Oriente e Occidente
Parte seconda
Possibilità di riavvicinamento
IV
Intesa e non fusione
Tutte le civiltà orientali, nonostante la grande differenza
di forme che rivestono, sono comparabili fra di loro, perché hanno tutte un
carattere essenzialmente tradizionale; ogni tradizione ha la sua espressione e
le sue modalità proprie, ma dovunque vi sia tradizione, nel senso vero e profondo
della parola, necessariamente vi è accordo sui principi.
Le differenze risiedono unicamente nelle forme esteriori, nelle applicazioni contingenti, le quali sono naturalmente condizionate dalle circostanze ‑ particolarmente dai caratteri etnici ‑ e, per una determinata civiltà, possono anche variare entro determinati limiti, essendo questo un campo riservato all’adattamento.
Ma là dove permangono soltanto le forme esteriori, le quali non servono a tradurre più nulla che appartenga a un ordine più profondo, è naturale che, nei confronti delle altre civiltà, non vi possano più essere che differenze; nessun accordo è più possibile quando i principi siano scomparsi; ed è per questa ragione che la mancanza di un ricollegamento effettivo ad una tradizione ci appare come la radice stessa della deviazione occidentale. Per questo noi dichiariamo formalmente che il fine essenziale che l’élite intellettuale dovrà assegnare alla propria attività, nel caso che essa giunga a costituirsi, è il ritorno dell’Occidente a una civiltà tradizionale; ed aggiungiamo che, se mai si è avuto uno sviluppo propriamente occidentale in questo senso, è il Medio Evo che ne offre l’esempio, di modo che in fondo si tratterebbe, non diciamo di copiare o ricostruire semplicemente quanto è esistito a quell’epoca (cosa manifestamente impossibile, perché, checché ne possa pensare qualcuno, la storia non si ripete, e nel mondo esistono cose analoghe ma non identiche), bensì di trarne ispirazione per l’adattamento reso necessario dalle circostanze.
Le differenze risiedono unicamente nelle forme esteriori, nelle applicazioni contingenti, le quali sono naturalmente condizionate dalle circostanze ‑ particolarmente dai caratteri etnici ‑ e, per una determinata civiltà, possono anche variare entro determinati limiti, essendo questo un campo riservato all’adattamento.
Ma là dove permangono soltanto le forme esteriori, le quali non servono a tradurre più nulla che appartenga a un ordine più profondo, è naturale che, nei confronti delle altre civiltà, non vi possano più essere che differenze; nessun accordo è più possibile quando i principi siano scomparsi; ed è per questa ragione che la mancanza di un ricollegamento effettivo ad una tradizione ci appare come la radice stessa della deviazione occidentale. Per questo noi dichiariamo formalmente che il fine essenziale che l’élite intellettuale dovrà assegnare alla propria attività, nel caso che essa giunga a costituirsi, è il ritorno dell’Occidente a una civiltà tradizionale; ed aggiungiamo che, se mai si è avuto uno sviluppo propriamente occidentale in questo senso, è il Medio Evo che ne offre l’esempio, di modo che in fondo si tratterebbe, non diciamo di copiare o ricostruire semplicemente quanto è esistito a quell’epoca (cosa manifestamente impossibile, perché, checché ne possa pensare qualcuno, la storia non si ripete, e nel mondo esistono cose analoghe ma non identiche), bensì di trarne ispirazione per l’adattamento reso necessario dalle circostanze.
Questo è, testualmente, quel che noi abbiamo sempre detto,
ed è con intenzione che lo riproduciamo negli esatti termini di cui ci siamo
già serviti[1]; ci pare di essere stati
abbastanza netti da non lasciar adito a nessun equivoco. E tuttavia ci sono
state persone che ci hanno frainteso nel modo più singolare, ed hanno creduto
di poterci attribuire le intenzioni più strane, per esempio quella di voler
restaurare qualcosa di simile al «sincretismo» alessandrino; ritorneremo tra
poco sull’argomento, ma precisiamo già fin d’ora che, quando parliamo del Medio
Evo, ci riferiamo soprattutto al periodo che va dal regno di Carlo Magno
all’inizio del secolo XIV, il che è abbastanza lontano da Alessandria! È
veramente straordinario che, mentre affermiamo l’unità fondamentale di tutte le
dottrine tradizionali, si possa invece capire che si tratta di operare una
«fusione» fra tradizioni diverse, e non ci si renda conto che l’accordo sui
principi non presuppone affatto l’uniformità; forse che questa difficoltà
deriva anch’essa da quel difetto tutto occidentale che è l’incapacità di vedere
più in là delle apparenze esteriori? In tutti i casi, non ci pare inutile
tornare su questo punto e insistervi ulteriormente, in modo che le nostre
intenzioni non possano più venir così travisate; e poi, anche facendo
astrazione da questa opportunità, l’argomento non è privo d’interesse.
In virtù dell’universalità dei principi, come dicemmo, tutte
le dottrine tradizionali hanno un’identica essenza; la metafisica è e non può
essere che una sola, qualunque siano i modi diversi di esprimerla, nella misura
in cui essa è esprimibile, secondo il linguaggio che si ha a disposizione (il
quale d’altronde non ha mai altra funzione che quella di un simbolo); la
ragione di ciò risiede semplicemente nel fatto che la verità è una sola, ed
essendo in se stessa assolutamente indipendente dalle nostre concezioni, si
impone in ugual modo a tutti coloro che la comprendono. Due tradizioni vere non
possono perciò in nessun caso opporsi come contraddittorie; se esistono delle
dottrine che, essendo incomplete (e può darsi che lo siano sempre state, oppure
che una parte di esse sia andata perduta), si arrestano a certe concezioni, non
è men vero che, fino al punto a cui esse giungono, l’accordo con le altre
permane, anche se i loro attuali rappresentanti non ne hanno coscienza; per
tutto quel che è al di là non si tratta più né di accordo né di disaccordo, ed
è solo la mentalità sistematica che può far contestare l’esistenza di questo
«aldilà»; salvo questa negazione per partito preso, la quale assomiglia un po’
troppo a quelle che sono abituali alla mentalità moderna, tutto ciò che la
dottrina incompleta può fare, è di riconoscersi incompetente nei confronti di
quel che la oltrepassa. In ogni caso, se tra due tradizioni si scoprisse una
contraddizione apparente occorrerebbe trarne la conclusione, non che una sia
vera e l’altra falsa, ma che almeno una di esse è stata compresa in modo
imperfetto; ed esaminando le cose più da vicino ci si accorgerebbe che in
realtà si tratta di uno di quegli errori d’interpretazione a cui possono
condurre molto facilmente le differenze d’espressione quando non vi si è
sufficientemente abituati.
Per quel che ci riguarda, dobbiamo dire che noi, di fatto,
simili contraddizioni non le troviamo, mentre, al contrario, vediamo apparire
molto chiaramente, sotto le forme più diverse, l’unità essenziale della
dottrina; quel che più ci stupisce è che coloro che affermano il principio
dell’esistenza di una «tradizione primordiale» unica, comune a tutta l’umanità
alle sue origini, non vedano le conseguenze implicite in questa affermazione, o
non sappiano dedurle, e si accaniscano talvolta, come tutti gli altri, a
scoprire opposizioni del tutto immaginarie. Beninteso, non vogliamo parlare che
di dottrine veramente tradizionali, «ortodosse» se si vuole; i mezzi per
riconoscerle fra tutte le altre senza possibilità di errore esistono, così come
esistono i mezzi per determinare il livello esatto di comprensione a cui
qualsiasi dottrina corrisponde; ma non è di questo che vogliamo ora parlare.
Per riassumere in poche parole il nostro pensiero, possiamo dire questo: ogni
verità esclude l’errore, ma non esclude un’altra verità (o, per meglio dire, un
altro aspetto della verità); e, lo ripetiamo, ogni esclusivismo diverso da
questo non può essere che l’espressione di una mentalità sistematica,
incompatibile con la comprensione dei principi universali.
L’accordo, riferendosi essenzialmente ai principi, non può
essere veramente cosciente che per le dottrine che contengano almeno una parte
di metafisica o di intellettualità pura; cosciente non è per quelle che sono
strettamente limitate a una forma particolare, per esempio alla forma
religiosa. Tuttavia, anche in quest’ultimo caso, tale accordo esiste, nel senso
che le verità teologiche possono essere considerate come una traduzione di
talune verità metafisiche applicate a un punto di vista speciale; sennonché,
per far emergere l’accordo bisogna effettuare una trasposizione che restituisca
a tali verità il loro senso più profondo, e questo soltanto il metafisico è in
grado di farlo, poiché si pone al di sopra di tutte le forme particolari e di
tutti i punti di vista speciali. Metafisica e religione non sono e non saranno
mai sullo stesso piano; di conseguenza, una dottrina puramente metafisica e una
dottrina religiosa non possono né «farsi concorrenza» né entrare in conflitto
tra di loro, poiché i rispettivi domini sono nettamente diversi. D’altra parte,
da ciò consegue anche che l’esistenza di una dottrina unicamente religiosa non
è sufficiente a stabilire un’intesa profonda, come quella a cui pensiamo quando
parliamo del riavvicinamento intellettuale tra l’Oriente e l’Occidente; per
questo abbiamo insistito sulla necessità di compiere in primo luogo un lavoro
di carattere metafisico; soltanto in seguito la tradizione religiosa
dell’Occidente, rivivificata e restaurata nella sua pienezza potrebbe diventare
utilizzabile a questo fine, grazie all’aggiunta dell’elemento interiore che
attualmente le manca, ma che potrebbe benissimo venirle sovrapposto senza
cambiar nulla esteriormente. Se un’intesa fra i rappresentanti delle diverse
tradizioni è possibile, e noi sappiamo che in linea di principio nulla vi si
oppone, essa non potrà venir realizzata che dall’alto, di modo che ciascuna
tradizione conserverà sempre integralmente la propria indipendenza, e con essa
le forme che le sono proprie; la massa, pur partecipando ai benefici di una
tale intesa, non ne avrà comunque una coscienza diretta, poiché si tratta di
qualcosa che riguarda esclusivamente l’élite,
o addirittura «l’élite dell’élite» secondo l’espressione in uso
presso alcune scuole islamiche.
È facile rendersi conto di quanto tutto ciò sia diverso da non
sappiamo bene quale progetto di «fusione» che, per conto nostro, consideriamo
completamente irrealizzabile: una tradizione non è cosa che si possa inventare
o creare artificialmente; affastellando alla meno peggio elementi presi a
prestito da differenti dottrine non si riuscirà mai a costruire che una
pseudo-tradizione senza nessun valore o portata, e queste fantasie è meglio
lasciarle agli occultisti e ai teosofisti; per operare a questo modo bisogna
ignorare che cos’è veramente una tradizione e non capire nulla del senso reale
e profondo degli elementi che si tenta di riunire in un insieme più o meno
incoerente. Tutto ciò in fondo non è che una specie di «eclettismo», e non
esiste nulla a cui siamo più decisamente ostili, proprio perché vediamo l’accordo
profondo sotto la diversità delle forme, e perché, nello stesso tempo, vediamo
la ragion d’essere dì queste forme molteplici nella varietà delle condizioni
alle quali devono adattarsi. Se lo studio delle diverse dottrine tradizionali
ha una grandissima importanza, è proprio perché permette di constatare la
concordanza da noi qui affermata; sennonché non si tratta di dedurre da tale
studio una dottrina nuova, ché anzi tale deduzione, lungi dall’essere conforme
allo spirito tradizionale, gli sarebbe completamente opposta. È fuor di dubbio
che quando gli elementi di un certo ordine mancano ‑ e questo è proprio il
caso, nell’Occidente attuale, di tutto ciò che è puramente metafisico ‑ bisogna
cercarli altrove, dovunque essi possano trovarsi, ma non bisogna dimenticare
che la metafisica è essenzialmente universale, in modo tale che il caso in
questione è ben diverso da quel che sarebbe se si trattasse di elementi
appartenenti a qualche campo particolare. E per di più toccherebbe solo all’élite il compito di assimilare
l’espressione orientale, per fare in seguito opera di adattamento; la
conoscenza delle dottrine dell’Oriente, mediante un uso giudizioso
dell’analogia, permetterebbe di restaurare anche la tradizione occidentale
nella sua integralità, così come essa può permettere di capire le civiltà
scomparse: i due casi sono in tutto accostabili, perché occorre ammettere che,
per la maggior parte, la tradizione occidentale è attualmente perduta.
Mentre noi consideriamo una sintesi trascendente come unico
punto di partenza possibile di tutte le ulteriori realizzazioni, qualcuno
immagina che si possa trattare di un «sincretismo» più o meno confuso; e
tuttavia si tratta di due cose che non hanno nulla in comune, tra le quali,
anzi, non esiste il minimo rapporto. Così esistono persone che non possono
sentir pronunciare la parola «esoterismo» (di cui, si deve convenire, non
abusiamo certamente) senza pensare immediatamente all’occultismo o ad altre
cose dello stesso genere, nelle quali di vero esoterismo non c’è la minima
traccia; è incredibile come le pretese più ingiustificate vengano così
facilmente ammesse proprio da coloro che avrebbero il più grande interesse a
respingerle; il solo mezzo efficace di combattere l’occultismo è di mostrare
come esso sia completamente privo di serietà, come sia un’invenzione del tutto
moderna, e nello stesso tempo come l’esoterismo vero sia in realtà tutt’altra
cosa.
Ci sono poi altri che, a causa di una diversa confusione,
credono di poter tradurre «esoterismo» con «gnosticismo»; si tratta, in questo
caso, di concezioni autenticamente più antiche, ma non per questo la loro
interpretazione è più esatta e più giusta. È piuttosto difficile sapere oggi in
modo preciso cosa furono le dottrine piuttosto varie che vengono riunite sotto
la generica denominazione di «gnosticismo», tra le quali vi sarebbero
indubbiamente da fare molte distinzioni; nell’insieme pare che si sia trattato
di idee orientali più o meno deformate, probabilmente mal comprese dai Greci, e
rivestite di forme immaginative del tutto incompatibili con l’intellettualità
pura; senza gran fatica si possono certo trovare cose più degne d’interesse,
meno contaminate da elementi eterocliti, di valore meno dubbio e di significato
molto più sicuro. Approfittiamo di questa occasione per aggiungere qualche
precisazione a proposito del periodo alessandrino in generale: che in quel
momento i Greci si siano trovati in contatto abbastanza diretto con l’Oriente,
e che il loro spirito si sia in tal modo aperto a concezioni alle quali fino a
quel momento era rimasto chiuso, ci pare incontestabile; purtroppo il risultato
sembra essere rimasto molto più vicino al «sincretismo» che alla vera sintesi.
Non vorremmo deprezzare oltre misura dottrine come quelle
dei neoplatonici, le quali, in ogni caso, sono incomparabilmente superiori a
tutte le concezioni della filosofia moderna; ma in fondo è certamente
preferibile risalire alla fonte orientale che non passare attraverso degli
intermediari, e per di più ciò ha il vantaggio di essere molto più facile, giacché
le civiltà orientali esistono tuttora, mentre la civiltà greca, in realtà, non
ha avuto continuatori. Quando si conoscano le dottrine orientali ci si può
servire di esse per comprendere meglio quelle dei neoplatonici, e altre, più
puramente greche, giacché, nonostante le considerevoli differenze, l’Occidente
era allora ben più vicino all’Oriente di quanto non sia attualmente; ma
l’inverso non è possibile, e a voler affrontare lo studio dell’Oriente passando
attraverso la Grecia ci si esporrebbe certo a un gran numero di errori. Del
resto, per supplire a quel che manca all’Occidente non c’è altra soluzione che
rivolgersi a ciò che ha conservato un’esistenza effettiva; non si tratta di
fare dell’archeologia, né le cose di cui parliamo hanno alcunché a vedere con i
divertimenti degli eruditi; se la conoscenza dell’antichità può servire a
qualcosa, non è che nella misura in cui essa può aiutare a capire realmente
certe idee, e a confermare quell’unità dottrinale nella quale tutte le civiltà
s’incontrano; tutte, ad eccezione della sola civiltà moderna, la quale, non
possedendo né principi né dottrina, è tagliata fuori dalle vie normali
dell’umanità.
Se non si può ammettere nessun tentativo di fusione tra
dottrine differenti, neppure potrà trattarsi di sostituire una tradizione con
un’altra; non solo la molteplicità delle forme tradizionali non implica nessun
inconveniente, ma, al contrario, presenta dei vantaggi sicuri; pur essendo
tutte queste forme pienamente equivalenti, ognuna di esse ha la sua ragion d’essere,
non foss’altro che perché è più appropriata di ogni altra alle condizioni di un
determinato ambiente. La tendenza a «uniformizzare» tutte le cose procede, come
abbiamo detto, dai pregiudizi ugualitaristici; volendola applicare qui si
farebbe dunque una concessione alla mentalità moderna, concessione che, anche
se involontaria, sarebbe nondimeno reale e non potrebbe che avere conseguenze
deplorevoli. È solo nel caso in cui l’Occidente si mostrasse definitivamente
impotente a ritornare a una civiltà normale che potrebbe essergli imposta una
tradizione estranea; ma in questo caso non si tratterebbe più di una fusione,
giacché non rimarrebbe più nulla di specificamente occidentale; né si
tratterebbe di sostituzione, poiché per giungere a un tale estremo occorrerebbe
che l’Occidente avesse perduto anche le ultime vestigia di spirito
tradizionale, ad eccezione di una piccola élite,
senza la quale, non essendo neppure più in grado di accogliere la tradizione
estranea, esso precipiterebbe inevitabilmente nella peggiore barbarie.
Ripetiamo però che è ancora permesso sperare che le cose non giungano fino a
questo punto, e che l’élite possa
costituirsi pienamente e portare a termine la sua opera, in modo che
l’Occidente non solo si salvi dal caos e dalla dissoluzione, ma ritrovi i
principi e i mezzi di uno sviluppo che gli sia proprio, pur armonizzandosi con
quello delle altre civiltà.
Quanto alla funzione dell’Oriente a questo riguardo,
riassumiamola ancora una volta, per maggior chiarezza, nel modo più preciso possibile;
da questo punto di vista possiamo anche distinguere il periodo della
costituzione dell’élite da quello
della sua azione effettiva. Nel primo periodo è attraverso lo studio delle
dottrine orientali, più che con qualsiasi altro mezzo, che coloro che saranno
chiamati a far parte di tale élite
potranno acquisire e sviluppare in se stessi la pura intellettualità, poiché in
Occidente non gli sarebbe dato di trovarla; ed è in questo stesso modo che essi
potranno apprendere che cos’è, nei suoi diversi elementi, una civiltà
tradizionale, poiché solo la conoscenza più diretta possibile è in un caso
simile valida, ad esclusione di ogni sapere semplicemente «libresco», il quale,
in se stesso, non è utilizzabile al fine che indichiamo. Perché lo studio delle
dottrine orientali sia veramente quel che dev’essere, è necessario che certe
individualità servano da intermediari ‑ come abbiamo già spiegato ‑ tra i
detentori di tali dottrine e l’élite
occidentale in formazione; per questo parliamo, per quest’ultima, soltanto di
una conoscenza che sia la più diretta possibile, e non assolutamente diretta,
per lo meno all’inizio. Ma in seguito, quando un primo lavoro d’assimilazione
fosse stato compiuto, nulla impedirebbe all’élite
stessa (giacché l’iniziativa dovrebbe provenire da quest’ultima) di fare
appello, in modo più immediato, ai rappresentanti delle tradizioni orientali; e
costoro, venendosi a trovare interessati alle sorti dell’Occidente a causa
della presenza di tale élite, non
mancherebbero di rispondere a questo appello, poiché la sola condizione che
esigano è la comprensione (e d’altronde quest’unica condizione è imposta dalla
forza delle cose); da parte nostra, possiamo affermare che non abbiamo mai
visto nessun Orientale persistere a rinchiudersi nel proprio abituale riserbo
quando si trovi in presenza di qualcuno che egli giudichi in grado di capirlo.
È così nel secondo periodo che l’appoggio degli Orientali
potrebbe manifestarsi effettivamente; abbiamo accennato in precedenza alla
ragione per cui tale aiuto presupporrebbe un’élite già costituita, vale a dire, in altre parole,
un’organizzazione occidentale in grado di entrare in relazione con le
organizzazioni orientali che lavorano nell’ordine dell’intellettualità pura, e
di ricevere da esse, per la propria azione, l’aiuto che possono procurare forze
accumulate da tempo immemorabile. In tal caso gli Orientali saranno sempre, per
gli Occidentali, delle guide e dei «fratelli maggiori; ma l’Occidente, senza
pretendere di poter trattare con essi da pari a pari, otterrà tuttavia di
essere considerato come una potenza autonoma, e ciò esclusivamente per il fatto
di possedere una organizzazione di tal genere; ed inoltre la profonda
ripugnanza che gli Orientali provano per tutto ciò che assomigli al
proselitismo sarà una garanzia sufficiente per la sua indipendenza. Gli
Orientali non hanno nessun particolare desiderio di assimilare l’Occidente:
essi preferiranno sempre di gran lunga favorire uno sviluppo occidentale
conforme al principi, per poco che ne vedano le possibilità; ed è proprio a
coloro che faranno parte dell’élite
che toccherà dimostrare l’esistenza di queste possibilità, provando con il loro
esempio che la decadenza intellettuale dell’Occidente non è irrimediabile. Si
tratta dunque, non di imporre all’Occidente una tradizione orientale, con forme
che non corrispondono alla sua mentalità, ma di restaurare una tradizione
occidentale con l’aiuto dell’Oriente: aiuto dapprima indiretto e poi diretto,
oppure, se si vuole, ispirazione nel primo periodo e appoggio effettivo nel
secondo. Sennonché, quel che non è possibile per gli Occidentali in generale
deve essere possibile per l’élite:
perché quest’ultima possa realizzare gli adattamenti necessari essa deve aver
prima di tutto penetrato e compreso le forme tradizionali esistenti altrove; ed
è anzi necessario che essa vada al di là di tutte le forme, qualunque esse
siano, per impadronirsi di ciò che costituisce l’essenza di tutte le
tradizioni. È in questa direzione che dovrà ancora proseguire l’opera dell’élite anche quando l’Occidente sarà
nuovamente in possesso di una civiltà regolare e tradizionale: essa costituirà
allora l’organo attraverso il quale la civiltà occidentale comunicherà in modo
permanente con le altre civiltà, poiché tale comunicazione non può essere stabilita
e mantenuta se non per mezzo di ciò che è più elevato in ciascuna di esse; per
non essere semplicemente accidentale, essa presuppone la presenza di uomini
che, per ciò che li riguarda direttamente, siano svincolati da ogni forma
particolare, abbiano piena coscienza di quel che c’è dietro le forme, e,
situandosi nel dominio dei principi più trascendenti, possano partecipare
indistintamente a tutte le tradizioni. In altre parole, sarebbe necessario che
l’Occidente arrivasse infine a possedere dei rappresentanti in quello che
simbolicamente viene designato come il «centro del mondo», o con altre
espressioni equivalenti (il che non si deve intendere in modo letterale, come
indicante un luogo determinato); però queste sono cose troppo lontane e al
momento attuale troppo inaccessibili (e senza dubbio tali resteranno ancora per
molto tempo) perché sia veramente utile insistere su di esse.
E adesso, poiché per risvegliare l’intellettualità
occidentale è necessario incominciare dallo studio delle dottrine dell’Oriente
(intendiamo uno studio vero e profondo, con tutto ciò che esso comporta quanto
allo sviluppo personale di coloro che vi si dedicano, e non uno studio
esteriore e superficiale, alla maniera degli orientalisti), dobbiamo indicare i
motivi per cui conviene, in generale, rivolgersi specificamente ad una di tali
dottrine a preferenza delle altre. Effettivamente ci si potrebbe chiedere
perché prendiamo come punto d’appoggio principale l’India, e non piuttosto la
Cina, o perché non consideriamo più utile basarci su quel che è più vicino
all’Occidente, vale a dire sull’aspetto esoterico della dottrina islamica. Ci
limiteremo in ogni caso alla considerazione di queste tre grandi divisioni
dell’Oriente; tutto il resto è, o di minore importanza, o, come le dottrine
tibetane, talmente ignorato dagli Europei che sarebbe estremamente difficile
parlargliene in modo intelligibile prima che abbiano capito altre cose, meno
totalmente estranee al loro modo abituale di pensare.
Per quanto riguarda la Cina, le ragioni per non rivolgersi
ad essa in primo luogo sono del medesimo genere: le forme attraverso le quali
si esprimono le sue dottrine sono veramente troppo lontane dalla mentalità
occidentale, e i metodi d’insegnamento che vi sono in uso sono di natura tale
che scoraggerebbero in breve tempo anche gli Europei meglio dotati; ben pochi
potrebbero resistere a un lavoro intrapreso seguendo simili metodi, e pur se
occorre in ogni caso operare una selezione rigorosissima, bisogna tuttavia
evitare il più possibile le difficoltà che avrebbero unicamente origine dalle
contingenze, e proverrebbero più dal temperamento inerente alla razza che non
da un reale difetto di facoltà intellettuali. Le forme d’espressione delle
dottrine indù, pur essendo ancora estremamente diverse da tutte quelle a cui il
pensiero occidentale è abituato, sono relativamente più assimilabili, e offrono
più larghe possibilità di adattamento; potremmo dire che, a questo riguardo,
l’India, occupando una posizione intermedia nell’insieme dell’Oriente, non è né
troppo lontana né troppo vicina all’Occidente.
Di fatto, appoggiandosi su ciò che è più vicino nascerebbero
altri inconvenienti, i quali, pur essendo di carattere diverso da quelli da noi
prima segnalati, non sarebbero tuttavia meno gravi; e forse, a compensarli, non
verrebbero neppure molti reali vantaggi, giacché la civiltà islamica è quasi
altrettanto mal conosciuta dagli Occidentali quanto le civiltà più orientali,
soprattutto nella sua parte metafisica, la quale è appunto quella che a noi
interessa e a loro sfugge completamente. È vero che tale civiltà, con i suoi
due volti esoterico ed exoterico, e con la forma religiosa che il secondo
riveste, è ciò che c’è di più simile a quel che sarebbe una civiltà
tradizionale occidentale; sennonché, proprio la presenza di tale forma
religiosa, grazie alla quale l’Islâm più si avvicina all’Occidente, rischia di
risvegliare tali suscettibilità che, per quanto poco giustificate, non
sarebbero tuttavia senza pericolo: coloro che sono incapaci di far la
distinzione fra i diversi domini sarebbero erroneamente spinti a pensare ad una
concorrenza sul terreno religioso; e certamente nella massa occidentale (nella
quale comprendiamo anche la maggioranza degli pseudo-intellettuali) esiste
molto più odio per tutto ciò che è islamico che non per quanto concerne il
resto dell’Oriente. È vero che una delle cause principali di quest’odio è
rappresentata dalla paura, e che tale stato d’animo è soltanto dovuto
all’incomprensione; ma tant’è, finché esso esiste, la più elementare prudenza
esige che se ne tenga conto almeno in una certa misura; l’élite in via di formazione avrà già il suo da fare per vincere
l’ostilità che inevitabilmente le si opporrà da molte parti, e non è certo il
caso di accrescerla inutilmente dando esca alle false supposizioni che la
stupidità e la malevolenza insieme combinate non mancherebbero di accreditare;
di false supposizioni ve ne saranno probabilmente in ogni caso, ma quando è
possibile prevederle è opportuno fare in modo che non si producano, sempre che la
cosa sia fattibile senza che ciò implichi altre conseguenze, ancora peggiori. È
per questa ragione che non ci pare opportuno appoggiarsi principalmente
sull’esoterismo islamico; ma ciò naturalmente non impedisce che tale
esoterismo, di essenza propriamente metafisica, offra l’equivalente di quanto
si trova nelle altre dottrine; si tratta dunque, lo ripetiamo, di una semplice
questione di opportunità, dovuta al fatto che conviene mettersi nelle
condizioni più favorevoli, e perciò non mette in gioco i principi.
Del resto, se noi assumiamo la dottrina indù come centro
dello studio in questione, ciò non implica che dobbiamo riferirci ad essa in
modo esclusivo; al contrario, è importante far rilevare, quando se ne presenti
l’occasione e ogni volta che le circostanze vi si presteranno, la concordanza e
l’equivalenza di tutte le dottrine metafisiche. Importa mettere in evidenza il
fatto che sotto differenti espressioni si celano concezioni identiche, e
identiche perché corrispondenti tutte alla stessa verità; talvolta, anzi,
esistono analogie tanto più impressionanti in quanto si riferiscono a punti
estremamente particolari, e addirittura una certa comunanza di simboli fra
tradizioni diverse; su tutte queste cose non si attirerà mai troppo
l’attenzione, né constatare tali reali rassomiglianze significa affatto fare
del «sincretismo» od operare una «fusione», trattandosi di una specie di
parallelismo che esiste fra tutte le civiltà di carattere tradizionale, il
quale non può stupire se non uomini che non credano a nessuna verità
trascendente, nello stesso tempo esteriore e superiore alle concezioni umane.
Dal canto nostro non pensiamo che civiltà come quelle
dell’India e della Cina abbiano dovuto necessariamente comunicare tra di loro
in modo diretto nel corso del loro sviluppo; ciò non impedisce che, accanto a
diversità nettissime (le quali hanno la loro spiegazione sia nelle condizioni
etniche sia in altre condizioni), esse presentino delle rassomiglianze
notevoli; e non parliamo qui della sfera metafisica, in cui l’equivalenza è
sempre perfetta ed assoluta, ma solo delle applicazioni nel campo delle
contingenze. Naturalmente occorre sempre fare una riserva per ciò che ha potuto
appartenere alla «tradizione primordiale»; sennonché, essendo essa, per
definizione, anteriore allo sviluppo speciale delle civiltà di cui trattiamo,
la sua esistenza non esclude affatto la loro indipendenza reciproca.
D’altronde, la «tradizione primordiale dev’essere considerata come riferentesi
essenzialmente ai principi; ora, su questo terreno vi è sempre stata, come
abbiamo già accennato, una certa comunicazione permanente, stabilita
all’interno e dall’alto; ma neppure questo influisce sull’indipendenza delle
diverse civiltà. Sennonché, quando ci si trova di fronte a certi simboli
dappertutto uguali, è evidente che bisogna in ciò riconoscere una
manifestazione di quella fondamentale unità di tutte le tradizioni, così
generalmente disconosciuta ai nostri giorni, che gli «scientisti» si affannano
a negare come se si trattasse di una cosa che li mette particolarmente a
disagio; tali somiglianze non possono essere fortuite, tanto più che le
modalità d’espressione sono, per loro stessa natura, suscettibili di indefinite
variazioni.
Insomma, l’unità, per chi sappia vederla, è dappertutto
sotto la diversità; essa è soggiacente alla diversità in quanto conseguenza
dell’universalità dei principi: che la verità s’imponga in modo identico a
uomini che non hanno nessuna relazione immediata tra di loro, o che effettivi
rapporti intellettuali vengano mantenuti tra i rappresentanti di civiltà
diverse, l’una e l’altra cosa sono rese possibili grazie a questa universalità;
e se essa non fosse assentita coscientemente almeno da qualcuno, non potrebbe
esistere accordo veramente stabile e profondo. Ciò che vi è di comune in tutte
le civiltà normali sono i principi; se essi fossero persi di vista, di ognuna
di esse non rimarrebbero che i caratteri particolari, a motivo dei quali
ciascuna differisce dalle altre, e anche le rassomiglianze diverrebbero
puramente superficiali, non essendo più conosciuta la loro vera ragion
d’essere. Certo non è completamente falso riferirsi, per spiegare certe
rassomiglianze di carattere generale, all’unità della natura umana, sennonché
ciò viene fatto abitualmente in modo estremamente vago e del tutto
insufficiente, e d’altronde le differenze mentali sono molto più grandi e vanno
ben oltre quel che possono immaginare coloro che non conoscono se non un unico
tipo di umanità. Questa stessa unità non può venir compresa chiaramente e ricevere
il suo pieno significato senza una certa conoscenza dei principi, in mancanza
della quale essa assume un carattere financo illusorio; la vera natura della
specie e la sua realtà profonda sono cose di cui un semplice empirismo non può
essere in grado di rendere conto.
Ma ritorniamo alla questione che ci ha condotti a queste
considerazioni: non si tratterebbe in nessun modo di «specializzarsi» nello
studio della dottrina indù, poiché la sfera della pura intellettualità è tale
da sfuggire a qualsiasi specializzazione. Tutte le dottrine metafisicamente
complete sono pienamente equivalenti, e possiamo perfino dire che esse sono in
fondo necessariamente identiche; l’unica cosa da chiedersi è dunque quale di
esse presenti i maggiori vantaggi di esposizione, e pensiamo che, in via
generale, questa sia la dottrina indù; per questa ragione, e per questa ragione
soltanto, noi la assumiamo come base. Se tuttavia capitasse che taluni punti
fossero trattati da altre dottrine in una forma che appaia più assimilabile, non
vedremmo ovviamente nessun inconveniente a ricorrere ad esse; si tratterebbe
anzi di un altro modo di render manifesta quella concordanza di cui abbiamo
parlato. Diremo di più: la tradizione, lungi dall’essere un ostacolo agli
adattamenti che le circostanze esigono, ha sempre fornito il principio adeguato
di tutti quelli che si sono rivelati necessari, e tali adattamenti sono
assolutamente legittimi, in quanto si mantengono nella linea strettamente
tradizionale, da noi chiamata anche «ortodossia». Se dunque nuovi adattamenti
si impongono, il che è tanto più naturale in quanto si tratta di un ambiente
diverso, nulla si oppone a che essi vengano formulati ispirandosi a quelli che
già esistono, tenendo però anche conto delle condizioni mentali dell’ambiente, purché
ciò si faccia con la debita prudenza e competenza, e purché si abbia prima
compreso profondamente lo spirito tradizionale, con tutto ciò che esso
comporta; questo è quanto l’élite
intellettuale dovrà fare, presto o tardi, per tutto ciò di cui sarà impossibile
ritrovare un’espressione occidentale anteriore.
È evidente quanto tutto ciò sia lontano da una prospettiva
«erudita»: di per se stessa, la provenienza di un’idea non ci interessa
affatto, poiché quando un’idea è vera essa è indipendente dagli uomini che
l’hanno espressa sotto questa o quella forma; qui le contingenze storiche non
intervengono assolutamente. Per altro, siccome non abbiamo la pretesa di aver
assimilato da soli e senza nessun aiuto le idee che sappiamo esser vere,
crediamo sia bene dire da chi esse ci sono state trasmesse, tanto più che in
tal modo possiamo indicare ad altri in quale direzione possono dirigersi per
trovarle a loro volta; e, di fatto, queste idee noi le dobbiamo unicamente agli
Orientali. Per quel che riguarda l’antichità delle idee, anch’essa, se la si
considera esclusivamente dal punto di vista storico, non ha punto un interesse
capitale; tale questione assume tutto un altro aspetto soltanto quando la si
ricolleghi all’idea di tradizione, ma allora, se si riesce a capire veramente
che cos’è quest’ultima, la questione è risolta in modo immediato, perché si
saprà che tutto si trovava implicito in modo principiale, fin dall’origine, in
quella che è l’essenza stessa della dottrina, e che non s’ebbe altro da fare
che dedurlo da essa in uno sviluppo che, nel suo fondamento se non nella sua
forma, non è passibile di alcuna innovazione.
Indubbiamente una certezza del genere non è quasi
comunicabile; ma se qualcuno la possiede, perché non potrebbero giungere ad
essa anche altri, per loro proprio conto, soprattutto se gliene si fornissero i
mezzi in tutta la misura in cui essi possono essere forniti? La «catena della
tradizione» si riannoda talvolta in modi assai inaspettati; ed esistono uomini
che, anche se credono di aver concepito spontaneamente certe idee, hanno invece
ricevuto un aiuto che, pur non essendo coscientemente percepito, non è per
questo stato meno efficace; a maggior ragione questo aiuto non può mancare a
chi si metta espressamente nelle disposizioni volute per ottenerlo. Beninteso,
non intendiamo affatto negare qui la possibilità dell’intuizione intellettuale
diretta, che noi anzi affermiamo assolutamente indispensabile, e senza di cui
non esiste concezione metafisica effettiva; ma occorre esservi preparati, e, quali
siano le facoltà latenti di un individuo, dubitiamo che egli possa svilupparle
con i suoi soli mezzi; per lo meno, occorrerà che una circostanza qualsiasi
fornisca l’occasione di tale sviluppo. Questa circostanza, indefinitamente
variabile secondo i casi particolari, non è mai fortuita se non in apparenza;
in realtà essa è suscitata da un’azione le cui modalità, benché sfuggano a ogni
osservazione esteriore, possono essere presentite da coloro che capiscono come
la «posterità spirituale» sia tutto meno che una vana parola.
È tuttavia importante sottolineare come casi simili siano
sempre eccezionali, e come, anche se si producono in mancanza di una
trasmissione continua e regolare attuatesi per mezzo di un insegnamento
tradizionale organizzato (se ne potrebbe trovare qualche esempio in Europa e
anche in Giappone), essi non possono mai supplire interamente a quest’assenza,
prima di tutto perché sono rari e isolati, e poi perché portano
all’acquisizione di conoscenze le quali, qualunque valore possano avere, sono
sempre soltanto frammentarie; bisogna poi ancora aggiungere che non si possono
fornire nello stesso tempo i mezzi per coordinare ed esprimere quanto venga
concepito in tal modo, e così il vantaggio che se ne può trarre rimane quasi
esclusivamente personale[2].
Certo è già qualcosa, ma non bisogna dimenticare che, anche dal punto di vista
di questo vantaggio personale, una realizzazione parziale e incompleta, come
quella che può essere ottenuta in un simile caso non è che un mediocre
risultato in confronto alla vera realizzazione metafisica che tutte le dottrine
orientali assegnano all’uomo come fine supremo (e che, sia detto per inciso,
non ha assolutamente niente a che vedere con il «sonno quietistico», bizzarra
interpretazione che abbiamo incontrato da qualche parte, e che non trova certo
giustificazioni in tutto quello che abbiamo detto). Per di più, quando la
realizzazione non sia stata preceduta da una preparazione teorica sufficiente,
possono verificarsi disparate confusioni, ed esiste sempre la possibilità di
perdersi in qualcuno di quei domini intermedi nei quali non si è affatto
protetti contro l’illusione; solo nel dominio della metafisica pura si può
avere una tale garanzia, la quale, acquisita una volta per sempre, permette di
affrontare in seguito senza pericoli qualunque altro dominio, come già abbiamo
spiegato.
La verità di fatto può sembrare quasi trascurabile di fronte
alla verità delle idee; tuttavia anche nella sfera delle contingenze vi sono
gradi diversi da osservare, ed esiste un modo di considerare le cose,
ricollegandole ai principi, che conferisce loro un’importanza del tutto diversa
da quella che hanno di per se stesse; quanto abbiamo detto a proposito delle
«scienze tradizionali»dovrebbe essere sufficiente a farlo capire. Non è il caso
di impastoiarsi in questioni di cronologia, le quali sono spesso insolubili,
almeno con i metodi della storia ordinaria; ma non è indifferente sapere che
certe idee appartengono a una dottrina tradizionale, e altresì che certi modi
di presentarle hanno un carattere ugualmente tradizionale; non pensiamo sia il
caso di insisterci ancora dopo tutte le considerazioni che siamo andati
esponendo. In ogni caso, se la verità di fatto, che rappresenta qualcosa di
accessorio, non deve far perdere di vista la verità delle idee, che è
l’essenziale, si avrebbe tuttavia torto a voler rifiutare di tener conto dei
vantaggi supplementari che la prima può procurare, e che, pur essendo come essa
contingenti, non sempre sono da disprezzare. Sapere che certe idee ci sono
state fornite dagli Orientali è una verità di fatto, ed è certo meno importante
della loro comprensione e del riconoscimento della loro intrinseca verità; né,
se la loro provenienza fosse stata diversa, vedremmo in ciò una ragione per
scartarle a priori; ma poiché da
nessuna parte in Occidente abbiamo trovato l’equivalente di tali idee
orientali, ci pare opportuno dirlo. Presentando certe idee come se si fossero
inventate in qualche modo di sana pianta, dissimulando la loro vera origine, si
potrebbe certamente ottenere un facile successo; sennonché questi sono
procedimenti che non possiamo accettare, e per di più, secondo il nostro modo
di vedere, ciò equivarrebbe a toglier loro ogni vera portata e autorità,
riducendole ad essere, almeno in apparenza, nient’altro che una «filosofia»,
quando in realtà esse sono tutt’altro; ancora una volta, eccoci obbligati a
ritornare sulla questione dell’individuale e dell’universale, fondamentale per
tutte le distinzioni di questo genere.
Ma rimaniamo per il momento nel campo delle contingenze:
dichiarando formalmente che è in Oriente che la conoscenza intellettuale pura
può essere ottenuta, e nello stesso tempo sforzandosi di risvegliare
l’intellettualità occidentale, si prepara, nel solo modo efficace, il
riavvicinamento tra Oriente e Occidente; noi speriamo che si sarà compresa la
ragione per cui questa possibilità non deve esser trascurata, perché è a questo
che principalmente tende tutto quel che siamo andati dicendo fin qui. La
restaurazione di una civiltà normale in Occidente può essere null’altro che una
contingenza; ma, lo ripetiamo, è questa una ragione per disinteressarsene
completamente, anche quando si è prima di tutto dei metafisici? E d’altronde,
oltre all’importanza che presentano cose del genere nel loro ordine relativo,
esse possono essere il mezzo di realizzazioni che non appartengono più alla
sfera delle contingenze, e che, per tutti coloro che vi parteciperanno
direttamente o anche indirettamente, avranno conseguenze di fronte alle quali
ogni cosa transitoria è cancellata e sparisce. Di tutto ciò esistono ragioni
molteplici, e le più profonde non sono forse quelle su cui abbiamo insistito
maggiormente, poiché non potevamo metterci a esporre in questo studio le teorie
metafisiche (e in qualche caso anche cosmologiche, per quanto riguarda ad
esempio le «leggi cicliche») senza le quali tali ragioni non possono essere
pienamente comprese; questo abbiamo intenzione di farlo in altri studi, che
seguiranno quando ne sarà il momento. Come dicevamo all’inizio, non ci è
possibile spiegare tutto in una volta; però non affermiamo nulla gratuitamente,
e siamo coscienti, in mancanza di molti altri meriti, di avere almeno quello di
parlare esclusivamente di ciò che conosciamo. Se dunque vi è qualcuno che si
stupisca di certe considerazioni a cui non è abituato, si dia la pena di
rifletterci più attentamente, e forse allora si accorgerà che queste
considerazioni, lungi dall’essere inutili o superflue, sono invece fra le più
importanti, o che quel che gli pareva a prima vista allontanarsi dal nostro
tema è al contrario ciò che più gli è attinente. Esistono infatti delle cose
che sono legate fra di loro in un modo molto diverso da quello che si
concepisce abitualmente, e la verità ha molti aspetti che la maggior parte
degli Occidentali non sospettano neppure; per la qual cosa in ogni occasione
temiamo piuttosto di dare l’impressione di circoscrivere troppo le cose con
l’espressione di cui le rivestiamo, che non di lasciar intravedere troppo vaste
possibilità.