"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

sabato 8 febbraio 2014

René Guénon, Oriente e Occidente, I-III La superstizione della vita

René Guénon
Oriente e Occidente 

Parte prima 
Illusioni occidentali

III
La superstizione della vita

Fra le altre cose, gli Occidentali rimproverano spesso alle civiltà orientali il loro carattere di fissità e di stabilità, il quale appare loro come la negazione del progresso; che tale esso sia effettivamente noi riconosciamo volentieri, sennonché, per vedere in questo carattere un difetto bisogna credere nel progresso.
Per noi, esso indica che tali civiltà partecipano dell’immutabilità dei principi sui quali si appoggiano, ed in ciò è visibile uno degli aspetti essenziali dell’idea di tradizione; la civiltà moderna è invece essenzialmente mutevole proprio perché manca di principio.
Non bisogna però credere che la stabilità di cui parliamo giunga al punto di escludere ogni modificazione, che sarebbe esagerato; essa riduce però la modificazione a non essere mai nient’altro che un adattamento alle circostanze, adattamento che non ha nessuna influenza sui principi, e che anzi da questi può essere rigorosamente dedotto, per poco che siano considerati non in se stessi, ma in vista di una determinata applicazione; per tale ragione esistono, oltre alla metafisica (la quale è autosufficiente in quanto conoscenza dei principi), tutte le «scienze tradizionali» che abbracciano l’ordine delle esistenze contingenti, ivi comprese le istituzioni sociali.
Né bisogna confondere l’immutabilità con l’immobilità; confusioni di questo genere sono frequenti negli Occidentali, perché essi sono generalmente incapaci di distinguere la concezione dall’immaginazione, e perché il loro spirito non può svincolarsi dalle rappresentazioni sensibili; ciò si nota nettamente in filosofi come Kant, i quali tuttavia non possono essere considerati dei «sensisti». L’immutabile non è ciò che è contrario al cambiamento, ma ciò che gli è superiore, così come il «sovrarazionale» non è l’«irrazionale»; occorre diffidare della tendenza a catalogare le cose per opposizioni e antitesi artificiali, in virtù di un’interpretazione semplicistica e sistematica che deriva soprattutto dall’incapacità di andare oltre e di risolvere i contrasti apparenti nell’unità armoniosa di una vera sintesi. Ciò non toglie che, almeno nell’attuale stato di cose, esista realmente una certa opposizione tra l’Oriente e l’Occidente, tanto dal punto di vista da cui ci poniamo quanto da molti altri; la divergenza esiste, ma non si deve dimenticare che essa è unilaterale e non simmetrica, simile a quella di un ramo che si separi dal tronco; è soltanto la civiltà occidentale che, procedendo nella direzione che ha continuato a seguire nel corso degli ultimi secoli, si è allontanata dalle civiltà orientali, tanto che tra l’una e le altre sembra non esserci più nessun elemento in comune, se così si può dire, nessun termine di paragone, nessun terreno favorevole a un’intesa e a una conciliazione.
L’Occidentale, in particolare l’Occidentale moderno (è sempre di quest’ultimo che intendiamo parlare), appare essenzialmente mutevole e incostante, sommerso in un movimento continuo e in un’agitazione incessante, senza che provi il minimo bisogno di uscirne; il suo stato è, tutto sommato, quello di un essere che non riesce a trovare il suo equilibrio e, non riuscendovi, rifiuta di ammettere che la cosa sia in se stessa possibile, o anche semplicemente auspicabile, e giunge al punto di menar vanto della sua impotenza. Questo cambiamento, in cui è rinchiuso e nel quale si compiace, dal quale non chiede di essere condotto a nessun punto di arrivo perché è giunto ad amarlo di per se stesso: ecco in fondo ciò che egli chiama «progresso», come se bastasse camminare in una direzione qualsiasi per essere certi di andare in avanti; ma verso che cosa, egli non pensa nemmeno di domandarselo. E la dispersione nella molteplicità, che è la conseguenza inevitabile di questo cambiamento senza principio e senza scopo (ed anzi l’unica conseguenza che non sia possibile contestare), egli la chiama «arricchimento», un’altra parola che, per il grossolano materialismo dell’immagine che evoca, è ben tipica e rappresentativa della mentalità moderna.
Il bisogno di attività esteriore spinto a questo estremo, il gusto dello sforzo per lo sforzo, indipendentemente dai risultati che se ne possono ottenere, tutto ciò non è affatto naturale dell’uomo, per lo meno dell’uomo normale, secondo l’idea che sempre e dappertutto se ne era avuta; eppure per l’Occidentale ciò è diventato in qualche modo naturale, forse per un effetto di quell’abitudine che Aristotele dice essere una seconda natura, ma soprattutto a causa dell’atrofia delle facoltà superiori dell’essere, necessariamente correlativa dello sviluppo intensivo degli elementi inferiori: soltanto chi non ha nessun mezzo per sfuggire all’agitazione può trovare in essa qualche soddisfazione, come solo chi ha un’intelligenza circoscritta all’attività razionale può trovare quest’ultima meravigliosa e sublime; per essere completamente a proprio agio in una sfera chiusa, qualunque essa sia, bisogna non concepire la possibilità che esista qualche cosa al di là. Le aspirazioni dell’Occidentale, unico fra tutti gli uomini (non parliamo dei selvaggi, riguardo ai quali è del resto difficile sapere qualcosa di sicuro), sono generalmente limitate in modo stretto al mondo sensibile e ai suoi annessi, fra i quali comprendiamo tutto l’ordine sentimentale e buona parte dell’ordine razionale; certamente ci sono delle onorevoli eccezioni, ma in questa sede non possiamo tener conto che della mentalità generale e comune, quella cioè che è veramente caratteristica del luogo e dell’epoca.
Dobbiamo ancora notare, nella stessa sfera intellettuale (o piuttosto in ciò che ne è rimasto), uno strano fenomeno che non è se non un caso particolare del modo di pensare da noi ora descritto: la passione della ricerca intesa come fine a se stessa, senza nessuna preoccupazione di vederla diretta a una soluzione qualsiasi; mentre gli altri uomini cercano per trovare e per sapere, l’Occidentale dei giorni nostri cerca per cercare; il detto del Vangelo Querite et invenietis, è per lui lettera morta in tutta la forza dell’espressione, giacché egli chiama precisamente «morto» tutto quel che costituisca un risultato definitivo, mentre al contrario dice «vivo» quel che non è se non sterile agitazione. Il gusto morboso per la ricerca, vera «inquietudine mentale» senza un termine e senza una via d’uscita, si manifesta in modo particolare nella filosofia moderna; la maggior parte di essa, infatti, si presenta solo come una serie di problemi del tutto artificiali, i quali esistono esclusivamente perché sono mal posti, e nascono e sussistono soltanto grazie ad equivoci accuratamente mantenuti; problemi insolubili in verità, dato il modo in cui sono formulati, ma che non si sente assolutamente il bisogno di risolvere, e di cui tutta la ragion d’essere consiste nell’alimentare indefinitamente controversie e discussioni che non approdano a nulla, e a nulla devono approdare. Sostituire in tal modo la ricerca alla conoscenza (a questo proposito abbiamo già segnalato l’abuso, cosi significativo, delle «teorie della conoscenza») significa rinunciare semplicemente all’oggetto proprio dell’intelligenza, e si comprenderà facilmente come in tali condizioni certuni siano arrivati a sopprimere la nozione stessa di verità, perché la verità non può essere concepita altrimenti che come la meta da raggiungere, e costoro, nella loro ricerca, non vogliono affatto avere una meta; tutto ciò non può dunque aver nulla d’intellettuale, anche prendendo l’intelligenza nel senso più esteso, e non nel più elevato e più puro; se abbiamo potuto parlare di «passione della ricerca», è perché si tratta effettivamente di un’invasione della sentimentalità in campi ai quali essa dovrebbe rimanere estranea. Beninteso, noi non protestiamo contro l’esistenza della sentimentalità, che è un fatto naturale, ma soltanto contro la sua estensione anormale e illegittima; ciò che occorre è essere capaci di mettere ogni cosa al suo posto e di lasciarvela, ma per farlo è necessaria una comprensione d’ordine universale che manca al mondo occidentale, in cui il disordine è legge; denunciare il sentimentalismo non significa affatto negare la sentimentalità, così come denunciare il razionalismo non significa negare la ragione; tanto il sentimentalismo quanto il razionalismo non sono che degli abusi, anche se possono apparire all’Occidente moderno come i due termini di un’alternativa da cui esso è incapace di uscire.
Abbiamo già detto che il sentimento è estremamente vicino al mondo materiale; non è senza ragione che il linguaggio unisce strettamente il sensibile e il sentimentale, e pur se occorre evitare di giungere al punto di confonderli, essi non sono che due modalità di uno stesso e identico ordine di cose. La mentalità moderna è quasi unicamente rivolta verso l’esteriore, vale a dire verso il mondo sensibile; il sentimento le appare come interiore, ed essa sovente lo vuole opporre, sotto questo aspetto, alla sensazione; ma tutto ciò è estremamente relativo, e la verità è che la stessa «introspezione» dello psicologo non raggiunge che dei fenomeni, vale a dire delle modificazioni esteriori e superficiali dell’essere; di veramente interiore e profondo c’è solo la parte superiore dell’intelligenza. Questo sembrerà sorprendente a chi, come gli intuizionisti contemporanei, non conoscendo che la parte inferiore dell’intelligenza (rappresentata dalle facoltà sensibili, e dalla ragione in quanto si applica agli oggetti sensibili), la crede più esteriore del sentimento; ma nei confronti dell’intellettualismo trascendente degli Orientali, razionalismo e intuizionismo stanno sullo stesso piano e si fermano entrambi alla parte esteriore dell’essere, ad onta delle illusioni grazie a cui l’una o l’altra di queste concezioni crede di afferrare qualcosa della sua natura intima.
In definitiva, in tutto ciò non si tratta mai di passare di là dalle cose sensibili; la differenza non consiste che nei procedimenti da seguire per far presa su di esse, nel modo in cui si reputa opportuno accostarle e nell’affermazione dell’importanza dell’uno o dell’altro dei loro diversi aspetti: si potrebbe dire che gli uni preferiscono insistere sull’aspetto «materia», gli altri sull’aspetto «vita». E di fatto questi sono i limiti di cui il pensiero occidentale non riesce a liberarsi: i Greci erano incapaci di liberarsi della forma; i moderni sembrano soprattutto incapaci di svincolarsi dalla materia, e quando tentano di farlo non possono in ogni caso uscire dalla sfera vitale. Tutte queste cose, tanto la vita quanto la materia (e più ancora della forma), non sono che condizioni di esistenza particolari del mondo sensibile; sono dunque su un medesimo piano, come abbiamo detto poco fa. L’Occidentale moderno, salvo casi eccezionali, assume il mondo sensibile come unico oggetto di conoscenza; che preferisca rivolgere la sua attenzione all’una o all’altra delle condizioni di questo mondo, che lo studi sotto questo o sotto quell’angolo visuale, percorrendolo in un senso o in un altro, il campo in cui la sua attività mentale si esercita rimane sempre invariabilmente lo stesso; se questo campo pare estendersi di più o di meno, l’espansione è sempre assai limitata, quando non si tratti poi addirittura di una pura e semplice illusione.
Esistono d’altra parte, allo stesso livello del mondo sensibile, diversi prolungamenti che appartengono ancora al medesimo grado dell’esistenza universale; a seconda che si consideri l’una o l’altra delle condizioni che definiscono tale mondo, si potrà raggiungere talvolta l’uno, talvolta l’altro di questi prolungamenti; ci si troverà tuttavia sempre rinchiusi in un dominio speciale e determinato. Quando Bergson dice che l’intelligenza ha come oggetto la materia, egli ha il torto di chiamare intelligenza ciò di cui vuol parlare, e questo fa perché quel che è veramente intellettuale gli è sconosciuto; avrebbe in fondo ragione se con questa denominazione errata intendesse parlare soltanto della parte più bassa dell’intelligenza, o, più precisamente, dell’uso che comunemente se ne fa nell’Occidente attuale. Quanto a lui, ciò che gli interessa essenzialmente è la vita: è ben noto il posto che nelle sue teorie occupa lo «slancio vitale», e il significato che egli dà a ciò che chiama la percezione della «durata pura»; sennonché la vita, qualunque sia il «valore» che le si attribuisce, è indissolubilmente legata alla materia, ed è sempre il medesimo mondo che viene considerato seguendo, a seconda dei casi, o una concezione «organicistica» e «vitalistica», ovvero una concezione «meccanicistica». Quando però nella costituzione di questo mondo si concede la preponderanza all’elemento vitale sull’elemento materiale è naturale che il sentimento abbia la meglio sulla cosiddetta intelligenza; gli intuizionisti con la loro «torsion d’esprit» e i pragmatisti con la loro «esperienza interiore», fanno semplicemente appello alle potenze oscure dell’istinto e del sentimento, che essi scambiano per il fondo stesso dell’essere, e, quando portano alle estreme conseguenze il loro pensiero (o piuttosto la loro tendenza), essi arrivano, come William James, a proclamare infine la supremazia del «subconscio», attraverso la più incredibile sovversione dell’ordine naturale che la storia delle idee abbia mai dovuto registrare.
La vita, considerata in se stessa, è sempre cambiamento, modificazione incessante; è dunque comprensibile che eserciti un fascino così grande sulla mentalità propria della civiltà moderna, il cui carattere più notevole è appunto il cambiamento, di che è facile accorgersi a prima vista, anche contenendosi ad un esame del tutto superficiale. Quando ci si trova in tal modo rinchiusi nella vita e nelle concezioni che a questa direttamente si riferiscono, non si può conoscere nulla di ciò che sfugge al cambiamento, nulla dell’ordine trascendente ed immutabile, che è quello dei principi universali; nessuna conoscenza metafisica è dunque più possibile: sempre si è ricondotti, inevitabilmente, a questa constatazione, conseguenza ineluttabile di ognuna delle caratteristiche dell’Occidente attuale. Parliamo di cambiamento, piuttosto che di movimento, perché il primo di questi due termini è più esteso del secondo: il movimento non è che la modalità fisica, o meglio meccanica, del cambiamento, e vi sono concezioni che tengono conto di altre modalità che a questa non si possono ricondurre, alle quali riservano il carattere più propriamente «vitale», escludendo il movimento inteso nel senso ordinario, inteso cioè come semplice cambiamento di posizione. Anche in questo caso non bisogna esagerare certe opposizioni che appaiono tali soltanto secondo una prospettiva più o meno circoscritta: una teoria «meccanicistica» è, per definizione, una teoria che pretende di spiegare tutto per mezzo della materia e del movimento; sennonché, attribuendo all’idea di vita tutta l’estensione di cui essa è suscettibile, si potrebbe far rientrare in essa anche il movimento, e allora ci si accorgerebbe che le due teorie che si professano antagoniste e opposte sono in fondo molto più simili di quanto non vogliano ammettere i loro rispettivi fautori[1]; di diverso non c’è che una maggiore o minore ristrettezza di vedute da una parte o dall’altra.
Sia come si vuole, una concezione che si presenti come una «filosofia della vita» è necessariamente, e proprio per questo motivo, una «filosofia del divenire»; intendiamo con ciò dire che essa è rinchiusa nel divenire e da esso non può uscire (divenire e cambiamento essendo sinonimi), ciò che la spinge a situare in essa tutta la realtà e a negare che possa esistere qualcos’altro al di fuori o al di là, in quanto la mentalità sistematica è così fatta che immagina di includere la totalità dell’universo nelle proprie formule; ed ecco un’altra negazione formale della metafisica. Tale è, in particolare, l’evoluzionismo in tutte le sue forme, dalle concezioni più «meccanicistiche», ivi compreso il grossolano «trasformismo», fino alle teorie del genere di quelle di Bergson; in esse non può trovar posto che il divenire, e da esse per di più, a dire il vero, del divenire è presa in considerazione soltanto una porzione più o meno circoscritta. L’evoluzione, in definitiva, non è altro che il cambiamento, con in più un’illusione sul suo significato e sulla sua natura; fatta astrazione delle complicazioni, evoluzione e progresso sono la stessa cosa, sennonché oggi si preferisce sovente la prima delle due parole perché ha un aspetto maggiormente «scientifico». L’evoluzionismo è come il prodotto delle due grandi superstizioni moderne, la superstizione della scienza e la superstizione della vita, e ciò che ne ha provocato il successo è precisamente il fatto che razionalismo e sentimentalismo vi trovano entrambi la loro soddisfazione; inoltre, le proporzioni variabili in cui queste due tendenze a volta a volta si combinano hanno una grande importanza nel determinare la varietà delle forme che tale teoria assume. Gli evoluzionisti mettono il cambiamento dappertutto, perfino in Dio, quando arrivino ad ammetterlo: così Bergson si rappresenta Dio come «un centro da cui scaturirebbero i mondi, il quale non è una cosa, ma uno scaturire continuo»; ed aggiunge espressamente: «Dio, così definito, non ha fatto assolutamente nulla; Egli è vita incessante, azione, libertà»[2]. Ecco dunque ancora quelle idee di vita e di azione che perseguitano i nostri contemporanei, e che ritroviamo qui in un campo che vorrebbe essere speculativo; in realtà si tratta della soppressione della speculazione a vantaggio dell’azione, che tutto invade ed assorbe.
Questa concezione di un Dio in divenire, immanente e non trascendente, e quella (che praticamente è la stessa cosa) di una verità che «si fa», la quale non è che una specie di limite ideale senza nulla di attualmente realizzato, non sono affatto eccezionali nel pensiero moderno; i pragmatisti, i quali hanno adottato l’idea di un Dio limitato per motivi soprattutto «moralistici», non sono stati i primi ad inventarla, dal momento che ciò che è pensato come suscettibile di evoluzione deve per forza essere concepito come limitato. Il pragmatismo, come indica la sua stessa denominazione, si presenta prima di tutto come una «filosofia dell’azione»; il suo postulato, ammesso più o meno esplicitamente, è che l’uomo non ha altri bisogni oltre quelli di ordine pratico, i quali sono contemporaneamente materiali e sentimentali: è l’abolizione dell’intellettualità; ma se cosi è, perché voler erigere ancora delle teorie? È questo un punto che non si capisce bene; se il pragmatismo, come lo scetticismo (dal quale non differisce che sotto l’aspetto dell’azione), volesse essere coerente con se stesso, dovrebbe limitarsi a una semplice attitudine mentale, alla quale non può nemmeno tentare di dar logicamente una giustificazione senza smentirsi; sennonché è indubbiamente ben difficile mantenersi su una tale posizione di riserbo. Per quanto decaduto possa essere dal punto di vista intellettuale, l’uomo non può impedire a se stesso di ragionare, non foss’altro che per negare la ragione; d’altronde i pragmatisti non negano la ragione, come fanno gli scettici, ma vogliono ridurla a un uso puramente pratico; venendo dopo coloro che vollero ridurre tutta l’intelligenza alla ragione senza però rifiutare a quest’ultima un uso teorico, essi si trovano su uno scalino ancora più in basso della discesa. C’è addirittura un punto riguardo al quale la negazione dei pragmatisti va ancor più lontano di quella degli scettici puri: questi ultimi non contestano che la verità esista fuori di noi, contestano soltanto il fatto che noi possiamo raggiungerla; i pragmatisti invece, ad imitazione di qualche sofista greco (che però probabilmente non si prendeva sul serio), giungono fino al punto di sopprimere la verità stessa.
Vita e azione sono strettamente solidali, la sfera dell’una è quella dell’altra, ed è in questo campo ristretto che tutta la civiltà occidentale si riduce, oggi più che mai. Altrove abbiamo detto come gli Orientali considerino l’azione e le sue conseguenze essenzialmente limitate, e come oppongano, sotto questo aspetto, la conoscenza all’azione: la teoria estremo-orientale del «non agire», la teoria indù della «liberazione», sono cose inaccessibili alla mentalità occidentale ordinaria, la quale non riesce a concepire che si possa pensare di liberarsi dall’azione e, a maggior ragione, che sia effettivamente possibile riuscirvi. Per di più, di solito l’azione non è presa in considerazione che nelle sue forme esteriori, le quali corrispondono al movimento fisico: da ciò derivano quel crescente bisogno di velocità e quella trepidazione febbrile che sono così peculiari della vita contemporanea; agire per il piacere di agire non può aver altro nome che agitazione, perché anche nell’azione vi sono dei gradi da osservare e delle distinzioni da fare. Non ci sarebbe niente di più facile che mostrare quanto tutto ciò sia incompatibile con quel che è riflessione e concentrazione, con i mezzi essenziali, cioè, di ogni vera conoscenza; si tratta veramente del trionfo della dispersione, nell’esteriorizzazione più completa che si possa immaginare; si tratta della rovina definitiva di quel poco d’intellettualità che ancora potrebbe sussistere, se nulla intervenga a reagire in tempo contro tali funeste tendenze.
Fortunatamente l’eccesso del male può provocare una reazione, e i pericoli, anche fisici, inerenti a uno sviluppo così anormale, possono finire con l’ispirare una salutare paura; del resto, per il fatto stesso che, quali siano le apparenze, la sfera dell’azione non comporta se non possibilità estremamente limitate, non è possibile che questo sviluppo continui indefinitamente, e per forza di cose presto o tardi un cambiamento di direzione si imporrà. Sennonché, per il momento, non dobbiamo prendere in considerazione le possibilità di un avvenire forse ancora lontano; quel che dobbiamo esaminare è lo stato attuale dell’Occidente, e tutto quel che di esso vediamo conferma, senza dubbio di sorta, che progresso materiale e decadenza intellettuale vanno di pari passo; non vogliamo stabilire quale dei due sia la causa e quale l’effetto, tanto più che in fondo si tratta di un insieme complesso nel quale le relazioni dei diversi elementi sono talvolta reciproche e alterne. Senza cercare di risalire alle origini del mondo moderno e al modo in cui la sua mentalità specifica ha potuto costituirsi (ciò che sarebbe necessario per risolvere completamente la questione), possiamo dire questo: perché l’importanza del progresso materiale potesse giungere a oltrepassare certi limiti, furono necessari anzitutto una certa sottovalutazione e un certo impoverimento dell’intellettualità; cominciato questo movimento, dato che la preoccupazione del progresso materiale assorbiva pressoché tutte le facoltà dell’uomo, l’intellettualità andò gradualmente indebolendosi fino al punto in cui la vediamo oggi; e, per quanto ciò possa indubbiamente sembrare difficile, forse si indebolirà ancora di più. L’espansione della sentimentalità non è del resto affatto incompatibile con il progresso materiale, dal momento che in fondo si tratta di cose che sono pressoché del medesimo ordine; ci scusiamo di tornare così sovente su questo punto, ma ciò è indispensabile, se si vuol capire quel che succede intorno a noi. Questa espansione della sentimentalità, la quale si attua in correlazione con la regressione dell’intellettualità, è tanto più eccessiva e disordinata in quanto non incontra nulla che possa contenerla e dirigerla efficacemente; né questo compito potrebbe essere svolto dallo «scientismo»: quest’ultimo, infatti, come abbiamo visto, è lungi dall’essere indenne dal contagio sentimentale, ed è caratterizzato soltanto più da una falsa apparenza di intellettualità.
Uno dei sintomi più notevoli della preminenza assoluta del sentimentalismo è ciò che noi chiamiamo «moralismo», l’evidente tendenza, cioè, di ricondurre tutto a preoccupazioni di carattere morale, o, quanto meno, a subordinare a queste ultime tutto il resto, e particolarmente ciò che viene considerato come appartenente alla sfera dell’intelligenza. La morale, di per sé, è cosa essenzialmente sentimentale; essa rappresenta un punto di vista quanto mai relativo e contingente, il quale, del resto, è sempre stato proprio dell’Occidente; ma il «moralismo» propriamente detto è un’esagerazione di tale prospettiva, prodottasi in un’epoca assai recente. La morale, qualunque sia il fondamento che le viene attribuito, e qualunque sia l’importanza che le viene conferita, non è e non può essere che una regola d’azione; è evidente che essa deve avere un’importanza capitale per uomini che non si interessano più che dell’azione, e che questi ultimi sono tanto più portati a rivolgere ad essa tutta la loro attenzione in quanto le considerazioni dì quest’ordine possono dare l’illusione del pensiero in un periodo di decadenza intellettuale; ed è ben questa la ragione della nascita del «moralismo».
Un fenomeno analogo era già avvenuto verso la fine della civiltà greca, ma senza raggiungere, a quanto pare, le proporzioni che ha assunto nella nostra epoca; a partire da Kant, infatti, quasi tutta la filosofia è compenetrata di «moralismo», ciò che equivale a dire che essa concede la priorità alla pratica sulla speculazione; e inoltre tale pratica è concepita in un modo del tutto speciale. Questa tendenza arriva al suo più completo sviluppo con le filosofie della vita e dell’azione di cui abbiamo parlato. Abbiamo già richiamato l’attenzione sull’ossessione, presente perfino nel materialisti più dichiarati, della cosiddetta «morale scientifica», esattamente rappresentativa della medesima tendenza; la si chiami scientifica o filosofica, secondo i gusti di ciascuno, essa non è che un’espressione del sentimentalismo, espressione che non varia poi nemmeno in modo troppo sensibile. È infatti da notare una cosa curiosa: in un determinato ambiente le concezioni morali si somigliano tutte in maniera straordinaria, anche se pretendono di essere fondate su considerazioni differenti e talvolta contrarie; questo fatto è chiaramente indicativo del carattere artificiale di queste teorie con cui qualcuno si sforza di giustificare certe regole pratiche, le quali sono invariabilmente quelle che si possono osservare comunemente intorno a lui. Tutto sommato, tali teorie rappresentano semplicemente le preferenze particolari di coloro che le formulano o che le adottano; e sovente non è estraneo anche un interesse di partito: a provarlo basta il modo con cui la «morale laica» (scientifica o filosofica, poco importa) è messa in opposizione con la morale religiosa. Del resto, poiché il punto di vista morale ha una ragion d’essere esclusivamente sociale, l’intrusione della politica in un simile campo non è affatto sorprendente; forse è perfino meno urtante dell’utilizzazione, per fini analoghi, di teorie che si pretendono puramente scientifiche; e, dopo tutto, la stessa mentalità «scientistica» non è forse stata creata per servire gli interessi di una determinata politica? Dubitiamo seriamente che la maggior parte degli assertori dell’evoluzionismo siano liberi da un secondo fine di questo genere; tanto per fare un altro esempio, la cosiddetta «scienza delle religioni» assomiglia molto di più ad uno strumento di polemica che a una scienza seria: sono questi alcuni dei casi, a cui abbiamo già fatto allusione, nei quali il razionalismo è soprattutto una maschera del sentimentalismo.
Né è soltanto in «scientisti» e filosofi che si può notare l’intrusione del «moralismo»; a questo proposito è da considerare la degenerazione dell’idea religiosa quale si può osservare nelle innumerevoli sette che hanno preso origine dal Protestantesimo. Queste ultime, che sono le sole forme religiose specificamente moderne, sono caratterizzate da una riduzione progressiva dell’elemento dottrinale a vantaggio dell’elemento morale o sentimentale; questo fenomeno è un caso particolare dell’impoverimento generale dell’intellettualità, e non è per un caso fortuito che l’epoca della Riforma coincise con quella del Rinascimento, vale a dire precisamente con l’inizio dell’Evo Moderno. In alcune delle derivazioni del Protestantesimo attuale la dottrina ha finito con il dissolversi completamente, e poiché nello stesso tempo il culto vi si è ridotto a quasi nulla, l’elemento morale è l’unico che in definitiva ancora si mantenga: il «Protestantesimo liberale» non è più che un «moralismo» con «etichetta» religiosa; dire che sia ancora una religione nel vero senso della parola non è dunque possibile, dal momento che, dei tre elementi che sono compresi nella definizione della religione, ne rimane uno solo. A queste condizioni limite, si tratta piuttosto di una specie di pensiero filosofico speciale; d’altronde, i suoi rappresentanti se la intendono generalmente abbastanza bene con gli assertori della «morale laica», detta anche «indipendente», e capita talvolta addirittura che solidarizzino con essi apertamente, ciò che dimostra come essi siano coscienti delle proprie affinità reali. Per designare cose di questo genere usiamo volentieri il termine «pseudo-religione», così come la stessa denominazione applichiamo anche a tutte le sette «neospiritualistiche» che nascono e prosperano soprattutto nei paesi protestanti, e ciò perché sia il «neospiritualismo» che il «Protestantesimo liberale» procedono dalle stesse tendenze e dalla medesima mentalità; alla religione è sostituita, mediante la soppressione dell’elemento intellettuale (o in virtù della sua assenza, se si tratta di nuove creazioni), la religiosità, cioè una semplice aspirazione sentimentale più o meno vaga e inconsistente, e questa religiosità sta alla religione più o meno come l’ombra sta al corpo. È questo il caso dell’«esperienza religiosa» di William James (complicata però dal richiamo al «subconscio»), e quello della «vita interiore», nel senso che le hanno attribuito i modernisti, giacché il modernismo non è stato che un tentativo fatto per introdurre nello stesso Cattolicesimo la mentalità di cui stiamo parlando; tale tentativo si è però spezzato contro la forza dello spirito tradizionale di cui, a quanto pare, il Cattolicesimo è nell’Occidente moderno l’unico rifugio, a parte le eccezioni individuali che possono sempre esistere fuori d’ogni organizzazione.
È presso i popoli anglosassoni che il «moralismo» imperversa con la massima intensità, ed è pure presso i popoli anglosassoni che il gusto dell’azione si afferma nelle sue forme più estreme e brutali; come abbiamo detto, questi due fenomeni sono strettamente legati l’uno all’altro. Nella concezione corrente che rappresenta gli Inglesi come un popolo essenzialmente attaccato alla tradizione c’è una singolare ironia, e chi pensa in questo modo confonde semplicemente la tradizione con il costume. Veramente straordinaria è la facilità con cui si abusa di certe parole: c’è gente che è arrivata al punto di chiamare «tradizioni» degli usi popolari o addirittura delle abitudini di origine recentissima, senza nessun valore e senza nessun significato; quanto a noi, ci rifiutiamo di chiamare con questo nome ciò che è soltanto un rispetto più o meno meccanico per certe forme esteriori, le quali talvolta non sono più che «superstizioni» nel senso etimologico della parola; la vera tradizione è nello spirito di un popolo, di una razza o di una civiltà, e ha ragioni d’essere ben altrimenti profonde. In realtà la mentalità anglosassone è almeno altrettanto antitradizionale quanto la mentalità francese e quella tedesca; forse lo è in un modo un po’ diverso, giacché in Germania, e in una certa misura anche in Francia, predomina piuttosto la tendenza «scientistica»; sennonché importa poco che sia il «moralismo» o lo «scientismo» ad avere la prevalenza, perché, lo ripetiamo ancora una volta, una separazione completa fra queste due tendenze sarebbe del tutto artificiale: esse rappresentano le due facce della mentalità moderna, e si ritrovano, in proporzioni diverse, presso tutti i popoli occidentali.
La tendenza «moralistica» sembra oggi prevalere, mentre la dominazione dello «scientismo» era fino a pochi anni fa più accentuata; sennonché ciò che l’una guadagna non va necessariamente perduto per l’altra, se si tien conto che esse sono perfettamente conciliabili e che, nonostante tutte queste fluttuazioni, la mentalità comune le associa abbastanza strettamente: in essa c’è posto per tutti gli idoli di cui abbiamo parlato precedentemente. Si tratta soltanto di una specie di cristallizzazione di elementi diversi che si opera ora di preferenza prendendo per centro l’idea di «vita» e quel che ad essa si riferisce, così come si operava durante il secolo XIX attorno all’idea di «scienza» e nel secolo XVIII attorno a quella di «ragione». Diciamo idee, ma sarebbe più giusto parlare semplicemente di parole, poiché in questi casi quello che si manifesta in tutta la sua ampiezza è proprio il fascino delle parole. Ciò che viene generalmente chiamato «ideologia», con una sfumatura peggiorativa da parte di coloro che non se ne lasciano trarre in inganno (nonostante tutto qualcuno se ne incontra ancora), non è propriamente nient’altro che verbalismo; e anche a questo proposito, possiamo riprendere il termine «superstizione», nel senso etimologico a cui avevamo fatto allusione, il quale designa una cosa che sopravvive a se stessa anche quando abbia perduto la sua vera ragion d’essere. In effetti, l’unica ragion d’essere delle parole è di esprimere le idee; attribuire un valore alle parole di per se stesse, indipendentemente dalle idee, non mettere sotto le parole neppure un’idea e lasciarsi influenzare dalla loro pura sonorità, tutto ciò è veramente superstizione. Il «nominalismo», nei suoi diversi gradi, è l’espressione filosofica di questa negazione dell’idea, a cui pretende di sostituire la parola o l’immagine; confondendo la concezione con la rappresentazione sensibile, esso non lascia permanere veramente più nulla della prima, e, in una forma o nell’altra, è estremamente diffuso nella filosofia moderna, mentre in altri tempi era soltanto un’eccezione. Tutto ciò è molto significativo, ma bisogna ancora aggiungere che il nominalismo è quasi sempre solidale con l’empirismo, con la tendenza, cioè, a ricondurre all’esperienza, e più particolarmente all’esperienza sensibile, l’origine e il termine di ogni conoscenza: negazione di tutto ciò che è veramente intellettuale, ecco quel che ritroviamo sempre, quale elemento comune, in fondo a tutte queste tendenze e a tutte queste opinioni: tale è infatti la radice di ogni deformazione mentale, ed è questa negazione che è il presupposto implicito e necessario di tutto ciò che contribuisce a falsare le concezioni dell’Occidente moderno.
Finora abbiamo più che altro presentato un quadro d’insieme dello stato attuale del mondo occidentale, prendendolo in esame sotto l’angolo visuale della mentalità; di qui bisogna incominciare perché da ciò dipende tutto il resto, e nessun cambiamento può essere importante e duraturo se non riguarda anzitutto la mentalità generale. Chi sostiene il contrario è vittima di un’altra illusione tipicamente moderna: non percependo che le manifestazioni esteriori, egli confonde le cause con gli effetti e crede volentieri che ciò che non vede non esista; il cosiddetto «materialismo storico», vale a dire la tendenza a tutto ridurre ai fatti economici, è un notevole esempio di questa illusione. Siamo giunti a un punto tale che i fatti di questo tipo hanno effettivamente acquisito, nella storia contemporanea, un’importanza che non avevano mai avuto nel passato; tuttavia il loro influsso non è e non potrà mai essere esclusivo. Del resto, non è il caso di lasciarsi trarre in inganno: i «dirigenti», conosciuti o sconosciuti, sanno assai bene che per agire efficacemente hanno anzitutto bisogno di formare e di alimentare delle correnti di idee o di pseudo-idee, e non mancano di agire in conseguenza; anche quando queste correnti sono puramente negative, sono nondimeno di natura mentale, ed è nella mentalità degli uomini che deve in primo luogo germogliare ciò che in seguito si realizzerà all’esterno; anche quando si tratti di abolire l’intellettualità, bisogna prima convincere gli uomini della sua inesistenza e volgere la loro attività in un’altra direzione.
Noi non siamo però fra coloro che sostengono che le idee conducono il mondo direttamente; anche questa è una formula di cui si è troppo abusato, e la maggior parte di coloro che la usano non sanno affatto che cosa sia un’idea, quando non la confondano completamente con la parola. In altri termini, sovente essi non sono altro che degli «ideologisti», ed i peggiori sognatori «moralisti» appartengono precisamente a questa categoria: in nome delle chimere che essi chiamano «diritto» e «giustizia», le quali non hanno niente a che vedere con le vere idee, essi hanno esercitato nei recenti avvenimenti un influsso troppo nefasto, di cui le conseguenze si fanno sentire troppo pesantemente, perché sia necessario insistere su quel che intendiamo dire. Ma in simili casi non ci sono solamente gli ingenui: come sempre, ci sono anche coloro che li guidano a loro insaputa, li sfruttano, e se ne servono in vista di interessi molto più positivi.
Comunque stiano le cose, siamo ancora tentati di ripeterlo, quel che importa prima di tutto è di saper mettere ogni cosa al suo vero posto: l’idea pura non ha nessun rapporto immediato con la sfera dell’azione e non può avere sulle cose esteriori l’influenza diretta che esercita il sentimento; tuttavia essa ne è il principio, ciò da cui tutto deve incominciare se non si vuole che sia privo d’ogni solida base. Il sentimento, se non è guidato e controllato dall’idea, non genera che errore, disordine e oscurità; non si tratta di abolire il sentimento, ma di mantenerlo nei suoi limiti legittimi, e questo vale anche per tutte le altre contingenze. La restaurazione di una intellettualità vera, non foss’altro che in una élite ristretta, almeno all’inizio, ci pare l’unico mezzo per metter fine alla confusione mentale che regna in Occidente. Solo in questo modo si possono dissipare tante vane illusioni che ingombrano la mente dei nostri contemporanei, tante superstizioni ben più ridicole e prive di fondamento di tutte quelle che vengono derise ad ogni occasione dalle persone che vogliono passare per «illuminate»; soltanto così si potrà trovare il fondamento per un’intesa con i popoli orientali. Tutto ciò che abbiamo detto rappresenta infatti fedelmente non solo il nostro proprio pensiero, il quale di per sé non ha nessuna importanza, ma, cosa ben più degna di considerazione, il giudizio dell’Oriente nei riguardi dell’Occidente, quando consenta ad occuparsene in altro modo che opponendo alla sua azione invadente quella resistenza del tutto passiva che l’Occidente non può comprendere perché comporta una potenza interiore di cui esso non ha l’equivalente, e contro cui nessuna forza bruta potrebbe prevalere. Questa potenza è al di là della vita, è superiore all’azione e a tutto ciò che passa, è estranea al tempo ed è come una partecipazione all’immutabilità suprema; se l’Orientale può subire pazientemente la dominazione materiale dell’Occidente, è perché conosce la relatività delle cose transitorie, e perché porta, nel più profondo del suo essere, la coscienza dell’eternità.

[1] In un’altra occasione abbiamo fatto un’osservazione analoga a proposito delle due varietà di «monismo», l’una spiritualistica e l’altra materialistica. 
[2] L’evolution créatrice, pag. 270.