Oriente e Occidente
Parte prima
Illusioni occidentali
I
Civiltà e progresso
La civiltà occidentale moderna appare nella storia come una
vera e propria anomalia; fra tutte quelle che sono più o meno completamente
conosciute, questa civiltà è la sola a essersi sviluppata in un senso puramente
materiale, e questo sviluppo mostruoso, il cui inizio coincide con quello che
si è convenuto chiamare Rinascimento, è stato accompagnato, come fatalmente
doveva, da una regressione intellettuale corrispondente; se non diciamo
equivalente, è perché si tratta di due ordini di cose tra i quali non può
esistere nessuna misura comune.
Questa regressione è giunta a un punto tale che gli Occidentali d’oggi non sanno più che cosa possa essere l’intellettualità pura, o meglio, non sospettano nemmeno che qualcosa di simile possa esistere; è questa la causa del loro disprezzo, non solo per le civiltà orientali, ma per lo stesso Medio Evo europeo, il cui spirito sfugge loro non meno completamente. Come far comprendere l’interesse di una conoscenza tutta speculativa a gente per cui l’intelligenza non è che un mezzo per agire sulla materia e piegarla a scopi pratici, e per cui la scienza, nel ristretto senso in cui la intendono, vale soprattutto nella misura in cui è capace di portare ad applicazioni industriali? Né si creda che stiamo esagerando; è sufficiente guardarsi attorno per rendersi conto che tale è la mentalità dell’immensa maggioranza dei nostri contemporanei, e l’esame stesso della filosofia, a partire da Bacone e da Cartesio non fa che confermare queste constatazioni. Ricordiamo soltanto che Cartesio ridusse l’intelligenza alla ragione e assegnò a ciò che egli credeva di poter chiamare metafisica l’unico compito di servire da fondamento alla fisica; aggiungiamo che questa fisica stessa era essenzialmente destinata, nel suo pensiero, a preparare la costituzione delle scienze applicate: meccanica, medicina e morale, termine ultimo del sapere umano quale egli lo concepiva. Le tendenze così affermate non sono già forse le stesse che caratterizzano, a prima vista, tutto lo sviluppo del mondo moderno?
Negare o ignorare ogni conoscenza pura e sovrarazionale significò aprire la via che doveva logicamente condurre, da un lato al positivismo e all’agnosticismo (che traggono la loro origine dalle limitazioni più ristrette dell’intelligenza e del suo oggetto), dall’altro a tutte le teorie sentimentalistiche e volontaristiche, le quali si sforzano di cercare nell’infrarazionale quel che dalla ragione non possono avere. Di fatto, anche coloro che ai giorni nostri vogliono reagire al razionalismo, accettano tuttavia l’identificazione di tutta l’intelligenza con la sola ragione, e credono che quest’ultima sia una facoltà puramente pratica, incapace di uscire dal dominio della materia.
Questa regressione è giunta a un punto tale che gli Occidentali d’oggi non sanno più che cosa possa essere l’intellettualità pura, o meglio, non sospettano nemmeno che qualcosa di simile possa esistere; è questa la causa del loro disprezzo, non solo per le civiltà orientali, ma per lo stesso Medio Evo europeo, il cui spirito sfugge loro non meno completamente. Come far comprendere l’interesse di una conoscenza tutta speculativa a gente per cui l’intelligenza non è che un mezzo per agire sulla materia e piegarla a scopi pratici, e per cui la scienza, nel ristretto senso in cui la intendono, vale soprattutto nella misura in cui è capace di portare ad applicazioni industriali? Né si creda che stiamo esagerando; è sufficiente guardarsi attorno per rendersi conto che tale è la mentalità dell’immensa maggioranza dei nostri contemporanei, e l’esame stesso della filosofia, a partire da Bacone e da Cartesio non fa che confermare queste constatazioni. Ricordiamo soltanto che Cartesio ridusse l’intelligenza alla ragione e assegnò a ciò che egli credeva di poter chiamare metafisica l’unico compito di servire da fondamento alla fisica; aggiungiamo che questa fisica stessa era essenzialmente destinata, nel suo pensiero, a preparare la costituzione delle scienze applicate: meccanica, medicina e morale, termine ultimo del sapere umano quale egli lo concepiva. Le tendenze così affermate non sono già forse le stesse che caratterizzano, a prima vista, tutto lo sviluppo del mondo moderno?
Negare o ignorare ogni conoscenza pura e sovrarazionale significò aprire la via che doveva logicamente condurre, da un lato al positivismo e all’agnosticismo (che traggono la loro origine dalle limitazioni più ristrette dell’intelligenza e del suo oggetto), dall’altro a tutte le teorie sentimentalistiche e volontaristiche, le quali si sforzano di cercare nell’infrarazionale quel che dalla ragione non possono avere. Di fatto, anche coloro che ai giorni nostri vogliono reagire al razionalismo, accettano tuttavia l’identificazione di tutta l’intelligenza con la sola ragione, e credono che quest’ultima sia una facoltà puramente pratica, incapace di uscire dal dominio della materia.
Bergson ha scritto testualmente: «L’intelligenza,
considerata dal punto di vista di quel che pare essere il suo scopo originario,
è la facoltà di fabbricare oggetti artificiali, in particolare utensili per
fare altri utensili (sic), e di
variarne indefinitamente la fabbricazione»[1]. E
ancora: «L’intelligenza, anche quando non operi sulla materia bruta, segue le
abitudini acquisite durante questa operazione: essa applica forme che sono le
forme stesse della materia non organizzata. Essa è fatta per questo genere di
lavoro. Soltanto questo genere di lavoro la soddisfa pienamente. E questo essa
esprime dicendo che soltanto così giunge alla distinzione e alla chiarezza»[2]. Da
quest’ultima frase si capisce facilmente come non si tratti affatto
dell’intelligenza vera e propria, ma semplicemente della concezione cartesiana
dell’intelligenza, ciò che è ben diverso; e alla superstizione della ragione la
«filosofia nuova», come la chiamano i suoi seguaci, ne sostituisce un’altra,
sotto un certo aspetto ancora più grossolana: la superstizione della vita. Il
razionalismo, impotente ad elevarsi fino alla verità assoluta, lasciava almeno
sussistere la verità relativa; l’intuizionismo contemporaneo abbassa questa
verità a nulla più che a una rappresentazione della realtà sensibile, o, più
precisamente, a una rappresentazione di tutto ciò che la realtà sensibile ha di
inconsistente e di incessantemente mutevole; infine, il pragmatismo completa
l’eliminazione della nozione stessa di verità con l’identificarla a quella di
utilità, il che significa semplicemente sopprimerla.
Se abbiamo un po’ schematizzato le cose, non le abbiamo
tuttavia per nulla alterate, e, qualunque siano state le fasi intermedie, le
tendenze fondamentali sono effettivamente quelle che abbiamo descritto; i
pragmatisti, i quali conducono il loro pensiero alle sue estreme conseguenze,
si dimostrano i più autentici rappresentanti del pensiero occidentale moderno:
che interesse può avere la verità in un mondo le cui aspirazioni, per essere
unicamente materiali e sentimentali, e non intellettuali, trovano completa
soddisfazione nell’industria e nella morale, campi nel quali si può far benissimo
a meno di concepire la verità? Senza dubbio non si è arrivati a questo estremo
in un colpo solo, e molti Europei protesteranno forse di non esserci ancora
giunti affatto; noi però pensiamo qui soprattutto agli Americani, i quali, se
così si può dire, si trovano in una fase più «avanzata» della stessa civiltà:
tanto mentalmente quanto geograficamente, l’America attuale è di fatto
l’«Estremo Occidente»; e l’Europa la seguirà senza ombra di dubbio se nulla
verrà ad arrestare l’evolversi delle conseguenze implicite nel presente stato
di cose.
Ma la cosa forse più straordinaria è la pretesa di fare di
questa civiltà anormale il tipo stesso di tutte le civiltà, di considerarla
come «la civiltà» per eccellenza, o addirittura come la sola che meriti questo
nome. A questa illusione, e quasi a completamento di essa, si accompagna la
credenza nel «progresso», considerato in un modo non meno assoluto, e
identificato naturalmente, nella sua essenza, a quello sviluppo materiale che
assorbe ogni attività degli Occidentali moderni. È curioso constatare come
certe idee, per poco che corrispondano, beninteso, alle tendenze generali di un
ambiente e di un’epoca, arrivino a propagarsi e ad imporsi rapidamente; tale è
il caso delle idee di «civiltà» e di «progresso» da tanta gente credute
ingenuamente universali e necessarie, quando in realtà sono invece di
recentissima invenzione, al punto che ancora oggi i tre quarti almeno
dell’umanità persistono nell’ignorarle o nel non tenerle nel minimo conto.
Jacques Bainville ha fatto notare che «se il verbo
civilizzare si trova già con il significato che noi gli attribuiamo nei buoni
autori del secolo XVIII, il sostantivo civiltà («civilisation») non s’incontra che nelle opere degli economisti
dell’epoca che precedette immediatamente la Rivoluzione. Littré cita un esempio
preso da Turgot. Littré, che aveva fatto lo spoglio di tutta la nostra
letteratura, non ha potuto risalire più lontano. Così, il termine civiltà non
ha più di un secolo e mezzo di esistenza. Esso ha finito con l’entrare nel
dizionario dell’Accademia solo nell’anno 1835, cioè un po’ meno di cento anni
fa... L’antichità, di cui ancora viviamo, nemmeno essa aveva una parola per
esprimere ciò che noi intendiamo per civiltà. Se trovasse questo termine da
tradurre in un compito di latino, il giovane studente sarebbe in un
bell’imbarazzo... La vita delle parole non è punto indipendente dalla vita
delle idee. Il termine civiltà, di cui i nostri avi facevano benissimo a meno
(forse perché possedevano la cosa), è apparso nel secolo XIX sotto l’influenza
di idee nuove. Le scoperte scientifiche, lo sviluppo delle industrie, del
commercio, della prosperità e del benessere, avevano creato una specie di
entusiasmo e financo di profetismo. Il concetto di progresso indefinito,
apparso verso la seconda metà del secolo XVIII, contribuì a convincere la
specie umana di essere entrata in una nuova èra, l’èra della civiltà assoluta.
Se chiamiamo il periodo contemporaneo l’èra della civiltà, e confondiamo la
civiltà con l’Evo Moderno, ciò è dovuto a un prodigioso utopista oggi
completamente dimenticato: Fourier... La civiltà era dunque il grado di
sviluppo e di perfezionamento a cui le nazioni europee erano pervenute nel
secolo XIX. Questo termine, da tutti compreso anche se da nessuno definito, abbracciava
tanto il progresso materiale quanto il progresso morale, l’uno appoggiato
all’altro, l’uno unito all’altro inseparabilmente. La civiltà era dunque
l’Europa stessa; si trattava di un brevetto che il mondo europeo conferiva a se
stesso»[3].
Questo è esattamente quel che pensiamo anche noi; e abbiamo voluto conservare
questa citazione, anche se un po’ lunga, per far vedere che non siamo i soli a
pensarlo.
Dunque queste due idee di «civiltà» e di «progresso»,
strettissimamente associate l’una all’altra, non risalgono che alla seconda
metà del secolo XVIII, e cioè all’epoca che, fra le altre cose, vide nascere
anche il materialismo[4]; esse
furono propagate e rese popolari soprattutto dal sognatori socialisti
dell’inizio del secolo XIX. Bisogna convenire che la storia delle idee permette
talvolta di fare delle constatazioni alquanto sorprendenti, e di ridurre certe
immaginazioni al loro giusto valore; ancor più lo permetterebbe se essa fosse
costituita e studiata come dovrebbe essere, e se non fosse, come del resto la
storia ordinaria, falsificata da interpretazioni tendenziose o costretta in
lavori di semplice erudizione e in insignificanti ricerche su questioni del
tutto secondarie. La storia vera può essere pericolosa per certi interessi
politici; ed è ragionevole chiedersi se non sia per tal motivo che in questo
campo certi metodi sono imposti ufficialmente, ad esclusione di tutti gli
altri: in modo cosciente o incosciente si esclude a priori tutto quel che permetterebbe di veder chiaro in molte
cose, ed è così che si viene formando l’«opinione pubblica».
Ma ritorniamo alle due idee di cui abbiamo parlato, per
precisare che, assegnando loro un’origine così poco lontana nel tempo,
intendiamo considerare unicamente l’accezione assoluta, e secondo noi
illusoria, che oggi si dà loro più comunemente. Altra cosa è il senso relativo
che le stesse parole possono avere, e poiché questo senso è perfettamente
legittimo, riferendosi ad esso non si può dire che si tratti di idee nate in un
momento determinato; poco importa che esse siano state espresse in un modo o in
un altro, e se un termine è comodo non vediamo inconvenienti ad usarlo nel
fatto che esso sia recente. Per questo diciamo molto volentieri noi stessi che
esistono molteplici e diverse «civiltà»; sarebbe piuttosto difficile definire
esattamente quel complesso insieme di elementi di diverso carattere che
costituiscono ciò che viene detto una civiltà, tuttavia ognuno sa abbastanza
bene cosa si intenda con questa parola. Pensiamo che non sia nemmeno necessario
tentare di racchiudere in una formula rigida i caratteri generali di ogni
civiltà, o i caratteri particolari di una civiltà determinata; si tratterebbe
di un modo di procedere alquanto artificiale, e noi diffidiamo molto degli
schemi ristretti di cui si compiace la mentalità sistematica.
Come vi sono «delle civiltà», vi sono anche, durante lo
sviluppo di ciascuna di esse, o durante certi periodi più o meno estesi di
questo sviluppo, «dei progressi» che si riferiscono non certo a tutto
indistintamente, ma a questo o a quel campo definito; insomma, si tratta
soltanto di una maniera diversa di dire che una civiltà si sviluppa in un certo
senso, in una certa direzione; sennonché, se vi sono dei progressi, vi sono
pure dei regressi, e talvolta le due cose possono avvenire simultaneamente in
campi differenti. Per questa ragione, e su questo teniamo ad insistere, tutto
ciò è eminentemente relativo; ma se si vogliono prendere le stesse parole in
senso assoluto, allora esse non corrispondono più ad alcuna realtà, e soltanto
così possono venire a dominare quelle nuove idee che hanno corso da meno di due
secoli, e nel solo Occidente. Indubbiamente, «il Progresso» e «la Civiltà» con
la maiuscola possono fare un eccellente effetto in certe frasi tanto vuote
quanto declamatorie, adattissime a impressionare la folla, per la quale la
parola serve meno ad esprimere un pensiero che a supplire alla sua mancanza; a
questo titolo queste due parole hanno una funzione molto importante
nell’arsenale di formule di cui i «dirigenti» contemporanei si servono per
svolgere con successo la straordinaria opera di suggestione collettiva senza la
quale la mentalità specificamente moderna non potrebbe mantenersi per lungo
tempo. A questo proposito, non crediamo che sia mai stata sufficientemente
notata l’analogia, peraltro evidente, tra l’azione di un oratore e quella di un
ipnotizzatore (dello stesso ordine è anche quella del domatore); segnaliamo
incidentalmente questo argomento di studio all’attenzione degli psicologi.
Certamente, in maggiore o minore misura, il potere delle parole si è già
esercitato in altre epoche, ma ciò di cui non si hanno esempi è questa
gigantesca allucinazione collettiva per effetto della quale tutta una parte
dell’umanità è giunta a scambiare le più vane chimere per realtà
incontestabili; e fra questi idoli della mentalità moderna quelli che stiamo
denunciando sono forse i più perniciosi di tutti.
Ma ritorniamo alla genesi dell’idea di progresso, o, se si
vuole, dell’idea di progresso indefinito, acciocché siano posti fuori causa
quei progressi speciali e limitati di cui non intendiamo affatto contestare
l’esistenza. È probabilmente in Pascal che si può trovare la prima traccia di
quest’idea, applicata però ad un unico angolo visuale: è noto il brano[5] in
cui egli paragona l’umanità a «uno stesso uomo che sempre permane, imparando
continuamente durante il corso dei secoli», dando prova di quella mentalità
antitradizionale che è una delle particolarità dell’Occidente moderno col
dichiarare che «quelli che noi chiamiamo antichi erano veramente nuovi ad ogni
cosa», e che perciò le loro opinioni hanno un peso irrilevante. A questo
riguardo Pascal ebbe almeno un precursore, giacché Bacone, con la stessa
intenzione, aveva già detto: «Antiquitas
saeculi, juventus mundi».
È facile scoprire il sofisma incosciente su cui una tale
concezione si fonda: questo sofisma consiste nella supposizione che l’umanità,
nel suo insieme, segua uno sviluppo continuo e lineare; si tratta di una
prospettiva «semplicistica» al massimo grado, in contraddizione con tutti i
fatti conosciuti. La storia ci mostra infatti, in ogni epoca, civiltà
indipendenti le une dalle altre, spesso anche divergenti, alcune delle quali
nascono e si sviluppano mentre le altre decadono e muoiono, o sono annientate
bruscamente in qualche cataclisma; e non è assolutamente vero che le civiltà
nuove raccolgano sempre il retaggio delle antiche. Chi per esempio oserebbe
sostenere seriamente che gli Occidentali moderni hanno tratto profitto, sia
pure indirettamente, della maggior parte delle conoscenze che i Caldei e gli
Egizi avevano accumulato, per non parlare delle civiltà il cui nome non è
nemmeno giunto fino a noi? Del resto, non è affatto necessario risalire così
indietro nel passato, giacché esistono scienze, coltivate nel Medio Evo europeo,
di cui ai giorni nostri non si ha più la minima idea.
Volendo ad ogni costo conservare la rappresentazione
dell’«uomo collettivo» proposta da Pascal (il quale lo chiama molto
impropriamente «uomo universale»), bisognerà dunque dire che, se vi sono dei periodi
in cui egli impara, altri ve ne sono in cui dimentica, ovvero dire che mentre
impara talune cose ne dimentica altre; sennonché la realtà è ancora più
complessa, giacché esistono simultaneamente, e sempre sono esistite, civiltà
che non si compenetrano affatto, ignorandosi a vicenda: è ben questa la
situazione della civiltà occidentale, oggi più che mai, nei confronti delle
civiltà orientali. In fondo, l’origine dell’illusione che ha trovato
espressione in Pascal è semplicemente questa: gli Occidentali, a partire dal
Rinascimento, hanno preso l’abitudine di considerarsi, essi soli, gli eredi e i
continuatori dell’antichità greco-romana, e di non riconoscere o ignorare
sistematicamente tutto il resto; appunto in ciò consiste quello che noi
chiamiamo il «pregiudizio classico». L’umanità di cui parla Pascal comincia con
i Greci e continua con i Romani, poi c’è nella sua esistenza una discontinuità
che corrisponde al Medio Evo, nel quale egli, come tutti i suoi contemporanei
del secolo XVII, non può vedere che un periodo di sonno; infine viene il
Rinascimento, cioè il risveglio di quell’umanità che, a partire da quel
momento, sarà composta dall’insieme dei popoli europei. È un errore strano, che
rivela un orizzonte mentale singolarmente ristretto, e consiste nel prendere la
parte per il tutto; del suo influsso si potrebbero scoprire molteplici esempi
in parecchi campi: gli psicologi, ad esempio, restringono generalmente le loro
osservazioni a un solo tipo di umanità, quella dell’Occidente moderno, ed
estendono abusivamente i risultati così ottenuti fino a pretendere di trarne
senza eccezioni, i caratteri dell’uomo in generale.
È indispensabile notare come Pascal parlasse ancora soltanto
di un progresso intellettuale, nei limiti in cui egli e la sua epoca concepivano
l’intellettualità; solo alla fine del secolo XVIII apparve, con Turgot e
Condorcet, l’idea di progresso estesa a tutti gli ordini di attività; e
quest’idea era allora così lontana dall’essere generalmente accettata, che
Voltaire si affrettò a volgerla in ridicolo. Non è qui il caso di fare la
storia completa delle diverse modificazioni che la stessa idea subì nel corso
del secolo XIX, e delle complicazioni pseudo-scientifiche di cui fu
sovraccaricata quando, sotto il nome di «evoluzionismo», la si volle applicare,
non più solo all’umanità, ma a tutto l’insieme degli esseri viventi.
L’evoluzionismo, nonostante le molteplici divergenze, più o meno importanti, è
diventato un vero e proprio dogma ufficiale: si insegna come una legge che è
proibito discutere quella che non è se non la più gratuita e infondata di tutte
le ipotesi; a maggior ragione ciò avviene per la concezione del progresso
umano, che in questa prospettiva appare semplicemente come un’applicazione
particolare dell’evoluzionismo.
Sennonché prima di arrivare a ciò, si è passati attraverso
varie vicissitudini, tant’è vero che fra gli stessi fautori del progresso ve ne
sono alcuni che non hanno potuto esimersi dal formulare riserve abbastanza
gravi: Auguste Comte, il quale aveva cominciato con l’essere discepolo di
Saint-Simon, ammetteva un progresso indefinito per durata, ma non in
estensione; per lui il cammino dell’umanità poteva essere rappresentato da una
curva con un asintoto, al quale la curva si avvicina indefinitamente senza che
mai lo raggiunga; in questo modo l’ampiezza del progresso possibile, cioè la
distanza tra lo stato attuale e lo stato ideale, rappresentata dalla distanza
tra la curva e l’asintoto, andrebbe diminuendo continuamente. Non vi è nulla di
più facile che mettere in evidenza le confusioni su cui si fonda la fantastica
teoria a cui Comte diede il nome di «legge dei tre stati», la principale delle
quali consiste nel supporre che l’unico oggetto di ogni possibile conoscenza
sia la spiegazione dei fenomeni naturali. Come Bacone e Pascal, egli paragonava
gli antichi a dei bambini; altri, più recentemente, hanno creduto di fare
meglio assimilandoli ai selvaggi, che essi chiamano «primitivi», mentre, da
parte nostra, non possiamo considerarli che dei degenerati[6].
Alcuni, d’altra parte, non potendo fare a meno di constatare che in ciò che è
loro noto della storia dell’umanità esistono alti e bassi, sono giunti a
parlare di un «ritmo del progresso»; sarebbe forse più semplice e più logico,
in queste condizioni, non parlare più assolutamente di progresso, ma poiché
bisogna salvaguardare ad ogni costo il dogma moderno, si è arrivati a supporre
che comunque sia «il progresso» esiste, come risultato finale di tutti i
progressi parziali e di tutti i regressi. Queste restrizioni e queste
discordanze dovrebbero far riflettere, ma ben pochi sembrano accorgersene; le
diverse scuole non possono mettersi d’accordo tra di loro, però rimane inteso
che si deve ammettere il progresso e l’evoluzione, senza di che non si potrebbe
probabilmente aver diritto alla qualità di «civilizzati».
Degna di nota è ancora un’altra osservazione: se si ricerca
quali siano i rami del preteso progresso di cui più si parla oggi, quelli a cui
sembra che nel pensiero dei nostri contemporanei tutti gli altri si riconducano,
ci si rende conto che essi si riducono a due, il «progresso materiale» e il
«progresso morale»; sono i soli che Jacques Bainville abbia citato come
compresi nell’idea corrente di «civiltà», e noi pensiamo che non abbia torto. È
vero che alcuni parlano anche di «progresso intellettuale», ma
quest’espressione, per loro, è essenzialmente un sinonimo di «progresso
scientifico», e si applica soprattutto allo sviluppo delle scienze sperimentali
e delle loro applicazioni. Ecco ricomparire dunque quella degradazione
dell’intelligenza che consiste nell’identificare quest’ultima con la più
ristretta e la più bassa di tutte le sue applicazioni: l’azione sulla materia
in vista della sola utilità pratica; in definitiva il cosiddetto «progresso
intellettuale» non è dunque che lo stesso «progresso materiale», e se
l’intelligenza si riducesse a questo sarebbe giocoforza accettare la
definizione che Bergson dà di essa. E in realtà, la maggior parte degli
Occidentali attuali non concepiscono che l’intelligenza possa essere qualcosa
di diverso; non si tratta neanche più della ragione in senso cartesiano, ma
della parte più infima di essa, delle sue operazioni più elementari, di quel
che rimane sempre strettamente legato a quel mondo sensibile di cui gli
Occidentali han fatto il campo unico ed esclusivo di ogni loro attività. Per
coloro che sanno dell’esistenza di qualcos’altro e danno ancora alle parole il
loro vero significato, la nostra non è affatto un’epoca di «progresso
intellettuale», ma, esattamente al contrario, un’epoca di decadenza, o meglio
ancora di profondo scadimento intellettuale; e poiché esistono modi di sviluppo
propriamente incompatibili, è proprio questo il prezzo del «progresso
materiale», il solo di cui l’esistenza sia un fatto reale in questi ultimi
secoli: progresso scientifico, se si vuole, ma in un’accezione estremamente
ristretta, e progresso industriale ben più ancora che scientifico.
Sviluppo materiale e intellettualità pura vanno veramente in
sensi opposti; chi si sprofonda nel primo si allontana necessariamente dalla
seconda; si tenga ben presente che diciamo intellettualità e non razionalità,
perché la sfera della ragione, in un certo modo, non è che intermedia tra
quella dei sensi e quella dell’intelletto superiore: pur se la ragione riceve
un riflesso di quest’ultimo (anche quando lo neghi e creda di essere la più
alta facoltà dell’essere umano), è sempre dai dati sensibili che essa trae le
nozioni che elabora. Intendiamo dire che la generalità,
oggetto proprio della ragione (e quindi della scienza, che della ragione è il
prodotto), se pur non è di ordine sensibile, procede tuttavia
dall’individualità, percepita dai sensi; si può dire che essa è di là dal
sensibile ma non al di sopra di esso. Di trascendente non c’è che l’universalità, oggetto dell’intelletto
puro, nei confronti della quale la stessa generalità rientra semplicemente
nell’individuale. È questa la distinzione fondamentale, da noi spiegata più
ampiamente altrove[7], tra la conoscenza
metafisica e la conoscenza scientifica; la ricordiamo qui perché l’assenza
totale della prima e lo sviluppo disordinato della seconda costituiscono i
caratteri più evidenti della civiltà occidentale nel suo stato presente.
Venendo alla concezione del «progresso morale», notiamo che
essa rappresenta il secondo elemento predominante della mentalità moderna: la
sentimentalità; e la presenza di questo elemento non ci induce affatto a
modificare il giudizio da noi formulato col dire che la civiltà occidentale è
esclusivamente materiale. Siamo perfettamente al corrente che qualcuno vuole
opporre la sfera del sentimento a quella della materia, facendo dello sviluppo
dell’uno una specie di contrappeso all’invadenza dell’altra, e prendere per
ideale l’equilibrio più stabile possibile tra questi due elementi
complementari. È forse questo, fondamentalmente, il pensiero degli
intuizionisti, i quali, associando indissolubilmente l’intelligenza con la
materia, tentano di affrancarsene servendosi di un istinto piuttosto mal
definito. Più certamente ancora è questo il pensiero dei pragmatisti, per i
quali la nozione di utilità, destinata a sostituire quella di verità, si
presenta contemporaneamente sotto l’aspetto materiale e sotto quello morale; si
vede da ciò quanto bene il pragmatismo esprima le tendenze particolari del
mondo moderno, e soprattutto del mondo anglosassone, che di esso è la parte più
rappresentativa.
Di fatto, materialità e sentimentalità, lungi dall’opporsi,
non possono esistere l’una senza l’altra, e insieme raggiungono il loro
sviluppo più estremo; di ciò abbiamo una prova in America, dove, come abbiamo
avuto occasione di notare nel nostri studi sul teosofismo e sullo spiritismo,
le peggiori stravaganze «pseudo-mistiche» nascono e si diffondono con
un’incredibile facilità, e ciò mentre l’industrialismo e la passione per gli
«affari» sono spinti a un grado che confina con la follia. Quando le cose
giungono a questo punto non è più un equilibrio che viene a stabilirsi tra le
due tendenze, sono due squilibrî che si sommano e invece di compensarsi si
aggravano a vicenda. Scoprire la ragione di questo fenomeno non è difficile:
dove l’intellettualità è ridotta al suo minimo è del tutto naturale che la
sentimentalità prenda il sopravvento. D’altronde, essa è per sua stessa natura
molto vicina alla sfera materiale: in tutto il campo della psicologia non vi è
nulla che sia così strettamente dipendente dall’organismo quanto la
sentimentalità, e, checché ne dica Bergson, è il sentimento, e non
l’intelligenza, che si presenta legato alla materia.
Sappiamo perfettamente quel che possono ribattere gli
intuizionisti: l’intelligenza, così come essi la concepiscono, è legata alla
materia inorganica (nelle loro concezioni sono sempre il meccanicismo
cartesiano e i suoi derivati a entrare in gioco); il sentimento, invece, è
legato alla materia vivente, la quale sembra loro occupare un grado più elevato
nella scala delle esistenze. Ma, inorganica o vivente, è sempre di materia che
si tratta, e in queste considerazioni non intervengono che cose sensibili;
decisamente è impossibile per la mentalità moderna, e per i filosofi che la
rappresentano, svincolarsi da questa limitazione. A rigore, quando ci si voglia
riferire al fatto che esiste una dualità di tendenze, bisognerebbe ricollegarne
una alla materia e l’altra alla vita, e questa distinzione può effettivamente
servire a classificare, in modo abbastanza soddisfacente, le grandi
superstizioni della nostra epoca; ma, ripetiamo, sono tutte cose dello stesso
ordine, che in realtà non si possono dissociare l’una dall’altra; si tratta di
cose situate sul medesimo piano, e non poste gerarchicamente l’una al di sopra
dell’altra. Il «moralismo» dei nostri contemporanei non è dunque altro che il
necessario complemento del loro materialismo pratico[8]; e
sarebbe perfettamente illusorio voler esaltare l’uno a detrimento dell’altro,
poiché, essendo necessariamente solidali, tutti e due si sviluppano
simultaneamente e nello stesso senso, senso che è quello di ciò che si è
convenuto chiamare «la civiltà».
Abbiamo visto per quale ragione le concezioni del «progresso
materiale» e del «progresso morale» siano inseparabili, e perché la seconda
occupi, in modo quasi costante come la prima, un posto considerevole nelle
preoccupazioni dei nostri contemporanei. Non abbiamo punto contestato
l’esistenza del «progresso materiale», ma solamente la sua importanza: quel che
sosteniamo è che esso non vale ciò che fa perdere dal punto di vista
intellettuale, e che per pensare diversamente bisogna ignorare tutto della vera
intellettualità; ora, cosa bisogna pensare della realtà del «progresso morale»?
È questa una questione che ci è quasi impossibile discutere seriamente, poiché,
nel campo del sentimento, tutto dipende esclusivamente dall’apprezzamento e
dalle preferenze individuali; ciascuno chiamerà «progresso» quel che è in
conformità con le sue proprie disposizioni, e, in definitiva, non si può dar
ragione più all’uno che all’altro. Coloro che sono sotto l’influsso di tendenze
in armonia con quelle della loro epoca non possono fare a meno di esser
soddisfatti del presente stato di cose, e ciò esprimono a loro modo dicendo che
quest’epoca è in progresso rispetto a quelle che l’hanno preceduta; ma spesso
questa soddisfazione delle loro aspirazioni sentimentali è ancora relativa,
poiché gli avvenimenti non si sviluppano sempre conformemente ai loro desideri,
e allora essi suppongono che il progresso continuerà nel corso delle epoche
future. I fatti vengono ogni tanto a smentire coloro che sono persuasi della
realtà del «progresso morale», inteso secondo la concezione che di esso si ha
più abitualmente, ma è sufficiente per costoro modificare un pochino le proprie
idee al riguardo, o trasportare in un avvenire più o meno lontano la
realizzazione del loro ideale; e del resto potrebbero trarsi d’impaccio
parlando anch’essi di un «ritmo del progresso». Generalmente, ed è ancora più
semplice, essi si affrettano a dimenticare la lezione dell’esperienza, come gli
incorreggibili sognatori che a ogni nuova guerra non mancano mai di
profetizzare che sarà l’ultima.
In fondo la credenza in un progresso indefinito non è che la
più ingenua e la più grossolana di tutte le forme di «ottimismo»; qualunque
siano le sue modalità, essa è dunque sempre di essenza sentimentale, anche
quando si tratti del «progresso materiale». Se si obiettasse che noi stessi
abbiamo riconosciuto l’esistenza di quest’ultimo, risponderemmo che non
l’abbiamo riconosciuta se non nei limiti in cui i fatti ce la presentano, e
che, con ciò, non ammettiamo affatto che esso debba, né possa, continuare
indefinitamente; del resto, siccome non ci pare affatto che il progresso sia
ciò che c’è di meglio al mondo, preferiremmo chiamarlo, invece di progresso,
semplicemente sviluppo.
Il termine «progresso» è motivo di inconvenienti incresciosi
non di per sé, ma per l’idea di «valore» che ha finito con l’esser legata quasi
invariabilmente ad esso. Questa considerazione ne suggerisce un’altra: anche
dietro il preteso «progresso morale» c’è una realtà che si dissimula, o, se si
preferisce, ne sostiene l’illusione; questa realtà è lo sviluppo della
sentimentalità, che, a parte ogni questione di apprezzamento, esiste infatti
nel mondo moderno in modo altrettanto incontestabile quanto lo sviluppo
dell’industria e del commercio (e abbiamo detto prima perché questi due
sviluppi sono inseparabili). Questo sviluppo, secondo noi eccessivo e anormale,
non può fare a meno di apparire come un progresso a coloro che mettono la
sentimentalità al di sopra di tutto. Si dirà forse che, poiché abbiamo parlato
di semplici preferenze, ci siamo alienati in partenza il diritto di dar loro
torto; ma non è così: quel che dicevamo si applica al sentimento e soltanto ad
esso, nelle sue variazioni da un individuo all’altro; se si tratta invece di
mettere il sentimento, considerato in generale, al suo giusto posto in
relazione con l’intelligenza, il discorso è un altro, poiché interviene una
gerarchia che è necessario rispettare. Il mondo moderno ha letteralmente
rovesciato i rapporti naturali dei differenti ordini; ancora una volta,
diminuzione nel campo dell’intellettualità (anzi, assenza dell’intellettualità
pura) ed esagerazione nel campo della materialità e in quello della
sentimentalità, sono cose strettamente legate l’una all’altra, e insieme fanno
della civiltà occidentale un’anomalia, per non dire una mostruosità.
Ecco come le cose appaiono quando vengano considerate fuori
da ogni pregiudizio; è in questo modo che le vedono i rappresentanti più
qualificati delle civiltà orientali, e ciò senza nessun partito preso da parte
loro, ché il partito preso è sempre cosa sentimentale e non intellettuale, e il
loro modo di guardare alle cose è puramente intellettuale. Se gli Occidentali
fanno fatica a comprendere questo atteggiamento, il fatto è che essi sono
invincibilmente portati a giudicare gli altri secondo il loro metro e ad
attribuir loro le proprie preoccupazioni e il proprio modo di pensare, e che il
loro orizzonte mentale è così ristretto da non permettergli di rendersi neppur
conto che possano esistere mentalità diverse; da ciò ha origine la loro totale
incomprensione di tutte le concezioni orientali. Sennonché questa
incomprensione non è affatto reciproca: gli Orientali, quando ne hanno
l’occasione e vogliono darsene la pena, non provano gran difficoltà a penetrare
e a comprendere le conoscenze speciali dell’Occidente, perché sono abituati a
speculazioni ben altrimenti vaste e profonde, e chi è capace del più è anche
capace del meno; in generale, però, non è che siano molto attratti da questo
lavoro, il quale rischia di far loro perdere di vista o almeno trascurare, per
ragioni da essi tenute per insignificanti, ciò che per loro è l’essenziale. La
scienza occidentale è analisi e dispersione, la conoscenza orientale è sintesi
e concentrazione; ma avremo occasione di riparlarne.
Comunque sia, quel che gli Occidentali chiamano civiltà gli
altri chiamerebbero piuttosto barbarie, giacché è proprio l’essenziale a
mancargli, cioè un principio di ordine superiore; e con qual diritto gli
Occidentali pretendono di imporre a tutti il loro modo di valutare le cose?
Inoltre, essi non dovrebbero dimenticare che sono soltanto una minoranza
nell’insieme dell’umanità terrestre; in effetti una considerazione di questo
genere non prova nulla ai nostri occhi, ma dovrebbe fare una qualche
impressione su gente che ha inventato il «suffragio universale» e crede nelle
sue virtù. E se ancora essi si limitassero a compiacersi nell’affermazione
della superiorità immaginaria che si attribuiscono, quest’illusione non
porterebbe danno che a loro; ma quel che è più terribile è il loro furore di
proselitismo: in essi lo spirito di conquista si traveste di pretesti
«moralistici», ed è in nome della «libertà» che essi vogliono costringere il
mondo intero a imitarli! La cosa più stupefacente è che, nella loro
infatuazione, gli Occidentali immaginino in buona fede di avere del «prestigio»
presso gli altri popoli; siccome sono temuti, come è temuta una forza bruta,
essi prendono ciò per ammirazione; un uomo che si senta minacciato da una
valanga è forse per questo pieno di rispetto e di ammirazione per essa? Per
esempio, la sola impressione che le invenzioni meccaniche suscitano in generale
negli Orientali, è un’impressione di profonda repulsione; tutto ciò sembra loro
molto più dannoso che utile, e se essi si trovano obbligati ad accettare certe
necessità dell’epoca attuale, è con la speranza di potersene sbarazzare un
giorno o l’altro; queste cose non li interessano e non li interesseranno mai
veramente.
Quel che gli Occidentali chiamano progresso, per gli
Orientali non è che cambiamento e instabilità; e il bisogno di cambiamento,
cosi caratteristico dell’èra moderna, è ai loro occhi un segno di manifesta
inferiorità: chi è pervenuto a uno stato di equilibrio non sente più questo
bisogno, così come chi sa non cerca più. In queste condizioni è certamente
difficile intendersi, giacché i medesimi fatti provocano interpretazioni
diametralmente opposte da una parte e dall’altra; che cosa accadrebbe se gli
Orientali volessero anch’essi, come gli Occidentali (e con gli stessi mezzi),
imporre il loro modo di vedere? Ma non si tema: niente è più contrario alla
loro natura della propaganda, e preoccupazioni del genere sono loro
completamente estranee; senza predicare la «libertà», essi lasciano che gli
altri pensino quel che vogliono, e anche quel che si pensa di loro gli è
completamente indifferente. In fondo, tutto quel che domandano è di essere
lasciati in pace; ma è proprio questo che gli Occidentali si rifiutano di
ammettere, i quali sono andati a cercarli in casa loro ‑ non bisogna
dimenticarlo ‑ e vi si sono comportati in modo tale che anche gli uomini più
pacifici possono a buon diritto esserne stati esasperati.
Ci troviamo così di fronte a una situazione di fatto che non
può durare indefinitamente; c’è un solo modo per gli Occidentali di rendersi
sopportabili, ed è che essi, per dirla nel linguaggio abituale della politica
coloniale, rinuncino all’«assimilazione» per praticare l’«associazione», e ciò
in tutti i campi; ma anche questo soltanto esige già una certa modificazione
della loro mentalità e la comprensione di qualcuna almeno delle idee che
andiamo esponendo.
[5] Frammento di un Traité du Vide.
[6] Nonostante l’influsso della «scuola sociologica», anche negli ambienti «ufficiali» vi sono studiosi che condividono il nostro pensiero su questo punto; in particolare, Georges Foucart, nell’introduzione alla sua opera intitolata Histoire des Religions et Méthode comparative, difende la tesi della «degenerazione», e cita molti autori che l’hanno condivisa. Il Foucart fa a questo proposito un’eccellente critica della «scuola sociologica» e dei suoi metodi, e dichiara testualmente che «non bisogna confondere il totemismo o la sociologia con l’etnologia seria».
[7] Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, parte 2a, cap. V.
[8] Diciamo materialismo pratico per designare una tendenza, e per distinguerla dal materialismo filosofico, che è una teoria, da cui questa tendenza non dipende necessariamente.