprio quello il suo posto, a fianco di altre nozioni specificamente religiose come quelle di “creazione” e di “salvezza”; inoltre siccome, in una forma tradizionale religiosa la base exoterica è necessaria per la via iniziatica ed esoterica – e René Guénon stesso ha insistito in modo particolare su questo punto – gli elementi dottrinali e rituali dell’exoterismo debbono essere necessariamente integrati e praticati sul loro piano. Per l’iniziato inoltre questi elementi possono e debbono essere trasposti in un senso metafisico, ma ciò non li priva assolutamente delle loro virtù positive poiché essi vi trovano una portata veramente universale.
Questi caratteri dell’insegnamento di René Guénon sono la conseguenza rigorosa del fatto che egli voleva trattare esclusivamente di metafisica e di intellettualità pura, ed anche del fatto che una prospettiva puramente intellettuale sulle cose spirituali è sicuramente più accessibile di ogni altra alla comprensione: del resto, egli si rivolge espressamente ai soli intellettuali.
Ma, valendo questi vantaggi di intelligibilità solo per una élite, la sua sintesi dottrinale non potrebbe essere trasferita sic et simpliciter in una lingua culturale a base religiosa, in cui la presenza di un insegnamento dogmatico ufficiale e la fede nelle forme particolari della rivelazione sono elementi costitutivi della tradizione. Per prendere il caso dell’Islam, anche se i concetti del peripatetismo arabo, combinati del resto con quelli del neplatonismo, sono stati in una certa misura utilizzati nell’insegnamento delle dottrine iniziatiche, non c’è stato in questo se non un adattamento contingente e parziale reso possibile ed anche necessario dal fatto che la teologia islamica (il Kalâm) stessa aveva adottato per le sue spiegazioni i modi speculativi della filosofia[7]. Tuttavia la spiritualità in generale dell’Islam, come quella del Ahl al-Haqîqa (la “Gente della Verità essenziale”) e del Tasawwuf, è rimasta, nelle sue concezioni più intime e nella sua terminologia tecnica come nei suoi mezzi, sulle sue basi profeti-che, e questo per ragioni di omogeneità tra le influenze spirituali da un lato, e i modi concettuali nonché i mezzi tecnici della via da un altro lato, ragioni che riguardano da vicino ciò che costituisce l’eccellenza propria della tradizione mohammadica, tanto nell’ordine exoterico quanto nell’ordine iniziatico[8].
Una eventuale presentazione dell’opera di René Guénon in un ambito tradizionale islamico dovrebbe di conseguenza essere fatta con un riferimento competente alle dottrine esoteriche e metafisiche dell’Islam, pur tenendo conto di quello che c’è di inevitabilmente delicato nell’esposizione delle dottrine esoteriche dell’Islam stesso davanti ad un pubblico che non potrebbe nel suo insieme essere considerato come capace di comprendere le cose di quest’ordine.
A questo proposito bisogna notare, tra l’altro, che ai nostri giorni le dottrine del Tasawwuf hanno esse stesse bisogno nei paesi islamici di una giustificazione intellettuale rinnovata e adattata in modo da rispondere alle condizioni della mentalità moderna che si è estesa dall’Occidente a tutti gli ambienti culturali del mondo orientale. Al di fuori dallo spirito exoterista, bisogna dunque fare i. conti ora con lo spirito meramente antitradizionale di ogni tipo di progressisti, e soprattutto con la presenza di una generazione di studiosi “orientalisti” di origine orientale, ma di formazione e di ispirazione occidentali e profane[9]. Per un curioso rivolgimento delle cose, lo stesso insegnamento di René Guénon può facilitare molto questa giustificazione, poiché contiene i mezzi speculativi e dialettici che permettono di arrivarvi in tutte le condizioni di mentalità che assomigliano a quelle dell’Occidente contemporaneo; questo lavoro di giustificazione intellettuale si trova già essenzialmente nei riferimenti dottrinali che l’opera di René Guénon fa all’esoterismo e alla metafisica islamici. La presentazione dell’opera di René Guénon in un ambito islamico, o genericamente orientale, appare così come una occasione propizia per risollevare il prestigio dell’intellettualità tradizionale dell’Oriente nel suo insieme. Dato che in questa opera le dottrine dell’Induismo e del Taoismo sono spesso messe in rapporto con quelle del Tasawwuf come con quelle dell’esoterismo giudaico o cristiano, è nel suo insegnamento che si trovano anche il principio e il metodo di concordanza intelligibile tra i due tipi di spiritualità di cui abbiamo parlato, l’intellettuale e il religioso.
Ciò ci conduce a dare alcune precisazioni sui rapporti tra questi due tipi di spiritualità. I due tipi coincidono nella loro fonte suprema e nel loro aspetto ultimo; le differenze appaiono nelle modalità dominanti sui piani inferiori. Ma del tutto rivelatore nel senso religioso è necessariamente, prima d’essere scelto come supporto di una rivelazione o di un messaggio divino, e lo rimane sempre dopo, un Conoscente del Principio secondo la modalità identificante della realizzazione metafisica. La via iniziatica aperta dal rivelatore, pur essendo in rapporto diretto con le modalità di sapienza che qualificano il suo tipo personale[10], presenta nello stesso tempo certi caratteri legati al messaggio ricevuto per l’insieme della comunità religiosa. La forma e l’estensione del messaggio profetico, soprattutto quando si tratta di casi profetici maggiori, sono tali che lo stesso supporto scelto riceve attraverso la fede il messaggio o il “libro” rivelato, il quale si riferisce così a tutto quanto non è stato realizzato in ampiezza da lui stesso, e che gli è affidato sia per lui stesso sia per la sua comunità. È per questo che Allâh dice al Suo Profeta universale: [È così che Noi ti abbiamo rivelato uno Spirito col Nostro Comandamento, mentre tu non sapevi che cosa fosse il Libro, né che fosse la Fede][11]. Ma, quali che siano i caratteri particolari o specifici di una spiritualità religiosa, per il fatto che il suo asse rimane quello della conoscenza e per il fatto che il suo principio è puramente metafisico, è sempre possibile ricondurre l’insieme dei suoi attributi dottrinali, simbolici e tecnici, ad una concezione metafisica e con ciò ritrovare l’accordo con le dottrine puramente intellettuali.
È così che, nell’ambito dottrinale, malgrado il dualismo apparentemente irriducibile delle idee di “Dio” e di “creazione” nelle forme religiose, non è concepibile che la dottrina dell’Identità Suprema, valida sia per la relazione del Sé col Principio sia per quella della Manifestazione Universale col Principio, faccia difetto innanzitutto al fondatore di una tradizione integrale, e che essa non sia per principio destinata a rimanere l’essenza stessa della tradizione fondata da lui, malgrado le forme che essa deve ricevere, fin dall’inizio o anche nel corso del ciclo tradizionale, nell’insegnamento esoterico stesso. La coscienza di questo substrato primordiale può diminuire od anche subire delle eclissi, ma è perché allora l’élite stessa partecipa alla sua tradizione solo in modo imperfetto o incompleto oppure non vi è più affatto una vera élite; è per questo che si può allora dire che la comunità e le sue istituzioni di fatto non comprendono o non accettano più l’idea di Identità Suprema, ma non che sono le tradizioni stesse ad escluderla. La tradizione islamica è formale sul punto che tutti gli Inviati divini hanno portato essenzialmente lo stesso messaggio e che tutte le tradizioni sono in essenza Una, il che implica innanzitutto una identità di realtà e di dottrina metafisica. Per quanto concerne la forma mohammadica della tradizione, questa è in ogni caso, originariamente ed essenzialmente, imperniata sulla dottrina della Identità Suprema, che è quella della Wahdah al-Wujûd. Questa espressione appartiene allo Shaykh al-Akbar, che visse nel VI-VII secolo dell’Islam, ma la realtà designata è puramente mohammadica: non è altro che il Tawħîd stesso, nella sua accezione iniziatica, accezione che la storia tradizionale anteriore attesta frequentemente, e che questo maestro non faceva che rendere più esplicita e più sensibile per l’intellettualità contemporanea[12]. Questa dottrina, che proveniva per sua natura da un insegnamento esoterico, e di cui solo alcuni segni potevano trasparire all’esterno, afferma l’identità del Sé e di Allâh o la Verità Suprema e Universale, e nello stesso tempo l’identità essenziale della manifestazione con il Suo Principio: l’identità del “Se Stesso” e del Principio è attestata tra gli altri dal famoso hadîth [Colui che conosce se stesso, conosce il suo Signore]; d’altra parte i concetti di “atto di creazione” e di “creatura” – entrambi inclusi nel termine khalq – sono così ricondotti a quelli di “atto di manifestazione” (zhuhûr) e di “manifestazione” (mažhar), che esprimono anche più di una semplice esteriorizzazione delle possibilità principali, poiché, ricollegate al nome divino “l’Evidente” (al-Zhâhir), annunciano la manifestazione dell’Essere Unico stesso.
Infine, per considerare un altro importante punto differenziatore dei due tipi di spiritualità di cui parliamo, costituito dal concetto di Intelletto, vedremo una situazione analoga per quanto più complessa. Nell’Islam, secondo la definizione profetica, l’Intelletto (al-‘Aql) è cosa creata: [La prima cosa che Allâh ha creata è l’Intelletto] dice un hadîth. Prescinderemo qui dalla trasposizione metafìsica, di cui parlavamo, del concetto di Khalq, la quale risolverebbe ormai ogni difficoltà. Prenderemo le nozioni nel loro senso diretto: secondo questo senso, la funzione sapienzale dell’Intelletto in quanto punto di coincidenza tra il Principio e l’essere non è più possibile. La dottrina regolare nell’Islam non considera l’Intelletto come una “qualità” o “facoltà” divina, e per questo fatto nel Taşawwuf si evita di parlare di ta’aqqul, “intellezione”, nei confronti dell’Essenza Divina, mentre da una parte presso gli Indù Chit, la Coscienza Universale, che è una qualificazione di Ishwara, è anche quella dell’essere assorbito in Lui e che nel suo stato ordinario ne possiede il riflesso in citta, il pensiero individuale, e d’altra parte per i peripatetici l’Intelletto puro coincide con Dio[13] e l’intuizione intellettuale conosce il Principio. Presso questi ultimi, l’intellezione (in greco noesis) è una nozione che conviene sia alla Conoscenza immutabile che Dio “possiede”, sia a quella che lo stesso essere causato o generato “realizza” e con la quale questo partecipa al soggetto e all’oggetto dell’Intellezione divina[14]. Quanto alla dottrina mohammadica, essa ristabilisce a questo proposito le cose in un’altra prospettiva specificamente diversa: è il Cuore la facoltà o l’organo di conoscenza intuitiva, quel Cuore che ha solo una relazione simbolica con l’organo fisico dallo stesso nome, e di cui il hadîth qudsî così dichiara: [Il Mio Cielo e la Mia Terra non possono contenerMi, ma il cuore del Mio fedele servitore Mi contiene]. Si noti bene, non si tratta di una semplice questione di terminologia. Innanzitutto il Cuore, realtà centrale dell’essere, è, per esempio secondo i termini della scuola dello Shaykh al-Akbar, «la realtà essenziale (al-ħaqîqa) che riunisce da una parte tutti gli attributi e tutte le funzioni divine, dall’altra parte tutti i caratteri e gli stati generati, tanto spirituali quanto individuali». L’Intelletto non ne è che una implicazione. Il Cuore può essere detto Intelletto in quanto racchiude quest’ultimo, e l’Intelletto è Cuore in quanto ne fa parte. Ecco una precisazione dello Shaykh al-Akbar: «L’Intelletto Primo, noi lo chiamiamo Intelletto ‘Aql) sotto un rapporto differente da quello sotto cui noi lo chiamiamo Calamo (Qalam), da quello sotto cui lo chiamiamo Spirito (Rûħ) e da quello sotto cui lo chiamiamo Cuore (Qalb)». Qualche volta, per accentuare meglio la differenza, si considera il Cuore come facoltà superiore all’Intelletto, superante il piano di questo: Al-Qalb huwa al-quwwat allatî warâ’a tawr al-’Aql, dice ancora lo Shaykh al-Akbar, che aggiunge: «Così non c’è Conoscenza della Verità Suprema (al- Haqq) proveniente dalla Verità stessa se non attraverso il Cuore; in seguito questa Conoscenza è ricevuta dall’Intelletto, da parte del Cuore»[15].
Ma ciò che è ancora caratteristico per le implicazioni spirituali della nozione di Cuore, è il fatto che questo può essere legato in modo più adeguato alle modalità individuali e sentimentali dell’essere religioso, e soprattutto al mistero e alla funzione totale della Fede, come si constata del resto nel hadîth citato più sopra[16]; questa relazione con la Fede non è specificamente possibile per l’Intelletto, né quando questo è in qualche modo sostituito dal Cuore nella sua funzione essenziale e più universale, come risulta dal dogma islamico, né quando è preso in senso di facoltà di conoscenza immediata dei principi universali che da la certezza, il che corrisponde allora alla sua accezione puramente sapienzale[17].
La realtà del Cuore non è naturalmente ignorata dalle dottrine puramente intellettuali, ma in queste la prospettiva in cui essa è vista è differente. Parlando del Cuore, centro della vita e dell’individualità integrale secondo i dati indù, il che da ad esso una posizione intermedia tra l’Intelligenza Universale e l’individuo, René Guénon ricorda che «i Greci stessi, e Aristotele tra gli altri, attribuivano lo stesso ruolo al Cuore e ne facevano anche la sede dell’Intelligenza»[18]. Per i cambiamenti di posizione risultanti dai cambiamenti di prospettiva di cui parliamo, si può notare che nelle dottrine di questo tipo i rapporti tra il Cuore e l’Intelligenza o l’Intelletto sono rovesciati: il primo è visto solamente al grado individuale, per cui è l’Intelligenza che rimane del campo sopra-individuale e universale. È anche incontestabile che nelle dottrine sapienziali greche la nozione del Cuore interviene piuttosto a titolo secondario e quasi accidentalmente, in quanto la prospettiva intellettualistica di queste dottrine non lo esige specificamente; ma sarebbe un errore vedere in ciò solo la differenza di situazione contingente e non notare la concordanza perfetta sotto un rapporto più profondo, poiché se il Cuore è considerato, nelle dottrine sapienziali, solamente come centro dell’individualità, per questa stessa centralità esso corrisponde simbolicamente all’Intelletto divino nelle sue relazioni con l’individuo e si identifica essenzialmente a quest’ultimo.
Dobbiamo anche far notare che in via generale questa nozione del Cuore appare molto meno in rilievo nelle stesse dottrine cristiane. Diciamo ciò soprattutto in rapporto all’importanza che essa ha tanto nei testi della rivelazione mohammadica quanto nell’insegnamento del Tasawwuf, la differenza si spiega col fatto che il Cristianesimo ha dovuto assumere, per la sua espansione tra i gentili, le forme intellettuali della sapienza greca[19].
Questi diversi punti di vista sugli elementi fondamentali che costituiscono l’essere spirituale e sui loro rapporti con la Verità Suprema sono naturalmente in relazione con le modalità caratteristiche che si constatano in seguito, nelle vie rispettive, tanto sul piano della vita spirituale in modo generale quanto nell’ordine dei metodi di realizzazione, ma una vera comprensione delle cose permette sempre di ritrovare l’accordo di base e di collocare le differenze constatate nell’ordine contingente in cui esse hanno tutta la loro ragione di trovarsi.
Per concludere questo esame sommario dei punti presi ad esempio, ci si rende così conto che non c’è alcuna divergenza profonda ed irriducibile tra i due tipi di spiritualità di cui abbiamo parlato, l’intellettuale e il religioso, e che, inoltre, è il metodo di René Guénon stesso che permette di ritrovarne l’accordo reale. Non è dunque in questo che vi sarebbe difficoltà a constatare l’ortodossia di un tale insegnamento, tanto sotto il rapporto della tradizione islamica quanto sotto quello di ogni altra tradizione.
Ma al di fuori delle concezioni puramente intellettuali che caratterizzano la sintesi dottrinale di René Guénon e che avrebbero bisogno di una presentazione e di una giustificazione più particolari in un ambito di civiltà islamica, ce n’è un’altra almeno la cui importanza è fondamentale in questa opera, e che non è professata in modo aperto e completo né nelle forme tradizionali di tipo religioso, né in quelle di tipo intellettuale. Si tratta dell’idea di validità e di legittimità simultanee di tutte le forme tradizionali esistenti, o piuttosto dell’idea che, per principio, vi possono essere nello stesso tempo più forme tradizionali, più o meno equivalenti tra loro, poiché in effetti può succedere che una tradizione, quale che sia stata la sua eccellenza originale, si degradi nel corso del ciclo storico al punto che non si possa più parlare realmente della sua validità attuale o della sua integrità di fatto. Ora, per una sorta di necessità organica di affermazione di sé, e per effetto della percezione e della coscienza dell’eccellenza spirituale che le è propria, ogni mentalità tradizionale d’insieme relega le altre tradizioni su posizioni inferiori o le esclude puramente e semplicemente da ogni accesso ad una realtà profonda e realmente salvifica. Tuttavia l’idea della legittimità di tutte le forme tradizionali esistenti è solo la conseguenza in modo “spaziale”, o l’applicazione simultanea, dell’idea di universalità della dottrina e di unità fondamentale delle forme tradizionali; solamente, questa universalità e questa unità, le dottrine valide sul piano generale di ogni comunità tradizionale le riconoscono più volentieri nella loro applicazione in successione temporale, e d’altra parte in misure molto varie, poiché ciò permette alle rispettive comunità di escludere o di diminuire più facilmente le altre forme tradizionali contemporanee. Questa propensione naturale si accentua generalmente nelle comunità fondate su una forma religiosa, ma tuttavia non è nell’Islam che essa raggiunge la sua forma più caratteristica. Anzi, al contrario, vi sono sotto un certo aspetto nella legge islamica più possibilità di visione universale che in ogni altra tradizione, ed in ogni modo più che nelle altre leggi religiose. In effetti, quale che sia il grado in cui la mentalità comune o la dottrina exoterica professata di fatto realizzano questa visione universale, i fondamenti di questa si trovano nella legge religiosa, nello stesso testo coranico. Non c’è alcun altro testo rivelato tanto esplicitamente universale quanto il Corano. Non potremmo trattare qui tale questione nel suo insieme, ma citeremo alcuni testi sufficientemente chiari di per sé:

[In verità coloro che credono, gli Ebrei[20], i Cristiani (al-Nasârâ), i Sabei[21], coloro che credono in Dio e nel Giorno Ultimo e fanno il bene, questi hanno la loro ricompensa presso il loro Signore. Di conseguenza, non avranno niente da temere, e non saranno afflitti][22].

 [Per ognuno di voi, Noi abbiamo istituito una legge e un cammino. Se Allâh avesse voluto, avrebbe fatto di voi una sola comunità tradizionale (ummah), ma Egli vi sottomette a delle “prove” secondo ciò che Egli vi ha dato. Cercate di superarvi gli uni con gli altri nelle buone azioni. Voi ritornerete tutti ad Allâh, e allora Egli vi informerà riguardo a ciò in cui divergete (ora)][23].

Bisogna anche dire che, malgrado la precisione e la chiarezza di tali testi, l’interpretazione exoterica dominante li riconduce per principio ad una prospettiva di validità in successione, non in simultaneità, per il fatto che la legge mohammadica è considerata come abrogante le leggi anteriori. Tuttavia lo stesso testo coranico afferma che la rivelazione mohammadica apporta la “conferma” di ciò che è ancora effettivamente presente delle rivelazioni anteriori: [E Noi abbiamo fatto scendere il Libro secondo Verità, (Libro) che conferma e preserva ciò che sussiste prima di esso in fatto di Scrittura][24].
Non possiamo qui esaminare tutti i punti che sollevano i problemi della abrogazione e della conferma; ma, tenendoci ai soli aspetti più evidenti e di carattere più generale, citeremo anche i versetti seguenti, che attestano la validità delle Leggi giudaica ed evangelica; questo concernente la Torah: [Ma come ti potrebbero prendere (oh Muhammad) per loro giudice, dato che hanno la Torah, nella quale c’è il giudizio (il criterio legale) di Allâh?][25]. E questo riguardante il Vangelo: [Così le genti del Vangelo giudicheranno per mezzo di ciò che Allâh ha rivelato nel Vangelo, e quelli che non giudicano con ciò che Allâh ha rivelato, quelli sono i prevaricatori][26].
Questi riferimenti ci basteranno qui per illustrare la nostra affermazione che la base legale islamica è provvidenzialmente disposta per una larga visione dell’unità ed universalità tradizionali, tanto in successione quanto in simultaneità. Sotto questo stesso rapporto in realtà c’è solo il Cristianesimo che, chiuso nelle sue concezioni dogmatiche sul senso “storico” della unicità del Cristo, è exotericamente privo e della visione in successione e di quella in simultaneità di questa realtà universale, al punto che non riconosce neppure alla tradizione giudaica, anteriore alla venuta del Cristo, e nella cui linea tuttavia si colloca, una economia soteriologicamente autonoma: l’efficacia delle forme tradizionali bibliche nel loro insieme è così legata, nell’accezione exoterica del dogma religioso cristiano, al criterio dell’attesa del Cristo “storico”, e l’attualità della salvezza sospesa, sia per l’uomo comune sia per i Patriarchi e i Profeti, fino al riscatto operato dal Salvatore. Il Giudaismo stesso, il cui esclusivismo è sotto altri aspetti più radicale di ogni altro, riconosce almeno per il passato biblico questa realtà tradizionale nella linea dei Patriarchi e dei Profeti, in cui vede la attualizzazione continua della stessa verità primordiale che conferisce sempre la pienezza della salvezza[27].
Ma, quali che siano a questo proposito i privilegi di principio o di fatto della tradizione islamica, è fin troppo vero che l’idea della verità e della legittimità delle altre forme tradizionali, religiose o no, ha più particolarmente bisogno di essere puntellata intellettualmente e legalmente nel caso di una presentazione dell’opera di René Guénon nell’ambito islamico. Segnaliamo per l’occasione un punto che sarà sempre un elemento prezioso in un simile lavoro. La spiritualità islamica nel suo insieme è soprattutto sensibile al riconoscimento dell’Unicità divina, punto che, per essa, è il fondamento e il criterio primario della validità di ogni forma religiosa. Ora, René Guénon afferma ed insegna l’unità fondamentale delle tradizioni esistenti per il fatto stesso che egli constata come l’essenza di tutte le rispettive dottrine sia quella dell’Unità o della Non-Dualità del Principio di Verità. È del resto nella misura in cui questa dottrina suprema viene realmente compresa e praticata in una comunità tradizionale, che egli riconosce innanzitutto alla rispettiva tradizione la sua attuale validità. L’insegnamento di René Guénon sulla legittimità delle altre tradizioni è così verificato e convalidato dalle stesse verità che preoccupano la coscienza islamica. D’altra parte, avendo enunciato la necessità di un accordo tradizionale tra Oriente ed Occidente, nell’interesse dell’umanità nel suo insieme, egli ha spiegato che questo accordo deve vertere sui principi da cui tutto il resto dipende, e tutta la sua opera non ha altro scopo che suscitare e sviluppare in Occidente la coscienza delle verità universali di cui il Tawhîd è nell’Islam l’espressione più evidente. È naturale che questo omaggio costante e molteplice a quella che è la verità più cara all’Islam su un piano generale, si avvantaggi nello stesso tempo dell’autorità dottrinale di colui che ne è stato ai nostri giorni l’esponente più qualificato.
D’altra parte, la tesi di René Guénon sull’unità fondamentale delle forme tradizionali non apparirà come completamente nuova nell’Islam, poiché vi sono alcuni precedenti preziosi, innanzitutto con lo Shaykh al-Akbar, il cui insegnamento non poteva tuttavia essere altrettanto esplicito quanto quello di René Guénon, a causa delle riserve imposte da ogni ambiente tradizionale particolare; sarà tuttavia interessante farvi riferimento.
Ciò che abbiamo segnalato come punti critici e soluzioni da considerare quando si tratterà di giudicare dell’ortodossia islamica dell’insegnamento di René Guénon, come pure della sua ortodossia in generale, non deve far dimenticare che quanto viene richiesto sotto questo rapporto a ogni Orientale od Occidentale che vorrebbe giudicarne, sono non solo qualità intellettuali di giudizio ma anche la conoscenza estesa e profonda delle dottrine che debbono essere evocate all’occorrenza. Il metodo facile e spiccio delle citazioni tronche e slegate dalle loro relazioni concettuali d’insieme, aggravato forse ancora da errori terminologici, non potrebbe qui trovare alcuna scusa, poiché René Guénon non parla né in nome né nei termini di una teologia o di una dottrina particolare, i cui riferimenti sarebbero immediati. In ogni modo, una delle cose più assurde sarebbe domandare alle “autorità” exoteriche, siano d’Oriente o d’Occidente, di valutare il grado di questa ortodossia, sia in modo generale, sia in rapporto a qualche tradizione particolare. Queste “autorità”, in quanto esoteriche, e quali che possano essere le loro pretese di competenza, più o meno sincere, non hanno alcuna qualità per dare un giudizio sulle dottrine esoteriche e metafisiche delle loro proprie tradizioni. Del resto c’è la storia per provare, ad ogni uomo intelligente e in buona fede, che ogni qual volta tali ingerenze si sono verificate, siano state provocate da semplici imprudenze o da errori gravi, sia da un lato sia dall’altro, ne è derivata fatalmente una diminuzione di spiritualità e la tradizione nel suo insieme ha dovuto soffrirne di conseguenza[28]. Questa situazione è più notevole in Occidente, per il fatto che l’ordine exoterico è qui centralizzato in una istituzione che gode di una autorità diretta in tutta l’estensione del suo mondo tradizionale; ma essa ha in una certa misura delle corrispondenze nelle civiltà orientali, dove autorità religiose o politiche male ispirate hanno creduto talvolta di doversi occupare di cose che non le riguardavano per nulla. È così che, nell’Islam, l’opera dello Shaykh al-Akbar è stata a volte oggetto di violenti attacchi da parte di teologi o giuristi, mentre altre autorità hanno preso la sua difesa. Nel suo caso, almeno, le cose hanno avuto come solo esito un certo disagio nella circolazione delle sue opere, che hanno tuttavia continuato ad esprimere l’insegnamento per eccellenza del Taşawwuf, ai nostri giorni, i suoi scritti sono pubblicati sempre di più e, malgrado ostilità che non potrebbero mai scomparire, la sua opera gode di una certa autorità sul piano generale, il che costituisce anche un titolo di gloria per l’intellettualità e la spiritualità islamiche.
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Abbiamo citato il caso dello Shaykh al-Akbar, che fu il “ravvivatore” per eccellenza della via iniziatica e, indirettamente, della tradizione islamica nel suo insieme, nel VII secolo dell’Egira. C’è tra l’insegnamento di René Guénon e il suo più di una semplice concordanza naturale tra veri metafisici. C’è anche, in questo, una relazione di un ordine più sottile e più diretto, per il fatto che René Guénon ricevette la sua iniziazione islamica da parte di un maestro che aveva, egli stesso, attinto all’intellettualità e allo spirito universale dello Shaykh el-Akbar: si tratta dello shaykh egiziano Elish el-Kebîr. È il personaggio cui René Guénon dedicava, nel 1931, il suo Symbolisme de la Croix in questi termini: «Alla venerata memoria dello Shaykh Abder-Rahmân Elîsh El-Kebîr El-Alim, El-Malki, El-Maghribi, cui è dovuta la prima idea di questo libro. Mesr El-Qâhirah 1329-1349 H.»[29].
Il caso di questo maestro egiziano è d’altra parte interessante per noi sotto un altro aspetto, poiché, oltre alla sua qualità iniziatica, che era delle più alte, ne aveva un’altra che potrebbe essere considerata per quanto concerne la questione dell’ortodossia islamica dell’opera di René Guénon. Ecco che cosa ci scriveva un tempo l’autore del Symbolisme de la Croix: «Lo Shaykh Elîsh era lo Shaykh di un ramo shâdhilita, e nello stesso tempo, nel campo exoterico, fu capo del madhhab mâleki à El-Azhar». Per coloro che non sono al corrente del significato di queste parole, precisiamo che l’espressione «ramo shâdhilita» indica un ramo dell’organizzazione iniziatica (ŧarîqah) fondata nel VII secolo dell’Egira dallo Shaykh Abû-l-Hasan al-Shâdhilî, una delle più grandi figure spirituali dell’Islam, che fu anche Polo esoterico della tradizione; si tratta dunque di una funzione iniziatica propriamente detta; quanto all’espressione «madhhab mâleki», essa indica una delle quattro scuole giuridiche su cui poggia l’ordine exoterico dell’Islam, e che sono ognuna rappresentata nell’insegnamento della più grande università del mondo islamico, El-Azhar, del Cairo. In questo modo, il maestro di René Guénon riuniva in sé le due competenze ed anche le due autorità richieste rispettivamente per i campi esoterico ed exoterico della tradizione. Sotto il rapporto dell’ortodossia islamica del suo discepolo, il fatto ha il suo valore significativo. Si noterà che fu questo maestro ad avere la prima idea di un libro come Le Symbolisme de la Croix, che per la sua dottrina metafisica e il suo metodo simbolico, è l’opera più rappresentativa dell’idea di universalità intellettuale della tradizione nell’insieme dell’opera di René Guénon. È di lui che si tratta ancora in una nota al capitolo III di questo libro, dove, a proposito della realizzazione nel Profeta, identico all’Uomo Universale, sintesi di tutti gli stati dell’essere secondo i due sensi dell’“esaltazione” e dell’“ampiezza”, cui corrispondono i due assi verticale ed orizzontale della croce, René Guénon scrive: «Ciò permette di comprendere questa frase, che fu pronunciata una ventina di anni fa da un personaggio che occupava allora nell’Islam, pure dal semplice punto di vista exoterico, un rango molto elevato: “Se i cristiani hanno il segno della croce, i musulmani ne hanno la dottrina”». «Noi aggiungeremo, continua René Guénon, che nell’ordine esoterico il rapporto dell’Uomo Universale con il Verbo da una parte e con il Profeta dall’altra non lascia sussistere, quanto al fondo stesso della dottrina, alcuna divergenza reale tra il Cristianesimo e l’Islam, intesi l’uno e l’altro nel loro vero significato». Nella prospettiva aperta così dal suo maestro, si sa che René Guénon aveva tentato innanzitutto una vivificazione dottrinale del simbolismo cristiano con una serie di articoli su Regnabit (tra gli anni 1925-1927), e che in seguito aveva ancora scritto articoli sull’esoterismo cristiano in Le Voile d’Isis-Études Traditionnelles.
Per quanto riguarda l’aspetto che interessa l’Occidente, lo Shaykh Elîsh sembra aver avuto anche una certa conoscenza della situazione della massoneria e del suo simbolismo iniziatico. Per questo René Guénon ci scriveva una volta che lo Shaykh Elîsh «spiegava a questo proposito la corrispondenza delle lettere del nome di Allâh, sulla base delle loro forme rispettive, con il regolo, il compasso, la squadra e il triangolo». Quello che così diceva lo Shaykh Elîsh potrebbe avere un rapporto con una delle modalità possibili della rigenera/ione iniziatica della Massoneria. In ogni caso, di conseguenza, una buona parte degli articoli del suo grande discepolo è stata consacrata al simbolismo e alla dottrina iniziatica massonica, e questo importante lavoro apparirà in tutti i modi come un contributo dell’intellettualità e della universalità dell’Islam, poiché René Guénon si chiamava allora da tempo ‘Abd al-Wâhid Yahya ed era lui stesso una autorità iniziatica islamica.
Ma ci si può domandare quale sarebbe la spiegazione di queste manifestazioni dei rappresentanti dell’iniziazione islamica, manifestazioni che non sono per nulla naturali nei confronti delle regole abituali. Poiché, se nella gerarchia esoterica la coscienza dell’universalità e della solidarietà tradizionale non è mai mancata, la sua espressione palese, e più ancora il suo messaggio pubblico, sono piuttosto sconosciuti prima della nostra epoca. Nelle opere dello Shaykh al-Akbar stesso, che è l’autore esoterico più “ardito”, la testimonianza dell’unità delle forme tradizionali e della loro validità simultanea è malgrado tutto circondata da molte precauzioni e il più delle volte velata. Per comprendere l’atteggiamento dello Shaykh Elîsh, la cosa più semplice sarebbe considerare le conseguenze che ne ha tratte lo Shaykh ‘Abd al-Wâhid Yahya, il suo discepolo di origine occidentale che ebbe il compito di sviluppare il suo messaggio intellettuale, messaggio che era non solo quello dell’Islam, ma quello dello spirito tradizionale universale. Coloro che hanno compreso l’opera di René Guénon sanno che attraverso questa le forze spirituali dell’Oriente hanno offerto un aiuto provvidenziale all’Occidente in vista di un raddrizzamento tradizionale che interessa l’umanità nel suo insieme.
Questo aiuto ha di particolare che si esprime, innanzitutto, sul piano relativamente esteriore dell’insegnamento dottrinale, metafisico ed iniziatico, pur rivolgendosi ad una categoria ristretta di intellettuali. Un tempo, in condizioni tradizionali più normali, le relazioni puramente intellettuali tra Oriente ed Occidente erano, dai due lati, compito esclusivamente segreto di organizzazioni iniziatiche, di cui l’Occidente non era allora sprovvisto; per questo fatto, le influenze che potevano esercitarsi rimanevano impercettibili all’esterno, e gli effetti dottrinali, nella misura in cui ne derivavano, non apparivano sotto la loro forma orientale, né tradivano la loro origine. Tale è stata più precisamente, nel Medioevo, la situazione delle relazioni tra i Fedeli d’Amore e gli iniziati del Tasawwuf, la cui prova sul piano letterario è apparsa solo ai giorni nostri, quando diversi studi sull’opera di Dante hanno scoperto in quest’ultima importanti influenze islamiche derivanti dall’opera dello Shaykh al-Akbar o dagli scritti di Abû-l-‘Alâ al-Ma‘arrî.
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Ma la relazione tra l’opera di René Guénon e la sua fonte “funzionale” islamica, secondo i pochi dati che abbiamo fatti conoscere, o semplicemente ricordare, potrà sembrare, malgrado tutto, solamente virtuale, se non accidentale. Ed anche, se a parte questo, i libri e gli articoli di René Guénon contengono frequenti riferimenti alle dottrine islamiche, questi riferimenti non provano necessariamente una derivazione islamica dello sviluppo generale e finale di tutta la sua opera; del resto, lui stesso non si è mai presentato in modo speciale in nome dell’Islam, ma in nome della coscienza tradizionale ed iniziatica in modo universale. E non saremo certamente noi a tentare di restringere questo grande privilegio del suo messaggio[30]; se diciamo che c’è una relazione altrettanto sicura tra quest’opera universale e l’Islam, è innanzitutto per il fatto che, per una coerenza naturale tra tutte le forze della tradizione, tutto quel che si può trovare dal lato islamico come intervenuto nella genesi e nello sviluppo del lavoro di René Guénon, non poteva non accordarsi con ciò che era auspicato e sostenuto nello stesso tempo dalle forze tradizionali orientali diverse da quelle islamiche. Ma c’è un’altra ragione che potrebbe permettere di vedere qui il ruolo dell’Islam in modo più caratterizzato; e cioè la vicinanza naturale del mondo islamico all’Occidente, e il suo interesse più diretto per tutto ciò che riguarda la sorte di quest’ultimo. Per questo fatto le forze spirituali dell’Islam potevano benissimo considerare in modo più determinato l’idea del raddrizzamento intellettuale e spirituale del mondo occidentale. Tale sembra essere stato precisamente il senso della funzione dello Shaykh Elîsh in rapporto a quella di René Guénon. Per questo è opportuno citare qui alcuni altri dati concernenti il caso spirituale dello Shaykh Elîsh, dati che mostreranno come la funzione e l’opera di René Guénon si iscrivano in una prospettiva ciclica che il suo maestro aveva esplicitamente enunciata. Ciò darà modo di cogliere ancor meglio certe posizioni tradizionali esistenti sia dal lato occidentale sia da quello orientale.
I dati in questione li attingiamo in alcuni numeri, trovati ultimamente, della rivista arabo-italiana An-Nadî = Il Convito, che usciva al Cairo nella prima decade di questo secolo, e che nell’anno 1907 si orientava in senso tradizionale. Lo spirito propiziatore era quello dello Shaykh al-Akbar. Questa rivista ha svolto così il ruolo di battistrada in rapporto a La Gnose degli ultimi anni e a Le Voile d’Isis-Études traditionnelles. Fra i suoi collaboratori tradizionali, il più notevole è ‘Abdul-Hâdî Aguéli, tanto per la parte araba quanto per la parte italiana. Questi vi pubblicò articoli, edizioni di trattati di maestri dell’esoterismo islamico tra cui lo Shaykh al-Abkar, nonché traduzioni di alcuni di questi testi. In quello stesso anno 1907 si parlò molto, nella rivista, dello Shaykh Elîsh, che per un istante vi figurò come collaboratore, con un breve articolo sul Maestro per eccellenza Muhy-d-Dîn Ibn ‘Arabî. Abdul- Hâdî, che era naturalmente in rapporti personali con lo Shaykh Elîsh, ci da su quest’ultimo preziose informazioni.
Egli lo presenta, in particolare, come «uno degli uomini più celebri dell’Islam, figlio del restauratore del rito malechita, e lui stesso profondo saggio, da tutti rispettato, dai più umili ai principi e ai sultani, capo di molte confraternite religiose diffuse in tutto il mondo musulmano, infine autorità incontestabile dell’Islam esoterico ed exoterico, giuridico e politico». Parlando ancora di lui, come pure di suo padre, «il grande rinnovatore del rito malechita», ‘Abdul- Hâdî ci da alcuni particolari sulla vita dello Shaykh Elîsh: «Essi si sono tenuti sempre lontano dagli intrighi politici di ogni tipo. La loro integrità, la loro austerità e il loro profondo sapere, uniti ad una ascendenza illustre, prospettavano loro una posizione eccezionalmente preponderante nell’Islam; non ne vollero assolutamente sapere.
Ciò che ha creato la leggenda del loro fanatismo, è una fatwâ rimasta celebre, la quale, si diceva, ebbe per conseguenza la rivolta di Arâbî Pascià nel 1882».
 (Qui Abdul- Hâdi esamina che cosa è una fatwâ dal punto di vista giuridico, e perché una tale decisione di giureconsulto, emessa nell’esercizio regolare delle funzioni di muftî, non potrebbe mai attirare contro quest’ultimo le sanzioni del potere politico).
«In seguito agli avvenimenti del 1882, i due Shaykh Elish, padre e figlio […] furono gettati in prigione e condannati a morte. Il padre morì in prigione, il figlio fu graziato ed esiliato[31].
«La sfortuna perseguitò lo Shaykh fin nell’esilio. La sua notorietà, la sua nascita, la sua stessa integrità lo rendevano sospetto; sotto la stupida accusa di aspirare al Califfato universale del mondo musulmano, per proprio conto o per quello del Sultano del Marocco, fu di nuovo messo in prigione, questa volta per ordine di un principe musulmano.
«Per due anni restò in una cella immonda in cui ogni cosa era marciume e in cui l’acqua minacciava di irrompere. Per spaventarlo, fecero uccidere davanti a lui dei condannati. Finalmente fu graziato e gli si concesse un esilio onorevole a Rodi[32]. «Aveva soggiornato ancora a Damasco, dove il celebre avversario dei Francesi in Algeria, l’Emiro Abd-El-Kader, divenne suo amico e condiscepolo nello stesso insegnamento spirituale[33]. Quando l’Emiro morì[34], lo Shaykh compì per lui gli ultimi uffici e lo seppellì a Sâlihiyyé, a fianco della stessa tomba del Grande Maestro, lo Shaykh Muhy-d-Dîn Ibn ‘Arabî.
«Amnistiato dalla Regina Vittoria[35], lo Shaykh rientrò per stabilirsi al Cairo. Di là irradiò la sua influenza benefica nel mondo musulmano non solo come saggio eminente, ma anche come capo supremo di molte congregazioni religiose. Come sempre si mantiene – e i suoi con lui – lontano e al di sopra dei piccoli intrighi del giorno, della corruzione e della cupidigia che allettano l’anima. Ogni volta che incontrate in Oriente un uomo superiore per carattere e per sapere, potere essere sicuri di trovarvi in presenza di uno “shâdhilita”. Ora, è soprattutto in virtù della rettitudine e dell’alta spiritualità dello Shaykh Elîsh che questa ammirevole congregazione mantiene le sublimi tradizioni del suo fondatore, il fedelissimo Abû-l-Hasan al-Shâdhilî, in mezzo alla corruzione generale».
Nel n° 2, che non possediamo, la rivista aveva pubblicato l’articolo dello Shaykh Elîsh sullo Shaykh al-Akbar. Una traduzione italiana ne fu fatta nel n° 5-8 (settembre-dicembre 1907). Il titolo è: «Il principe della Religione, il Grande Polo Spirituale, la Stella risplendente in tutti i secoli».
Per l’occasione, la redazione scriveva:
«II venerabile Shaykh Elîsh, che è per così dire il discendente spirituale di Ibn ‘Arabi, essendosi molto interessato alle nostre traduzioni e ai nostri studi sul grande maestro del Sufismo, ci ha promesso la sua preziosa collaborazione. Quella che segue è la traduzione del suo primo articolo, che si fonda a sua volta sull’autorità del celebre Imâm al-Sha’râni, i cui giudizi fanno legge in materia di ortodossia e di eterodossia, lui stesso essendo stato uno dei più grandi Sufi dell’Islam e un grande dotto in materia di tradizione e di legge sacra: il suo eccellente libro El-Mîzân (“La bilancia”), di cui abbiamo già parlato, è il più bel libro che esista nell’ambito della giurisprudenza comparata».
L’articolo dello Shaykh Elîsh è una breve presentazione della figura dello Shaykh al-Akbar. Alcune note, probabilmente dovute a Abdul-Hâdî, accompagnano questa traduzione. In un passo in cui l’articolo dello Shaykh Elîsh dice che lo Shaykh al-Akbar era spinto in tutte le sue attività dallo Spirito Santo, una nota del traduttore dice: «I Sufi giunti a certi livelli ricevono dal mondo spirituale superiore degli ordini diretti cui obbediscono e che determinano i loro atti, gesti e parole. Lo Shaykh Elîsh rientra in questo caso». Più avanti, l’articolo ricorda l’ortodossia eminente dello Shaykh al-Akbar: «Egli si ricollegò fortemente alla rivelazione divina e alla tradizione profetica e diceva: «Colui che respinge per un solo istante la bilancia della Legge sacra perirà». Lo Shaykh Majd al-Dîn al-Fîrûzabâdî, autore del grande Tesoro della lingua araba intitolato Qâmûs (“L’Oceano”), ha scritto: «Più di uno ha detto che nessun sufi è stato tanto sapiente in campo esoterico ed exoterico quanto lo Shaykh [al-Akbar] Muhy-d-Dîn. È per questo che la sua ortodossia è pura e grande quanto quella di qualunque altro teologo di qualsivoglia religione». A questo punto, una nota del traduttore dice: «Qui ci permettiamo di attirare l’attenzione del lettore sul fatto che uno dei più celebri uomini di sapere parlò spontaneamente, senza essere confutato, sull’ortodossia di più religioni ad un tempo».
La traduzione si arresta dopo due pagine con la seguente spiegazione data dalla rivista: «La fine di questo articolo dello Shaykh Elîsh si riferisce all’opera del nostro collaboratore Abdul-Hâdi, che ci ha pregato di non riprodurne la traduzione, perché, dice, questa parte contiene dei termini troppo elogiativi per lui. Lo Shaykh Elîsh lo ringrazia per il servizio che rende alla civiltà facendo conoscere e comprendere agli uomini dei nostri giorni uno spirito tanto sublime come quello di Muhy-ed-Dîn; egli lo esorta a continuare i suoi studi senza preoccuparsi dell’odio che la sua opera fìloislamica può suscitare fra certi gruppi di sedicenti musulmani».
I consigli spirituali dello Shaykh Elîsh erano seguiti da vicino dal gruppo di studi che si formava attorno alla rivista. Nel n° 3-4 che seguiva la pubblicazione in arabo dell’articolo dello Shaykh, una nota faceva sapere che si era costituita «in Italia e in Oriente una società per lo studio di Ibn ‘Arabî» (lo Shaykh al-Akbar). La nuova associazione aveva preso il nome di “Akbariyyah”[36] e si proponeva:
1. «di approfondire e di diffondere gli insegnamenti sia exoterici sia esoterici del Maestro, con edizioni, traduzioni e commenti delle opere di quest’ultimo e dei suoi discepoli, come pure mediante conferenze e riunioni;
2 «di riunire, per quanto sarà possibile e conveniente, tutti gli amici e i discepoli del Grande Maestro, per dar luogo in questo modo, se non a un legame di fraternità, almeno a un avvicinamento fondato sulla solidarietà intellettuale tra le due élites di Oriente ed Occidente;
«di aiutare moralmente e materialmente tutti coloro che rappresentano la tradizione “mohyeddiniana”[37], soprattutto coloro che con la parola e gli atti operano per la sua diffusione e per il suo sviluppo.
«L’opera dell’associazione si estenderà allo studio di altri Maestri del misticismo orientale, come per esempio Jalâl ad-Dîn ar-Rûmî, ma argomento principale resterà, beninteso, Ibn ‘Arabî.
«La società non si occuperà assolutamente di questioni politiche, non importa quali, e non uscirà dalla ricerca filosofica, religiosa o teosofica su cui si basa».
Simultaneamente la rivista sviluppava i suoi studi di Tasawwuf, tanto nella parte araba quanto in quella italiana. Abdul-Hâdî iniziava tra l’altro la pubblicazione di certi inediti dello Shaykh al-Akbar, di cui alcuni non sono mai stati conosciuti dagli orientalisti e lo sono rimasti fino ad ora. In una nota diceva: “Avendo avuto la fortuna di trovare una ventina di opere inedite di Ibn ‘Arabî, manoscritti rari e preziosi, per tutto questo tempo fummo occupati ad analizzarli».
Sfortunatamente le reazioni degli ambienti modernisti ebbero infine come esito l’interdizione della rivista e l’interruzione degli studi iniziati in Egitto. È possibile che il n° 5-8 del settembre-dicembre 1907 sia uno degli ultimi, se non proprio l’ultimo.
In questi pochi elementi documentari, che non sono certamente tutti quelli che si potrebbero trovare, noi constatiamo che si tratta, nello Shaykh Elîsh e nei suoi discepoli, di concordanza dottrinale tra l’Islam da un lato e il Cristianesimo e la Massoneria dall’altro, della necessità di un ravvivamento delle realtà tradizionali, – innanzitutto nell’ordine intellettuale ed iniziatico –, di un tentativo di stabilire un collegamento spirituale tra Oriente ed Occidente, del concetto di una élite cui spetta tale compito, infine del ruolo dell’intellettualità islamica e soprattutto dell’insegnamento dello Shaykh al-Akbar in questa attività. I lettori di René Guénon vi riconosceranno certamente alcune tesi fondamentali della sua opera, che apparirà così ancora una volta non come la creazione di una individualità originale e di un pensiero sincretista, ma come lo sviluppo di una idea provvidenziale, i cui organi di espressione o di applicazione furono molteplici e lo saranno certamente ancora, finché la finalità prevista non sia raggiunta nella misura in cui deve esserla.
Dopo questo inizio in terra d’Islam, Abdul-Hâdi arrivava infine in Francia, dove incontrò René Guénon, che nella stessa epoca pubblicava La Gnose. Fu allora che questi riprese, nel 1910, l’attività di Abdul-Hâdi, con studi e soprattutto traduzioni che continuarono fino alla fine della rivista con l’ultimo numero del febbraio 1912, epoca in cui si ha il collegamento di René Guénon con l’Islam o la sua iniziazione al Tasawwuf. Per quanto concerne la parte italiana, sembra che non vi siano state, all’epoca, conseguenze nell’ordine degli studi tradizionali. La guerra del 1914 sospese anche in Francia ogni attività. “Abdul-Hâdi essendo morto nel 1917 a Barcellona, René Guénon restò solo in Europa a continuare e sviluppare in una prospettiva totalmente universale l’opera delineata inizialmente dagli “Akbariyyah”, finché i suoi scritti non ebbero suscitato altri intellettuali, i più importanti dei quali si unirono progressivamente attorno a Voile d’Isis-Études Traditionnelles. Un poco più avanti, con un movimento significativo quanto alle posizioni esteriori, Guénon andò a stabilirsi in Egitto, dove lo Shaykh Elîsh era appena morto, e fu là che svolse la sua attività più importante per più di una ventina di anni: libri, articoli e corrispondenza.
L’idea tradizionale, come la si conosce ai nostri giorni in Occidente in seguito all’opera di René Guénon, ha così storicamente una sicura origine islamica ed akbariana. Questa origine immediata e particolare non esclude che essa ne abbia un’altra più generalmente orientale, poiché l’unità di direzione di tutto l’ordine tradizionale comporta la partecipazione di fattori molteplici e diversi, agenti tutti in una perfetta coerenza ed armonia. L’Islam stesso appare nell’opera di René Guénon con quello che vi è in esso di più essenziale e trascendente, e dunque di più universalmente tradizionale. Anche la prima intenzione, che è pure la più grande, di quest’opera, è, per una ripresa di coscienza delle verità più universali e più permanenti, di richiamare l’Occidente alla propria tradizione. Le altre possibili conseguenze, quale che sia il loro grado di probabilità ciclica, vengono logicamente solo a titolo sussidiario.
Era nella più normale economia delle cose che, nei confronti dell’Occidente moderno, la funzione intellettuale della dottrina tradizionale poggiasse immediatamente sull’Islam, poiché questo è l’intermediario naturale tra l’Oriente e l’Occidente, per cui esso è solidale, anche sul piano esteriore, con tutto l’ordine tradizionale terrestre. Ciò risponde pure alla domanda che riguardava il rapporto tra la posizione personale islamica di René Guénon e la sua funzione dottrinale generale.
D’altra parte, abbiamo trovato che il senso della sua opera e le linee generali del suo lavoro sono state enunciate dal suo maestro, lo Shaykh Elîsh, che fu nella nostra epoca un’autorità per eccellenza dell’ortodossia islamica sotto tutti gli aspetti. Questo Shaykh rappresentava nello stesso tempo l’eredità intellettuale dello Shaykh al-Akbar Muhy-d-Dîn Ibn ‘Arabî, l’autorità per eccellenza del Tasawwuf e della dottrina islamica. Ciò risponde all’altra questione, relativa all’ortodossia islamica dell’insegnamento di René Guénon. I criteri profondi dell’ortodossia, come abbiamo detto, si trovano nella intelligibilità metafisica della dottrina, ma, dato che vi sono delle incomprensioni come quelle che abbiamo menzionato all’inizio, è parimenti di una certa importanza constatare anche che la derivazione apparente dell’insegnamento di René Guénon e della sua funzione si inscrive nello stesso tempo in una linea di autorità il cui carattere manifesto è l’ortodossia più pura e l’intellettualità più universale.

[1] [Pubblicato in Études Traditionnelles, gennaio-febbraio 1953, e divenuto poi il primo capitolo de L’Islam et la fonction de René Guénon, Paris, 1984.] 
[2] Corano, III, 57 
[3] Un modo particolare di questo adattamento è quello dei riti e delle tecniche spirituali; non dobbiamo specificamente affrontarlo qui, dove trattiamo solamente dell’ordine dottrinale; è del resto nella dottrina che si trova il fondamento di tutte le istituzioni e pratiche tradizionali. 
[4] Ne vedremo più avanti un esempio relativo all’insegnamento metafisico nell’Islam. 
[5] È del resto quello che si constata anche negli attacchi buddhisti contro il concetto indù del Sé, cui viene sostituito allora quello del Vuoto assoluto ed universale. Ciò che è “affermato” così in modo negativo coincide perfettamente con la vera idea del Sé Assoluto e Universale, ma il cambiamento di prospettiva e di terminologia apportato dal Buddhismo era una necessaria reazione contro [‘“idolatria” di fatto di un Sé sempre più concepito nei suoi modi condizionati. 
[6] La metafisica di Aristotele è limitata all’ontologia, e per di più essa si presenta generalmente come una speculazione filosofica sprovvista dell’applicazione ad una realizzazione corrispondente; ma René Guénon, nella misura in cui vi ha fatto ricorso, l’ha integrata in una dottrina iniziatica e metafisica completa. Poiché se ne presenta l’occasione, dobbiamo aggiungere che l’aristotelismo sembra tuttavia aver conosciuto talvolta una tale applicazione, che però è dovuto rimanere piuttosto di ordine esoterico. Bisognerebbe disporre di un’altra occasione per poter affrontare questo argomento. 
[7] A proposito delle possibilità positive dell’intellettualità aristotelica su un piano più generale di civiltà, potremmo anche dire che, malgrado i suoi limiti, essa ha svolto incontestabile ruolo di linguaggio intellettuale tra le civiltà mediterranee. 
[8] Ritorneremo in un’altra occasione su quest’ultimo punto, soprattutto in occasione della presentazione di certi scritti dello Shaykh al-Abkar Muhy-d-Dîn Ibn ‘Arabî. 
[9] Ciò che è molto significativo a questo proposito è il fatto che, ai nostri giorni, si pubblicano in Oriente traduzioni di opere dell’orientalismo europeo per erudire gli Orientali sulle loro proprie dottrine! 
[10] Poiché bisogna dire che c’è anche una certa diversità quanto ai caratteri dei Sapienti e alle loro forme dottrinali. 
[11] Corano, 42, 52. 
[12] D’altra parte, se si volesse considerare solo il senso letterale, si potrebbe trovare nello Shaykh al-Akbar stesso delle formulazioni così differenti della stessa dottrina, ed è caso frequente in lui, che le si potrebbero considerare come completamente contraddittorie con la nozione di Waħdah al-Wujûd. Ma i suoi avversali exoteristi o altri che egli ha avuti, o che ha ancora e che lo accusano di “panteismo”, non hanno mai l’obiettività di rilevare il fatto, né l’astuzia di metterlo in contraddizione con se stesso; sarebbero allora forse obbligati a fare uno sforzo di comprensione, e così rischierebbero sia di dubitare della fondatezza della loro opinione, sia di confessare di non comprendervi nulla. In effetti i suoi oppositori isolano nei suoi scritti espressioni considerate da loro come compromettenti, e che lo sono solo per il senso che vi vogliono vedere. 
[13] Per dare un esempio delle differenze di concezione o di prospettiva che possono esistere tra le stesse dottrine religiose, si può notare che la dottrina cattolica, la quale ha integrato una buona parte dell’aristotelismo, non esclude che si parli di Intelletto divino; è così che San Tommaso dice: «Deus [...] qui omnia simul Suo lntellectu comprehendit, Dio […] che comprende tutte le cose insieme nel Suo Intelletto» (Summa Theol., De Deo, q. 1, a. 10). 
[14] Riferendoci a quanto dicevamo nella nota precedente, per San Tommaso stesso l’uomo può vedere l’Essenza Divina con la sua intelligenza «intellectus hominis elevatur ad altissimam Dei essentiae visionem, l’intelletto umano è elevato fino alla visione più alta dell’Essenza di Dio» (De Prophetia, q. 175, a. 4). 
[15] In verità il Cuore, quando è considerato nella tradizione islamica in modo iniziatico e tecnico completo, diventa l’oggetto di una dottrina molto sviluppata secondo la quale esso è il contenente di una gerarchia di facoltà e di gradi di conoscenza; ne facciamo qui un semplice cenno, per non dare l’impressione di una semplificazione definitiva e riservare il problema per un esame speciale. 
[16] Dobbiamo aggiungere che il dominio in cui interviene la Fede, la quale non è la semplice “credenza”, non è limitato all’exoterismo, ma si estende alle modalità esoteriche e iniziatiche della via spirituale ad un livello eminente, senza che ciò provochi una alterazione di qualità intellettuale; al contrario, a questi livelli la Fede svolge un ruolo di forza trasformante nei confronti dei simboli, e operativa nei confronti delle idee metafisiche. Ciò che abbiamo detto sorprenderà forse alcuni intellettuali che si sono fatti idee un poco sommarie ed inadeguate non solo per quanto concerne il valore profondo della spiritualità di tipo rivelato, ma, per lo stesso fatto, anche sull’iniziazione e l’esoterismo. Quanto a René Guénon stesso, nella misura in cui ha trattato anche problemi di pratica iniziatica, egli non ha dovuto considerare in modo particolare questo punto, ma in ogni caso quello che aveva detto in questo dominio non solo non lo esclude ma lo presuppone, poiché, in fondo, è solo la conseguenza di ciò che ricordavamo più sopra riguardo alla necessaria trasposizione in modo iniziatico dei dogmi, dei riti e dei simboli religiosi. 
[17] Bisogna dire che una certa “fede” è egualmente indispensabile pure nelle vie sapienziali, in quanto essa feconda l’anticipazione speculativa sull’oggetto della conoscenza; ma naturalmente questa nozione non ha in tal caso né il carattere né il ruolo di un mistero in senso religioso o di una virtù teologale. Cfr. Fedone 70/a, b. Avendo detto Socrate che il vero filosofo, il quale vive secondo lo spirito, sarebbe in contraddizione con sé stesso qualora non fosse felice di morire e di vedere la sua anima liberata dai legami del corpo, Cebete gli fa notare che, fino ad ora, ciò che lui ha detto si presenta solo come «una grande e bella speranza (elpis)»; «egli ha tuttavia certamente bisogno di una “conferma” (paramythia, che designa etimologicamente una prova superiore per mezzo di un “mito”, commonitio in latino), e neppure piccola probabilmente, per procurare la “fede”» (pistis, o fides secondo la traduzione latina di Enrico Aristippo nel 1156). – «Tu dici giusto, Cebete», rispose Socrate, che espose allora le prove riguardo all’esistenza e alla “peregrinazione” dell’anima dopo la morte corporale. 
[18] L’Homme et son devenir selon le Vêdânta, cap. 3. 
[19] Ciò che è molto stupefacente sotto questo aspetto, è il veder come la stessa nozione di fede sia integrata nella dottrina di San Tommaso, in una concezione puramente sapienzale; nello stesso tempo ci si rende conto che i dati aristotelici sono piegati alle necessità della dottrina teologica: in una tale dottrina, l’Intelletto non può essere visto come bastante a sé stesso nel suo operare; la relazione della fede deve sussistere con l’oggetto della conoscenza. San Tommaso, dopo aver ricordato che secondo Aristotele (De anima, 3, cap. 9) l’intelletto speculativo «non dice nulla di ciò che bisogna fare o non fare (nihil dicat de imitabili et fugiendo)», da cui deriva che «esso non è principio di operazione (non est principium operationis)», mentre la fede è quel principio che, secondo la parola dell’apostolo «opera per mezzo della carità (per dilectionem operatur)», conclude che «nondimeno, credere è immediatamente un atto della intelligenza, poiché l’oggetto di quest’atto è il vero, il quale appartiene in proprio all’intelligenza. Per questo è necessario che la fede, essendo il principio proprio di un tale atto, risieda nell’intelligenza come nella propria sede (credere autem est immediate actus intellectus: quia objectum hujus actus est verum, quod proprie pertinet ad intellectum. Et ideo necesse est quod fides, quæ est proprium principium hujus actus, sit in intellectu sicut in subjecto)». Poi precisa: «La sede della fede è l’intelletto speculativo, come risulta in modo evidente dall’oggetto stesso della fede. Ma poiché la verità primaria, che è l’oggetto della fede, è anche il termine di tutti i nostri desideri e di tutte le nostre azioni, come dimostra Sant’Agostino, ne deriva che la fede è operante nella carità, proprio come l’intelletto speculativo, secondo il Filosofo (De anima, 3, cap. 10), diventa pratico per estensione (dicendum quod fides est in intellectu speculativo sicut in subjecto: ut manifeste patet ex fidei objecto. Sed quia veritas prima, quæ est fidei objectum, est finis omnium desideriorum et actionum nostrarum, ut patet per Augustinum [in I de Trin., cap. 8, 10]; inde est quod per dilectionem operatur. Sicut etiam intellectus speculativus extensione fit practicus, ut dicitur in 3 de Anima [cap. 10]» (Summa, De fide, q. 4, a. 2; tr. R. Bernard). 
[20] Lett. allađîna hâdû = coloro che seguono la religione giudaica. 
[21] Che vengono fatti corrispondere ai Mandei. 
[22] Corano, II, 62; cfr. anche V, 69. 
[23] Coran, V, 48. 
[24] Ibid. 
[25] Coran, 5, 43. 
[26] Coran, 5, 47. 
[27] È tuttavia importante notare che, negli ultimi tempi, si delinea negli studi cattolici uno sforzo inteso a render conto di certi valori spirituali troppo evidenti per poter essere sempre negati nelle altre forme tradizionali, come l’Induismo e l’Islam. È così che si allarga il concetto di “Chiesa” in un senso più libero delle contingenze, tanto spaziali quanto temporali o formali; che la grazia salvifica è riconosciuta come più indipendente dalle condizioni storiche e dall’adesione formale agli articoli dogmatici e alle loro conseguenze canoniche, ma legata nondimeno alle verità interiori informali ed universali dei dogmi; che l’universalità del Cristo è concepita come implicante la possibilità del suo intervento fuori dalle modalità tipiche della forma storica cristiana. Attualmente è solo una timida e prudente tendenza, ma essa è partico-larmente preziosa per il suo significato, soprattutto quando è manifestata da quegli stessi che si erano fin qui attribuiti il ruolo di fungere da ostacolo ad ogni comprensione realmente universale dei dati tradizionali e all’accordo sui principi con l’Oriente tradizionale. 
[28] In Occidente, un’opera metafisica come quella di Meister Eckhart, colpita in certe tesi iniziatiche da una decisione papale, è così rimasta quasi completamente soffocata a partire dal disastroso XIV secolo, e se ai nostri giorni essa viene progressivamente rimessa in circolazione, non è evidentemente ad opera di autorità exoteriche, ma ad opera di credenti, abbastanza timidi del resto, oppure di intellettuali meno timorosi dei limiti — singolarmente ridotti — della “ortodossia” exoterica. Il biasimo gettato sull’opera di Eckhart ha tuttavia avuto tra l’altro come effetto immediato la diminuzione delle possibilità dell’importante scuola renana; e l’opera di Ruysbroeck, se ha schivato lo stesso pericolo, deve la sua situazione solo ad una riserva e ad una precauzione più grandi di quanto esigessero le sue tesi iniziatiche e metafisiche. In ogni caso, ai nostri giorni, sembra che i rappresentanti della Chiesa riescano a dar prova di una più grande prudenza e riserva; speriamo che non ci si arresti su una sì buona strada. 
[29] Su questo punto, vedere l’articolo di P. Chacornac: La vie simple de René Guénon, nel numero speciale dedicato a René Guénon dagli Études Traditionnelles, luglio-novembre 1951. [L’anno 1329 H., data del ricollegamento di René Guénon alla ŧarîqah dello Shaikh Elîsh, si estende dal 2 gennaio al 21 dicembre 1911. L’anno 1349 H., data della pubblicazione del Symbolisme de la Croix, copre il periodo dal 29 maggio 1930 al 18 maggio 1931.] 
[30] Cfr. il nostro articolo nello stesso numero speciale di Études Traditionnelles: La fonction de René Guénon et le sort de l’Occident. 
[31] Dobbiamo precisare le date poiché, più avanti, l’esposizione di Abdul-Hâdi è tale che rischia di produrre confusioni di ordine cronologico: la morte del padre e la partenza del figlio per l’esilio debbono aver avuto luogo nel 1882-1883, come risulta da certe coincidenze storielle che rileveremo più avanti. 
[32] Questi avvenimenti si collocano naturalmente dopo il 1883, ma non ci è possibile per il momento avere notizie più precise, salvo una data ad quem che coincide con l’inizio di questo secolo, quando, come si vedrà, l’esilio dello Shaykh Elîsh aveva sicuramente avuto fine. 
[33] Si tratta dell’insegnamento dello Shaykh al-Akbar, allo studio del quale si era par-ticolarmente dedicato Abd El-Kader nell’ultima parte della sua vita. L’Emiro aveva finanziato la prima edizione stampata dell’opera principale dello Shaykh al-Akbar, le Futûħât al-Makkiyyah, la cui estensione è di circa 2500 pagine. 
[34] Questo avvenne nel 1883, data che ci permette di ristabilire un poco la cronologia degli avvenimenti di cui parla Abdul-Hâdi. 
[35] II fatto doveva essere anteriore al 1901, data della morte della regina Vittoria. L’amnistia inglese riguarda l’esilio che inizia dopo il primo arresto; nel frattempo, lo Shaykh aveva subito il secondo arresto ad opera di “un principe musulmano” e ottenuto la grazia da questo lato, ma era rimasto sempre esiliato dall’Egitto. 
[36] Questo nome è naturalmente derivato da quello dello Shaykh al-Akbar. Lo stesso nome è portato in India da una tariqah che risale allo Shaykh el-Akbar e con la quale Abdul-Hâdi ha avuto rapporti diretti. Vi è appena bisogno di precisare che non c’è tuttavia tra l’associazione di cui si parla e la detta ŧarîqa se non una relazione puramente emblematica, le due cose essendo di natura differente. 
[37] Termine derivato dal soprannome “Muħy-d-Dîn” (il Vivificatore della Religione) portato fra gli altri dallo Shaykh al-Akbar Ibn ‘Arabî.