Oriente e Occidente
Parte prima
Illusioni occidentali
III
La superstizione della vita
Fra le altre cose, gli Occidentali rimproverano spesso alle
civiltà orientali il loro carattere di fissità e di stabilità, il quale appare
loro come la negazione del progresso; che tale esso sia effettivamente noi
riconosciamo volentieri, sennonché, per vedere in questo carattere un difetto
bisogna credere nel progresso.
Per noi, esso indica che tali civiltà partecipano dell’immutabilità dei principi sui quali si appoggiano, ed in ciò è visibile uno degli aspetti essenziali dell’idea di tradizione; la civiltà moderna è invece essenzialmente mutevole proprio perché manca di principio.
Non bisogna però credere che la stabilità di cui parliamo giunga al punto di escludere ogni modificazione, che sarebbe esagerato; essa riduce però la modificazione a non essere mai nient’altro che un adattamento alle circostanze, adattamento che non ha nessuna influenza sui principi, e che anzi da questi può essere rigorosamente dedotto, per poco che siano considerati non in se stessi, ma in vista di una determinata applicazione; per tale ragione esistono, oltre alla metafisica (la quale è autosufficiente in quanto conoscenza dei principi), tutte le «scienze tradizionali» che abbracciano l’ordine delle esistenze contingenti, ivi comprese le istituzioni sociali.
Né bisogna confondere l’immutabilità con l’immobilità; confusioni di questo genere sono frequenti negli Occidentali, perché essi sono generalmente incapaci di distinguere la concezione dall’immaginazione, e perché il loro spirito non può svincolarsi dalle rappresentazioni sensibili; ciò si nota nettamente in filosofi come Kant, i quali tuttavia non possono essere considerati dei «sensisti». L’immutabile non è ciò che è contrario al cambiamento, ma ciò che gli è superiore, così come il «sovrarazionale» non è l’«irrazionale»; occorre diffidare della tendenza a catalogare le cose per opposizioni e antitesi artificiali, in virtù di un’interpretazione semplicistica e sistematica che deriva soprattutto dall’incapacità di andare oltre e di risolvere i contrasti apparenti nell’unità armoniosa di una vera sintesi. Ciò non toglie che, almeno nell’attuale stato di cose, esista realmente una certa opposizione tra l’Oriente e l’Occidente, tanto dal punto di vista da cui ci poniamo quanto da molti altri; la divergenza esiste, ma non si deve dimenticare che essa è unilaterale e non simmetrica, simile a quella di un ramo che si separi dal tronco; è soltanto la civiltà occidentale che, procedendo nella direzione che ha continuato a seguire nel corso degli ultimi secoli, si è allontanata dalle civiltà orientali, tanto che tra l’una e le altre sembra non esserci più nessun elemento in comune, se così si può dire, nessun termine di paragone, nessun terreno favorevole a un’intesa e a una conciliazione.
Per noi, esso indica che tali civiltà partecipano dell’immutabilità dei principi sui quali si appoggiano, ed in ciò è visibile uno degli aspetti essenziali dell’idea di tradizione; la civiltà moderna è invece essenzialmente mutevole proprio perché manca di principio.
Non bisogna però credere che la stabilità di cui parliamo giunga al punto di escludere ogni modificazione, che sarebbe esagerato; essa riduce però la modificazione a non essere mai nient’altro che un adattamento alle circostanze, adattamento che non ha nessuna influenza sui principi, e che anzi da questi può essere rigorosamente dedotto, per poco che siano considerati non in se stessi, ma in vista di una determinata applicazione; per tale ragione esistono, oltre alla metafisica (la quale è autosufficiente in quanto conoscenza dei principi), tutte le «scienze tradizionali» che abbracciano l’ordine delle esistenze contingenti, ivi comprese le istituzioni sociali.
Né bisogna confondere l’immutabilità con l’immobilità; confusioni di questo genere sono frequenti negli Occidentali, perché essi sono generalmente incapaci di distinguere la concezione dall’immaginazione, e perché il loro spirito non può svincolarsi dalle rappresentazioni sensibili; ciò si nota nettamente in filosofi come Kant, i quali tuttavia non possono essere considerati dei «sensisti». L’immutabile non è ciò che è contrario al cambiamento, ma ciò che gli è superiore, così come il «sovrarazionale» non è l’«irrazionale»; occorre diffidare della tendenza a catalogare le cose per opposizioni e antitesi artificiali, in virtù di un’interpretazione semplicistica e sistematica che deriva soprattutto dall’incapacità di andare oltre e di risolvere i contrasti apparenti nell’unità armoniosa di una vera sintesi. Ciò non toglie che, almeno nell’attuale stato di cose, esista realmente una certa opposizione tra l’Oriente e l’Occidente, tanto dal punto di vista da cui ci poniamo quanto da molti altri; la divergenza esiste, ma non si deve dimenticare che essa è unilaterale e non simmetrica, simile a quella di un ramo che si separi dal tronco; è soltanto la civiltà occidentale che, procedendo nella direzione che ha continuato a seguire nel corso degli ultimi secoli, si è allontanata dalle civiltà orientali, tanto che tra l’una e le altre sembra non esserci più nessun elemento in comune, se così si può dire, nessun termine di paragone, nessun terreno favorevole a un’intesa e a una conciliazione.
L’Occidentale, in particolare l’Occidentale moderno (è
sempre di quest’ultimo che intendiamo parlare), appare essenzialmente mutevole
e incostante, sommerso in un movimento continuo e in un’agitazione incessante,
senza che provi il minimo bisogno di uscirne; il suo stato è, tutto sommato,
quello di un essere che non riesce a trovare il suo equilibrio e, non
riuscendovi, rifiuta di ammettere che la cosa sia in se stessa possibile, o
anche semplicemente auspicabile, e giunge al punto di menar vanto della sua impotenza.
Questo cambiamento, in cui è rinchiuso e nel quale si compiace, dal quale non
chiede di essere condotto a nessun punto di arrivo perché è giunto ad amarlo di
per se stesso: ecco in fondo ciò che egli chiama «progresso», come se bastasse
camminare in una direzione qualsiasi per essere certi di andare in avanti; ma
verso che cosa, egli non pensa nemmeno di domandarselo. E la dispersione nella
molteplicità, che è la conseguenza inevitabile di questo cambiamento senza
principio e senza scopo (ed anzi l’unica conseguenza che non sia possibile
contestare), egli la chiama «arricchimento», un’altra parola che, per il
grossolano materialismo dell’immagine che evoca, è ben tipica e rappresentativa
della mentalità moderna.
Il bisogno di attività esteriore spinto a questo estremo, il
gusto dello sforzo per lo sforzo, indipendentemente dai risultati che se ne
possono ottenere, tutto ciò non è affatto naturale dell’uomo, per lo meno
dell’uomo normale, secondo l’idea che sempre e dappertutto se ne era avuta;
eppure per l’Occidentale ciò è diventato in qualche modo naturale, forse per un
effetto di quell’abitudine che Aristotele dice essere una seconda natura, ma
soprattutto a causa dell’atrofia delle facoltà superiori dell’essere,
necessariamente correlativa dello sviluppo intensivo degli elementi inferiori:
soltanto chi non ha nessun mezzo per sfuggire all’agitazione può trovare in
essa qualche soddisfazione, come solo chi ha un’intelligenza circoscritta
all’attività razionale può trovare quest’ultima meravigliosa e sublime; per
essere completamente a proprio agio in una sfera chiusa, qualunque essa sia,
bisogna non concepire la possibilità che esista qualche cosa al di là. Le
aspirazioni dell’Occidentale, unico fra tutti gli uomini (non parliamo dei
selvaggi, riguardo ai quali è del resto difficile sapere qualcosa di sicuro),
sono generalmente limitate in modo stretto al mondo sensibile e ai suoi
annessi, fra i quali comprendiamo tutto l’ordine sentimentale e buona parte
dell’ordine razionale; certamente ci sono delle onorevoli eccezioni, ma in
questa sede non possiamo tener conto che della mentalità generale e comune,
quella cioè che è veramente caratteristica del luogo e dell’epoca.
Dobbiamo ancora notare, nella stessa sfera intellettuale (o
piuttosto in ciò che ne è rimasto), uno strano fenomeno che non è se non un
caso particolare del modo di pensare da noi ora descritto: la passione della
ricerca intesa come fine a se stessa, senza nessuna preoccupazione di vederla
diretta a una soluzione qualsiasi; mentre gli altri uomini cercano per trovare
e per sapere, l’Occidentale dei giorni nostri cerca per cercare; il detto del
Vangelo Querite et invenietis, è per
lui lettera morta in tutta la forza dell’espressione, giacché egli chiama
precisamente «morto» tutto quel che costituisca un risultato definitivo, mentre
al contrario dice «vivo» quel che non è se non sterile agitazione. Il gusto
morboso per la ricerca, vera «inquietudine mentale» senza un termine e senza
una via d’uscita, si manifesta in modo particolare nella filosofia moderna; la
maggior parte di essa, infatti, si presenta solo come una serie di problemi del
tutto artificiali, i quali esistono esclusivamente perché sono mal posti, e
nascono e sussistono soltanto grazie ad equivoci accuratamente mantenuti;
problemi insolubili in verità, dato il modo in cui sono formulati, ma che non
si sente assolutamente il bisogno di risolvere, e di cui tutta la ragion
d’essere consiste nell’alimentare indefinitamente controversie e discussioni
che non approdano a nulla, e a nulla devono approdare. Sostituire in tal modo
la ricerca alla conoscenza (a questo proposito abbiamo già segnalato l’abuso,
cosi significativo, delle «teorie della conoscenza») significa rinunciare
semplicemente all’oggetto proprio dell’intelligenza, e si comprenderà
facilmente come in tali condizioni certuni siano arrivati a sopprimere la
nozione stessa di verità, perché la verità non può essere concepita altrimenti
che come la meta da raggiungere, e costoro, nella loro ricerca, non vogliono
affatto avere una meta; tutto ciò non può dunque aver nulla d’intellettuale,
anche prendendo l’intelligenza nel senso più esteso, e non nel più elevato e
più puro; se abbiamo potuto parlare di «passione della ricerca», è perché si
tratta effettivamente di un’invasione della sentimentalità in campi ai quali
essa dovrebbe rimanere estranea. Beninteso, noi non protestiamo contro
l’esistenza della sentimentalità, che è un fatto naturale, ma soltanto contro
la sua estensione anormale e illegittima; ciò che occorre è essere capaci di
mettere ogni cosa al suo posto e di lasciarvela, ma per farlo è necessaria una
comprensione d’ordine universale che manca al mondo occidentale, in cui il
disordine è legge; denunciare il sentimentalismo non significa affatto negare
la sentimentalità, così come denunciare il razionalismo non significa negare la
ragione; tanto il sentimentalismo quanto il razionalismo non sono che degli
abusi, anche se possono apparire all’Occidente moderno come i due termini di
un’alternativa da cui esso è incapace di uscire.
Abbiamo già detto che il sentimento è estremamente vicino al
mondo materiale; non è senza ragione che il linguaggio unisce strettamente il
sensibile e il sentimentale, e pur se occorre evitare di giungere al punto di
confonderli, essi non sono che due modalità di uno stesso e identico ordine di
cose. La mentalità moderna è quasi unicamente rivolta verso l’esteriore, vale a
dire verso il mondo sensibile; il sentimento le appare come interiore, ed essa
sovente lo vuole opporre, sotto questo aspetto, alla sensazione; ma tutto ciò è
estremamente relativo, e la verità è che la stessa «introspezione» dello
psicologo non raggiunge che dei fenomeni, vale a dire delle modificazioni
esteriori e superficiali dell’essere; di veramente interiore e profondo c’è
solo la parte superiore dell’intelligenza. Questo sembrerà sorprendente a chi,
come gli intuizionisti contemporanei, non conoscendo che la parte inferiore
dell’intelligenza (rappresentata dalle facoltà sensibili, e dalla ragione in
quanto si applica agli oggetti sensibili), la crede più esteriore del
sentimento; ma nei confronti dell’intellettualismo trascendente degli
Orientali, razionalismo e intuizionismo stanno sullo stesso piano e si fermano
entrambi alla parte esteriore dell’essere, ad onta delle illusioni grazie a cui
l’una o l’altra di queste concezioni crede di afferrare qualcosa della sua
natura intima.
In definitiva, in tutto ciò non si tratta mai di passare di
là dalle cose sensibili; la differenza non consiste che nei procedimenti da
seguire per far presa su di esse, nel modo in cui si reputa opportuno
accostarle e nell’affermazione dell’importanza dell’uno o dell’altro dei loro
diversi aspetti: si potrebbe dire che gli uni preferiscono insistere
sull’aspetto «materia», gli altri sull’aspetto «vita». E di fatto questi sono i
limiti di cui il pensiero occidentale non riesce a liberarsi: i Greci erano
incapaci di liberarsi della forma; i moderni sembrano soprattutto incapaci di
svincolarsi dalla materia, e quando tentano di farlo non possono in ogni caso uscire
dalla sfera vitale. Tutte queste cose, tanto la vita quanto la materia (e più
ancora della forma), non sono che condizioni di esistenza particolari del mondo
sensibile; sono dunque su un medesimo piano, come abbiamo detto poco fa.
L’Occidentale moderno, salvo casi eccezionali, assume il mondo sensibile come
unico oggetto di conoscenza; che preferisca rivolgere la sua attenzione all’una
o all’altra delle condizioni di questo mondo, che lo studi sotto questo o sotto
quell’angolo visuale, percorrendolo in un senso o in un altro, il campo in cui
la sua attività mentale si esercita rimane sempre invariabilmente lo stesso; se
questo campo pare estendersi di più o di meno, l’espansione è sempre assai
limitata, quando non si tratti poi addirittura di una pura e semplice
illusione.
Esistono d’altra parte, allo stesso livello del mondo
sensibile, diversi prolungamenti che appartengono ancora al medesimo grado
dell’esistenza universale; a seconda che si consideri l’una o l’altra delle
condizioni che definiscono tale mondo, si potrà raggiungere talvolta l’uno,
talvolta l’altro di questi prolungamenti; ci si troverà tuttavia sempre
rinchiusi in un dominio speciale e determinato. Quando Bergson dice che
l’intelligenza ha come oggetto la materia, egli ha il torto di chiamare
intelligenza ciò di cui vuol parlare, e questo fa perché quel che è veramente
intellettuale gli è sconosciuto; avrebbe in fondo ragione se con questa
denominazione errata intendesse parlare soltanto della parte più bassa
dell’intelligenza, o, più precisamente, dell’uso che comunemente se ne fa
nell’Occidente attuale. Quanto a lui, ciò che gli interessa essenzialmente è la
vita: è ben noto il posto che nelle sue teorie occupa lo «slancio vitale», e il
significato che egli dà a ciò che chiama la percezione della «durata pura»;
sennonché la vita, qualunque sia il «valore» che le si attribuisce, è
indissolubilmente legata alla materia, ed è sempre il medesimo mondo che viene
considerato seguendo, a seconda dei casi, o una concezione «organicistica» e «vitalistica»,
ovvero una concezione «meccanicistica». Quando però nella costituzione di
questo mondo si concede la preponderanza all’elemento vitale sull’elemento
materiale è naturale che il sentimento abbia la meglio sulla cosiddetta
intelligenza; gli intuizionisti con la loro «torsion d’esprit» e i pragmatisti con la loro «esperienza
interiore», fanno semplicemente appello alle potenze oscure dell’istinto e del
sentimento, che essi scambiano per il fondo stesso dell’essere, e, quando
portano alle estreme conseguenze il loro pensiero (o piuttosto la loro
tendenza), essi arrivano, come William James, a proclamare infine la supremazia
del «subconscio», attraverso la più incredibile sovversione dell’ordine
naturale che la storia delle idee abbia mai dovuto registrare.
La vita, considerata in se stessa, è sempre cambiamento,
modificazione incessante; è dunque comprensibile che eserciti un fascino così
grande sulla mentalità propria della civiltà moderna, il cui carattere più
notevole è appunto il cambiamento, di che è facile accorgersi a prima vista,
anche contenendosi ad un esame del tutto superficiale. Quando ci si trova in
tal modo rinchiusi nella vita e nelle concezioni che a questa direttamente si
riferiscono, non si può conoscere nulla di ciò che sfugge al cambiamento, nulla
dell’ordine trascendente ed immutabile, che è quello dei principi universali;
nessuna conoscenza metafisica è dunque più possibile: sempre si è ricondotti,
inevitabilmente, a questa constatazione, conseguenza ineluttabile di ognuna
delle caratteristiche dell’Occidente attuale. Parliamo di cambiamento,
piuttosto che di movimento, perché il primo di questi due termini è più esteso
del secondo: il movimento non è che la modalità fisica, o meglio meccanica, del
cambiamento, e vi sono concezioni che tengono conto di altre modalità che a
questa non si possono ricondurre, alle quali riservano il carattere più
propriamente «vitale», escludendo il movimento inteso nel senso ordinario,
inteso cioè come semplice cambiamento di posizione. Anche in questo caso non
bisogna esagerare certe opposizioni che appaiono tali soltanto secondo una
prospettiva più o meno circoscritta: una teoria «meccanicistica» è, per
definizione, una teoria che pretende di spiegare tutto per mezzo della materia
e del movimento; sennonché, attribuendo all’idea di vita tutta l’estensione di
cui essa è suscettibile, si potrebbe far rientrare in essa anche il movimento,
e allora ci si accorgerebbe che le due teorie che si professano antagoniste e
opposte sono in fondo molto più simili di quanto non vogliano ammettere i loro
rispettivi fautori[1]; di diverso non c’è che
una maggiore o minore ristrettezza di vedute da una parte o dall’altra.
Sia come si vuole, una concezione che si presenti come una
«filosofia della vita» è necessariamente, e proprio per questo motivo, una
«filosofia del divenire»; intendiamo con ciò dire che essa è rinchiusa nel
divenire e da esso non può uscire (divenire e cambiamento essendo sinonimi),
ciò che la spinge a situare in essa tutta la realtà e a negare che possa
esistere qualcos’altro al di fuori o al di là, in quanto la mentalità
sistematica è così fatta che immagina di includere la totalità dell’universo
nelle proprie formule; ed ecco un’altra negazione formale della metafisica.
Tale è, in particolare, l’evoluzionismo in tutte le sue forme, dalle concezioni
più «meccanicistiche», ivi compreso il grossolano «trasformismo», fino alle
teorie del genere di quelle di Bergson; in esse non può trovar posto che il
divenire, e da esse per di più, a dire il vero, del divenire è presa in
considerazione soltanto una porzione più o meno circoscritta. L’evoluzione, in
definitiva, non è altro che il cambiamento, con in più un’illusione sul suo
significato e sulla sua natura; fatta astrazione delle complicazioni,
evoluzione e progresso sono la stessa cosa, sennonché oggi si preferisce
sovente la prima delle due parole perché ha un aspetto maggiormente
«scientifico». L’evoluzionismo è come il prodotto delle due grandi
superstizioni moderne, la superstizione della scienza e la superstizione della
vita, e ciò che ne ha provocato il successo è precisamente il fatto che
razionalismo e sentimentalismo vi trovano entrambi la loro soddisfazione;
inoltre, le proporzioni variabili in cui queste due tendenze a volta a volta si
combinano hanno una grande importanza nel determinare la varietà delle forme
che tale teoria assume. Gli evoluzionisti mettono il cambiamento dappertutto,
perfino in Dio, quando arrivino ad ammetterlo: così Bergson si rappresenta Dio
come «un centro da cui scaturirebbero i mondi, il quale non è una cosa, ma uno scaturire continuo»; ed
aggiunge espressamente: «Dio, così definito, non ha fatto assolutamente nulla;
Egli è vita incessante, azione, libertà»[2]. Ecco
dunque ancora quelle idee di vita e di azione che perseguitano i nostri
contemporanei, e che ritroviamo qui in un campo che vorrebbe essere
speculativo; in realtà si tratta della soppressione della speculazione a
vantaggio dell’azione, che tutto invade ed assorbe.
Questa concezione di un Dio in divenire, immanente e non
trascendente, e quella (che praticamente è la stessa cosa) di una verità che
«si fa», la quale non è che una specie di limite ideale senza nulla di
attualmente realizzato, non sono affatto eccezionali nel pensiero moderno; i
pragmatisti, i quali hanno adottato l’idea di un Dio limitato per motivi
soprattutto «moralistici», non sono stati i primi ad inventarla, dal momento
che ciò che è pensato come suscettibile di evoluzione deve per forza essere
concepito come limitato. Il pragmatismo, come indica la sua stessa
denominazione, si presenta prima di tutto come una «filosofia dell’azione»; il
suo postulato, ammesso più o meno esplicitamente, è che l’uomo non ha altri
bisogni oltre quelli di ordine pratico, i quali sono contemporaneamente
materiali e sentimentali: è l’abolizione dell’intellettualità; ma se cosi è, perché
voler erigere ancora delle teorie? È questo un punto che non si capisce bene;
se il pragmatismo, come lo scetticismo (dal quale non differisce che sotto
l’aspetto dell’azione), volesse essere coerente con se stesso, dovrebbe
limitarsi a una semplice attitudine mentale, alla quale non può nemmeno tentare
di dar logicamente una giustificazione senza smentirsi; sennonché è
indubbiamente ben difficile mantenersi su una tale posizione di riserbo. Per
quanto decaduto possa essere dal punto di vista intellettuale, l’uomo non può
impedire a se stesso di ragionare, non foss’altro che per negare la ragione;
d’altronde i pragmatisti non negano la ragione, come fanno gli scettici, ma
vogliono ridurla a un uso puramente pratico; venendo dopo coloro che vollero
ridurre tutta l’intelligenza alla ragione senza però rifiutare a quest’ultima
un uso teorico, essi si trovano su uno scalino ancora più in basso della
discesa. C’è addirittura un punto riguardo al quale la negazione dei
pragmatisti va ancor più lontano di quella degli scettici puri: questi ultimi
non contestano che la verità esista fuori di noi, contestano soltanto il fatto
che noi possiamo raggiungerla; i pragmatisti invece, ad imitazione di qualche
sofista greco (che però probabilmente non si prendeva sul serio), giungono fino
al punto di sopprimere la verità stessa.
Vita e azione sono strettamente solidali, la sfera dell’una
è quella dell’altra, ed è in questo campo ristretto che tutta la civiltà
occidentale si riduce, oggi più che mai. Altrove abbiamo detto come gli
Orientali considerino l’azione e le sue conseguenze essenzialmente limitate, e
come oppongano, sotto questo aspetto, la conoscenza all’azione: la teoria
estremo-orientale del «non agire», la teoria indù della «liberazione», sono
cose inaccessibili alla mentalità occidentale ordinaria, la quale non riesce a
concepire che si possa pensare di liberarsi dall’azione e, a maggior ragione,
che sia effettivamente possibile riuscirvi. Per di più, di solito l’azione non
è presa in considerazione che nelle sue forme esteriori, le quali corrispondono
al movimento fisico: da ciò derivano quel crescente bisogno di velocità e
quella trepidazione febbrile che sono così peculiari della vita contemporanea;
agire per il piacere di agire non può aver altro nome che agitazione, perché
anche nell’azione vi sono dei gradi da osservare e delle distinzioni da fare.
Non ci sarebbe niente di più facile che mostrare quanto tutto ciò sia
incompatibile con quel che è riflessione e concentrazione, con i mezzi
essenziali, cioè, di ogni vera conoscenza; si tratta veramente del trionfo
della dispersione, nell’esteriorizzazione più completa che si possa immaginare;
si tratta della rovina definitiva di quel poco d’intellettualità che ancora
potrebbe sussistere, se nulla intervenga a reagire in tempo contro tali funeste
tendenze.
Fortunatamente l’eccesso del male può provocare una
reazione, e i pericoli, anche fisici, inerenti a uno sviluppo così anormale,
possono finire con l’ispirare una salutare paura; del resto, per il fatto
stesso che, quali siano le apparenze, la sfera dell’azione non comporta se non
possibilità estremamente limitate, non è possibile che questo sviluppo continui
indefinitamente, e per forza di cose presto o tardi un cambiamento di direzione
si imporrà. Sennonché, per il momento, non dobbiamo prendere in considerazione
le possibilità di un avvenire forse ancora lontano; quel che dobbiamo esaminare
è lo stato attuale dell’Occidente, e tutto quel che di esso vediamo conferma,
senza dubbio di sorta, che progresso materiale e decadenza intellettuale vanno
di pari passo; non vogliamo stabilire quale dei due sia la causa e quale
l’effetto, tanto più che in fondo si tratta di un insieme complesso nel quale
le relazioni dei diversi elementi sono talvolta reciproche e alterne. Senza
cercare di risalire alle origini del mondo moderno e al modo in cui la sua
mentalità specifica ha potuto costituirsi (ciò che sarebbe necessario per
risolvere completamente la questione), possiamo dire questo: perché
l’importanza del progresso materiale potesse giungere a oltrepassare certi
limiti, furono necessari anzitutto una certa sottovalutazione e un certo
impoverimento dell’intellettualità; cominciato questo movimento, dato che la
preoccupazione del progresso materiale assorbiva pressoché tutte le facoltà
dell’uomo, l’intellettualità andò gradualmente indebolendosi fino al punto in
cui la vediamo oggi; e, per quanto ciò possa indubbiamente sembrare difficile,
forse si indebolirà ancora di più. L’espansione della sentimentalità non è del
resto affatto incompatibile con il progresso materiale, dal momento che in
fondo si tratta di cose che sono pressoché del medesimo ordine; ci scusiamo di
tornare così sovente su questo punto, ma ciò è indispensabile, se si vuol
capire quel che succede intorno a noi. Questa espansione della sentimentalità,
la quale si attua in correlazione con la regressione dell’intellettualità, è
tanto più eccessiva e disordinata in quanto non incontra nulla che possa
contenerla e dirigerla efficacemente; né questo compito potrebbe essere svolto
dallo «scientismo»: quest’ultimo, infatti, come abbiamo visto, è lungi
dall’essere indenne dal contagio sentimentale, ed è caratterizzato soltanto più
da una falsa apparenza di intellettualità.
Uno dei sintomi più notevoli della preminenza assoluta del
sentimentalismo è ciò che noi chiamiamo «moralismo», l’evidente tendenza, cioè,
di ricondurre tutto a preoccupazioni di carattere morale, o, quanto meno, a
subordinare a queste ultime tutto il resto, e particolarmente ciò che viene
considerato come appartenente alla sfera dell’intelligenza. La morale, di per
sé, è cosa essenzialmente sentimentale; essa rappresenta un punto di vista
quanto mai relativo e contingente, il quale, del resto, è sempre stato proprio
dell’Occidente; ma il «moralismo» propriamente detto è un’esagerazione di tale
prospettiva, prodottasi in un’epoca assai recente. La morale, qualunque sia il
fondamento che le viene attribuito, e qualunque sia l’importanza che le viene
conferita, non è e non può essere che una regola d’azione; è evidente che essa
deve avere un’importanza capitale per uomini che non si interessano più che
dell’azione, e che questi ultimi sono tanto più portati a rivolgere ad essa
tutta la loro attenzione in quanto le considerazioni dì quest’ordine possono
dare l’illusione del pensiero in un periodo di decadenza intellettuale; ed è
ben questa la ragione della nascita del «moralismo».
Un fenomeno analogo era già avvenuto verso la fine della
civiltà greca, ma senza raggiungere, a quanto pare, le proporzioni che ha assunto
nella nostra epoca; a partire da Kant, infatti, quasi tutta la filosofia è
compenetrata di «moralismo», ciò che equivale a dire che essa concede la
priorità alla pratica sulla speculazione; e inoltre tale pratica è concepita in
un modo del tutto speciale. Questa tendenza arriva al suo più completo sviluppo
con le filosofie della vita e dell’azione di cui abbiamo parlato. Abbiamo già
richiamato l’attenzione sull’ossessione, presente perfino nel materialisti più
dichiarati, della cosiddetta «morale scientifica», esattamente rappresentativa
della medesima tendenza; la si chiami scientifica o filosofica, secondo i gusti
di ciascuno, essa non è che un’espressione del sentimentalismo, espressione che
non varia poi nemmeno in modo troppo sensibile. È infatti da notare una cosa
curiosa: in un determinato ambiente le concezioni morali si somigliano tutte in
maniera straordinaria, anche se pretendono di essere fondate su considerazioni
differenti e talvolta contrarie; questo fatto è chiaramente indicativo del carattere
artificiale di queste teorie con cui qualcuno si sforza di giustificare certe
regole pratiche, le quali sono invariabilmente quelle che si possono osservare
comunemente intorno a lui. Tutto sommato, tali teorie rappresentano
semplicemente le preferenze particolari di coloro che le formulano o che le
adottano; e sovente non è estraneo anche un interesse di partito: a provarlo
basta il modo con cui la «morale laica» (scientifica o filosofica, poco
importa) è messa in opposizione con la morale religiosa. Del resto, poiché il
punto di vista morale ha una ragion d’essere esclusivamente sociale,
l’intrusione della politica in un simile campo non è affatto sorprendente;
forse è perfino meno urtante dell’utilizzazione, per fini analoghi, di teorie
che si pretendono puramente scientifiche; e, dopo tutto, la stessa mentalità
«scientistica» non è forse stata creata per servire gli interessi di una
determinata politica? Dubitiamo seriamente che la maggior parte degli assertori
dell’evoluzionismo siano liberi da un secondo fine di questo genere; tanto per
fare un altro esempio, la cosiddetta «scienza delle religioni» assomiglia molto
di più ad uno strumento di polemica che a una scienza seria: sono questi alcuni
dei casi, a cui abbiamo già fatto allusione, nei quali il razionalismo è
soprattutto una maschera del sentimentalismo.
Né è soltanto in «scientisti» e filosofi che si può notare
l’intrusione del «moralismo»; a questo proposito è da considerare la
degenerazione dell’idea religiosa quale si può osservare nelle innumerevoli
sette che hanno preso origine dal Protestantesimo. Queste ultime, che sono le
sole forme religiose specificamente moderne, sono caratterizzate da una
riduzione progressiva dell’elemento dottrinale a vantaggio dell’elemento morale
o sentimentale; questo fenomeno è un caso particolare dell’impoverimento
generale dell’intellettualità, e non è per un caso fortuito che l’epoca della
Riforma coincise con quella del Rinascimento, vale a dire precisamente con
l’inizio dell’Evo Moderno. In alcune delle derivazioni del Protestantesimo
attuale la dottrina ha finito con il dissolversi completamente, e poiché nello
stesso tempo il culto vi si è ridotto a quasi nulla, l’elemento morale è
l’unico che in definitiva ancora si mantenga: il «Protestantesimo liberale» non
è più che un «moralismo» con «etichetta» religiosa; dire che sia ancora una
religione nel vero senso della parola non è dunque possibile, dal momento che,
dei tre elementi che sono compresi nella definizione della religione, ne rimane
uno solo. A queste condizioni limite, si tratta piuttosto di una specie di
pensiero filosofico speciale; d’altronde, i suoi rappresentanti se la intendono
generalmente abbastanza bene con gli assertori della «morale laica», detta
anche «indipendente», e capita talvolta addirittura che solidarizzino con essi
apertamente, ciò che dimostra come essi siano coscienti delle proprie affinità
reali. Per designare cose di questo genere usiamo volentieri il termine
«pseudo-religione», così come la stessa denominazione applichiamo anche a tutte
le sette «neospiritualistiche» che nascono e prosperano soprattutto nei paesi
protestanti, e ciò perché sia il «neospiritualismo» che il «Protestantesimo
liberale» procedono dalle stesse tendenze e dalla medesima mentalità; alla
religione è sostituita, mediante la soppressione dell’elemento intellettuale (o
in virtù della sua assenza, se si tratta di nuove creazioni), la religiosità,
cioè una semplice aspirazione sentimentale più o meno vaga e inconsistente, e
questa religiosità sta alla religione più o meno come l’ombra sta al corpo. È
questo il caso dell’«esperienza religiosa» di William James (complicata però
dal richiamo al «subconscio»), e quello della «vita interiore», nel senso che
le hanno attribuito i modernisti, giacché il modernismo non è stato che un
tentativo fatto per introdurre nello stesso Cattolicesimo la mentalità di cui
stiamo parlando; tale tentativo si è però spezzato contro la forza dello
spirito tradizionale di cui, a quanto pare, il Cattolicesimo è nell’Occidente
moderno l’unico rifugio, a parte le eccezioni individuali che possono sempre
esistere fuori d’ogni organizzazione.
È presso i popoli anglosassoni che il «moralismo» imperversa
con la massima intensità, ed è pure presso i popoli anglosassoni che il gusto
dell’azione si afferma nelle sue forme più estreme e brutali; come abbiamo
detto, questi due fenomeni sono strettamente legati l’uno all’altro. Nella
concezione corrente che rappresenta gli Inglesi come un popolo essenzialmente
attaccato alla tradizione c’è una singolare ironia, e chi pensa in questo modo
confonde semplicemente la tradizione con il costume. Veramente straordinaria è
la facilità con cui si abusa di certe parole: c’è gente che è arrivata al punto
di chiamare «tradizioni» degli usi popolari o addirittura delle abitudini di
origine recentissima, senza nessun valore e senza nessun significato; quanto a
noi, ci rifiutiamo di chiamare con questo nome ciò che è soltanto un rispetto
più o meno meccanico per certe forme esteriori, le quali talvolta non sono più
che «superstizioni» nel senso etimologico della parola; la vera tradizione è
nello spirito di un popolo, di una razza o di una civiltà, e ha ragioni
d’essere ben altrimenti profonde. In realtà la mentalità anglosassone è almeno
altrettanto antitradizionale quanto la mentalità francese e quella tedesca;
forse lo è in un modo un po’ diverso, giacché in Germania, e in una certa
misura anche in Francia, predomina piuttosto la tendenza «scientistica»;
sennonché importa poco che sia il «moralismo» o lo «scientismo» ad avere la
prevalenza, perché, lo ripetiamo ancora una volta, una separazione completa fra
queste due tendenze sarebbe del tutto artificiale: esse rappresentano le due
facce della mentalità moderna, e si ritrovano, in proporzioni diverse, presso
tutti i popoli occidentali.
La tendenza «moralistica» sembra oggi prevalere, mentre la
dominazione dello «scientismo» era fino a pochi anni fa più accentuata;
sennonché ciò che l’una guadagna non va necessariamente perduto per l’altra, se
si tien conto che esse sono perfettamente conciliabili e che, nonostante tutte
queste fluttuazioni, la mentalità comune le associa abbastanza strettamente: in
essa c’è posto per tutti gli idoli di cui abbiamo parlato precedentemente. Si
tratta soltanto di una specie di cristallizzazione di elementi diversi che si
opera ora di preferenza prendendo per centro l’idea di «vita» e quel che ad
essa si riferisce, così come si operava durante il secolo XIX attorno all’idea
di «scienza» e nel secolo XVIII attorno a quella di «ragione». Diciamo idee, ma
sarebbe più giusto parlare semplicemente di parole, poiché in questi casi
quello che si manifesta in tutta la sua ampiezza è proprio il fascino delle
parole. Ciò che viene generalmente chiamato «ideologia», con una sfumatura
peggiorativa da parte di coloro che non se ne lasciano trarre in inganno
(nonostante tutto qualcuno se ne incontra ancora), non è propriamente
nient’altro che verbalismo; e anche a questo proposito, possiamo riprendere il
termine «superstizione», nel senso etimologico a cui avevamo fatto allusione,
il quale designa una cosa che sopravvive a se stessa anche quando abbia perduto
la sua vera ragion d’essere. In effetti, l’unica ragion d’essere delle parole è
di esprimere le idee; attribuire un valore alle parole di per se stesse,
indipendentemente dalle idee, non mettere sotto le parole neppure un’idea e
lasciarsi influenzare dalla loro pura sonorità, tutto ciò è veramente
superstizione. Il «nominalismo», nei suoi diversi gradi, è l’espressione
filosofica di questa negazione dell’idea, a cui pretende di sostituire la
parola o l’immagine; confondendo la concezione con la rappresentazione
sensibile, esso non lascia permanere veramente più nulla della prima, e, in una
forma o nell’altra, è estremamente diffuso nella filosofia moderna, mentre in
altri tempi era soltanto un’eccezione. Tutto ciò è molto significativo, ma
bisogna ancora aggiungere che il nominalismo è quasi sempre solidale con
l’empirismo, con la tendenza, cioè, a ricondurre all’esperienza, e più
particolarmente all’esperienza sensibile, l’origine e il termine di ogni
conoscenza: negazione di tutto ciò che è veramente intellettuale, ecco quel che
ritroviamo sempre, quale elemento comune, in fondo a tutte queste tendenze e a
tutte queste opinioni: tale è infatti la radice di ogni deformazione mentale,
ed è questa negazione che è il presupposto implicito e necessario di tutto ciò
che contribuisce a falsare le concezioni dell’Occidente moderno.
Finora abbiamo più che altro presentato un quadro d’insieme
dello stato attuale del mondo occidentale, prendendolo in esame sotto l’angolo
visuale della mentalità; di qui bisogna incominciare perché da ciò dipende
tutto il resto, e nessun cambiamento può essere importante e duraturo se non
riguarda anzitutto la mentalità generale. Chi sostiene il contrario è vittima
di un’altra illusione tipicamente moderna: non percependo che le manifestazioni
esteriori, egli confonde le cause con gli effetti e crede volentieri che ciò
che non vede non esista; il cosiddetto «materialismo storico», vale a dire la
tendenza a tutto ridurre ai fatti economici, è un notevole esempio di questa
illusione. Siamo giunti a un punto tale che i fatti di questo tipo hanno
effettivamente acquisito, nella storia contemporanea, un’importanza che non
avevano mai avuto nel passato; tuttavia il loro influsso non è e non potrà mai
essere esclusivo. Del resto, non è il caso di lasciarsi trarre in inganno: i
«dirigenti», conosciuti o sconosciuti, sanno assai bene che per agire
efficacemente hanno anzitutto bisogno di formare e di alimentare delle correnti
di idee o di pseudo-idee, e non mancano di agire in conseguenza; anche quando
queste correnti sono puramente negative, sono nondimeno di natura mentale, ed è
nella mentalità degli uomini che deve in primo luogo germogliare ciò che in
seguito si realizzerà all’esterno; anche quando si tratti di abolire
l’intellettualità, bisogna prima convincere gli uomini della sua inesistenza e
volgere la loro attività in un’altra direzione.
Noi non siamo però fra coloro che sostengono che le idee
conducono il mondo direttamente; anche questa è una formula di cui si è troppo
abusato, e la maggior parte di coloro che la usano non sanno affatto che cosa
sia un’idea, quando non la confondano completamente con la parola. In altri
termini, sovente essi non sono altro che degli «ideologisti», ed i peggiori
sognatori «moralisti» appartengono precisamente a questa categoria: in nome
delle chimere che essi chiamano «diritto» e «giustizia», le quali non hanno
niente a che vedere con le vere idee, essi hanno esercitato nei recenti
avvenimenti un influsso troppo nefasto, di cui le conseguenze si fanno sentire
troppo pesantemente, perché sia necessario insistere su quel che intendiamo
dire. Ma in simili casi non ci sono solamente gli ingenui: come sempre, ci sono
anche coloro che li guidano a loro insaputa, li sfruttano, e se ne servono in
vista di interessi molto più positivi.
Comunque stiano le cose, siamo ancora tentati di ripeterlo,
quel che importa prima di tutto è di saper mettere ogni cosa al suo vero posto:
l’idea pura non ha nessun rapporto immediato con la sfera dell’azione e non può
avere sulle cose esteriori l’influenza diretta che esercita il sentimento;
tuttavia essa ne è il principio, ciò da cui tutto deve incominciare se non si
vuole che sia privo d’ogni solida base. Il sentimento, se non è guidato e
controllato dall’idea, non genera che errore, disordine e oscurità; non si
tratta di abolire il sentimento, ma di mantenerlo nei suoi limiti legittimi, e
questo vale anche per tutte le altre contingenze. La restaurazione di una
intellettualità vera, non foss’altro che in una élite ristretta, almeno all’inizio, ci pare l’unico mezzo per
metter fine alla confusione mentale che regna in Occidente. Solo in questo modo
si possono dissipare tante vane illusioni che ingombrano la mente dei nostri
contemporanei, tante superstizioni ben più ridicole e prive di fondamento di
tutte quelle che vengono derise ad ogni occasione dalle persone che vogliono
passare per «illuminate»; soltanto così si potrà trovare il fondamento per
un’intesa con i popoli orientali. Tutto ciò che abbiamo detto rappresenta
infatti fedelmente non solo il nostro proprio pensiero, il quale di per sé non
ha nessuna importanza, ma, cosa ben più degna di considerazione, il giudizio
dell’Oriente nei riguardi dell’Occidente, quando consenta ad occuparsene in
altro modo che opponendo alla sua azione invadente quella resistenza del tutto
passiva che l’Occidente non può comprendere perché comporta una potenza
interiore di cui esso non ha l’equivalente, e contro cui nessuna forza bruta
potrebbe prevalere. Questa potenza è al di là della vita, è superiore
all’azione e a tutto ciò che passa, è estranea al tempo ed è come una
partecipazione all’immutabilità suprema; se l’Orientale può subire pazientemente
la dominazione materiale dell’Occidente, è perché conosce la relatività delle
cose transitorie, e perché porta, nel più profondo del suo essere, la coscienza
dell’eternità.