Dì: O gente del Libro!
Elevatevi fino ad una Parola egualmente valida per noi e per voi: che noi non
adoriamo se non Allàh, che noi non Gli associamo nulla, che noi non prendiamo
fra noi alcuni come signori all’infuori di Allâh.[2]
Avendo la morte di René Guénon attratto l’attenzione
pubblica su suo caso spirituale, molti sono rimasti stupiti nell’apprendere in
quella occasione che egli fosse musulmano. Nei suoi libri, niente indicava un
tale collegamento tradizionale; inoltre, il posto che diede all’Islam nei suoi
studi fu, in confronto a quello che vi trovano l’Induismo o il Taoismo,
abbastanza ristretto, malgrado i frequenti riferimenti che egli fa alla
metafisica e all’esoterismo islamici.
È così che alcuni si sono domandati se poteva esservi un accordo tra la sua prospettiva dottrinale e la sua posizione tradizionale personale. Altri sono arrivati a pensare che il suo insegnamento metafisico e intellettuale non potesse essere considerato compatibile con la dottrina islamica. È appena necessario rilevare quello che c’è di superficiale o anche di stupefacente in questo tipo di opinioni o di supposizioni, ma noi reputiamo utile dare qui alcune precisazioni e fare alcune messe a punto, ritenendo che certi problemi possano essere posti a questo proposito in modo più pertinente, e che, come tali, meriterebbero di essere presi in considerazione.
È così che alcuni si sono domandati se poteva esservi un accordo tra la sua prospettiva dottrinale e la sua posizione tradizionale personale. Altri sono arrivati a pensare che il suo insegnamento metafisico e intellettuale non potesse essere considerato compatibile con la dottrina islamica. È appena necessario rilevare quello che c’è di superficiale o anche di stupefacente in questo tipo di opinioni o di supposizioni, ma noi reputiamo utile dare qui alcune precisazioni e fare alcune messe a punto, ritenendo che certi problemi possano essere posti a questo proposito in modo più pertinente, e che, come tali, meriterebbero di essere presi in considerazione.
C’è così una questione concernente l’ortodossia islamica
dell’opera di Guénon, e un altro concernente il rapporto che la sua posizione
tradizionale personale può avere con la sua funzione dottrinale generale. Per
la prima di tali questioni, dato che in effetti non c’è stata a nostra
conoscenza alcuna critica precisa, non dobbiamo rispondere ad una tesi
determinata, ma cercheremo solamente di mostrare in quale prospettiva si
collochi una tale questione. Per la seconda, porteremo a conoscenza dei lettori
alcuni elementi documentari quasi sconosciuti in Occidente.
Innanzitutto, ci è necessario ricordare o precisare alcune
questioni di principio.
La nozione di ortodossia può essere considerata
principalmente su due livelli: l’uno è dell’ordine delle idee pure, l’altro
dell’ordine del loro adattamento formale sull’economia tradizionale[3]. Se
le verità universali sono in se stesse immutabili, per i loro adattamenti
ciclici alle condizioni umane esse comportano forme che sono solidali poi con
certi criteri di ortodossia contingente. Nello stesso tempo la sapienza che
dispone le verità e le forme dottrinali nei differenti domini e condizioni del
mondo tradizionale, determina anche i gradi di giurisdizione e i limiti di
competenza dalle istituzioni e delle autorità che devono esserne a conoscenza.
Il relativo adattamento della Verità Universale o delle
verità immutabili nelle differenti forme tradizionali, varia innanzitutto a
seconda che si tratti di forme di carattere intellettuale o di carattere
religioso: le prime, come l’Induismo, hanno un carattere più direttamente
metafisico, le seconde, quelle che vengono chiamate le “tradizioni monoteiste”,
comportano sul piano generale modalità concettuali dogmatiche e una maggiore
partecipazione sentimentale. I criteri dell’ortodossia generalmente variano in
ognuna di queste forme in funzione delle loro definizioni specifiche e
particolari. Per di più, nel quadro di certe forme tradizionali, e più in
particolare nelle forme religiose, è necessario fare una distinzione tra
ortodossia esoterica e ortodossia exoterica: malgrado una relazione organica
esistente fino ad un certo punto tra i due domini esterno ed interno di una
stessa forma tradizionale, i criteri applicabili all’uno sono naturalmente
diversi da quelli applicabili all’altro. D’altra parte, come i criteri di
ortodossia propri all’exoterismo di una tradizione non possono essere applicati
a quanto appartiene ad un’altra forma tradizionale, così quelli che concernono
il campo iniziatico ed esoterico di una di queste forme non possono essere
considerati come direttamente applicabili ai domini corrispondenti di un’altra:
vi sono in effetti, per la via esoterica di ognuna di queste, delle modalità
particolari, benché di un ordine più interno, tanto per la dottrina quanto per
i metodi corrispondenti, e sarebbe completamente insufficiente parlare di unità
esoterica delle forme tradizionali senza precisare che questa unità riguarda
solamente i principi universali, al di fuori dei quali gli adattamenti
tradizionali si traducono in certe particolarità, anche nell’ordine iniziatico
ed esoterico; se non fosse così, non vi sarebbe che un solo esoterismo ed uno
stesso dominio iniziatico, per tutte le forme exoteriche esistenti o possibili.
Una tale identità ed universalità è reale solo per l’aspetto più alto della
metafisica: è in questo senso che i maestri islamici dicono: «La dottrina
dell’Unità è unica» (Al-Tawħîdu wâħidun). Ora, questa
dottrina è essa stessa identica solo per quanto concerne il suo senso, non
quanto alla forma che essa riceve nell’una o nell’altra tradizione; inoltre,
nel ciclo di una stessa forma tradizionale, l’espressione della medesima
dottrina può ricevere successivamente o contemporaneamente forme diverse[4]. In
ogni caso, data la relazione necessaria fino ad un certo punto tra
l’insegnamento iniziatico e la forma exoterica di una stessa tradizione,
relazione che vale d’altro canto sia per la dottrina sia per le forme
simboliche e tecniche, le particolari-tà di cui si tratta sono ancora più
sensibili quando si confronta l’insegnamento iniziatico in una tradizione di
carattere intellettuale con quello di una tradizione di carattere religioso.
Nondimeno, malgrado la diversità di condizioni che abbiamo
ricordata o precisata, non vi è in ciò una molteplicità irriducibile. Al
contrario, esiste necessariamente un principio di intelligibilità dell’insieme,
corrispondente alla sapienza che dispone questa molteplicità e questa
diversità. Ma questo principio può essere solo metafisico. Similmente, il
criterio supremo di ortodossia tra i differenti domini con le loro particolarità
può solo appartenere alla metafisica pura.
In via generale, l’opera dottrinale di René Guénon si
riferisce alle verità più universali come alle regole simboliche e alle leggi
cicliche che reggono il loro adattamento tradizionale. Sotto questo aspetto, il
criterio della sua ortodossia si trova per la natura delle cose nell’intelligenza
dei principi metafisici e delle conseguenze che ne derivano. È solo a titolo
secondario che questa ortodossia potrebbe essere sottoposta a una verifica
letterale nelle differenti dottrine tradizionali esistenti; in primo luogo, per
un lettore ordinario, questa verifica è immediata solo laddove nelle sue opere
René Guénon si è dedicato in modo particolare a stabilire lui stesso le prove
documentali a sostegno dei punti di dottrina che esponeva e sotto il rapporto
della tradizione cui egli così si riferiva; per tutto il resto, sono
l’intelligenza e la ricerca personali a essere richieste; si suppone, nello
stesso tempo, che questa ricerca sia fondata su una retta intenzione,
condizione che assicura il suo orientamento e il suo risultato.
Scrivendo in un tempo in cui le condizioni psicologiche e
speculative non avevano più niente di caratteristicamente tradizionale, ed
esponendo verità insospettate dai contemporanei, i suoi modi di formulazione
metafisica hanno avuto necessariamente un carattere indipendente in rapporto ai
modi di espressione dottrinale conosciuti, o praticati, in Occidente. D’altra
parte, dato che non si è dedicato esclusivamente all’insegnamento di una sola
tradizione orientale, ma si è appoggiato opportunamente su tutto ciò che era
suscettibile di servire all’espressione delle idee universali di cui offriva la
sintesi, questo carattere di indipendenza formale sussiste in una certa misura
anche in rapporto ai modi di espressione dottrinale dell’Oriente; la cosa era
del resto inevitabile, per il solo fatto che René Guénon scriveva in una lingua
culturale completamente diversa da quelle da cui sono diffuse regolarmente
queste dottrine. Come si sa, René Guénon ha dovuto realizzare nei suoi studi un
lavoro di sintesi ad un tempo concettuale e terminologico – queste due cose
procedendo necessariamente insieme – che appare d’altronde come uno dei
risultati più meravigliosi dell’insegnamento tradizionale. Ma ciò stesso lega
la sua opera a condizioni speciali di intelligibilità. Così, se si trattasse di
tradurre le sue opere di dottrina generale nella lingua di una civiltà
orientale qualsiasi, la traduzione dovrebbe essere accompagnata da uno speciale
commento ideologico e terminologico, variabile per ognuna di queste lingue.
L’ortodossia del senso profondo delle idee non sarebbe sufficiente da sola, con
una traduzione letterale – seppure ciò fosse sempre possibile – per far
riconoscere dappertutto, in queste opere di dottrine generale, ad un Orientale
non prevenuto e che conoscesse solo la propria forma tradizionale, lo stesso
fondo dottrinale presente in quest’ultima. La difficoltà sarebbe ancor più
accentuata quando si trattasse di traduzione nella lingua di una civiltà di
forma religiosa, per la ragione che René Guénon ha pensato e si è espresso in
modi appartenenti a quella che si potrebbe chiamare una “spiritualità
sapienzale”, modi specificamente diversi da quelli che sono regolarmente
seguiti nei trattati di dottrina a base di “religione rivelata”. I modi
spirituali di “sapienza” come quelli dell’Induismo mettono per esempio sul
primo livello della coscienza tradizionale generale le idee di identità del Sé
e del Principio Universale (Brahma),
di coincidenza del conoscere e dell’essere, come pure il ruolo attivo
dell’Intelletto trascendente nella realizzazione metafisica, verità che nelle
tradizioni di tipo religioso hanno non solo una circolazione esoterica ma anche
– ed è questo un punto cui bisogna accordare un’attenzione particolare – una
forma che è immediatamente piuttosto analogica che identica; l’identità di
senso finale esiste sempre, ma quella della forma stessa è rara[5]. Ora,
sono queste stesse idee che René Guénon ha sostenute con vigore mettendo nello
stesso tempo a profitto certe nozioni speculative dell’aristotelismo, esso stesso
una delle forme sapienzali dell’Occidente[6].
Per contro, una nozione religiosa come quella del “Dio
personale”, che è propria della concezione teologica del Principio, non poteva
intervenire nella sua speculazione puramente metafisica. Egli non ne nega la
legittimità in una dottrina teologica, poiché è proprio quello il suo posto, a
fianco di altre nozioni specificamente religiose come quelle di “creazione” e
di “salvezza”; inoltre siccome, in una forma tradizionale religiosa la base
exoterica è necessaria per la via iniziatica ed esoterica – e René Guénon
stesso ha insistito in modo particolare su questo punto – gli elementi
dottrinali e rituali dell’exoterismo debbono essere necessariamente integrati e
praticati sul loro piano. Per l’iniziato inoltre questi elementi possono e
debbono essere trasposti in un senso metafisico, ma ciò non li priva
assolutamente delle loro virtù positive poiché essi vi trovano una portata
veramente universale.
Questi caratteri dell’insegnamento di René Guénon sono la
conseguenza rigorosa del fatto che egli voleva trattare esclusivamente di
metafisica e di intellettualità pura, ed anche del fatto che una prospettiva
puramente intellettuale sulle cose spirituali è sicuramente più accessibile di
ogni altra alla comprensione: del resto, egli si rivolge espressamente ai soli
intellettuali.
Ma, valendo questi vantaggi di intelligibilità solo per una
élite, la sua sintesi dottrinale non potrebbe essere trasferita sic et simpliciter in una lingua
culturale a base religiosa, in cui la presenza di un insegnamento dogmatico
ufficiale e la fede nelle forme particolari della rivelazione sono elementi
costitutivi della tradizione. Per prendere il caso dell’Islam, anche se i
concetti del peripatetismo arabo, combinati del resto con quelli del
neplatonismo, sono stati in una certa misura utilizzati nell’insegnamento delle
dottrine iniziatiche, non c’è stato in questo se non un adattamento contingente
e parziale reso possibile ed anche necessario dal fatto che la teologia
islamica (il Kalâm) stessa aveva
adottato per le sue spiegazioni i modi speculativi della filosofia[7].
Tuttavia la spiritualità in generale dell’Islam, come quella del Ahl al-Haqîqa (la “Gente della Verità
essenziale”) e del Tasawwuf, è
rimasta, nelle sue concezioni più intime e nella sua terminologia tecnica come
nei suoi mezzi, sulle sue basi profeti-che, e questo per ragioni di omogeneità
tra le influenze spirituali da un lato, e i modi concettuali nonché i mezzi
tecnici della via da un altro lato, ragioni che riguardano da vicino ciò che
costituisce l’eccellenza propria della tradizione mohammadica, tanto
nell’ordine exoterico quanto nell’ordine iniziatico[8].
Una eventuale presentazione dell’opera di René Guénon in un
ambito tradizionale islamico dovrebbe di conseguenza essere fatta con un
riferimento competente alle dottrine esoteriche e metafisiche dell’Islam, pur
tenendo conto di quello che c’è di inevitabilmente delicato nell’esposizione
delle dottrine esoteriche dell’Islam stesso davanti ad un pubblico che non
potrebbe nel suo insieme essere considerato come capace di comprendere le cose
di quest’ordine.
A questo proposito bisogna notare, tra l’altro, che ai
nostri giorni le dottrine del Tasawwuf
hanno esse stesse bisogno nei paesi islamici di una giustificazione
intellettuale rinnovata e adattata in modo da rispondere alle condizioni della
mentalità moderna che si è estesa dall’Occidente a tutti gli ambienti culturali
del mondo orientale. Al di fuori dallo spirito exoterista, bisogna dunque fare
i. conti ora con lo spirito meramente antitradizionale di ogni tipo di
progressisti, e soprattutto con la presenza di una generazione di studiosi
“orientalisti” di origine orientale, ma di formazione e di ispirazione
occidentali e profane[9]. Per
un curioso rivolgimento delle cose, lo stesso insegnamento di René Guénon può
facilitare molto questa giustificazione, poiché contiene i mezzi speculativi e
dialettici che permettono di arrivarvi in tutte le condizioni di mentalità che
assomigliano a quelle dell’Occidente contemporaneo; questo lavoro di
giustificazione intellettuale si trova già essenzialmente nei riferimenti
dottrinali che l’opera di René Guénon fa all’esoterismo e alla metafisica
islamici. La presentazione dell’opera di René Guénon in un ambito islamico, o
genericamente orientale, appare così come una occasione propizia per
risollevare il prestigio dell’intellettualità tradizionale dell’Oriente nel suo
insieme. Dato che in questa opera le dottrine dell’Induismo e del Taoismo sono
spesso messe in rapporto con quelle del Tasawwuf
come con quelle dell’esoterismo giudaico o cristiano, è nel suo insegnamento
che si trovano anche il principio e il metodo di concordanza intelligibile tra
i due tipi di spiritualità di cui abbiamo parlato, l’intellettuale e il
religioso.
Ciò ci conduce a dare alcune precisazioni sui rapporti tra
questi due tipi di spiritualità. I due tipi coincidono nella loro fonte suprema
e nel loro aspetto ultimo; le differenze appaiono nelle modalità dominanti sui
piani inferiori. Ma del tutto rivelatore nel senso religioso è necessariamente,
prima d’essere scelto come supporto di una rivelazione o di un messaggio
divino, e lo rimane sempre dopo, un Conoscente del Principio secondo la
modalità identificante della realizzazione metafisica. La via iniziatica aperta
dal rivelatore, pur essendo in rapporto diretto con le modalità di sapienza che
qualificano il suo tipo personale[10],
presenta nello stesso tempo certi caratteri legati al messaggio ricevuto per
l’insieme della comunità religiosa. La forma e l’estensione del messaggio
profetico, soprattutto quando si tratta di casi profetici maggiori, sono tali
che lo stesso supporto scelto riceve attraverso la fede il messaggio o il
“libro” rivelato, il quale si riferisce così a tutto quanto non è stato
realizzato in ampiezza da lui stesso, e che gli è affidato sia per lui stesso
sia per la sua comunità. È per questo che Allâh dice al Suo Profeta universale:
[È così che Noi ti abbiamo rivelato uno Spirito col Nostro Comandamento, mentre
tu non sapevi che cosa fosse il Libro, né che fosse la Fede][11]. Ma,
quali che siano i caratteri particolari o specifici di una spiritualità
religiosa, per il fatto che il suo asse rimane quello della conoscenza e per il
fatto che il suo principio è puramente metafisico, è sempre possibile
ricondurre l’insieme dei suoi attributi dottrinali, simbolici e tecnici, ad una
concezione metafisica e con ciò ritrovare l’accordo con le dottrine puramente
intellettuali.
È così che, nell’ambito dottrinale, malgrado il dualismo
apparentemente irriducibile delle idee di “Dio” e di “creazione” nelle forme
religiose, non è concepibile che la dottrina dell’Identità Suprema, valida sia
per la relazione del Sé col Principio sia per quella della Manifestazione
Universale col Principio, faccia difetto innanzitutto al fondatore di una
tradizione integrale, e che essa non sia per principio destinata a rimanere
l’essenza stessa della tradizione fondata da lui, malgrado le forme che essa
deve ricevere, fin dall’inizio o anche nel corso del ciclo tradizionale,
nell’insegnamento esoterico stesso. La coscienza di questo substrato
primordiale può diminuire od anche subire delle eclissi, ma è perché allora l’élite
stessa partecipa alla sua tradizione solo in modo imperfetto o incompleto
oppure non vi è più affatto una vera élite; è per questo che si può allora dire
che la comunità e le sue istituzioni di fatto non comprendono o non accettano
più l’idea di Identità Suprema, ma non che sono le tradizioni stesse ad
escluderla. La tradizione islamica è formale sul punto che tutti gli Inviati
divini hanno portato essenzialmente lo stesso messaggio e che tutte le
tradizioni sono in essenza Una, il che implica innanzitutto una identità di
realtà e di dottrina metafisica. Per quanto concerne la forma mohammadica della
tradizione, questa è in ogni caso, originariamente ed essenzialmente,
imperniata sulla dottrina della Identità Suprema, che è quella della Wahdah al-Wujûd. Questa espressione
appartiene allo Shaykh al-Akbar, che visse nel VI-VII secolo dell’Islam, ma la
realtà designata è puramente mohammadica: non è altro che il Tawħîd stesso, nella sua accezione
iniziatica, accezione che la storia tradizionale anteriore attesta frequentemente,
e che questo maestro non faceva che rendere più esplicita e più sensibile per
l’intellettualità contemporanea[12].
Questa dottrina, che proveniva per sua natura da un insegnamento esoterico, e
di cui solo alcuni segni potevano trasparire all’esterno, afferma l’identità
del Sé e di Allâh o la Verità Suprema e Universale, e nello stesso tempo
l’identità essenziale della manifestazione con il Suo Principio: l’identità del
“Se Stesso” e del Principio è attestata tra gli altri dal famoso hadîth [Colui che conosce se stesso,
conosce il suo Signore]; d’altra parte i concetti di “atto di creazione” e di
“creatura” – entrambi inclusi nel termine khalq
– sono così ricondotti a quelli di “atto di manifestazione” (zhuhûr) e di “manifestazione” (mažhar), che esprimono anche più di una
semplice esteriorizzazione delle possibilità principali, poiché, ricollegate al
nome divino “l’Evidente” (al-Zhâhir),
annunciano la manifestazione dell’Essere Unico stesso.
Infine, per considerare un altro importante punto
differenziatore dei due tipi di spiritualità di cui parliamo, costituito dal
concetto di Intelletto, vedremo una situazione analoga per quanto più
complessa. Nell’Islam, secondo la definizione profetica, l’Intelletto (al-‘Aql) è cosa creata: [La prima cosa
che Allâh ha creata è l’Intelletto] dice un hadîth.
Prescinderemo qui dalla trasposizione metafìsica, di cui parlavamo, del
concetto di Khalq, la quale
risolverebbe ormai ogni difficoltà. Prenderemo le nozioni nel loro senso
diretto: secondo questo senso, la funzione sapienzale dell’Intelletto in quanto
punto di coincidenza tra il Principio e l’essere non è più possibile. La
dottrina regolare nell’Islam non considera l’Intelletto come una “qualità” o
“facoltà” divina, e per questo fatto nel Taşawwuf
si evita di parlare di ta’aqqul,
“intellezione”, nei confronti dell’Essenza Divina, mentre da una parte presso
gli Indù Chit, la Coscienza Universale,
che è una qualificazione di Ishwara,
è anche quella dell’essere assorbito in Lui e che nel suo stato ordinario ne
possiede il riflesso in citta, il
pensiero individuale, e d’altra parte per i peripatetici l’Intelletto puro
coincide con Dio[13] e l’intuizione
intellettuale conosce il Principio. Presso questi ultimi, l’intellezione (in
greco noesis) è una nozione che
conviene sia alla Conoscenza immutabile che Dio “possiede”, sia a quella che lo
stesso essere causato o generato “realizza” e con la quale questo partecipa al
soggetto e all’oggetto dell’Intellezione divina[14].
Quanto alla dottrina mohammadica, essa ristabilisce a questo proposito le cose
in un’altra prospettiva specificamente diversa: è il Cuore la facoltà o
l’organo di conoscenza intuitiva, quel Cuore che ha solo una relazione
simbolica con l’organo fisico dallo stesso nome, e di cui il hadîth qudsî così dichiara: [Il Mio
Cielo e la Mia Terra non possono contenerMi, ma il cuore del Mio fedele
servitore Mi contiene]. Si noti bene, non si tratta di una semplice questione
di terminologia. Innanzitutto il Cuore, realtà centrale dell’essere, è, per
esempio secondo i termini della scuola dello Shaykh al-Akbar, «la realtà
essenziale (al-ħaqîqa) che riunisce
da una parte tutti gli attributi e tutte le funzioni divine, dall’altra parte
tutti i caratteri e gli stati generati, tanto spirituali quanto individuali».
L’Intelletto non ne è che una implicazione. Il Cuore può essere detto
Intelletto in quanto racchiude quest’ultimo, e l’Intelletto è Cuore in quanto
ne fa parte. Ecco una precisazione dello Shaykh al-Akbar: «L’Intelletto Primo,
noi lo chiamiamo Intelletto ‘Aql)
sotto un rapporto differente da quello sotto cui noi lo chiamiamo Calamo (Qalam), da quello sotto cui lo chiamiamo
Spirito (Rûħ) e da quello sotto cui
lo chiamiamo Cuore (Qalb)». Qualche
volta, per accentuare meglio la differenza, si considera il Cuore come facoltà
superiore all’Intelletto, superante il piano di questo: Al-Qalb huwa al-quwwat allatî warâ’a tawr al-’Aql, dice ancora lo
Shaykh al-Akbar, che aggiunge: «Così non c’è Conoscenza della Verità Suprema
(al- Haqq) proveniente dalla Verità
stessa se non attraverso il Cuore; in seguito questa Conoscenza è ricevuta
dall’Intelletto, da parte del Cuore»[15].
Ma ciò che è ancora caratteristico per le implicazioni
spirituali della nozione di Cuore, è il fatto che questo può essere legato in
modo più adeguato alle modalità individuali e sentimentali dell’essere
religioso, e soprattutto al mistero e alla funzione totale della Fede, come si
constata del resto nel hadîth citato
più sopra[16]; questa relazione con la
Fede non è specificamente possibile per l’Intelletto, né quando questo è in
qualche modo sostituito dal Cuore nella sua funzione essenziale e più
universale, come risulta dal dogma islamico, né quando è preso in senso di
facoltà di conoscenza immediata dei principi universali che da la certezza, il
che corrisponde allora alla sua accezione puramente sapienzale[17].
La realtà del Cuore non è naturalmente ignorata dalle
dottrine puramente intellettuali, ma in queste la prospettiva in cui essa è
vista è differente. Parlando del Cuore, centro della vita e dell’individualità
integrale secondo i dati indù, il che da ad esso una posizione intermedia tra
l’Intelligenza Universale e l’individuo, René Guénon ricorda che «i Greci
stessi, e Aristotele tra gli altri, attribuivano lo stesso ruolo al Cuore e ne
facevano anche la sede dell’Intelligenza»[18]. Per
i cambiamenti di posizione risultanti dai cambiamenti di prospettiva di cui
parliamo, si può notare che nelle dottrine di questo tipo i rapporti tra il
Cuore e l’Intelligenza o l’Intelletto sono rovesciati: il primo è visto
solamente al grado individuale, per cui è l’Intelligenza che rimane del campo sopra-individuale
e universale. È anche incontestabile che nelle dottrine sapienziali greche la
nozione del Cuore interviene piuttosto a titolo secondario e quasi
accidentalmente, in quanto la prospettiva intellettualistica di queste dottrine
non lo esige specificamente; ma sarebbe un errore vedere in ciò solo la
differenza di situazione contingente e non notare la concordanza perfetta sotto
un rapporto più profondo, poiché se il Cuore è considerato, nelle dottrine
sapienziali, solamente come centro dell’individualità, per questa stessa
centralità esso corrisponde simbolicamente all’Intelletto divino nelle sue
relazioni con l’individuo e si identifica essenzialmente a quest’ultimo.
Dobbiamo anche far notare che in via generale questa nozione
del Cuore appare molto meno in rilievo nelle stesse dottrine cristiane. Diciamo
ciò soprattutto in rapporto all’importanza che essa ha tanto nei testi della
rivelazione mohammadica quanto nell’insegnamento del Tasawwuf, la differenza si spiega col fatto che il Cristianesimo ha
dovuto assumere, per la sua espansione tra i gentili, le forme intellettuali
della sapienza greca[19].
Questi diversi punti di vista sugli elementi fondamentali
che costituiscono l’essere spirituale e sui loro rapporti con la Verità Suprema
sono naturalmente in relazione con le modalità caratteristiche che si
constatano in seguito, nelle vie rispettive, tanto sul piano della vita
spirituale in modo generale quanto nell’ordine dei metodi di realizzazione, ma
una vera comprensione delle cose permette sempre di ritrovare l’accordo di base
e di collocare le differenze constatate nell’ordine contingente in cui esse
hanno tutta la loro ragione di trovarsi.
Per concludere questo esame sommario dei punti presi ad
esempio, ci si rende così conto che non c’è alcuna divergenza profonda ed
irriducibile tra i due tipi di spiritualità di cui abbiamo parlato,
l’intellettuale e il religioso, e che, inoltre, è il metodo di René Guénon
stesso che permette di ritrovarne l’accordo reale. Non è dunque in questo che
vi sarebbe difficoltà a constatare l’ortodossia di un tale insegnamento, tanto
sotto il rapporto della tradizione islamica quanto sotto quello di ogni altra
tradizione.
Ma al di fuori delle concezioni puramente intellettuali che
caratterizzano la sintesi dottrinale di René Guénon e che avrebbero bisogno di
una presentazione e di una giustificazione più particolari in un ambito di
civiltà islamica, ce n’è un’altra almeno la cui importanza è fondamentale in questa
opera, e che non è professata in modo aperto e completo né nelle forme
tradizionali di tipo religioso, né in quelle di tipo intellettuale. Si tratta
dell’idea di validità e di legittimità simultanee di tutte le forme
tradizionali esistenti, o piuttosto dell’idea che, per principio, vi possono
essere nello stesso tempo più forme tradizionali, più o meno equivalenti tra
loro, poiché in effetti può succedere che una tradizione, quale che sia stata
la sua eccellenza originale, si degradi nel corso del ciclo storico al punto
che non si possa più parlare realmente della sua validità attuale o della sua
integrità di fatto. Ora, per una sorta di necessità organica di affermazione di
sé, e per effetto della percezione e della coscienza dell’eccellenza spirituale
che le è propria, ogni mentalità tradizionale d’insieme relega le altre
tradizioni su posizioni inferiori o le esclude puramente e semplicemente da
ogni accesso ad una realtà profonda e realmente salvifica. Tuttavia l’idea
della legittimità di tutte le forme tradizionali esistenti è solo la
conseguenza in modo “spaziale”, o l’applicazione simultanea, dell’idea di
universalità della dottrina e di unità fondamentale delle forme tradizionali;
solamente, questa universalità e questa unità, le dottrine valide sul piano
generale di ogni comunità tradizionale le riconoscono più volentieri nella loro
applicazione in successione temporale, e d’altra parte in misure molto varie,
poiché ciò permette alle rispettive comunità di escludere o di diminuire più
facilmente le altre forme tradizionali contemporanee. Questa propensione
naturale si accentua generalmente nelle comunità fondate su una forma
religiosa, ma tuttavia non è nell’Islam che essa raggiunge la sua forma più
caratteristica. Anzi, al contrario, vi sono sotto un certo aspetto nella legge
islamica più possibilità di visione universale che in ogni altra tradizione, ed
in ogni modo più che nelle altre leggi religiose. In effetti, quale che sia il
grado in cui la mentalità comune o la dottrina exoterica professata di fatto
realizzano questa visione universale, i fondamenti di questa si trovano nella
legge religiosa, nello stesso testo coranico. Non c’è alcun altro testo
rivelato tanto esplicitamente universale quanto il Corano. Non potremmo
trattare qui tale questione nel suo insieme, ma citeremo alcuni testi
sufficientemente chiari di per sé:
[In verità coloro che credono, gli Ebrei[20], i
Cristiani (al-Nasârâ), i Sabei[21],
coloro che credono in Dio e nel Giorno Ultimo e fanno il bene, questi hanno la
loro ricompensa presso il loro Signore. Di conseguenza, non avranno niente da
temere, e non saranno afflitti][22].
[Per ognuno di voi,
Noi abbiamo istituito una legge e un cammino. Se Allâh avesse voluto, avrebbe
fatto di voi una sola comunità tradizionale (ummah), ma Egli vi sottomette a delle “prove” secondo ciò che Egli
vi ha dato. Cercate di superarvi gli uni con gli altri nelle buone azioni. Voi
ritornerete tutti ad Allâh, e allora Egli vi informerà riguardo a ciò in cui
divergete (ora)][23].
Bisogna anche dire che, malgrado la precisione e la
chiarezza di tali testi, l’interpretazione exoterica dominante li riconduce per
principio ad una prospettiva di validità in successione, non in simultaneità,
per il fatto che la legge mohammadica è considerata come abrogante le leggi
anteriori. Tuttavia lo stesso testo coranico afferma che la rivelazione
mohammadica apporta la “conferma” di ciò che è ancora effettivamente presente
delle rivelazioni anteriori: [E Noi abbiamo fatto scendere il Libro secondo Verità,
(Libro) che conferma e preserva ciò che sussiste prima di esso in fatto di
Scrittura][24].
Non possiamo qui esaminare tutti i punti che sollevano i
problemi della abrogazione e della conferma; ma, tenendoci ai soli aspetti più
evidenti e di carattere più generale, citeremo anche i versetti seguenti, che
attestano la validità delle Leggi giudaica ed evangelica; questo concernente la
Torah: [Ma come ti potrebbero
prendere (oh Muhammad) per loro giudice, dato che hanno la Torah, nella quale c’è il giudizio (il criterio legale) di Allâh?][25]. E
questo riguardante il Vangelo: [Così
le genti del Vangelo giudicheranno
per mezzo di ciò che Allâh ha rivelato nel Vangelo,
e quelli che non giudicano con ciò che Allâh ha rivelato, quelli sono i prevaricatori][26].
Questi riferimenti ci basteranno qui per illustrare la
nostra affermazione che la base legale islamica è provvidenzialmente disposta
per una larga visione dell’unità ed universalità tradizionali, tanto in
successione quanto in simultaneità. Sotto questo stesso rapporto in realtà c’è
solo il Cristianesimo che, chiuso nelle sue concezioni dogmatiche sul senso
“storico” della unicità del Cristo, è exotericamente privo e della visione in
successione e di quella in simultaneità di questa realtà universale, al punto
che non riconosce neppure alla tradizione giudaica, anteriore alla venuta del
Cristo, e nella cui linea tuttavia si colloca, una economia soteriologicamente
autonoma: l’efficacia delle forme tradizionali bibliche nel loro insieme è così
legata, nell’accezione exoterica del dogma religioso cristiano, al criterio
dell’attesa del Cristo “storico”, e l’attualità della salvezza sospesa, sia per
l’uomo comune sia per i Patriarchi e i Profeti, fino al riscatto operato dal Salvatore.
Il Giudaismo stesso, il cui esclusivismo è sotto altri aspetti più radicale di
ogni altro, riconosce almeno per il passato biblico questa realtà tradizionale
nella linea dei Patriarchi e dei Profeti, in cui vede la attualizzazione
continua della stessa verità primordiale che conferisce sempre la pienezza
della salvezza[27].
Ma, quali che siano a questo proposito i privilegi di
principio o di fatto della tradizione islamica, è fin troppo vero che l’idea
della verità e della legittimità delle altre forme tradizionali, religiose o
no, ha più particolarmente bisogno di essere puntellata intellettualmente e
legalmente nel caso di una presentazione dell’opera di René Guénon nell’ambito
islamico. Segnaliamo per l’occasione un punto che sarà sempre un elemento
prezioso in un simile lavoro. La spiritualità islamica nel suo insieme è
soprattutto sensibile al riconoscimento dell’Unicità divina, punto che, per
essa, è il fondamento e il criterio primario della validità di ogni forma
religiosa. Ora, René Guénon afferma ed insegna l’unità fondamentale delle
tradizioni esistenti per il fatto stesso che egli constata come l’essenza di
tutte le rispettive dottrine sia quella dell’Unità o della Non-Dualità del
Principio di Verità. È del resto nella misura in cui questa dottrina suprema
viene realmente compresa e praticata in una comunità tradizionale, che egli
riconosce innanzitutto alla rispettiva tradizione la sua attuale validità.
L’insegnamento di René Guénon sulla legittimità delle altre tradizioni è così
verificato e convalidato dalle stesse verità che preoccupano la coscienza
islamica. D’altra parte, avendo enunciato la necessità di un accordo
tradizionale tra Oriente ed Occidente, nell’interesse dell’umanità nel suo
insieme, egli ha spiegato che questo accordo deve vertere sui principi da cui
tutto il resto dipende, e tutta la sua opera non ha altro scopo che suscitare e
sviluppare in Occidente la coscienza delle verità universali di cui il Tawhîd è nell’Islam l’espressione più
evidente. È naturale che questo omaggio costante e molteplice a quella che è la
verità più cara all’Islam su un piano generale, si avvantaggi nello stesso
tempo dell’autorità dottrinale di colui che ne è stato ai nostri giorni
l’esponente più qualificato.
D’altra parte, la tesi di René Guénon sull’unità
fondamentale delle forme tradizionali non apparirà come completamente nuova
nell’Islam, poiché vi sono alcuni precedenti preziosi, innanzitutto con lo
Shaykh al-Akbar, il cui insegnamento non poteva tuttavia essere altrettanto
esplicito quanto quello di René Guénon, a causa delle riserve imposte da ogni
ambiente tradizionale particolare; sarà tuttavia interessante farvi
riferimento.
Ciò che abbiamo segnalato come punti critici e soluzioni da
considerare quando si tratterà di giudicare dell’ortodossia islamica
dell’insegnamento di René Guénon, come pure della sua ortodossia in generale,
non deve far dimenticare che quanto viene richiesto sotto questo rapporto a
ogni Orientale od Occidentale che vorrebbe giudicarne, sono non solo qualità
intellettuali di giudizio ma anche la conoscenza estesa e profonda delle
dottrine che debbono essere evocate all’occorrenza. Il metodo facile e spiccio
delle citazioni tronche e slegate dalle loro relazioni concettuali d’insieme,
aggravato forse ancora da errori terminologici, non potrebbe qui trovare alcuna
scusa, poiché René Guénon non parla né in nome né nei termini di una teologia o
di una dottrina particolare, i cui riferimenti sarebbero immediati. In ogni
modo, una delle cose più assurde sarebbe domandare alle “autorità” exoteriche,
siano d’Oriente o d’Occidente, di valutare il grado di questa ortodossia, sia
in modo generale, sia in rapporto a qualche tradizione particolare. Queste
“autorità”, in quanto esoteriche, e quali che possano essere le loro pretese di
competenza, più o meno sincere, non hanno alcuna qualità per dare un giudizio
sulle dottrine esoteriche e metafisiche delle loro proprie tradizioni. Del
resto c’è la storia per provare, ad ogni uomo intelligente e in buona fede, che
ogni qual volta tali ingerenze si sono verificate, siano state provocate da
semplici imprudenze o da errori gravi, sia da un lato sia dall’altro, ne è
derivata fatalmente una diminuzione di spiritualità e la tradizione nel suo
insieme ha dovuto soffrirne di conseguenza[28].
Questa situazione è più notevole in Occidente, per il fatto che l’ordine
exoterico è qui centralizzato in una istituzione che gode di una autorità
diretta in tutta l’estensione del suo mondo tradizionale; ma essa ha in una
certa misura delle corrispondenze nelle civiltà orientali, dove autorità
religiose o politiche male ispirate hanno creduto talvolta di doversi occupare
di cose che non le riguardavano per nulla. È così che, nell’Islam, l’opera
dello Shaykh al-Akbar è stata a volte oggetto di violenti attacchi da parte di
teologi o giuristi, mentre altre autorità hanno preso la sua difesa. Nel suo
caso, almeno, le cose hanno avuto come solo esito un certo disagio nella
circolazione delle sue opere, che hanno tuttavia continuato ad esprimere
l’insegnamento per eccellenza del Taşawwuf,
ai nostri giorni, i suoi scritti sono pubblicati sempre di più e, malgrado
ostilità che non potrebbero mai scomparire, la sua opera gode di una certa
autorità sul piano generale, il che costituisce anche un titolo di gloria per
l’intellettualità e la spiritualità islamiche.
***
Abbiamo citato il caso dello Shaykh al-Akbar, che fu il
“ravvivatore” per eccellenza della via iniziatica e, indirettamente, della
tradizione islamica nel suo insieme, nel VII secolo dell’Egira. C’è tra
l’insegnamento di René Guénon e il suo più di una semplice concordanza naturale
tra veri metafisici. C’è anche, in questo, una relazione di un ordine più
sottile e più diretto, per il fatto che René Guénon ricevette la sua
iniziazione islamica da parte di un maestro che aveva, egli stesso, attinto
all’intellettualità e allo spirito universale dello Shaykh el-Akbar: si tratta
dello shaykh egiziano Elish el-Kebîr. È il personaggio cui René Guénon
dedicava, nel 1931, il suo Symbolisme de
la Croix in questi termini: «Alla venerata memoria dello Shaykh
Abder-Rahmân Elîsh El-Kebîr El-Alim, El-Malki, El-Maghribi, cui è dovuta la
prima idea di questo libro. Mesr
El-Qâhirah 1329-1349 H.»[29].
Il caso di questo maestro egiziano è d’altra parte
interessante per noi sotto un altro aspetto, poiché, oltre alla sua qualità
iniziatica, che era delle più alte, ne aveva un’altra che potrebbe essere
considerata per quanto concerne la questione dell’ortodossia islamica
dell’opera di René Guénon. Ecco che cosa ci scriveva un tempo l’autore del Symbolisme de la Croix: «Lo Shaykh Elîsh
era lo Shaykh di un ramo shâdhilita, e nello stesso tempo, nel campo exoterico,
fu capo del madhhab mâleki à El-Azhar». Per coloro che non
sono al corrente del significato di queste parole, precisiamo che l’espressione
«ramo shâdhilita» indica un ramo dell’organizzazione iniziatica (ŧarîqah) fondata nel VII secolo
dell’Egira dallo Shaykh Abû-l-Hasan al-Shâdhilî, una delle più grandi figure
spirituali dell’Islam, che fu anche Polo esoterico della tradizione; si tratta
dunque di una funzione iniziatica propriamente detta; quanto all’espressione «madhhab mâleki», essa indica una delle
quattro scuole giuridiche su cui poggia l’ordine exoterico dell’Islam, e che
sono ognuna rappresentata nell’insegnamento della più grande università del
mondo islamico, El-Azhar, del Cairo. In questo modo, il maestro di René Guénon
riuniva in sé le due competenze ed anche le due autorità richieste
rispettivamente per i campi esoterico ed exoterico della tradizione. Sotto il
rapporto dell’ortodossia islamica del suo discepolo, il fatto ha il suo valore
significativo. Si noterà che fu questo maestro ad avere la prima idea di un
libro come Le Symbolisme de la Croix,
che per la sua dottrina metafisica e il suo metodo simbolico, è l’opera più
rappresentativa dell’idea di universalità intellettuale della tradizione
nell’insieme dell’opera di René Guénon. È di lui che si tratta ancora in una
nota al capitolo III di questo libro, dove, a proposito della realizzazione nel
Profeta, identico all’Uomo Universale, sintesi di tutti gli stati dell’essere
secondo i due sensi dell’“esaltazione” e dell’“ampiezza”, cui corrispondono i
due assi verticale ed orizzontale della croce, René Guénon scrive: «Ciò
permette di comprendere questa frase, che fu pronunciata una ventina di anni fa
da un personaggio che occupava allora nell’Islam, pure dal semplice punto di
vista exoterico, un rango molto elevato: “Se i cristiani hanno il segno della
croce, i musulmani ne hanno la dottrina”». «Noi aggiungeremo, continua René
Guénon, che nell’ordine esoterico il rapporto dell’Uomo Universale con il Verbo
da una parte e con il Profeta dall’altra non lascia sussistere, quanto al fondo
stesso della dottrina, alcuna divergenza reale tra il Cristianesimo e l’Islam,
intesi l’uno e l’altro nel loro vero significato». Nella prospettiva aperta
così dal suo maestro, si sa che René Guénon aveva tentato innanzitutto una
vivificazione dottrinale del simbolismo cristiano con una serie di articoli su Regnabit (tra gli anni 1925-1927), e che
in seguito aveva ancora scritto articoli sull’esoterismo cristiano in Le Voile d’Isis-Études Traditionnelles.
Per quanto riguarda l’aspetto che interessa l’Occidente, lo
Shaykh Elîsh sembra aver avuto anche una certa conoscenza della situazione
della massoneria e del suo simbolismo iniziatico. Per questo René Guénon ci
scriveva una volta che lo Shaykh Elîsh «spiegava a questo proposito la
corrispondenza delle lettere del nome di Allâh, sulla base delle loro forme
rispettive, con il regolo, il compasso, la squadra e il triangolo». Quello che
così diceva lo Shaykh Elîsh potrebbe avere un rapporto con una delle modalità
possibili della rigenera/ione iniziatica della Massoneria. In ogni caso, di
conseguenza, una buona parte degli articoli del suo grande discepolo è stata
consacrata al simbolismo e alla dottrina iniziatica massonica, e questo
importante lavoro apparirà in tutti i modi come un contributo
dell’intellettualità e della universalità dell’Islam, poiché René Guénon si
chiamava allora da tempo ‘Abd al-Wâhid Yahya ed era lui stesso una autorità
iniziatica islamica.
Ma ci si può domandare quale sarebbe la spiegazione di
queste manifestazioni dei rappresentanti dell’iniziazione islamica,
manifestazioni che non sono per nulla naturali nei confronti delle regole
abituali. Poiché, se nella gerarchia esoterica la coscienza dell’universalità e
della solidarietà tradizionale non è mai mancata, la sua espressione palese, e
più ancora il suo messaggio pubblico, sono piuttosto sconosciuti prima della nostra
epoca. Nelle opere dello Shaykh al-Akbar stesso, che è l’autore esoterico più
“ardito”, la testimonianza dell’unità delle forme tradizionali e della loro
validità simultanea è malgrado tutto circondata da molte precauzioni e il più
delle volte velata. Per comprendere l’atteggiamento dello Shaykh Elîsh, la cosa
più semplice sarebbe considerare le conseguenze che ne ha tratte lo Shaykh ‘Abd
al-Wâhid Yahya, il suo discepolo di origine occidentale che ebbe il compito di
sviluppare il suo messaggio intellettuale, messaggio che era non solo quello
dell’Islam, ma quello dello spirito tradizionale universale. Coloro che hanno
compreso l’opera di René Guénon sanno che attraverso questa le forze spirituali
dell’Oriente hanno offerto un aiuto provvidenziale all’Occidente in vista di un
raddrizzamento tradizionale che interessa l’umanità nel suo insieme.
Questo aiuto ha di particolare che si esprime, innanzitutto,
sul piano relativamente esteriore dell’insegnamento dottrinale, metafisico ed
iniziatico, pur rivolgendosi ad una categoria ristretta di intellettuali. Un
tempo, in condizioni tradizionali più normali, le relazioni puramente
intellettuali tra Oriente ed Occidente erano, dai due lati, compito
esclusivamente segreto di organizzazioni iniziatiche, di cui l’Occidente non
era allora sprovvisto; per questo fatto, le influenze che potevano esercitarsi
rimanevano impercettibili all’esterno, e gli effetti dottrinali, nella misura
in cui ne derivavano, non apparivano sotto la loro forma orientale, né
tradivano la loro origine. Tale è stata più precisamente, nel Medioevo, la
situazione delle relazioni tra i Fedeli
d’Amore e gli iniziati del Tasawwuf,
la cui prova sul piano letterario è apparsa solo ai giorni nostri, quando
diversi studi sull’opera di Dante hanno scoperto in quest’ultima importanti
influenze islamiche derivanti dall’opera dello Shaykh al-Akbar o dagli scritti
di Abû-l-‘Alâ al-Ma‘arrî.
***
Ma la relazione tra l’opera di René Guénon e la sua fonte
“funzionale” islamica, secondo i pochi dati che abbiamo fatti conoscere, o
semplicemente ricordare, potrà sembrare, malgrado tutto, solamente virtuale, se
non accidentale. Ed anche, se a parte questo, i libri e gli articoli di René
Guénon contengono frequenti riferimenti alle dottrine islamiche, questi
riferimenti non provano necessariamente una derivazione islamica dello sviluppo
generale e finale di tutta la sua opera; del resto, lui stesso non si è mai
presentato in modo speciale in nome dell’Islam, ma in nome della coscienza
tradizionale ed iniziatica in modo universale. E non saremo certamente noi a
tentare di restringere questo grande privilegio del suo messaggio[30]; se
diciamo che c’è una relazione altrettanto sicura tra quest’opera universale e
l’Islam, è innanzitutto per il fatto che, per una coerenza naturale tra tutte
le forze della tradizione, tutto quel che si può trovare dal lato islamico come
intervenuto nella genesi e nello sviluppo del lavoro di René Guénon, non poteva
non accordarsi con ciò che era auspicato e sostenuto nello stesso tempo dalle
forze tradizionali orientali diverse da quelle islamiche. Ma c’è un’altra
ragione che potrebbe permettere di vedere qui il ruolo dell’Islam in modo più
caratterizzato; e cioè la vicinanza naturale del mondo islamico all’Occidente,
e il suo interesse più diretto per tutto ciò che riguarda la sorte di
quest’ultimo. Per questo fatto le forze spirituali dell’Islam potevano
benissimo considerare in modo più determinato l’idea del raddrizzamento
intellettuale e spirituale del mondo occidentale. Tale sembra essere stato
precisamente il senso della funzione dello Shaykh Elîsh in rapporto a quella di
René Guénon. Per questo è opportuno citare qui alcuni altri dati concernenti il
caso spirituale dello Shaykh Elîsh, dati che mostreranno come la funzione e
l’opera di René Guénon si iscrivano in una prospettiva ciclica che il suo
maestro aveva esplicitamente enunciata. Ciò darà modo di cogliere ancor meglio
certe posizioni tradizionali esistenti sia dal lato occidentale sia da quello
orientale.
I dati in questione li attingiamo in alcuni numeri, trovati
ultimamente, della rivista arabo-italiana An-Nadî
= Il Convito, che usciva al Cairo
nella prima decade di questo secolo, e che nell’anno 1907 si orientava in senso
tradizionale. Lo spirito propiziatore era quello dello Shaykh al-Akbar. Questa
rivista ha svolto così il ruolo di battistrada in rapporto a La Gnose degli ultimi anni e a Le Voile d’Isis-Études traditionnelles. Fra i suoi collaboratori tradizionali, il
più notevole è ‘Abdul-Hâdî Aguéli, tanto per la parte araba quanto per la parte
italiana. Questi vi pubblicò articoli, edizioni di trattati di maestri
dell’esoterismo islamico tra cui lo Shaykh al-Abkar, nonché traduzioni di
alcuni di questi testi. In quello stesso anno 1907 si parlò molto, nella
rivista, dello Shaykh Elîsh, che per un istante vi figurò come collaboratore,
con un breve articolo sul Maestro per eccellenza Muhy-d-Dîn Ibn ‘Arabî. Abdul- Hâdî,
che era naturalmente in rapporti personali con lo Shaykh Elîsh, ci da su
quest’ultimo preziose informazioni.
Egli lo presenta, in particolare, come «uno degli uomini più
celebri dell’Islam, figlio del restauratore del rito malechita, e lui stesso
profondo saggio, da tutti rispettato, dai più umili ai principi e ai sultani,
capo di molte confraternite religiose diffuse in tutto il mondo musulmano,
infine autorità incontestabile dell’Islam esoterico ed exoterico, giuridico e
politico». Parlando ancora di lui, come pure di suo padre, «il grande
rinnovatore del rito malechita», ‘Abdul- Hâdî ci da alcuni particolari sulla
vita dello Shaykh Elîsh: «Essi si sono tenuti sempre lontano dagli intrighi
politici di ogni tipo. La loro integrità, la loro austerità e il loro profondo
sapere, uniti ad una ascendenza illustre, prospettavano loro una posizione
eccezionalmente preponderante nell’Islam; non ne vollero assolutamente sapere.
Ciò che ha creato la leggenda del loro fanatismo, è una fatwâ rimasta celebre, la quale, si
diceva, ebbe per conseguenza la rivolta di Arâbî Pascià nel 1882».
(Qui Abdul- Hâdi esamina
che cosa è una fatwâ dal punto di
vista giuridico, e perché una tale decisione di giureconsulto, emessa
nell’esercizio regolare delle funzioni di muftî,
non potrebbe mai attirare contro quest’ultimo le sanzioni del potere politico).
«In seguito agli avvenimenti del 1882, i due Shaykh Elish,
padre e figlio […] furono gettati in prigione e condannati a morte. Il padre
morì in prigione, il figlio fu graziato ed esiliato[31].
«La sfortuna perseguitò lo Shaykh fin nell’esilio. La sua
notorietà, la sua nascita, la sua stessa integrità lo rendevano sospetto; sotto
la stupida accusa di aspirare al Califfato universale del mondo musulmano, per
proprio conto o per quello del Sultano del Marocco, fu di nuovo messo in
prigione, questa volta per ordine di un principe musulmano.
«Per due anni restò in una cella immonda in cui ogni cosa
era marciume e in cui l’acqua minacciava di irrompere. Per spaventarlo, fecero
uccidere davanti a lui dei condannati. Finalmente fu graziato e gli si concesse
un esilio onorevole a Rodi[32].
«Aveva soggiornato ancora a Damasco, dove il celebre avversario dei Francesi in
Algeria, l’Emiro Abd-El-Kader, divenne suo amico e condiscepolo nello stesso
insegnamento spirituale[33].
Quando l’Emiro morì[34], lo
Shaykh compì per lui gli ultimi uffici e lo seppellì a Sâlihiyyé, a fianco
della stessa tomba del Grande Maestro, lo Shaykh Muhy-d-Dîn Ibn ‘Arabî.
«Amnistiato dalla Regina Vittoria[35], lo
Shaykh rientrò per stabilirsi al Cairo. Di là irradiò la sua influenza benefica
nel mondo musulmano non solo come saggio eminente, ma anche come capo supremo
di molte congregazioni religiose. Come sempre si mantiene – e i suoi con lui –
lontano e al di sopra dei piccoli intrighi del giorno, della corruzione e della
cupidigia che allettano l’anima. Ogni volta che incontrate in Oriente un uomo
superiore per carattere e per sapere, potere essere sicuri di trovarvi in
presenza di uno “shâdhilita”. Ora, è soprattutto in virtù della rettitudine e
dell’alta spiritualità dello Shaykh Elîsh che questa ammirevole congregazione
mantiene le sublimi tradizioni del suo fondatore, il fedelissimo Abû-l-Hasan
al-Shâdhilî, in mezzo alla corruzione generale».
Nel n° 2, che non possediamo, la rivista aveva pubblicato
l’articolo dello Shaykh Elîsh sullo Shaykh al-Akbar. Una traduzione italiana ne
fu fatta nel n° 5-8 (settembre-dicembre 1907). Il titolo è: «Il principe della
Religione, il Grande Polo Spirituale, la Stella risplendente in tutti i
secoli».
Per l’occasione, la redazione scriveva:
«II venerabile Shaykh Elîsh, che è per così dire il
discendente spirituale di Ibn ‘Arabi, essendosi molto interessato alle nostre
traduzioni e ai nostri studi sul grande maestro del Sufismo, ci ha promesso la
sua preziosa collaborazione. Quella che segue è la traduzione del suo primo
articolo, che si fonda a sua volta sull’autorità del celebre Imâm al-Sha’râni,
i cui giudizi fanno legge in materia di ortodossia e di eterodossia, lui stesso
essendo stato uno dei più grandi Sufi dell’Islam e un grande dotto in materia di
tradizione e di legge sacra: il suo eccellente libro El-Mîzân (“La bilancia”),
di cui abbiamo già parlato, è il più bel libro che esista nell’ambito della
giurisprudenza comparata».
L’articolo dello Shaykh Elîsh è una breve presentazione
della figura dello Shaykh al-Akbar. Alcune note, probabilmente dovute a Abdul-Hâdî,
accompagnano questa traduzione. In un passo in cui l’articolo dello Shaykh
Elîsh dice che lo Shaykh al-Akbar era spinto in tutte le sue attività dallo
Spirito Santo, una nota del traduttore dice: «I Sufi giunti a certi livelli
ricevono dal mondo spirituale superiore degli ordini diretti cui obbediscono e
che determinano i loro atti, gesti e parole. Lo Shaykh Elîsh rientra in questo
caso». Più avanti, l’articolo ricorda l’ortodossia eminente dello Shaykh
al-Akbar: «Egli si ricollegò fortemente alla rivelazione divina e alla
tradizione profetica e diceva: «Colui che respinge per un solo istante la
bilancia della Legge sacra perirà». Lo Shaykh Majd al-Dîn al-Fîrûzabâdî, autore
del grande Tesoro della lingua araba intitolato Qâmûs (“L’Oceano”), ha
scritto: «Più di uno ha detto che nessun sufi è stato tanto sapiente in campo
esoterico ed exoterico quanto lo Shaykh [al-Akbar] Muhy-d-Dîn. È per questo che
la sua ortodossia è pura e grande quanto quella di qualunque altro teologo di
qualsivoglia religione». A questo punto, una nota del traduttore dice: «Qui ci
permettiamo di attirare l’attenzione del lettore sul fatto che uno dei più
celebri uomini di sapere parlò spontaneamente, senza essere confutato,
sull’ortodossia di più religioni ad un tempo».
La traduzione si arresta dopo due pagine con la seguente
spiegazione data dalla rivista: «La fine di questo articolo dello Shaykh Elîsh
si riferisce all’opera del nostro collaboratore Abdul-Hâdi, che ci ha pregato
di non riprodurne la traduzione, perché, dice, questa parte contiene dei
termini troppo elogiativi per lui. Lo Shaykh Elîsh lo ringrazia per il servizio
che rende alla civiltà facendo conoscere e comprendere agli uomini dei nostri
giorni uno spirito tanto sublime come quello di Muhy-ed-Dîn; egli lo esorta a
continuare i suoi studi senza preoccuparsi dell’odio che la sua opera
fìloislamica può suscitare fra certi gruppi di sedicenti musulmani».
I consigli spirituali dello Shaykh Elîsh erano seguiti da
vicino dal gruppo di studi che si formava attorno alla rivista. Nel n° 3-4 che
seguiva la pubblicazione in arabo dell’articolo dello Shaykh, una nota faceva
sapere che si era costituita «in Italia e in Oriente una società per lo studio
di Ibn ‘Arabî» (lo Shaykh al-Akbar). La nuova associazione aveva preso il nome
di “Akbariyyah”[36] e si proponeva:
1. «di approfondire e di diffondere gli insegnamenti sia
exoterici sia esoterici del Maestro, con edizioni, traduzioni e commenti delle
opere di quest’ultimo e dei suoi discepoli, come pure mediante conferenze e
riunioni;
2 «di riunire, per quanto sarà possibile e conveniente,
tutti gli amici e i discepoli del Grande Maestro, per dar luogo in questo modo,
se non a un legame di fraternità, almeno a un avvicinamento fondato sulla
solidarietà intellettuale tra le due élites di Oriente ed Occidente;
«di aiutare moralmente e materialmente tutti coloro che
rappresentano la tradizione “mohyeddiniana”[37],
soprattutto coloro che con la parola e gli atti operano per la sua diffusione e
per il suo sviluppo.
«L’opera dell’associazione si estenderà allo studio di altri
Maestri del misticismo orientale, come per esempio Jalâl ad-Dîn ar-Rûmî, ma
argomento principale resterà, beninteso, Ibn ‘Arabî.
«La società non si occuperà assolutamente di questioni
politiche, non importa quali, e non uscirà dalla ricerca filosofica, religiosa
o teosofica su cui si basa».
Simultaneamente la rivista sviluppava i suoi studi di Tasawwuf, tanto nella parte araba quanto
in quella italiana. Abdul-Hâdî iniziava tra l’altro la pubblicazione di certi
inediti dello Shaykh al-Akbar, di cui alcuni non sono mai stati conosciuti
dagli orientalisti e lo sono rimasti fino ad ora. In una nota diceva: “Avendo
avuto la fortuna di trovare una ventina di opere inedite di Ibn ‘Arabî,
manoscritti rari e preziosi, per tutto questo tempo fummo occupati ad
analizzarli».
Sfortunatamente le reazioni degli ambienti modernisti ebbero
infine come esito l’interdizione della rivista e l’interruzione degli studi
iniziati in Egitto. È possibile che il n° 5-8 del settembre-dicembre 1907 sia
uno degli ultimi, se non proprio l’ultimo.
In questi pochi elementi documentari, che non sono certamente
tutti quelli che si potrebbero trovare, noi constatiamo che si tratta, nello
Shaykh Elîsh e nei suoi discepoli, di concordanza dottrinale tra l’Islam da un
lato e il Cristianesimo e la Massoneria dall’altro, della necessità di un
ravvivamento delle realtà tradizionali, – innanzitutto nell’ordine
intellettuale ed iniziatico –, di un tentativo di stabilire un collegamento
spirituale tra Oriente ed Occidente, del concetto di una élite cui spetta tale
compito, infine del ruolo dell’intellettualità islamica e soprattutto
dell’insegnamento dello Shaykh al-Akbar in questa attività. I lettori di René
Guénon vi riconosceranno certamente alcune tesi fondamentali della sua opera,
che apparirà così ancora una volta non come la creazione di una individualità
originale e di un pensiero sincretista, ma come lo sviluppo di una idea
provvidenziale, i cui organi di espressione o di applicazione furono molteplici
e lo saranno certamente ancora, finché la finalità prevista non sia raggiunta
nella misura in cui deve esserla.
Dopo questo inizio in terra d’Islam, Abdul-Hâdi arrivava
infine in Francia, dove incontrò René Guénon, che nella stessa epoca pubblicava
La Gnose. Fu allora che questi
riprese, nel 1910, l’attività di Abdul-Hâdi, con studi e soprattutto traduzioni
che continuarono fino alla fine della rivista con l’ultimo numero del febbraio
1912, epoca in cui si ha il collegamento di René Guénon con l’Islam o la sua
iniziazione al Tasawwuf. Per quanto
concerne la parte italiana, sembra che non vi siano state, all’epoca,
conseguenze nell’ordine degli studi tradizionali. La guerra del 1914 sospese
anche in Francia ogni attività. “Abdul-Hâdi essendo morto nel 1917 a
Barcellona, René Guénon restò solo in Europa a continuare e sviluppare in una
prospettiva totalmente universale l’opera delineata inizialmente dagli
“Akbariyyah”, finché i suoi scritti non ebbero suscitato altri intellettuali, i
più importanti dei quali si unirono progressivamente attorno a Voile d’Isis-Études Traditionnelles. Un poco più avanti, con un movimento
significativo quanto alle posizioni esteriori, Guénon andò a stabilirsi in
Egitto, dove lo Shaykh Elîsh era appena morto, e fu là che svolse la sua
attività più importante per più di una ventina di anni: libri, articoli e
corrispondenza.
L’idea tradizionale, come la si conosce ai nostri giorni in
Occidente in seguito all’opera di René Guénon, ha così storicamente una sicura
origine islamica ed akbariana. Questa origine immediata e particolare non
esclude che essa ne abbia un’altra più generalmente orientale, poiché l’unità
di direzione di tutto l’ordine tradizionale comporta la partecipazione di
fattori molteplici e diversi, agenti tutti in una perfetta coerenza ed armonia.
L’Islam stesso appare nell’opera di René Guénon con quello che vi è in esso di
più essenziale e trascendente, e dunque di più universalmente tradizionale.
Anche la prima intenzione, che è pure la più grande, di quest’opera, è, per una
ripresa di coscienza delle verità più universali e più permanenti, di
richiamare l’Occidente alla propria tradizione. Le altre possibili conseguenze,
quale che sia il loro grado di probabilità ciclica, vengono logicamente solo a
titolo sussidiario.
Era nella più normale economia delle cose che, nei confronti
dell’Occidente moderno, la funzione intellettuale della dottrina tradizionale
poggiasse immediatamente sull’Islam, poiché questo è l’intermediario naturale tra
l’Oriente e l’Occidente, per cui esso è solidale, anche sul piano esteriore,
con tutto l’ordine tradizionale terrestre. Ciò risponde pure alla domanda che
riguardava il rapporto tra la posizione personale islamica di René Guénon e la
sua funzione dottrinale generale.
D’altra parte, abbiamo trovato che il senso della sua opera
e le linee generali del suo lavoro sono state enunciate dal suo maestro, lo
Shaykh Elîsh, che fu nella nostra epoca un’autorità per eccellenza
dell’ortodossia islamica sotto tutti gli aspetti. Questo Shaykh rappresentava
nello stesso tempo l’eredità intellettuale dello Shaykh al-Akbar Muhy-d-Dîn Ibn
‘Arabî, l’autorità per eccellenza del Tasawwuf
e della dottrina islamica. Ciò risponde all’altra questione, relativa
all’ortodossia islamica dell’insegnamento di René Guénon. I criteri profondi
dell’ortodossia, come abbiamo detto, si trovano nella intelligibilità
metafisica della dottrina, ma, dato che vi sono delle incomprensioni come
quelle che abbiamo menzionato all’inizio, è parimenti di una certa importanza
constatare anche che la derivazione apparente dell’insegnamento di René Guénon
e della sua funzione si inscrive nello stesso tempo in una linea di autorità il
cui carattere manifesto è l’ortodossia più pura e l’intellettualità più
universale.
[1] [Pubblicato in Études Traditionnelles, gennaio-febbraio 1953, e divenuto poi il
primo capitolo de L’Islam et la fonction
de René Guénon, Paris, 1984.]
[2] Corano, III, 57
[3] Un modo particolare di questo adattamento è quello dei riti e delle tecniche spirituali; non dobbiamo specificamente affrontarlo qui, dove trattiamo solamente dell’ordine dottrinale; è del resto nella dottrina che si trova il fondamento di tutte le istituzioni e pratiche tradizionali.
[4] Ne vedremo più avanti un esempio relativo all’insegnamento metafisico nell’Islam.
[5] È del resto quello che si constata anche negli attacchi buddhisti contro il concetto indù del Sé, cui viene sostituito allora quello del Vuoto assoluto ed universale. Ciò che è “affermato” così in modo negativo coincide perfettamente con la vera idea del Sé Assoluto e Universale, ma il cambiamento di prospettiva e di terminologia apportato dal Buddhismo era una necessaria reazione contro [‘“idolatria” di fatto di un Sé sempre più concepito nei suoi modi condizionati.
[6] La metafisica di Aristotele è limitata all’ontologia, e per di più essa si presenta generalmente come una speculazione filosofica sprovvista dell’applicazione ad una realizzazione corrispondente; ma René Guénon, nella misura in cui vi ha fatto ricorso, l’ha integrata in una dottrina iniziatica e metafisica completa. Poiché se ne presenta l’occasione, dobbiamo aggiungere che l’aristotelismo sembra tuttavia aver conosciuto talvolta una tale applicazione, che però è dovuto rimanere piuttosto di ordine esoterico. Bisognerebbe disporre di un’altra occasione per poter affrontare questo argomento.
[7] A proposito delle possibilità positive dell’intellettualità aristotelica su un piano più generale di civiltà, potremmo anche dire che, malgrado i suoi limiti, essa ha svolto incontestabile ruolo di linguaggio intellettuale tra le civiltà mediterranee.
[8] Ritorneremo in un’altra occasione su quest’ultimo punto, soprattutto in occasione della presentazione di certi scritti dello Shaykh al-Abkar Muhy-d-Dîn Ibn ‘Arabî.
[9] Ciò che è molto significativo a questo proposito è il fatto che, ai nostri giorni, si pubblicano in Oriente traduzioni di opere dell’orientalismo europeo per erudire gli Orientali sulle loro proprie dottrine!
[10] Poiché bisogna dire che c’è anche una certa diversità quanto ai caratteri dei Sapienti e alle loro forme dottrinali.
[11] Corano, 42, 52.
[12] D’altra parte, se si volesse considerare solo il senso letterale, si potrebbe trovare nello Shaykh al-Akbar stesso delle formulazioni così differenti della stessa dottrina, ed è caso frequente in lui, che le si potrebbero considerare come completamente contraddittorie con la nozione di Waħdah al-Wujûd. Ma i suoi avversali exoteristi o altri che egli ha avuti, o che ha ancora e che lo accusano di “panteismo”, non hanno mai l’obiettività di rilevare il fatto, né l’astuzia di metterlo in contraddizione con se stesso; sarebbero allora forse obbligati a fare uno sforzo di comprensione, e così rischierebbero sia di dubitare della fondatezza della loro opinione, sia di confessare di non comprendervi nulla. In effetti i suoi oppositori isolano nei suoi scritti espressioni considerate da loro come compromettenti, e che lo sono solo per il senso che vi vogliono vedere.
[13] Per dare un esempio delle differenze di concezione o di prospettiva che possono esistere tra le stesse dottrine religiose, si può notare che la dottrina cattolica, la quale ha integrato una buona parte dell’aristotelismo, non esclude che si parli di Intelletto divino; è così che San Tommaso dice: «Deus [...] qui omnia simul Suo lntellectu comprehendit, Dio […] che comprende tutte le cose insieme nel Suo Intelletto» (Summa Theol., De Deo, q. 1, a. 10).
[14] Riferendoci a quanto dicevamo nella nota precedente, per San Tommaso stesso l’uomo può vedere l’Essenza Divina con la sua intelligenza «intellectus hominis elevatur ad altissimam Dei essentiae visionem, l’intelletto umano è elevato fino alla visione più alta dell’Essenza di Dio» (De Prophetia, q. 175, a. 4).
[15] In verità il Cuore, quando è considerato nella tradizione islamica in modo iniziatico e tecnico completo, diventa l’oggetto di una dottrina molto sviluppata secondo la quale esso è il contenente di una gerarchia di facoltà e di gradi di conoscenza; ne facciamo qui un semplice cenno, per non dare l’impressione di una semplificazione definitiva e riservare il problema per un esame speciale.
[16] Dobbiamo aggiungere che il dominio in cui interviene la Fede, la quale non è la semplice “credenza”, non è limitato all’exoterismo, ma si estende alle modalità esoteriche e iniziatiche della via spirituale ad un livello eminente, senza che ciò provochi una alterazione di qualità intellettuale; al contrario, a questi livelli la Fede svolge un ruolo di forza trasformante nei confronti dei simboli, e operativa nei confronti delle idee metafisiche. Ciò che abbiamo detto sorprenderà forse alcuni intellettuali che si sono fatti idee un poco sommarie ed inadeguate non solo per quanto concerne il valore profondo della spiritualità di tipo rivelato, ma, per lo stesso fatto, anche sull’iniziazione e l’esoterismo. Quanto a René Guénon stesso, nella misura in cui ha trattato anche problemi di pratica iniziatica, egli non ha dovuto considerare in modo particolare questo punto, ma in ogni caso quello che aveva detto in questo dominio non solo non lo esclude ma lo presuppone, poiché, in fondo, è solo la conseguenza di ciò che ricordavamo più sopra riguardo alla necessaria trasposizione in modo iniziatico dei dogmi, dei riti e dei simboli religiosi.
[17] Bisogna dire che una certa “fede” è egualmente indispensabile pure nelle vie sapienziali, in quanto essa feconda l’anticipazione speculativa sull’oggetto della conoscenza; ma naturalmente questa nozione non ha in tal caso né il carattere né il ruolo di un mistero in senso religioso o di una virtù teologale. Cfr. Fedone 70/a, b. Avendo detto Socrate che il vero filosofo, il quale vive secondo lo spirito, sarebbe in contraddizione con sé stesso qualora non fosse felice di morire e di vedere la sua anima liberata dai legami del corpo, Cebete gli fa notare che, fino ad ora, ciò che lui ha detto si presenta solo come «una grande e bella speranza (elpis)»; «egli ha tuttavia certamente bisogno di una “conferma” (paramythia, che designa etimologicamente una prova superiore per mezzo di un “mito”, commonitio in latino), e neppure piccola probabilmente, per procurare la “fede”» (pistis, o fides secondo la traduzione latina di Enrico Aristippo nel 1156). – «Tu dici giusto, Cebete», rispose Socrate, che espose allora le prove riguardo all’esistenza e alla “peregrinazione” dell’anima dopo la morte corporale.
[18] L’Homme et son devenir selon le Vêdânta, cap. 3.
[19] Ciò che è molto stupefacente sotto questo aspetto, è il veder come la stessa nozione di fede sia integrata nella dottrina di San Tommaso, in una concezione puramente sapienzale; nello stesso tempo ci si rende conto che i dati aristotelici sono piegati alle necessità della dottrina teologica: in una tale dottrina, l’Intelletto non può essere visto come bastante a sé stesso nel suo operare; la relazione della fede deve sussistere con l’oggetto della conoscenza. San Tommaso, dopo aver ricordato che secondo Aristotele (De anima, 3, cap. 9) l’intelletto speculativo «non dice nulla di ciò che bisogna fare o non fare (nihil dicat de imitabili et fugiendo)», da cui deriva che «esso non è principio di operazione (non est principium operationis)», mentre la fede è quel principio che, secondo la parola dell’apostolo «opera per mezzo della carità (per dilectionem operatur)», conclude che «nondimeno, credere è immediatamente un atto della intelligenza, poiché l’oggetto di quest’atto è il vero, il quale appartiene in proprio all’intelligenza. Per questo è necessario che la fede, essendo il principio proprio di un tale atto, risieda nell’intelligenza come nella propria sede (credere autem est immediate actus intellectus: quia objectum hujus actus est verum, quod proprie pertinet ad intellectum. Et ideo necesse est quod fides, quæ est proprium principium hujus actus, sit in intellectu sicut in subjecto)». Poi precisa: «La sede della fede è l’intelletto speculativo, come risulta in modo evidente dall’oggetto stesso della fede. Ma poiché la verità primaria, che è l’oggetto della fede, è anche il termine di tutti i nostri desideri e di tutte le nostre azioni, come dimostra Sant’Agostino, ne deriva che la fede è operante nella carità, proprio come l’intelletto speculativo, secondo il Filosofo (De anima, 3, cap. 10), diventa pratico per estensione (dicendum quod fides est in intellectu speculativo sicut in subjecto: ut manifeste patet ex fidei objecto. Sed quia veritas prima, quæ est fidei objectum, est finis omnium desideriorum et actionum nostrarum, ut patet per Augustinum [in I de Trin., cap. 8, 10]; inde est quod per dilectionem operatur. Sicut etiam intellectus speculativus extensione fit practicus, ut dicitur in 3 de Anima [cap. 10]» (Summa, De fide, q. 4, a. 2; tr. R. Bernard).
[20] Lett. allađîna hâdû = coloro che seguono la religione giudaica.
[21] Che vengono fatti corrispondere ai Mandei.
[22] Corano, II, 62; cfr. anche V, 69.
[23] Coran, V, 48.
[24] Ibid.
[25] Coran, 5, 43.
[26] Coran, 5, 47.
[27] È tuttavia importante notare che, negli ultimi tempi, si delinea negli studi cattolici uno sforzo inteso a render conto di certi valori spirituali troppo evidenti per poter essere sempre negati nelle altre forme tradizionali, come l’Induismo e l’Islam. È così che si allarga il concetto di “Chiesa” in un senso più libero delle contingenze, tanto spaziali quanto temporali o formali; che la grazia salvifica è riconosciuta come più indipendente dalle condizioni storiche e dall’adesione formale agli articoli dogmatici e alle loro conseguenze canoniche, ma legata nondimeno alle verità interiori informali ed universali dei dogmi; che l’universalità del Cristo è concepita come implicante la possibilità del suo intervento fuori dalle modalità tipiche della forma storica cristiana. Attualmente è solo una timida e prudente tendenza, ma essa è partico-larmente preziosa per il suo significato, soprattutto quando è manifestata da quegli stessi che si erano fin qui attribuiti il ruolo di fungere da ostacolo ad ogni comprensione realmente universale dei dati tradizionali e all’accordo sui principi con l’Oriente tradizionale.
[28] In Occidente, un’opera metafisica come quella di Meister Eckhart, colpita in certe tesi iniziatiche da una decisione papale, è così rimasta quasi completamente soffocata a partire dal disastroso XIV secolo, e se ai nostri giorni essa viene progressivamente rimessa in circolazione, non è evidentemente ad opera di autorità exoteriche, ma ad opera di credenti, abbastanza timidi del resto, oppure di intellettuali meno timorosi dei limiti — singolarmente ridotti — della “ortodossia” exoterica. Il biasimo gettato sull’opera di Eckhart ha tuttavia avuto tra l’altro come effetto immediato la diminuzione delle possibilità dell’importante scuola renana; e l’opera di Ruysbroeck, se ha schivato lo stesso pericolo, deve la sua situazione solo ad una riserva e ad una precauzione più grandi di quanto esigessero le sue tesi iniziatiche e metafisiche. In ogni caso, ai nostri giorni, sembra che i rappresentanti della Chiesa riescano a dar prova di una più grande prudenza e riserva; speriamo che non ci si arresti su una sì buona strada.
[29] Su questo punto, vedere l’articolo di P. Chacornac: La vie simple de René Guénon, nel numero speciale dedicato a René Guénon dagli Études Traditionnelles, luglio-novembre 1951. [L’anno 1329 H., data del ricollegamento di René Guénon alla ŧarîqah dello Shaikh Elîsh, si estende dal 2 gennaio al 21 dicembre 1911. L’anno 1349 H., data della pubblicazione del Symbolisme de la Croix, copre il periodo dal 29 maggio 1930 al 18 maggio 1931.]
[30] Cfr. il nostro articolo nello stesso numero speciale di Études Traditionnelles: La fonction de René Guénon et le sort de l’Occident.
[31] Dobbiamo precisare le date poiché, più avanti, l’esposizione di Abdul-Hâdi è tale che rischia di produrre confusioni di ordine cronologico: la morte del padre e la partenza del figlio per l’esilio debbono aver avuto luogo nel 1882-1883, come risulta da certe coincidenze storielle che rileveremo più avanti.
[32] Questi avvenimenti si collocano naturalmente dopo il 1883, ma non ci è possibile per il momento avere notizie più precise, salvo una data ad quem che coincide con l’inizio di questo secolo, quando, come si vedrà, l’esilio dello Shaykh Elîsh aveva sicuramente avuto fine.
[33] Si tratta dell’insegnamento dello Shaykh al-Akbar, allo studio del quale si era par-ticolarmente dedicato Abd El-Kader nell’ultima parte della sua vita. L’Emiro aveva finanziato la prima edizione stampata dell’opera principale dello Shaykh al-Akbar, le Futûħât al-Makkiyyah, la cui estensione è di circa 2500 pagine.
[34] Questo avvenne nel 1883, data che ci permette di ristabilire un poco la cronologia degli avvenimenti di cui parla Abdul-Hâdi.
[35] II fatto doveva essere anteriore al 1901, data della morte della regina Vittoria. L’amnistia inglese riguarda l’esilio che inizia dopo il primo arresto; nel frattempo, lo Shaykh aveva subito il secondo arresto ad opera di “un principe musulmano” e ottenuto la grazia da questo lato, ma era rimasto sempre esiliato dall’Egitto.
[36] Questo nome è naturalmente derivato da quello dello Shaykh al-Akbar. Lo stesso nome è portato in India da una tariqah che risale allo Shaykh el-Akbar e con la quale Abdul-Hâdi ha avuto rapporti diretti. Vi è appena bisogno di precisare che non c’è tuttavia tra l’associazione di cui si parla e la detta ŧarîqa se non una relazione puramente emblematica, le due cose essendo di natura differente.
[37] Termine derivato dal soprannome “Muħy-d-Dîn” (il Vivificatore della Religione) portato fra gli altri dallo Shaykh al-Akbar Ibn ‘Arabî.
[2] Corano, III, 57
[3] Un modo particolare di questo adattamento è quello dei riti e delle tecniche spirituali; non dobbiamo specificamente affrontarlo qui, dove trattiamo solamente dell’ordine dottrinale; è del resto nella dottrina che si trova il fondamento di tutte le istituzioni e pratiche tradizionali.
[4] Ne vedremo più avanti un esempio relativo all’insegnamento metafisico nell’Islam.
[5] È del resto quello che si constata anche negli attacchi buddhisti contro il concetto indù del Sé, cui viene sostituito allora quello del Vuoto assoluto ed universale. Ciò che è “affermato” così in modo negativo coincide perfettamente con la vera idea del Sé Assoluto e Universale, ma il cambiamento di prospettiva e di terminologia apportato dal Buddhismo era una necessaria reazione contro [‘“idolatria” di fatto di un Sé sempre più concepito nei suoi modi condizionati.
[6] La metafisica di Aristotele è limitata all’ontologia, e per di più essa si presenta generalmente come una speculazione filosofica sprovvista dell’applicazione ad una realizzazione corrispondente; ma René Guénon, nella misura in cui vi ha fatto ricorso, l’ha integrata in una dottrina iniziatica e metafisica completa. Poiché se ne presenta l’occasione, dobbiamo aggiungere che l’aristotelismo sembra tuttavia aver conosciuto talvolta una tale applicazione, che però è dovuto rimanere piuttosto di ordine esoterico. Bisognerebbe disporre di un’altra occasione per poter affrontare questo argomento.
[7] A proposito delle possibilità positive dell’intellettualità aristotelica su un piano più generale di civiltà, potremmo anche dire che, malgrado i suoi limiti, essa ha svolto incontestabile ruolo di linguaggio intellettuale tra le civiltà mediterranee.
[8] Ritorneremo in un’altra occasione su quest’ultimo punto, soprattutto in occasione della presentazione di certi scritti dello Shaykh al-Abkar Muhy-d-Dîn Ibn ‘Arabî.
[9] Ciò che è molto significativo a questo proposito è il fatto che, ai nostri giorni, si pubblicano in Oriente traduzioni di opere dell’orientalismo europeo per erudire gli Orientali sulle loro proprie dottrine!
[10] Poiché bisogna dire che c’è anche una certa diversità quanto ai caratteri dei Sapienti e alle loro forme dottrinali.
[11] Corano, 42, 52.
[12] D’altra parte, se si volesse considerare solo il senso letterale, si potrebbe trovare nello Shaykh al-Akbar stesso delle formulazioni così differenti della stessa dottrina, ed è caso frequente in lui, che le si potrebbero considerare come completamente contraddittorie con la nozione di Waħdah al-Wujûd. Ma i suoi avversali exoteristi o altri che egli ha avuti, o che ha ancora e che lo accusano di “panteismo”, non hanno mai l’obiettività di rilevare il fatto, né l’astuzia di metterlo in contraddizione con se stesso; sarebbero allora forse obbligati a fare uno sforzo di comprensione, e così rischierebbero sia di dubitare della fondatezza della loro opinione, sia di confessare di non comprendervi nulla. In effetti i suoi oppositori isolano nei suoi scritti espressioni considerate da loro come compromettenti, e che lo sono solo per il senso che vi vogliono vedere.
[13] Per dare un esempio delle differenze di concezione o di prospettiva che possono esistere tra le stesse dottrine religiose, si può notare che la dottrina cattolica, la quale ha integrato una buona parte dell’aristotelismo, non esclude che si parli di Intelletto divino; è così che San Tommaso dice: «Deus [...] qui omnia simul Suo lntellectu comprehendit, Dio […] che comprende tutte le cose insieme nel Suo Intelletto» (Summa Theol., De Deo, q. 1, a. 10).
[14] Riferendoci a quanto dicevamo nella nota precedente, per San Tommaso stesso l’uomo può vedere l’Essenza Divina con la sua intelligenza «intellectus hominis elevatur ad altissimam Dei essentiae visionem, l’intelletto umano è elevato fino alla visione più alta dell’Essenza di Dio» (De Prophetia, q. 175, a. 4).
[15] In verità il Cuore, quando è considerato nella tradizione islamica in modo iniziatico e tecnico completo, diventa l’oggetto di una dottrina molto sviluppata secondo la quale esso è il contenente di una gerarchia di facoltà e di gradi di conoscenza; ne facciamo qui un semplice cenno, per non dare l’impressione di una semplificazione definitiva e riservare il problema per un esame speciale.
[16] Dobbiamo aggiungere che il dominio in cui interviene la Fede, la quale non è la semplice “credenza”, non è limitato all’exoterismo, ma si estende alle modalità esoteriche e iniziatiche della via spirituale ad un livello eminente, senza che ciò provochi una alterazione di qualità intellettuale; al contrario, a questi livelli la Fede svolge un ruolo di forza trasformante nei confronti dei simboli, e operativa nei confronti delle idee metafisiche. Ciò che abbiamo detto sorprenderà forse alcuni intellettuali che si sono fatti idee un poco sommarie ed inadeguate non solo per quanto concerne il valore profondo della spiritualità di tipo rivelato, ma, per lo stesso fatto, anche sull’iniziazione e l’esoterismo. Quanto a René Guénon stesso, nella misura in cui ha trattato anche problemi di pratica iniziatica, egli non ha dovuto considerare in modo particolare questo punto, ma in ogni caso quello che aveva detto in questo dominio non solo non lo esclude ma lo presuppone, poiché, in fondo, è solo la conseguenza di ciò che ricordavamo più sopra riguardo alla necessaria trasposizione in modo iniziatico dei dogmi, dei riti e dei simboli religiosi.
[17] Bisogna dire che una certa “fede” è egualmente indispensabile pure nelle vie sapienziali, in quanto essa feconda l’anticipazione speculativa sull’oggetto della conoscenza; ma naturalmente questa nozione non ha in tal caso né il carattere né il ruolo di un mistero in senso religioso o di una virtù teologale. Cfr. Fedone 70/a, b. Avendo detto Socrate che il vero filosofo, il quale vive secondo lo spirito, sarebbe in contraddizione con sé stesso qualora non fosse felice di morire e di vedere la sua anima liberata dai legami del corpo, Cebete gli fa notare che, fino ad ora, ciò che lui ha detto si presenta solo come «una grande e bella speranza (elpis)»; «egli ha tuttavia certamente bisogno di una “conferma” (paramythia, che designa etimologicamente una prova superiore per mezzo di un “mito”, commonitio in latino), e neppure piccola probabilmente, per procurare la “fede”» (pistis, o fides secondo la traduzione latina di Enrico Aristippo nel 1156). – «Tu dici giusto, Cebete», rispose Socrate, che espose allora le prove riguardo all’esistenza e alla “peregrinazione” dell’anima dopo la morte corporale.
[18] L’Homme et son devenir selon le Vêdânta, cap. 3.
[19] Ciò che è molto stupefacente sotto questo aspetto, è il veder come la stessa nozione di fede sia integrata nella dottrina di San Tommaso, in una concezione puramente sapienzale; nello stesso tempo ci si rende conto che i dati aristotelici sono piegati alle necessità della dottrina teologica: in una tale dottrina, l’Intelletto non può essere visto come bastante a sé stesso nel suo operare; la relazione della fede deve sussistere con l’oggetto della conoscenza. San Tommaso, dopo aver ricordato che secondo Aristotele (De anima, 3, cap. 9) l’intelletto speculativo «non dice nulla di ciò che bisogna fare o non fare (nihil dicat de imitabili et fugiendo)», da cui deriva che «esso non è principio di operazione (non est principium operationis)», mentre la fede è quel principio che, secondo la parola dell’apostolo «opera per mezzo della carità (per dilectionem operatur)», conclude che «nondimeno, credere è immediatamente un atto della intelligenza, poiché l’oggetto di quest’atto è il vero, il quale appartiene in proprio all’intelligenza. Per questo è necessario che la fede, essendo il principio proprio di un tale atto, risieda nell’intelligenza come nella propria sede (credere autem est immediate actus intellectus: quia objectum hujus actus est verum, quod proprie pertinet ad intellectum. Et ideo necesse est quod fides, quæ est proprium principium hujus actus, sit in intellectu sicut in subjecto)». Poi precisa: «La sede della fede è l’intelletto speculativo, come risulta in modo evidente dall’oggetto stesso della fede. Ma poiché la verità primaria, che è l’oggetto della fede, è anche il termine di tutti i nostri desideri e di tutte le nostre azioni, come dimostra Sant’Agostino, ne deriva che la fede è operante nella carità, proprio come l’intelletto speculativo, secondo il Filosofo (De anima, 3, cap. 10), diventa pratico per estensione (dicendum quod fides est in intellectu speculativo sicut in subjecto: ut manifeste patet ex fidei objecto. Sed quia veritas prima, quæ est fidei objectum, est finis omnium desideriorum et actionum nostrarum, ut patet per Augustinum [in I de Trin., cap. 8, 10]; inde est quod per dilectionem operatur. Sicut etiam intellectus speculativus extensione fit practicus, ut dicitur in 3 de Anima [cap. 10]» (Summa, De fide, q. 4, a. 2; tr. R. Bernard).
[20] Lett. allađîna hâdû = coloro che seguono la religione giudaica.
[21] Che vengono fatti corrispondere ai Mandei.
[22] Corano, II, 62; cfr. anche V, 69.
[23] Coran, V, 48.
[24] Ibid.
[25] Coran, 5, 43.
[26] Coran, 5, 47.
[27] È tuttavia importante notare che, negli ultimi tempi, si delinea negli studi cattolici uno sforzo inteso a render conto di certi valori spirituali troppo evidenti per poter essere sempre negati nelle altre forme tradizionali, come l’Induismo e l’Islam. È così che si allarga il concetto di “Chiesa” in un senso più libero delle contingenze, tanto spaziali quanto temporali o formali; che la grazia salvifica è riconosciuta come più indipendente dalle condizioni storiche e dall’adesione formale agli articoli dogmatici e alle loro conseguenze canoniche, ma legata nondimeno alle verità interiori informali ed universali dei dogmi; che l’universalità del Cristo è concepita come implicante la possibilità del suo intervento fuori dalle modalità tipiche della forma storica cristiana. Attualmente è solo una timida e prudente tendenza, ma essa è partico-larmente preziosa per il suo significato, soprattutto quando è manifestata da quegli stessi che si erano fin qui attribuiti il ruolo di fungere da ostacolo ad ogni comprensione realmente universale dei dati tradizionali e all’accordo sui principi con l’Oriente tradizionale.
[28] In Occidente, un’opera metafisica come quella di Meister Eckhart, colpita in certe tesi iniziatiche da una decisione papale, è così rimasta quasi completamente soffocata a partire dal disastroso XIV secolo, e se ai nostri giorni essa viene progressivamente rimessa in circolazione, non è evidentemente ad opera di autorità exoteriche, ma ad opera di credenti, abbastanza timidi del resto, oppure di intellettuali meno timorosi dei limiti — singolarmente ridotti — della “ortodossia” exoterica. Il biasimo gettato sull’opera di Eckhart ha tuttavia avuto tra l’altro come effetto immediato la diminuzione delle possibilità dell’importante scuola renana; e l’opera di Ruysbroeck, se ha schivato lo stesso pericolo, deve la sua situazione solo ad una riserva e ad una precauzione più grandi di quanto esigessero le sue tesi iniziatiche e metafisiche. In ogni caso, ai nostri giorni, sembra che i rappresentanti della Chiesa riescano a dar prova di una più grande prudenza e riserva; speriamo che non ci si arresti su una sì buona strada.
[29] Su questo punto, vedere l’articolo di P. Chacornac: La vie simple de René Guénon, nel numero speciale dedicato a René Guénon dagli Études Traditionnelles, luglio-novembre 1951. [L’anno 1329 H., data del ricollegamento di René Guénon alla ŧarîqah dello Shaikh Elîsh, si estende dal 2 gennaio al 21 dicembre 1911. L’anno 1349 H., data della pubblicazione del Symbolisme de la Croix, copre il periodo dal 29 maggio 1930 al 18 maggio 1931.]
[30] Cfr. il nostro articolo nello stesso numero speciale di Études Traditionnelles: La fonction de René Guénon et le sort de l’Occident.
[31] Dobbiamo precisare le date poiché, più avanti, l’esposizione di Abdul-Hâdi è tale che rischia di produrre confusioni di ordine cronologico: la morte del padre e la partenza del figlio per l’esilio debbono aver avuto luogo nel 1882-1883, come risulta da certe coincidenze storielle che rileveremo più avanti.
[32] Questi avvenimenti si collocano naturalmente dopo il 1883, ma non ci è possibile per il momento avere notizie più precise, salvo una data ad quem che coincide con l’inizio di questo secolo, quando, come si vedrà, l’esilio dello Shaykh Elîsh aveva sicuramente avuto fine.
[33] Si tratta dell’insegnamento dello Shaykh al-Akbar, allo studio del quale si era par-ticolarmente dedicato Abd El-Kader nell’ultima parte della sua vita. L’Emiro aveva finanziato la prima edizione stampata dell’opera principale dello Shaykh al-Akbar, le Futûħât al-Makkiyyah, la cui estensione è di circa 2500 pagine.
[34] Questo avvenne nel 1883, data che ci permette di ristabilire un poco la cronologia degli avvenimenti di cui parla Abdul-Hâdi.
[35] II fatto doveva essere anteriore al 1901, data della morte della regina Vittoria. L’amnistia inglese riguarda l’esilio che inizia dopo il primo arresto; nel frattempo, lo Shaykh aveva subito il secondo arresto ad opera di “un principe musulmano” e ottenuto la grazia da questo lato, ma era rimasto sempre esiliato dall’Egitto.
[36] Questo nome è naturalmente derivato da quello dello Shaykh al-Akbar. Lo stesso nome è portato in India da una tariqah che risale allo Shaykh el-Akbar e con la quale Abdul-Hâdi ha avuto rapporti diretti. Vi è appena bisogno di precisare che non c’è tuttavia tra l’associazione di cui si parla e la detta ŧarîqa se non una relazione puramente emblematica, le due cose essendo di natura differente.
[37] Termine derivato dal soprannome “Muħy-d-Dîn” (il Vivificatore della Religione) portato fra gli altri dallo Shaykh al-Akbar Ibn ‘Arabî.