"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

martedì 18 febbraio 2014

René Guénon, Oriente e Occidente, II-IV Intesa e non fusione

René Guénon
Oriente e Occidente

Parte seconda
Possibilità di riavvicinamento

IV
Intesa e non fusione

Tutte le civiltà orientali, nonostante la grande differenza di forme che rivestono, sono comparabili fra di loro, perché hanno tutte un carattere essenzialmente tradizionale; ogni tradizione ha la sua espressione e le sue modalità proprie, ma dovunque vi sia tradizione, nel senso vero e profondo della parola, necessariamente vi è accordo sui principi.
Le differenze risiedono unicamente nelle forme esteriori, nelle applicazioni contingenti, le quali sono naturalmente condizionate dalle circostanze ‑ particolarmente dai caratteri etnici ‑ e, per una determinata civiltà, possono anche variare entro determinati limiti, essendo questo un campo riservato all’adattamento.
Ma là dove permangono soltanto le forme esteriori, le quali non servono a tradurre più nulla che appartenga a un ordine più profondo, è naturale che, nei confronti delle altre civiltà, non vi possano più essere che differenze; nessun accordo è più possibile quando i principi siano scomparsi; ed è per questa ragione che la mancanza di un ricollegamento effettivo ad una tradizione ci appare come la radice stessa della deviazione occidentale. Per questo noi dichiariamo formalmente che il fine essenziale che l’élite intellettuale dovrà assegnare alla propria attività, nel caso che essa giunga a costituirsi, è il ritorno dell’Occidente a una civiltà tradizionale; ed aggiungiamo che, se mai si è avuto uno sviluppo propriamente occidentale in questo senso, è il Medio Evo che ne offre l’esempio, di modo che in fondo si tratterebbe, non diciamo di copiare o ricostruire semplicemente quanto è esistito a quell’epoca (cosa manifestamente impossibile, perché, checché ne possa pensare qualcuno, la storia non si ripete, e nel mondo esistono cose analoghe ma non identiche), bensì di trarne ispirazione per l’adattamento reso necessario dalle circostanze.
Questo è, testualmente, quel che noi abbiamo sempre detto, ed è con intenzione che lo riproduciamo negli esatti termini di cui ci siamo già serviti[1]; ci pare di essere stati abbastanza netti da non lasciar adito a nessun equivoco. E tuttavia ci sono state persone che ci hanno frainteso nel modo più singolare, ed hanno creduto di poterci attribuire le intenzioni più strane, per esempio quella di voler restaurare qualcosa di simile al «sincretismo» alessandrino; ritorneremo tra poco sull’argomento, ma precisiamo già fin d’ora che, quando parliamo del Medio Evo, ci riferiamo soprattutto al periodo che va dal regno di Carlo Magno all’inizio del secolo XIV, il che è abbastanza lontano da Alessandria! È veramente straordinario che, mentre affermiamo l’unità fondamentale di tutte le dottrine tradizionali, si possa invece capire che si tratta di operare una «fusione» fra tradizioni diverse, e non ci si renda conto che l’accordo sui principi non presuppone affatto l’uniformità; forse che questa difficoltà deriva anch’essa da quel difetto tutto occidentale che è l’incapacità di vedere più in là delle apparenze esteriori? In tutti i casi, non ci pare inutile tornare su questo punto e insistervi ulteriormente, in modo che le nostre intenzioni non possano più venir così travisate; e poi, anche facendo astrazione da questa opportunità, l’argomento non è privo d’interesse.
In virtù dell’universalità dei principi, come dicemmo, tutte le dottrine tradizionali hanno un’identica essenza; la metafisica è e non può essere che una sola, qualunque siano i modi diversi di esprimerla, nella misura in cui essa è esprimibile, secondo il linguaggio che si ha a disposizione (il quale d’altronde non ha mai altra funzione che quella di un simbolo); la ragione di ciò risiede semplicemente nel fatto che la verità è una sola, ed essendo in se stessa assolutamente indipendente dalle nostre concezioni, si impone in ugual modo a tutti coloro che la comprendono. Due tradizioni vere non possono perciò in nessun caso opporsi come contraddittorie; se esistono delle dottrine che, essendo incomplete (e può darsi che lo siano sempre state, oppure che una parte di esse sia andata perduta), si arrestano a certe concezioni, non è men vero che, fino al punto a cui esse giungono, l’accordo con le altre permane, anche se i loro attuali rappresentanti non ne hanno coscienza; per tutto quel che è al di là non si tratta più né di accordo né di disaccordo, ed è solo la mentalità sistematica che può far contestare l’esistenza di questo «aldilà»; salvo questa negazione per partito preso, la quale assomiglia un po’ troppo a quelle che sono abituali alla mentalità moderna, tutto ciò che la dottrina incompleta può fare, è di riconoscersi incompetente nei confronti di quel che la oltrepassa. In ogni caso, se tra due tradizioni si scoprisse una contraddizione apparente occorrerebbe trarne la conclusione, non che una sia vera e l’altra falsa, ma che almeno una di esse è stata compresa in modo imperfetto; ed esaminando le cose più da vicino ci si accorgerebbe che in realtà si tratta di uno di quegli errori d’interpretazione a cui possono condurre molto facilmente le differenze d’espressione quando non vi si è sufficientemente abituati.
Per quel che ci riguarda, dobbiamo dire che noi, di fatto, simili contraddizioni non le troviamo, mentre, al contrario, vediamo apparire molto chiaramente, sotto le forme più diverse, l’unità essenziale della dottrina; quel che più ci stupisce è che coloro che affermano il principio dell’esistenza di una «tradizione primordiale» unica, comune a tutta l’umanità alle sue origini, non vedano le conseguenze implicite in questa affermazione, o non sappiano dedurle, e si accaniscano talvolta, come tutti gli altri, a scoprire opposizioni del tutto immaginarie. Beninteso, non vogliamo parlare che di dottrine veramente tradizionali, «ortodosse» se si vuole; i mezzi per riconoscerle fra tutte le altre senza possibilità di errore esistono, così come esistono i mezzi per determinare il livello esatto di comprensione a cui qualsiasi dottrina corrisponde; ma non è di questo che vogliamo ora parlare. Per riassumere in poche parole il nostro pensiero, possiamo dire questo: ogni verità esclude l’errore, ma non esclude un’altra verità (o, per meglio dire, un altro aspetto della verità); e, lo ripetiamo, ogni esclusivismo diverso da questo non può essere che l’espressione di una mentalità sistematica, incompatibile con la comprensione dei principi universali.
L’accordo, riferendosi essenzialmente ai principi, non può essere veramente cosciente che per le dottrine che contengano almeno una parte di metafisica o di intellettualità pura; cosciente non è per quelle che sono strettamente limitate a una forma particolare, per esempio alla forma religiosa. Tuttavia, anche in quest’ultimo caso, tale accordo esiste, nel senso che le verità teologiche possono essere considerate come una traduzione di talune verità metafisiche applicate a un punto di vista speciale; sennonché, per far emergere l’accordo bisogna effettuare una trasposizione che restituisca a tali verità il loro senso più profondo, e questo soltanto il metafisico è in grado di farlo, poiché si pone al di sopra di tutte le forme particolari e di tutti i punti di vista speciali. Metafisica e religione non sono e non saranno mai sullo stesso piano; di conseguenza, una dottrina puramente metafisica e una dottrina religiosa non possono né «farsi concorrenza» né entrare in conflitto tra di loro, poiché i rispettivi domini sono nettamente diversi. D’altra parte, da ciò consegue anche che l’esistenza di una dottrina unicamente religiosa non è sufficiente a stabilire un’intesa profonda, come quella a cui pensiamo quando parliamo del riavvicinamento intellettuale tra l’Oriente e l’Occidente; per questo abbiamo insistito sulla necessità di compiere in primo luogo un lavoro di carattere metafisico; soltanto in seguito la tradizione religiosa dell’Occidente, rivivificata e restaurata nella sua pienezza potrebbe diventare utilizzabile a questo fine, grazie all’aggiunta dell’elemento interiore che attualmente le manca, ma che potrebbe benissimo venirle sovrapposto senza cambiar nulla esteriormente. Se un’intesa fra i rappresentanti delle diverse tradizioni è possibile, e noi sappiamo che in linea di principio nulla vi si oppone, essa non potrà venir realizzata che dall’alto, di modo che ciascuna tradizione conserverà sempre integralmente la propria indipendenza, e con essa le forme che le sono proprie; la massa, pur partecipando ai benefici di una tale intesa, non ne avrà comunque una coscienza diretta, poiché si tratta di qualcosa che riguarda esclusivamente l’élite, o addirittura «l’élite dell’élite» secondo l’espressione in uso presso alcune scuole islamiche.
È facile rendersi conto di quanto tutto ciò sia diverso da non sappiamo bene quale progetto di «fusione» che, per conto nostro, consideriamo completamente irrealizzabile: una tradizione non è cosa che si possa inventare o creare artificialmente; affastellando alla meno peggio elementi presi a prestito da differenti dottrine non si riuscirà mai a costruire che una pseudo-tradizione senza nessun valore o portata, e queste fantasie è meglio lasciarle agli occultisti e ai teosofisti; per operare a questo modo bisogna ignorare che cos’è veramente una tradizione e non capire nulla del senso reale e profondo degli elementi che si tenta di riunire in un insieme più o meno incoerente. Tutto ciò in fondo non è che una specie di «eclettismo», e non esiste nulla a cui siamo più decisamente ostili, proprio perché vediamo l’accordo profondo sotto la diversità delle forme, e perché, nello stesso tempo, vediamo la ragion d’essere dì queste forme molteplici nella varietà delle condizioni alle quali devono adattarsi. Se lo studio delle diverse dottrine tradizionali ha una grandissima importanza, è proprio perché permette di constatare la concordanza da noi qui affermata; sennonché non si tratta di dedurre da tale studio una dottrina nuova, ché anzi tale deduzione, lungi dall’essere conforme allo spirito tradizionale, gli sarebbe completamente opposta. È fuor di dubbio che quando gli elementi di un certo ordine mancano ‑ e questo è proprio il caso, nell’Occidente attuale, di tutto ciò che è puramente metafisico ‑ bisogna cercarli altrove, dovunque essi possano trovarsi, ma non bisogna dimenticare che la metafisica è essenzialmente universale, in modo tale che il caso in questione è ben diverso da quel che sarebbe se si trattasse di elementi appartenenti a qualche campo particolare. E per di più toccherebbe solo all’élite il compito di assimilare l’espressione orientale, per fare in seguito opera di adattamento; la conoscenza delle dottrine dell’Oriente, mediante un uso giudizioso dell’analogia, permetterebbe di restaurare anche la tradizione occidentale nella sua integralità, così come essa può permettere di capire le civiltà scomparse: i due casi sono in tutto accostabili, perché occorre ammettere che, per la maggior parte, la tradizione occidentale è attualmente perduta.
Mentre noi consideriamo una sintesi trascendente come unico punto di partenza possibile di tutte le ulteriori realizzazioni, qualcuno immagina che si possa trattare di un «sincretismo» più o meno confuso; e tuttavia si tratta di due cose che non hanno nulla in comune, tra le quali, anzi, non esiste il minimo rapporto. Così esistono persone che non possono sentir pronunciare la parola «esoterismo» (di cui, si deve convenire, non abusiamo certamente) senza pensare immediatamente all’occultismo o ad altre cose dello stesso genere, nelle quali di vero esoterismo non c’è la minima traccia; è incredibile come le pretese più ingiustificate vengano così facilmente ammesse proprio da coloro che avrebbero il più grande interesse a respingerle; il solo mezzo efficace di combattere l’occultismo è di mostrare come esso sia completamente privo di serietà, come sia un’invenzione del tutto moderna, e nello stesso tempo come l’esoterismo vero sia in realtà tutt’altra cosa.
Ci sono poi altri che, a causa di una diversa confusione, credono di poter tradurre «esoterismo» con «gnosticismo»; si tratta, in questo caso, di concezioni autenticamente più antiche, ma non per questo la loro interpretazione è più esatta e più giusta. È piuttosto difficile sapere oggi in modo preciso cosa furono le dottrine piuttosto varie che vengono riunite sotto la generica denominazione di «gnosticismo», tra le quali vi sarebbero indubbiamente da fare molte distinzioni; nell’insieme pare che si sia trattato di idee orientali più o meno deformate, probabilmente mal comprese dai Greci, e rivestite di forme immaginative del tutto incompatibili con l’intellettualità pura; senza gran fatica si possono certo trovare cose più degne d’interesse, meno contaminate da elementi eterocliti, di valore meno dubbio e di significato molto più sicuro. Approfittiamo di questa occasione per aggiungere qualche precisazione a proposito del periodo alessandrino in generale: che in quel momento i Greci si siano trovati in contatto abbastanza diretto con l’Oriente, e che il loro spirito si sia in tal modo aperto a concezioni alle quali fino a quel momento era rimasto chiuso, ci pare incontestabile; purtroppo il risultato sembra essere rimasto molto più vicino al «sincretismo» che alla vera sintesi.
Non vorremmo deprezzare oltre misura dottrine come quelle dei neoplatonici, le quali, in ogni caso, sono incomparabilmente superiori a tutte le concezioni della filosofia moderna; ma in fondo è certamente preferibile risalire alla fonte orientale che non passare attraverso degli intermediari, e per di più ciò ha il vantaggio di essere molto più facile, giacché le civiltà orientali esistono tuttora, mentre la civiltà greca, in realtà, non ha avuto continuatori. Quando si conoscano le dottrine orientali ci si può servire di esse per comprendere meglio quelle dei neoplatonici, e altre, più puramente greche, giacché, nonostante le considerevoli differenze, l’Occidente era allora ben più vicino all’Oriente di quanto non sia attualmente; ma l’inverso non è possibile, e a voler affrontare lo studio dell’Oriente passando attraverso la Grecia ci si esporrebbe certo a un gran numero di errori. Del resto, per supplire a quel che manca all’Occidente non c’è altra soluzione che rivolgersi a ciò che ha conservato un’esistenza effettiva; non si tratta di fare dell’archeologia, né le cose di cui parliamo hanno alcunché a vedere con i divertimenti degli eruditi; se la conoscenza dell’antichità può servire a qualcosa, non è che nella misura in cui essa può aiutare a capire realmente certe idee, e a confermare quell’unità dottrinale nella quale tutte le civiltà s’incontrano; tutte, ad eccezione della sola civiltà moderna, la quale, non possedendo né principi né dottrina, è tagliata fuori dalle vie normali dell’umanità.
Se non si può ammettere nessun tentativo di fusione tra dottrine differenti, neppure potrà trattarsi di sostituire una tradizione con un’altra; non solo la molteplicità delle forme tradizionali non implica nessun inconveniente, ma, al contrario, presenta dei vantaggi sicuri; pur essendo tutte queste forme pienamente equivalenti, ognuna di esse ha la sua ragion d’essere, non foss’altro che perché è più appropriata di ogni altra alle condizioni di un determinato ambiente. La tendenza a «uniformizzare» tutte le cose procede, come abbiamo detto, dai pregiudizi ugualitaristici; volendola applicare qui si farebbe dunque una concessione alla mentalità moderna, concessione che, anche se involontaria, sarebbe nondimeno reale e non potrebbe che avere conseguenze deplorevoli. È solo nel caso in cui l’Occidente si mostrasse definitivamente impotente a ritornare a una civiltà normale che potrebbe essergli imposta una tradizione estranea; ma in questo caso non si tratterebbe più di una fusione, giacché non rimarrebbe più nulla di specificamente occidentale; né si tratterebbe di sostituzione, poiché per giungere a un tale estremo occorrerebbe che l’Occidente avesse perduto anche le ultime vestigia di spirito tradizionale, ad eccezione di una piccola élite, senza la quale, non essendo neppure più in grado di accogliere la tradizione estranea, esso precipiterebbe inevitabilmente nella peggiore barbarie. Ripetiamo però che è ancora permesso sperare che le cose non giungano fino a questo punto, e che l’élite possa costituirsi pienamente e portare a termine la sua opera, in modo che l’Occidente non solo si salvi dal caos e dalla dissoluzione, ma ritrovi i principi e i mezzi di uno sviluppo che gli sia proprio, pur armonizzandosi con quello delle altre civiltà.
Quanto alla funzione dell’Oriente a questo riguardo, riassumiamola ancora una volta, per maggior chiarezza, nel modo più preciso possibile; da questo punto di vista possiamo anche distinguere il periodo della costituzione dell’élite da quello della sua azione effettiva. Nel primo periodo è attraverso lo studio delle dottrine orientali, più che con qualsiasi altro mezzo, che coloro che saranno chiamati a far parte di tale élite potranno acquisire e sviluppare in se stessi la pura intellettualità, poiché in Occidente non gli sarebbe dato di trovarla; ed è in questo stesso modo che essi potranno apprendere che cos’è, nei suoi diversi elementi, una civiltà tradizionale, poiché solo la conoscenza più diretta possibile è in un caso simile valida, ad esclusione di ogni sapere semplicemente «libresco», il quale, in se stesso, non è utilizzabile al fine che indichiamo. Perché lo studio delle dottrine orientali sia veramente quel che dev’essere, è necessario che certe individualità servano da intermediari ‑ come abbiamo già spiegato ‑ tra i detentori di tali dottrine e l’élite occidentale in formazione; per questo parliamo, per quest’ultima, soltanto di una conoscenza che sia la più diretta possibile, e non assolutamente diretta, per lo meno all’inizio. Ma in seguito, quando un primo lavoro d’assimilazione fosse stato compiuto, nulla impedirebbe all’élite stessa (giacché l’iniziativa dovrebbe provenire da quest’ultima) di fare appello, in modo più immediato, ai rappresentanti delle tradizioni orientali; e costoro, venendosi a trovare interessati alle sorti dell’Occidente a causa della presenza di tale élite, non mancherebbero di rispondere a questo appello, poiché la sola condizione che esigano è la comprensione (e d’altronde quest’unica condizione è imposta dalla forza delle cose); da parte nostra, possiamo affermare che non abbiamo mai visto nessun Orientale persistere a rinchiudersi nel proprio abituale riserbo quando si trovi in presenza di qualcuno che egli giudichi in grado di capirlo.
È così nel secondo periodo che l’appoggio degli Orientali potrebbe manifestarsi effettivamente; abbiamo accennato in precedenza alla ragione per cui tale aiuto presupporrebbe un’élite già costituita, vale a dire, in altre parole, un’organizzazione occidentale in grado di entrare in relazione con le organizzazioni orientali che lavorano nell’ordine dell’intellettualità pura, e di ricevere da esse, per la propria azione, l’aiuto che possono procurare forze accumulate da tempo immemorabile. In tal caso gli Orientali saranno sempre, per gli Occidentali, delle guide e dei «fratelli maggiori; ma l’Occidente, senza pretendere di poter trattare con essi da pari a pari, otterrà tuttavia di essere considerato come una potenza autonoma, e ciò esclusivamente per il fatto di possedere una organizzazione di tal genere; ed inoltre la profonda ripugnanza che gli Orientali provano per tutto ciò che assomigli al proselitismo sarà una garanzia sufficiente per la sua indipendenza. Gli Orientali non hanno nessun particolare desiderio di assimilare l’Occidente: essi preferiranno sempre di gran lunga favorire uno sviluppo occidentale conforme al principi, per poco che ne vedano le possibilità; ed è proprio a coloro che faranno parte dell’élite che toccherà dimostrare l’esistenza di queste possibilità, provando con il loro esempio che la decadenza intellettuale dell’Occidente non è irrimediabile. Si tratta dunque, non di imporre all’Occidente una tradizione orientale, con forme che non corrispondono alla sua mentalità, ma di restaurare una tradizione occidentale con l’aiuto dell’Oriente: aiuto dapprima indiretto e poi diretto, oppure, se si vuole, ispirazione nel primo periodo e appoggio effettivo nel secondo. Sennonché, quel che non è possibile per gli Occidentali in generale deve essere possibile per l’élite: perché quest’ultima possa realizzare gli adattamenti necessari essa deve aver prima di tutto penetrato e compreso le forme tradizionali esistenti altrove; ed è anzi necessario che essa vada al di là di tutte le forme, qualunque esse siano, per impadronirsi di ciò che costituisce l’essenza di tutte le tradizioni. È in questa direzione che dovrà ancora proseguire l’opera dell’élite anche quando l’Occidente sarà nuovamente in possesso di una civiltà regolare e tradizionale: essa costituirà allora l’organo attraverso il quale la civiltà occidentale comunicherà in modo permanente con le altre civiltà, poiché tale comunicazione non può essere stabilita e mantenuta se non per mezzo di ciò che è più elevato in ciascuna di esse; per non essere semplicemente accidentale, essa presuppone la presenza di uomini che, per ciò che li riguarda direttamente, siano svincolati da ogni forma particolare, abbiano piena coscienza di quel che c’è dietro le forme, e, situandosi nel dominio dei principi più trascendenti, possano partecipare indistintamente a tutte le tradizioni. In altre parole, sarebbe necessario che l’Occidente arrivasse infine a possedere dei rappresentanti in quello che simbolicamente viene designato come il «centro del mondo», o con altre espressioni equivalenti (il che non si deve intendere in modo letterale, come indicante un luogo determinato); però queste sono cose troppo lontane e al momento attuale troppo inaccessibili (e senza dubbio tali resteranno ancora per molto tempo) perché sia veramente utile insistere su di esse.
E adesso, poiché per risvegliare l’intellettualità occidentale è necessario incominciare dallo studio delle dottrine dell’Oriente (intendiamo uno studio vero e profondo, con tutto ciò che esso comporta quanto allo sviluppo personale di coloro che vi si dedicano, e non uno studio esteriore e superficiale, alla maniera degli orientalisti), dobbiamo indicare i motivi per cui conviene, in generale, rivolgersi specificamente ad una di tali dottrine a preferenza delle altre. Effettivamente ci si potrebbe chiedere perché prendiamo come punto d’appoggio principale l’India, e non piuttosto la Cina, o perché non consideriamo più utile basarci su quel che è più vicino all’Occidente, vale a dire sull’aspetto esoterico della dottrina islamica. Ci limiteremo in ogni caso alla considerazione di queste tre grandi divisioni dell’Oriente; tutto il resto è, o di minore importanza, o, come le dottrine tibetane, talmente ignorato dagli Europei che sarebbe estremamente difficile parlargliene in modo intelligibile prima che abbiano capito altre cose, meno totalmente estranee al loro modo abituale di pensare.
Per quanto riguarda la Cina, le ragioni per non rivolgersi ad essa in primo luogo sono del medesimo genere: le forme attraverso le quali si esprimono le sue dottrine sono veramente troppo lontane dalla mentalità occidentale, e i metodi d’insegnamento che vi sono in uso sono di natura tale che scoraggerebbero in breve tempo anche gli Europei meglio dotati; ben pochi potrebbero resistere a un lavoro intrapreso seguendo simili metodi, e pur se occorre in ogni caso operare una selezione rigorosissima, bisogna tuttavia evitare il più possibile le difficoltà che avrebbero unicamente origine dalle contingenze, e proverrebbero più dal temperamento inerente alla razza che non da un reale difetto di facoltà intellettuali. Le forme d’espressione delle dottrine indù, pur essendo ancora estremamente diverse da tutte quelle a cui il pensiero occidentale è abituato, sono relativamente più assimilabili, e offrono più larghe possibilità di adattamento; potremmo dire che, a questo riguardo, l’India, occupando una posizione intermedia nell’insieme dell’Oriente, non è né troppo lontana né troppo vicina all’Occidente.
Di fatto, appoggiandosi su ciò che è più vicino nascerebbero altri inconvenienti, i quali, pur essendo di carattere diverso da quelli da noi prima segnalati, non sarebbero tuttavia meno gravi; e forse, a compensarli, non verrebbero neppure molti reali vantaggi, giacché la civiltà islamica è quasi altrettanto mal conosciuta dagli Occidentali quanto le civiltà più orientali, soprattutto nella sua parte metafisica, la quale è appunto quella che a noi interessa e a loro sfugge completamente. È vero che tale civiltà, con i suoi due volti esoterico ed exoterico, e con la forma religiosa che il secondo riveste, è ciò che c’è di più simile a quel che sarebbe una civiltà tradizionale occidentale; sennonché, proprio la presenza di tale forma religiosa, grazie alla quale l’Islâm più si avvicina all’Occidente, rischia di risvegliare tali suscettibilità che, per quanto poco giustificate, non sarebbero tuttavia senza pericolo: coloro che sono incapaci di far la distinzione fra i diversi domini sarebbero erroneamente spinti a pensare ad una concorrenza sul terreno religioso; e certamente nella massa occidentale (nella quale comprendiamo anche la maggioranza degli pseudo-intellettuali) esiste molto più odio per tutto ciò che è islamico che non per quanto concerne il resto dell’Oriente. È vero che una delle cause principali di quest’odio è rappresentata dalla paura, e che tale stato d’animo è soltanto dovuto all’incomprensione; ma tant’è, finché esso esiste, la più elementare prudenza esige che se ne tenga conto almeno in una certa misura; l’élite in via di formazione avrà già il suo da fare per vincere l’ostilità che inevitabilmente le si opporrà da molte parti, e non è certo il caso di accrescerla inutilmente dando esca alle false supposizioni che la stupidità e la malevolenza insieme combinate non mancherebbero di accreditare; di false supposizioni ve ne saranno probabilmente in ogni caso, ma quando è possibile prevederle è opportuno fare in modo che non si producano, sempre che la cosa sia fattibile senza che ciò implichi altre conseguenze, ancora peggiori. È per questa ragione che non ci pare opportuno appoggiarsi principalmente sull’esoterismo islamico; ma ciò naturalmente non impedisce che tale esoterismo, di essenza propriamente metafisica, offra l’equivalente di quanto si trova nelle altre dottrine; si tratta dunque, lo ripetiamo, di una semplice questione di opportunità, dovuta al fatto che conviene mettersi nelle condizioni più favorevoli, e perciò non mette in gioco i principi.
Del resto, se noi assumiamo la dottrina indù come centro dello studio in questione, ciò non implica che dobbiamo riferirci ad essa in modo esclusivo; al contrario, è importante far rilevare, quando se ne presenti l’occasione e ogni volta che le circostanze vi si presteranno, la concordanza e l’equivalenza di tutte le dottrine metafisiche. Importa mettere in evidenza il fatto che sotto differenti espressioni si celano concezioni identiche, e identiche perché corrispondenti tutte alla stessa verità; talvolta, anzi, esistono analogie tanto più impressionanti in quanto si riferiscono a punti estremamente particolari, e addirittura una certa comunanza di simboli fra tradizioni diverse; su tutte queste cose non si attirerà mai troppo l’attenzione, né constatare tali reali rassomiglianze significa affatto fare del «sincretismo» od operare una «fusione», trattandosi di una specie di parallelismo che esiste fra tutte le civiltà di carattere tradizionale, il quale non può stupire se non uomini che non credano a nessuna verità trascendente, nello stesso tempo esteriore e superiore alle concezioni umane.
Dal canto nostro non pensiamo che civiltà come quelle dell’India e della Cina abbiano dovuto necessariamente comunicare tra di loro in modo diretto nel corso del loro sviluppo; ciò non impedisce che, accanto a diversità nettissime (le quali hanno la loro spiegazione sia nelle condizioni etniche sia in altre condizioni), esse presentino delle rassomiglianze notevoli; e non parliamo qui della sfera metafisica, in cui l’equivalenza è sempre perfetta ed assoluta, ma solo delle applicazioni nel campo delle contingenze. Naturalmente occorre sempre fare una riserva per ciò che ha potuto appartenere alla «tradizione primordiale»; sennonché, essendo essa, per definizione, anteriore allo sviluppo speciale delle civiltà di cui trattiamo, la sua esistenza non esclude affatto la loro indipendenza reciproca. D’altronde, la «tradizione primordiale dev’essere considerata come riferentesi essenzialmente ai principi; ora, su questo terreno vi è sempre stata, come abbiamo già accennato, una certa comunicazione permanente, stabilita all’interno e dall’alto; ma neppure questo influisce sull’indipendenza delle diverse civiltà. Sennonché, quando ci si trova di fronte a certi simboli dappertutto uguali, è evidente che bisogna in ciò riconoscere una manifestazione di quella fondamentale unità di tutte le tradizioni, così generalmente disconosciuta ai nostri giorni, che gli «scientisti» si affannano a negare come se si trattasse di una cosa che li mette particolarmente a disagio; tali somiglianze non possono essere fortuite, tanto più che le modalità d’espressione sono, per loro stessa natura, suscettibili di indefinite variazioni.
Insomma, l’unità, per chi sappia vederla, è dappertutto sotto la diversità; essa è soggiacente alla diversità in quanto conseguenza dell’universalità dei principi: che la verità s’imponga in modo identico a uomini che non hanno nessuna relazione immediata tra di loro, o che effettivi rapporti intellettuali vengano mantenuti tra i rappresentanti di civiltà diverse, l’una e l’altra cosa sono rese possibili grazie a questa universalità; e se essa non fosse assentita coscientemente almeno da qualcuno, non potrebbe esistere accordo veramente stabile e profondo. Ciò che vi è di comune in tutte le civiltà normali sono i principi; se essi fossero persi di vista, di ognuna di esse non rimarrebbero che i caratteri particolari, a motivo dei quali ciascuna differisce dalle altre, e anche le rassomiglianze diverrebbero puramente superficiali, non essendo più conosciuta la loro vera ragion d’essere. Certo non è completamente falso riferirsi, per spiegare certe rassomiglianze di carattere generale, all’unità della natura umana, sennonché ciò viene fatto abitualmente in modo estremamente vago e del tutto insufficiente, e d’altronde le differenze mentali sono molto più grandi e vanno ben oltre quel che possono immaginare coloro che non conoscono se non un unico tipo di umanità. Questa stessa unità non può venir compresa chiaramente e ricevere il suo pieno significato senza una certa conoscenza dei principi, in mancanza della quale essa assume un carattere financo illusorio; la vera natura della specie e la sua realtà profonda sono cose di cui un semplice empirismo non può essere in grado di rendere conto.
Ma ritorniamo alla questione che ci ha condotti a queste considerazioni: non si tratterebbe in nessun modo di «specializzarsi» nello studio della dottrina indù, poiché la sfera della pura intellettualità è tale da sfuggire a qualsiasi specializzazione. Tutte le dottrine metafisicamente complete sono pienamente equivalenti, e possiamo perfino dire che esse sono in fondo necessariamente identiche; l’unica cosa da chiedersi è dunque quale di esse presenti i maggiori vantaggi di esposizione, e pensiamo che, in via generale, questa sia la dottrina indù; per questa ragione, e per questa ragione soltanto, noi la assumiamo come base. Se tuttavia capitasse che taluni punti fossero trattati da altre dottrine in una forma che appaia più assimilabile, non vedremmo ovviamente nessun inconveniente a ricorrere ad esse; si tratterebbe anzi di un altro modo di render manifesta quella concordanza di cui abbiamo parlato. Diremo di più: la tradizione, lungi dall’essere un ostacolo agli adattamenti che le circostanze esigono, ha sempre fornito il principio adeguato di tutti quelli che si sono rivelati necessari, e tali adattamenti sono assolutamente legittimi, in quanto si mantengono nella linea strettamente tradizionale, da noi chiamata anche «ortodossia». Se dunque nuovi adattamenti si impongono, il che è tanto più naturale in quanto si tratta di un ambiente diverso, nulla si oppone a che essi vengano formulati ispirandosi a quelli che già esistono, tenendo però anche conto delle condizioni mentali dell’ambiente, purché ciò si faccia con la debita prudenza e competenza, e purché si abbia prima compreso profondamente lo spirito tradizionale, con tutto ciò che esso comporta; questo è quanto l’élite intellettuale dovrà fare, presto o tardi, per tutto ciò di cui sarà impossibile ritrovare un’espressione occidentale anteriore.
È evidente quanto tutto ciò sia lontano da una prospettiva «erudita»: di per se stessa, la provenienza di un’idea non ci interessa affatto, poiché quando un’idea è vera essa è indipendente dagli uomini che l’hanno espressa sotto questa o quella forma; qui le contingenze storiche non intervengono assolutamente. Per altro, siccome non abbiamo la pretesa di aver assimilato da soli e senza nessun aiuto le idee che sappiamo esser vere, crediamo sia bene dire da chi esse ci sono state trasmesse, tanto più che in tal modo possiamo indicare ad altri in quale direzione possono dirigersi per trovarle a loro volta; e, di fatto, queste idee noi le dobbiamo unicamente agli Orientali. Per quel che riguarda l’antichità delle idee, anch’essa, se la si considera esclusivamente dal punto di vista storico, non ha punto un interesse capitale; tale questione assume tutto un altro aspetto soltanto quando la si ricolleghi all’idea di tradizione, ma allora, se si riesce a capire veramente che cos’è quest’ultima, la questione è risolta in modo immediato, perché si saprà che tutto si trovava implicito in modo principiale, fin dall’origine, in quella che è l’essenza stessa della dottrina, e che non s’ebbe altro da fare che dedurlo da essa in uno sviluppo che, nel suo fondamento se non nella sua forma, non è passibile di alcuna innovazione.
Indubbiamente una certezza del genere non è quasi comunicabile; ma se qualcuno la possiede, perché non potrebbero giungere ad essa anche altri, per loro proprio conto, soprattutto se gliene si fornissero i mezzi in tutta la misura in cui essi possono essere forniti? La «catena della tradizione» si riannoda talvolta in modi assai inaspettati; ed esistono uomini che, anche se credono di aver concepito spontaneamente certe idee, hanno invece ricevuto un aiuto che, pur non essendo coscientemente percepito, non è per questo stato meno efficace; a maggior ragione questo aiuto non può mancare a chi si metta espressamente nelle disposizioni volute per ottenerlo. Beninteso, non intendiamo affatto negare qui la possibilità dell’intuizione intellettuale diretta, che noi anzi affermiamo assolutamente indispensabile, e senza di cui non esiste concezione metafisica effettiva; ma occorre esservi preparati, e, quali siano le facoltà latenti di un individuo, dubitiamo che egli possa svilupparle con i suoi soli mezzi; per lo meno, occorrerà che una circostanza qualsiasi fornisca l’occasione di tale sviluppo. Questa circostanza, indefinitamente variabile secondo i casi particolari, non è mai fortuita se non in apparenza; in realtà essa è suscitata da un’azione le cui modalità, benché sfuggano a ogni osservazione esteriore, possono essere presentite da coloro che capiscono come la «posterità spirituale» sia tutto meno che una vana parola.
È tuttavia importante sottolineare come casi simili siano sempre eccezionali, e come, anche se si producono in mancanza di una trasmissione continua e regolare attuatesi per mezzo di un insegnamento tradizionale organizzato (se ne potrebbe trovare qualche esempio in Europa e anche in Giappone), essi non possono mai supplire interamente a quest’assenza, prima di tutto perché sono rari e isolati, e poi perché portano all’acquisizione di conoscenze le quali, qualunque valore possano avere, sono sempre soltanto frammentarie; bisogna poi ancora aggiungere che non si possono fornire nello stesso tempo i mezzi per coordinare ed esprimere quanto venga concepito in tal modo, e così il vantaggio che se ne può trarre rimane quasi esclusivamente personale[2]. Certo è già qualcosa, ma non bisogna dimenticare che, anche dal punto di vista di questo vantaggio personale, una realizzazione parziale e incompleta, come quella che può essere ottenuta in un simile caso non è che un mediocre risultato in confronto alla vera realizzazione metafisica che tutte le dottrine orientali assegnano all’uomo come fine supremo (e che, sia detto per inciso, non ha assolutamente niente a che vedere con il «sonno quietistico», bizzarra interpretazione che abbiamo incontrato da qualche parte, e che non trova certo giustificazioni in tutto quello che abbiamo detto). Per di più, quando la realizzazione non sia stata preceduta da una preparazione teorica sufficiente, possono verificarsi disparate confusioni, ed esiste sempre la possibilità di perdersi in qualcuno di quei domini intermedi nei quali non si è affatto protetti contro l’illusione; solo nel dominio della metafisica pura si può avere una tale garanzia, la quale, acquisita una volta per sempre, permette di affrontare in seguito senza pericoli qualunque altro dominio, come già abbiamo spiegato.
La verità di fatto può sembrare quasi trascurabile di fronte alla verità delle idee; tuttavia anche nella sfera delle contingenze vi sono gradi diversi da osservare, ed esiste un modo di considerare le cose, ricollegandole ai principi, che conferisce loro un’importanza del tutto diversa da quella che hanno di per se stesse; quanto abbiamo detto a proposito delle «scienze tradizionali»dovrebbe essere sufficiente a farlo capire. Non è il caso di impastoiarsi in questioni di cronologia, le quali sono spesso insolubili, almeno con i metodi della storia ordinaria; ma non è indifferente sapere che certe idee appartengono a una dottrina tradizionale, e altresì che certi modi di presentarle hanno un carattere ugualmente tradizionale; non pensiamo sia il caso di insisterci ancora dopo tutte le considerazioni che siamo andati esponendo. In ogni caso, se la verità di fatto, che rappresenta qualcosa di accessorio, non deve far perdere di vista la verità delle idee, che è l’essenziale, si avrebbe tuttavia torto a voler rifiutare di tener conto dei vantaggi supplementari che la prima può procurare, e che, pur essendo come essa contingenti, non sempre sono da disprezzare. Sapere che certe idee ci sono state fornite dagli Orientali è una verità di fatto, ed è certo meno importante della loro comprensione e del riconoscimento della loro intrinseca verità; né, se la loro provenienza fosse stata diversa, vedremmo in ciò una ragione per scartarle a priori; ma poiché da nessuna parte in Occidente abbiamo trovato l’equivalente di tali idee orientali, ci pare opportuno dirlo. Presentando certe idee come se si fossero inventate in qualche modo di sana pianta, dissimulando la loro vera origine, si potrebbe certamente ottenere un facile successo; sennonché questi sono procedimenti che non possiamo accettare, e per di più, secondo il nostro modo di vedere, ciò equivarrebbe a toglier loro ogni vera portata e autorità, riducendole ad essere, almeno in apparenza, nient’altro che una «filosofia», quando in realtà esse sono tutt’altro; ancora una volta, eccoci obbligati a ritornare sulla questione dell’individuale e dell’universale, fondamentale per tutte le distinzioni di questo genere.
Ma rimaniamo per il momento nel campo delle contingenze: dichiarando formalmente che è in Oriente che la conoscenza intellettuale pura può essere ottenuta, e nello stesso tempo sforzandosi di risvegliare l’intellettualità occidentale, si prepara, nel solo modo efficace, il riavvicinamento tra Oriente e Occidente; noi speriamo che si sarà compresa la ragione per cui questa possibilità non deve esser trascurata, perché è a questo che principalmente tende tutto quel che siamo andati dicendo fin qui. La restaurazione di una civiltà normale in Occidente può essere null’altro che una contingenza; ma, lo ripetiamo, è questa una ragione per disinteressarsene completamente, anche quando si è prima di tutto dei metafisici? E d’altronde, oltre all’importanza che presentano cose del genere nel loro ordine relativo, esse possono essere il mezzo di realizzazioni che non appartengono più alla sfera delle contingenze, e che, per tutti coloro che vi parteciperanno direttamente o anche indirettamente, avranno conseguenze di fronte alle quali ogni cosa transitoria è cancellata e sparisce. Di tutto ciò esistono ragioni molteplici, e le più profonde non sono forse quelle su cui abbiamo insistito maggiormente, poiché non potevamo metterci a esporre in questo studio le teorie metafisiche (e in qualche caso anche cosmologiche, per quanto riguarda ad esempio le «leggi cicliche») senza le quali tali ragioni non possono essere pienamente comprese; questo abbiamo intenzione di farlo in altri studi, che seguiranno quando ne sarà il momento. Come dicevamo all’inizio, non ci è possibile spiegare tutto in una volta; però non affermiamo nulla gratuitamente, e siamo coscienti, in mancanza di molti altri meriti, di avere almeno quello di parlare esclusivamente di ciò che conosciamo. Se dunque vi è qualcuno che si stupisca di certe considerazioni a cui non è abituato, si dia la pena di rifletterci più attentamente, e forse allora si accorgerà che queste considerazioni, lungi dall’essere inutili o superflue, sono invece fra le più importanti, o che quel che gli pareva a prima vista allontanarsi dal nostro tema è al contrario ciò che più gli è attinente. Esistono infatti delle cose che sono legate fra di loro in un modo molto diverso da quello che si concepisce abitualmente, e la verità ha molti aspetti che la maggior parte degli Occidentali non sospettano neppure; per la qual cosa in ogni occasione temiamo piuttosto di dare l’impressione di circoscrivere troppo le cose con l’espressione di cui le rivestiamo, che non di lasciar intravedere troppo vaste possibilità.

[1] Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, Conclusione.
[2] Si potrebbe fare un accostamento con quanto abbiamo detto altrove a proposito degli «stati mistici»: si tratta di cose, se non identiche, per lo meno paragonabili; avremo certo l’occasione di riparlarne altrove.