Oriente e Occidente
Parte seconda
Possibilità di riavvicinamento
III
Costituzione e compito dell’élite
Nelle pagine che precedono abbiamo già parlato a diverse
riprese di quella che chiamiamo l’élite
intellettuale; pensiamo che non sia stato difficile capire come quest’ultima
non abbia per noi niente in comune con ciò che nell’Occidente attuale va
talvolta sotto il medesimo nome.
Gli scienziati e i filosofi più eminenti nella loro specialità possono non essere assolutamente qualificati per far parte di questa élite; anzi, ci sono molte probabilità che non lo siano, e ciò a causa delle abitudini mentali da essi acquisite, con gli innumerevoli pregiudizi da esse inseparabili, e soprattutto a causa di quella «miopia intellettuale» che ne è la conseguenza più abituale; è vero che possono sempre esistere delle onorevoli eccezioni, ma su queste ultime non è il caso di far troppo affidamento. In linea generale, vi sono più probabilità che sia ancora aperta la mente di una persona ignorante che non quella di chi, specializzatosi in un campo di studi essenzialmente ristretto, ha già subito la deformazione inerente a una particolare educazione; l’ignorante può portare in se stesso possibilità di comprensione alle quali è mancata soltanto l’occasione di svilupparsi, e questo caso può essere tanto più frequente in quanto l’insegnamento occidentale viene impartito in maniera estremamente difettosa.
Le attitudini di cui intendiamo parlare riferendoci all’élite sono dell’ordine dell’intellettualità pura, quindi non possono essere determinate mediante criteri esteriori, e si tratta di cose che non hanno nulla a che vedere con l’istruzione «profana»; vi sono, in certi paesi d’Oriente, persone che non sanno né leggere né scrivere, e tuttavia giungono a un grado molto elevato nell’élite intellettuale.
Gli scienziati e i filosofi più eminenti nella loro specialità possono non essere assolutamente qualificati per far parte di questa élite; anzi, ci sono molte probabilità che non lo siano, e ciò a causa delle abitudini mentali da essi acquisite, con gli innumerevoli pregiudizi da esse inseparabili, e soprattutto a causa di quella «miopia intellettuale» che ne è la conseguenza più abituale; è vero che possono sempre esistere delle onorevoli eccezioni, ma su queste ultime non è il caso di far troppo affidamento. In linea generale, vi sono più probabilità che sia ancora aperta la mente di una persona ignorante che non quella di chi, specializzatosi in un campo di studi essenzialmente ristretto, ha già subito la deformazione inerente a una particolare educazione; l’ignorante può portare in se stesso possibilità di comprensione alle quali è mancata soltanto l’occasione di svilupparsi, e questo caso può essere tanto più frequente in quanto l’insegnamento occidentale viene impartito in maniera estremamente difettosa.
Le attitudini di cui intendiamo parlare riferendoci all’élite sono dell’ordine dell’intellettualità pura, quindi non possono essere determinate mediante criteri esteriori, e si tratta di cose che non hanno nulla a che vedere con l’istruzione «profana»; vi sono, in certi paesi d’Oriente, persone che non sanno né leggere né scrivere, e tuttavia giungono a un grado molto elevato nell’élite intellettuale.
Non è però il caso di esagerare né in un senso né
nell’altro: se due cose sono indipendenti, da ciò non deriva necessariamente
che siano incompatibili, e se, soprattutto nelle condizioni del mondo
Occidentale, l’istruzione «profana» o esteriore può fornire dei mezzi d’azione
supplementari, si avrebbe certamente torto a disprezzarla oltre misura.
Tuttavia, bisogna tener presente che vi sono certi studi che non si possono
intraprendere impunemente se non quando si sia definitivamente immunizzati
contro ogni deformazione mentale, per aver ormai acquisito quell’invariabile
direzione interiore a cui abbiamo già fatto allusione; giunti a questo punto
non c’è più da temere nessun pericolo, poiché si sa in ogni momento in quale
direzione si proceda: ci si potrà inoltrare in qualsiasi campo senza rischiare
con ciò di smarrirsi, né di soffermarvisi più di quanto sia opportuno, perché
già in partenza se ne conosce esattamente l’importanza; non si può più essere
sedotti dall’errore, sotto qualunque forma si presenti, né confonderlo con la
verità, né mescolare il contingente con l’assoluto; se volessimo servirci di un
linguaggio simbolico, potremmo dire che si possiede una bussola infallibile e
una corazza impenetrabile. Ma prima di arrivare a questo punto occorrono spesso
lunghi sforzi (non diciamo sempre, perché il tempo in queste cose non è un
fattore essenziale), e sono allora necessarie le più grandi precauzioni onde
evitare ogni possibile confusione. Ci riferiamo qui ovviamente alle condizioni
attuali: è evidente che simili pericoli non possono esistere in una civiltà
tradizionale, nella quale coloro che sono davvero dotati intellettualmente
trovano ogni aiuto necessario a facilitare lo sviluppo delle loro attitudini;
in Occidente, invece, essi non possono trovare oggi che ostacoli, sovente
insormontabili, e soltanto grazie a circostanze alquanto eccezionali possono
riuscire ad evadere dai limiti imposti dalle convenzioni mentali e sociali.
Ai giorni nostri, l’élite
intellettuale come noi la concepiamo è perciò effettivamente inesistente in
Occidente; le eccezioni sono troppo rare e troppo isolate per essere
considerate come qualcosa a cui si possa attribuire tale nome, e per di più si
tratta in realtà di individui che, per la maggior parte, sono dei tutto
estranei al mondo occidentale, giacché dal punto di vista intellettuale devono
tutto all’Oriente, e si trovano pressapoco nella situazione degli stessi
Orientali che vivono in Europa, i quali si rendono anche troppo ben conto
dell’abisso che li separa mentalmente dagli uomini che li circondano.
In tali condizioni si è ovviamente tentati di rinchiudersi
in se stessi piuttosto che cercare di esprimere certe idee, a rischio di
urtarsi con l’indifferenza generale o addirittura di provocare delle reazioni
ostili; tuttavia, quando si sia convinti della necessità di certi mutamenti,
bisogna pur cominciare a far qualcosa in questo senso, e dare almeno, a coloro
che ne sono capaci (perché nonostante tutto qualcuno ce ne deve essere),
l’occasione di sviluppare le loro facoltà latenti. La prima difficoltà è di
raggiungere coloro che tali qualificazioni possiedono e forse non suppongono
minimamente quali siano le loro possibilità; la seconda difficoltà risiederebbe
nella successiva selezione e nell’eliminazione degli individui che si
credessero qualificati senza esserlo effettivamente, ma c’è da dire che molto
probabilmente tale eliminazione avverrebbe quasi da sé. Tutti questi problemi
non si presentano dove esiste un insegnamento tradizionale organizzato, che
ognuno può ricevere secondo la misura della propria capacità, ed esattamente
fino al grado a cui gli è possibile pervenire; esistono infatti dei mezzi per
determinare in modo preciso la zona nella quale si possono estendere le
possibilità intellettuali di una determinata individualità; questo è però un
argomento di carattere soprattutto «pratico», se tale parola può essere usata
in un caso simile, o «tecnico» se si preferisce, e non ci sarebbe nessun
interesse a esporlo nell’attuale stato del mondo occidentale. Del resto, in
questo momento la nostra intenzione è soltanto di far intravedere da abbastanza
lontano qualcuna delle difficoltà che si dovrebbero superare per giungere a un
inizio di organizzazione e a una costituzione anche soltanto embrionale dell’élite; sarebbe troppo prematuro cercare
di definire fin d’ora i mezzi di una tale costituzione, i quali, se anche un
giorno si tratterà di determinarli, dipenderanno inevitabilmente in larga
misura dalle circostanze, come tutto ciò che presenta propriamente il carattere
di un adattamento. La sola cosa attuabile, ferme restando le circostanze, è un
lavoro che permetta di dare in qualche modo coscienza di se stessi agli
elementi possibili della futura élite,
e ciò non può esser fatto se non esponendo certe concezioni, le quali, quando
raggiungeranno coloro che sono in grado di capire, gli riveleranno l’esistenza
di quel che ignoravano, e nello stesso tempo gli faranno intravedere la
possibilità di andare più lontano.
Tutto ciò che si riferisce alla sfera della metafisica è di
per sé capace di aprire orizzonti illimitati a chi realmente riesca a
concepirlo: non si tratta né di un’iperbole né di un modo di dire; questa
affermazione deve essere intesa esattamente alla lettera, come una conseguenza
immediata della stessa universalità dei principi. Chi semplicemente senta
parlare di studi metafisici e di cose che si situano esclusivamente nel dominio
dell’intellettualità pura non può neppur sospettare, a prima vista, tutto quel
che essi implicano; ma non ci s’inganni: si tratta delle cose più formidabili
che ci siano, nel cui confronti tutto il resto si riduce a un gioco da bambini.
È questa del resto la ragione per cui coloro che vogliono inoltrarsi in questo
campo senza possedere le qualificazioni adatte per giungere almeno ai primi
stadi di una vera comprensione, si ritirano spontaneamente quando vengano a
trovarsi nella necessità di intraprendere un lavoro serio ed effettivo; i veri
misteri si difendono da soli contro ogni curiosità profana, la loro natura
stessa li protegge da tutte le aggressioni della stupidità umana o delle
potenze d’illusione che possono essere dette «diaboliche» (lasciando libero
ciascuno di attribuire a questo aggettivo tutti i significati che vorrà, in
senso letterale o figurato). Sarebbe perciò puerile, a questo punto, ricorrere
a interdizioni che, per un tale genere di cose, non avrebbero la minima ragion
d’essere; simili proibizioni sono forse legittime in altri casi, che non
abbiamo intenzione di discutere, ma non possono essere valide quando si tratti
dell’intellettualità pura; quanto poi ai punti che, andando oltre la semplice
teoria, impongono un certo riserbo, riguardo ad essi non c’è bisogno di far
prendere a coloro che sanno di che si tratta nessun impegno per obbligarli alla
prudenza e alla necessaria discrezione; si tratta di cose che sono ben di là
dalla portata delle formule esteriori, e non hanno nessun rapporto con i
«segreti», più o meno ridicoli, invocati soprattutto da coloro che non hanno
niente da dire.
E poiché abbiamo avuto l’occasione di parlare
dell’organizzazione dell’élite,
dobbiamo a questo proposito segnalare un equivoco che ci è accaduto di
constatare abbastanza sovente: molti, appena sentono pronunciare la parola
«organizzazione», subito immaginano che si tratti di qualcosa di simile alla
formazione di un gruppo o di un’associazione qualsiasi. Ciò è assolutamente
sbagliato, e coloro che si fanno idee del genere dimostrano la propria.
completa incomprensione quanto al senso e alla portata della questione; quanto
abbiamo detto poco fa dovrebbe già farne intravedere le ragioni. Come la
metafisica vera non può essere rinchiusa nelle formule di un sistema o di una
teoria particolare, così l’élite
intellettuale non potrà assumere le forme di una «società» costituita con
statuti, regolamenti, riunioni, e tutte le altre manifestazioni esteriori
necessariamente implicite in questa parola; si tratta di ben altro che di
simili contingenze. Non ci si venga a dire che, tanto per cominciare, e per
formare in qualche modo il primo nucleo di un’élite, un’organizzazione del genere potrebbe essere opportuna; si
tratterebbe in realtà di un pessimo avvio, da cui non si potrebbe giungere che
a un fallimento. In questo caso, infatti, una tal forma di «società» sarebbe
non soltanto inutile, ma addirittura estremamente pericolosa a causa delle
deviazioni che non mancherebbero di verificarsi; per quanto si avesse cura di
provvedere a una selezione rigorosa, ben difficile sarebbe impedire, soprattutto
agli inizi e in un ambiente così poco preparato, l’introdursi di qualche
individualità la cui incomprensione basterebbe da sola a compromettere tutto;
ed è inoltre facilmente prevedibile che gruppi del genere rischierebbero di
lasciarsi sedurre dalla prospettiva di un’azione sociale immediata, fors’anche
addirittura politica nel senso più ristretto della parola, e questa sarebbe
certo la più pericolosa di tutte le eventualità, la più contraria al fine che
ci si propone.
Gli esempi di simili deviazioni sono fin troppo numerosi;
quante associazioni avrebbero potuto svolgere una funzione molto elevata (se
non puramente intellettuale, per lo meno confinante con l’intellettualità) se
avessero seguito l’indirizzo ricevuto all’origine, sono invece andate degenerando
rapidamente in questo modo, fino a ritrovarsi a procedere in senso opposto alla
primitiva direzione, di cui tuttavia continuano a portare i segni, ancora ben
visibili per chi sa capirli! In questo modo è andato totalmente perduto, fin
dal secolo XVI, tutto quel che sarebbe stato possibile salvare dell’eredità
lasciata dal Medio Evo; per non parlare poi di tutti gli inconvenienti
secondari: ambizioni meschine, rivalità personali e tutte quelle altre cause di
dissidio che fatalmente sorgono all’interno dei gruppi così costituiti,
soprattutto se si considera che bisogna per necessità tener conto
dell’individualismo occidentale.
Tutti questi esempi mostrano chiaramente cosa non bisogna
fare; meno bene si vede, forse, quel che ci sarebbe da fare, ed è naturale,
poiché, al punto in cui siamo, nessuno potrebbe dire con certezza in qual modo
l’élite verrà costituita, se mai lo
sarà; si tratta probabilmente di un avvenire lontano, e a questo proposito non
è il caso di farsi illusioni. Ad ogni buon conto, dobbiamo dire che in Oriente
le organizzazioni più potenti, quelle che lavorano veramente nel profondo, non
sono affatto delle «società» nel senso europeo della parola; talvolta, in vista
di uno scopo preciso e determinato, si formano, è vero, sotto la loro influenza,
delle società più o meno esteriori, ma queste ultime sono sempre temporanee, e
spariscono dopo aver adempiuto alla funzione loro assegnata. La società
esteriore non è quindi in questo caso che una manifestazione accidentale
dell’organizzazione interiore preesistente, e quest’ultima è sempre, in tutto
ciò che ha d’essenziale, assolutamente indipendente dalla prima; il compito
dell’élite non è quello di
intervenire in lotte che, qualunque sia la loro importanza, sono
necessariamente estranee al suo proprio dominio; la sua funzione sociale non
può essere altro che indiretta, ma appunto per questo tanto più efficace,
poiché per dirigere veramente ciò che è mobile non bisogna essere a propria
volta trascinati nel movimento[1]. Si
tratta dunque esattamente del contrario del piano che seguirebbero coloro che
volessero formare prima di tutto delle società a carattere esteriore; queste
ultime devono essere un effetto, non una causa; esse non potrebbero essere di
qualche utilità e non avrebbero una vera ragione di esistere se non quando l’élite si fosse già precedentemente
costituita (conformemente all’adagio scolastico: «per agire, bisogna essere»),
e fosse già organizzata in tal modo da impedire con sicurezza ogni deviazione.
Solo in Oriente si possono trovare attualmente gli esempi a
cui converrà ispirarsi; abbiamo sì molte ragioni di pensare che anche
l’Occidente abbia posseduto, nel Medio Evo, qualche organizzazione dello stesso
tipo, ma è per lo meno dubbio che se ne siano conservate tracce tali da
permettere di ricavarne un’idea esatta senza dover ricorrere a un’analogia con
ciò che esiste in Oriente, analogia basata d’altronde non su supposizioni
gratuite, ma su segni che non traggono in inganno quando già certe cose siano
conosciute; sennonché, per conoscerle, è necessario rivolgersi dov’è possibile
trovarle attualmente, giacché non si tratta di curiosità archeologiche, ma di
una conoscenza che, per essere di reale giovamento, non può essere che diretta.
Questa idea di organizzazioni che non rivestono la forma di una «società», che
non posseggono nessuno degli elementi esteriori che la caratterizzano, e che
proprio per ciò sono costituite in modo più solido ed efficace, in quanto
fondate realmente su ciò che è immutabile e non ammettenti in se stesse nessuna
contaminazione col transitorio, questa idea, dicevamo, è completamente estranea
alla mentalità moderna, ed abbiamo potuto renderci conto in diverse occasioni
delle difficoltà che si incontrano a volerla far comprendere; forse un giorno
avremo modo di ritornare su queste considerazioni, ma nel quadro del presente
studio non possono rientrare spiegazioni troppo estese su questo argomento, al
quale non abbiamo fatto allusione che incidentalmente e per tagliar corto con
un malinteso.
Non intendiamo tuttavia chiudere la porta ad alcuna
possibilità, a questo come ad ogni altro proposito, né scoraggiare alcuna
iniziativa, per poco che essa possa produrre risultati validi e non si risolva
semplicemente in uno spreco di forze; la nostra intenzione è soltanto di
mettere in guardia contro le opinioni false e le conclusioni troppo affrettate.
È ovvio che se qualcuno preferisse riunirsi e costituire delle specie di
«gruppi di studio», invece di lavorare isolatamente, non vedremmo in ciò un
pericolo, né un inconveniente, a condizione che queste persone fossero ben
convinte che non è necessario ricorrere a quel formalismo esteriore a cui la
maggior parte dei nostri contemporanei attribuiscono tanta importanza, proprio
perché per loro le cose esteriori sono tutto. Sennonché, anche se si trattasse
soltanto di formare dei «gruppi di studio», quando si volesse fare un lavoro
veramente serio e portarlo sufficientemente lontano, molte precauzioni
sarebbero tuttavia necessarie, giacché qualunque cosa venga compiuta in questo
campo mette in gioco forze di cui la gente comune non sospetta nemmeno
l’esistenza, e mancando di prudenza ci si espone a strane reazioni, per lo meno
fintanto che non sia stato raggiunto un certo livello. D’altra parte, le
questioni di metodo dipendono qui rigorosamente dai principi; ciò vuol dire che
in questo campo esse hanno un’importanza ben più considerevole che in qualsiasi
altro, e conseguenze ben più gravi che non sul terreno scientifico, dove per
altro sono già ben lungi dall’essere indifferenti.
Non possiamo sviluppare ora tutte queste considerazioni;
vogliamo però mettere in evidenza il fatto che quanto andiamo dicendo non
costituisce un’esagerazione: semplicemente, come abbiamo fatto presente fin
dall’inizio, non intendiamo dissimulare le difficoltà. L’adattamento a questa o
a quella situazione definita è sempre estremamente delicato, e bisogna
possedere dati teorici incrollabili e assai estesi prima di fare il minimo
tentativo di «realizzazione». La stessa acquisizione di tali dati non è
un’impresa molto facile per gli Occidentali; in ogni caso, e su questo punto
non insisteremo mai abbastanza, essa è ciò da cui bisogna necessariamente
incominciare, e costituisce l’unica preparazione indispensabile, in mancanza
della quale non si potrà fare assolutamente nulla, e dalla quale essenzialmente
dipendono, in qualsiasi campo, tutte le realizzazioni ulteriori.
Vi è poi un altro punto sul quale ci restano da dare
spiegazioni: abbiamo detto altrove che l’appoggio degli Orientali non verrebbe
a mancare all’élite intellettuale
nello svolgimento della sua opera, poiché naturalmente essi saranno sempre
favorevoli ad un riavvicinamento che sia compiuto in modo normale; ma ciò
presuppone un’élite occidentale già
costituita, e per questa costituzione è necessario che l’iniziativa parta
dall’Occidente. Nelle attuali condizioni i rappresentanti autorizzati delle
tradizioni orientali non possono interessarsi intellettualmente all’Occidente;
o, per lo meno, essi non possono interessarsi che delle rare individualità che
a loro si rivolgono, direttamente o indirettamente, e rappresentano casi troppo
eccezionali per offrire la possibilità di un’azione generalizzata. Possiamo
affermare questo: mai nessuna organizzazione orientale costituirà delle
«filiali» in Occidente; né, almeno finché le condizioni non saranno
completamente cambiate, alcuna organizzazione orientale potrà avere relazioni
con qualche organizzazione occidentale, qualunque essa sia, giacché essa
potrebbe averne soltanto con un’élite
costituita conformemente ai veri principi. Fino ad allora dunque, agli
Orientali non si potranno chiedere che ispirazioni, ciò che del resto è già
molto; d’altra parte, tali ispirazioni potranno essere trasmesse soltanto
attraverso l’influenza di individui agenti come intermediari, e non mediante
un’azione diretta da parte di organizzazioni che, salvo rivolgimenti
imprevisti, non comprometteranno mai la loro responsabilità negli affari del
mondo occidentale; ciò è facilmente comprensibile perché tali affari, dopo
tutto, non li riguardano, e non ci sono che gli Occidentali che siano sempre
anche troppo inclini a immischiarsi nelle faccende altrui. Se in Occidente
nessuno dimostra la buona volontà e nello stesso tempo la capacità di
comprendere tutto quel che è necessario per riavvicinarsi all’Oriente,
quest’ultimo si guarderà bene dall’intervenire, cosciente del resto di come
sarebbe inutile, cosicché anche se l’Occidente stesse per precipitare verso un
cataclisma, non potrà far altro che abbandonarlo al proprio destino; come agire
infatti sull’Occidente, anche volendo, se in esso non si trova il minimo punto
d’appoggio? Ad ogni modo, e lo ripetiamo, è agli Occidentali che toccano i
primi passi; non si tratta naturalmente della massa occidentale, e nemmeno di
un considerevole numero d’individui, ciò che sarebbe financo, sotto un certo
riguardo, più dannoso che utile; per incominciare bastano pochi, a condizione
che siano in grado di capire veramente e profondamente tutto quel che è
necessario capire.
E inoltre ci tocca precisare questo: coloro che hanno
assimilato direttamente l’intellettualità orientale non possono pretendere di
avere un compito diverso da quello di intermediari, al quale abbiamo accennato
prima; in virtù di tale assimilazione, essi sono troppo vicini all’Oriente per
poter fare di più; essi possono suggerire idee, esporre concezioni, dare
indicazioni su quel che converrebbe fare, ma non prendere l’iniziativa di
un’organizzazione, iniziativa che, se venisse da loro, non sarebbe veramente
Occidentale. Qualora esistessero ancora in Occidente delle individualità, anche
isolate, che avessero conservato intatto il deposito della tradizione puramente
intellettuale che dovette esistere nel Medio Evo, tutto sarebbe molto più
semplice; ma tocca a queste individualità affermare la propria esistenza e
produrre i propri titoli, e finché non l’avranno fatto non compete a noi la
soluzione di questo problema. Se questa eventualità, purtroppo assai
improbabile, non si dovesse verificare, solo un’assimilazione di secondo grado
delle dottrine orientali, se così possiamo chiamarla, potrebbe suscitare i
primi elementi della futura élite;
con ciò vogliamo dire che l’iniziativa dovrebbe partire da individualità che si
fossero sviluppate in seguito alla comprensione di queste dottrine, ma senza
avere legami troppo diretti con l’Oriente, conservando invece il contatto con
tutto ciò che di valido può ancora esistere nella civiltà occidentale, e
particolarmente con le vestigia di spirito tradizionale che hanno potuto
permanervi, nonostante la mentalità moderna, principalmente sotto la forma
religiosa. Con questo non intendiamo dire che tale contatto debba venire
necessariamente interrotto per coloro la cui intellettualità è diventata
completamente orientale, tanto più che, in fondo, essi sono essenzialmente dei
rappresentanti dello spirito tradizionale; la loro situazione è però troppo
particolare perché essi non siano costretti a mantenere uno strettissimo
riserbo, soprattutto fino a quando non si faccia espressamente ricorso alla
loro collaborazione; essi devono stare in aspettativa similmente agli Orientali
di nascita: tutto quel che possono fare di più di questi ultimi è presentare le
dottrine sotto una forma meglio appropriata all’Occidente, e mettere in
evidenza le possibilità di riavvicinamento che conseguirebbero dalla loro
comprensione; essi, ripetiamo, devono accontentarsi di essere gli intermediari,
la presenza dei quali prova che non tutte le speranze di un’intesa sono
irrimediabilmente perdute.
Non vorremmo che qualcuno prendesse queste riflessioni per
quel che non sono, né che ne traesse conseguenze che potrebbero rischiare di
essere completamente estranee al nostro pensiero; se troppi punti restano
imprecisi, il fatto è che non ci è possibile far diversamente, e soltanto le
circostanze permetteranno di chiarirli in seguito, a poco a poco. Le
contingenze intervengono necessariamente in tutto ciò che non è puramente e
rigorosamente dottrinale, ed è da esse che possono derivare i mezzi secondari
di ogni attualizzazione che presupponga un preventivo adattamento; diciamo i
mezzi secondari, poiché l’unico mezzo essenziale, non bisogna dimenticarlo, è
costituito dalla conoscenza pura (intesa come conoscenza semplicemente teorica,
preparazione della conoscenza pienamente effettiva; quest’ultima, infatti, non
è un mezzo, ma un fine in se stessa, e nei suoi confronti ogni applicazione non
ha che il carattere di un «accidente» che non può modificarla né determinarla).
Se, parlando di questioni di tal natura, abbiamo cura di non dire né troppo né
troppo poco, ciò è dovuto al fatto che, da un lato, vogliamo farci intendere
nel modo più chiaro possibile, e dall’altro dobbiamo tuttavia sempre riservare
le possibilità, attualmente impreviste, che le circostanze possono far emergere
più tardi; gli elementi che possono entrare in gioco sono di una complessità
prodigiosa, e in un ambiente instabile come il mondo occidentale non è mai
troppa la parte lasciata a quell’imprevisto, che non diciamo assolutamente
imprevedibile, ma riguardo al quale non ci riconosciamo il diritto di fare
anticipazioni. Questa è la ragione per cui le precisazioni che si possono dare
sono soprattutto negative, nel senso che corrispondono ad obiezioni, sia
effettivamente formulate, sia soltanto considerate come possibili, ovvero
evitano errori, malintesi e forme diverse di incomprensione, a mano a mano che
si presenta l’occasione di constatarle; sennonché, procedendo in questo modo
per eliminazione, si giunge a una definizione più netta della questione, e di
fatto, qualunque siano le apparenze, ciò rappresenta già un risultato
apprezzabile e realmente positivo. Sappiamo perfettamente che l’impazienza
occidentale si adatta con difficoltà a simili metodi, e che sarebbe volentieri
incline a sacrificare la sicurezza a vantaggio dell’immediatezza; ma non abbiamo
da tener conto di queste esigenze, le quali impediscono che si edifichi
alcunché di stabile, e sono letteralmente opposte al fine che ci proponiamo.
Chi non sia nemmeno capace di frenare la propria impazienza, come sarebbe in
grado di portare a buon fine il benché minimo lavoro di carattere metafisico?
Provino costoro, a titolo di semplice esercizio preliminare, da cui non saranno
minimamente impegnati, a concentrare la propria attenzione su un’unica idea, di
qualsiasi genere, per un mezzo minuto (e non è esigere troppo), e constateranno
come non abbiamo avuto torto mettendo in dubbio le loro attitudini[2].
Riguardo ai mezzi mediante i quali un’élite intellettuale potrà giungere a costituirsi in Occidente, non
aggiungeremo perciò più nulla; anche volendo ammettere che le circostanze siano
le più favorevoli possibili, tale costituzione è lungi dall’apparire come
immediatamente realizzabile, ma ciò non vuol dire che non si debba pensare già
fin d’ora alla sua preparazione. Quanto al compito che a tale élite sarà affidato, esso assume una
forma abbastanza definita dopo tutto quel che è stato detto fin qui: si tratta
essenzialmente del ritorno dell’Occidente ad una civiltà tradizionale nei suoi
principi e in tutto l’insieme delle sue istituzioni. Tale ritorno dovrà compiersi
seguendo un ordine ben definito che va dai principi alle conseguenze,
discendendo per gradi fino alle applicazioni più contingenti; esso non potrà
essere realizzato se non utilizzando sia i dati orientali, sia gli elementi
tradizionali rimasti nello stesso Occidente, i primi completando i secondi e
sovrapponendosi loro senza modificarli in se stessi, ma conferendogli, col
senso più profondo di cui sono suscettibili, tutta la pienezza della loro
ragion d’essere. È necessario prima di tutto, come abbiamo detto, attenersi al
punto di vista puramente intellettuale, e, per una ripercussione del tutto
naturale, le conseguenze si estenderanno in seguito per gradi, e più o meno
rapidamente, a tutti gli altri campi, compreso quello delle istituzioni sociali;
se, indipendentemente da ciò, qualche lavoro valido sarà già stato compiuto in
questi campi secondari, tanto meglio, ma non è questa la prima finalità da
perseguire, perché altrimenti si darebbe maggiore importanza a quel che è
accessorio a detrimento dell’essenziale. Finché non si sarà giunti al momento adatto,
le considerazioni che si riferiscono ai punti di vista secondari non dovranno
intervenire se non a modo d’esempi, o meglio di «illustrazioni»; infatti,
quando siano presentate opportunamente e in una forma appropriata, esse possono
avere il vantaggio di facilitare la comprensione di verità più essenziali,
fornendo una specie di punto d’appoggio, così come possono destare l’attenzione
di persone che, per un errato apprezzamento delle proprie facoltà, potrebbero
credersi incapaci di attingere alla pura intellettualità, senza nemmeno sapere
di che si tratta; a questo proposito si ricordi quanto abbiamo detto parlando
dei mezzi inattesi che possono determinare occasionalmente uno sviluppo
intellettuale ai suoi inizi.
È necessario che sia, in maniera assoluta, definita la
distinzione tra l’essenziale e l’accidentale; ma, una volta stabilita
chiaramente tale distinzione, non intendiamo imporre nessun limite restrittivo
al compito dell’élite, nella quale
ognuno potrà sempre trovare il modo di utilizzare le proprie facoltà
particolari quale sovrappiù, per così dire, e senza che ciò vada affatto a
detrimento dell’essenziale. Insomma, l’élite
lavorerà prima di tutto per se stessa, poiché naturalmente i suoi membri
trarranno dal proprio sviluppo un immediato beneficio, il quale non potrà
mancare, costituendo anzi un’acquisizione permanente e inalienabile; sennonché
nello stesso tempo e con ciò stesso, essa lavorerà anche necessariamente,
benché meno immediatamente, per l’Occidente in generale, essendo impossibile
che un’elaborazione come quella di cui parliamo si attui in un ambiente
qualsiasi senza produrvi prima o poi modificazioni considerevoli. Inoltre, le
correnti mentali sono soggette a leggi perfettamente definite, e la conoscenza
di queste leggi permette un’azione ben più efficace che non l’uso di mezzi
puramente empirici; è vero che in questo campo, per giungere a un’applicazione
e realizzarla in tutta la sua ampiezza, bisogna potersi appoggiare a
un’organizzazione già fortemente costituita, ma ciò non toglie che risultati
parziali già apprezzabili possano essere ottenuti prima di arrivare a questo
punto. Per quanto difettosi e incompleti siano i mezzi che si hanno a
disposizione, bisogna tuttavia cominciare con il metterli in opera quali essi
sono, ché altrimenti non si riuscirà mai ad ottenerne altri più perfetti;
possiamo aggiungere poi, che anche la minima cosa operata in conformità
armonica con l’ordine dei principi porta virtualmente in sé delle possibilità
la cui espansione può determinare le conseguenze più prodigiose, e ciò in tutti
i campi, e a mano a mano che le sue ripercussioni vi si estendono secondo la
loro ripartizione gerarchica e in progressione indefinita[3].
Naturalmente, parlando del compito dell’élite, presupponiamo che niente venga ad interrompere bruscamente
la sua azione, e cioè teniamo conto dell’ipotesi più favorevole; ma può darsi
che, a causa delle discontinuità esistenti nella serie degli avvenimenti
storici, la civiltà occidentale debba scomparire a causa di qualche cataclisma
prima che tale azione sia compiuta. Se ciò dovesse avvenire prima che l’élite fosse pienamente costituita, i
risultati del lavoro precedente si limiterebbero evidentemente ai benefici
intellettuali che ne avrebbero tratto coloro che ne abbiano fatto parte; ma
tali benefici sono in se stessi qualcosa di inestimabile, per cui se anche non
si dovesse realizzare nient’altro, varrebbe lo stesso la pena di intraprendere
un simile lavoro; i frutti rimarrebbero riservati allora soltanto a pochi, ma
costoro avrebbero ottenuto per sé l’essenziale. Se l’élite fosse invece già giunta a costituirsi pur non avendo ancora
avuto il tempo di esercitare un’azione abbastanza generalizzata da modificare
profondamente la mentalità occidentale nel suo insieme, qualcosa di più sarebbe
stato ottenuto: questa élite sarebbe
realmente, durante il periodo dello sconvolgimento, l’«arca» simbolica
galleggiante sulle acque del diluvio, e di conseguenza potrebbe servire come
punto d’appoggio per un’azione in grazia della quale l’Occidente, pur perdendo
probabilmente la propria esistenza autonoma, riceverebbe dalle civiltà
sopravvissute i principi di uno sviluppo nuovo, questa volta regolare e
normale. In questo secondo caso si dovrebbero però considerare, almeno
transitoriamente, altre temibili eventualità; le rivoluzioni etniche alle quali
abbiamo già alluso altre volte sarebbero certamente gravissime; e inoltre,
sarebbe di gran lunga preferibile per l’Occidente se, invece di venire
assorbito puramente e semplicemente, potesse trasformarsi in modo da avere una
civiltà paragonabile a quelle d’Oriente, ma adatta alle sue condizioni
specifiche, ciò che lo dispenserebbe, quanto alla massa, dall’assimilazione più
o meno faticosa e difficile di forme tradizionali che non sono state fatte per
esso. Tale trasformazione, che si opererebbe senza urti e quasi spontaneamente
per restituire all’Occidente una civiltà tradizionale appropriata, corrisponde
a quella che abbiamo chiamato l’ipotesi più favorevole; sarebbe questa l’opera
affidata all’élite, senza dubbio con
l’aiuto dei detentori delle tradizioni orientali, ma con un’iniziativa
occidentale quale punto di partenza; e adesso dovrebbe esser facile capire come
tale iniziativa, anche quando non fosse una condizione così rigorosamente
indispensabile come effettivamente è, porterebbe in ogni caso un considerevole
vantaggio, in quanto permetterebbe all’Occidente di mantenere la propria
autonomia conservando per di più, per il suo sviluppo futuro, quegli elementi
validi che avesse potuto acquisire, nonostante tutto, nell’attuale civiltà.
Infine, se ci fosse il tempo per realizzare questa ipotesi, si eviterebbe la
catastrofe a cui ci riferivamo precedentemente, giacché la civiltà occidentale,
ritornata normale, riotterrebbe il suo posto legittimo fra le altre, e non
sarebbe più, come oggi, una minaccia per il resto dell’umanità, un fattore di
squilibrio e di oppressione nel mondo.
Ad ogni buon conto, occorre comportarsi come se il fine da
noi indicato debba essere raggiunto, poiché, anche se le circostanze
impedissero la sua realizzazione, niente di quanto sarà stato compiuto nel
senso che conduce ad esso andrà perduto; per di più la considerazione di tale
fine può fornire, a coloro che sono qualificati per far parte dell’élite, un motivo per rivolgere i propri
sforzi alla comprensione dell’intellettualità pura, motivo che non è affatto da
disprezzare finché non abbiano preso completamente coscienza di qualcosa di
meno contingente, intendiamo dire del valore dell’intellettualità in se stessa,
indipendentemente dai risultati che essa è in grado di produrre quale
sovrappiù, in campi più o meno esteriori. Prendere in considerazione tali
risultati, per quanto secondari possano essere, può dunque costituire, se non
altro, un mezzo «ausiliario», né si cade nel rischio che diventi un ostacolo se
si ha cura di tenerne conto esattamente nella misura dovuta, rispettando le
gerarchie, così da non perdere mai di vista l’essenziale sacrificandolo
all’accidentale; a questo proposito abbiamo già dato spiegazioni sufficienti,
tali almeno da giustificare, agli occhi di coloro che comprendono queste cose,
la prospettiva da noi adottata, la quale, benché non corrisponda a tutto il
nostro pensiero (e non può corrispondervi, in quanto per noi le considerazioni
puramente dottrinali e speculative sono al di sopra di ogni altra), ne forma
tuttavia una parte molto reale.
In questa sede non abbiamo altra pretesa oltre quella di
esaminare delle possibilità (probabilmente molto lontane, ma tuttavia possibilità),
ed è questa una ragione sufficiente perché esse meritino di venire esaminate;
anzi, il fatto stesso di prenderle in esame può già contribuire in una certa
misura a renderne più vicina l’attuazione. Del resto, in un ambiente
essenzialmente in movimento come l’Occidente moderno, gli avvenimenti possono,
sotto l’azione delle circostanze più impensate, svilupparsi con una rapidità
che oltrepassa di gran lunga tutte le previsioni; non è mai troppo presto,
dunque, per prepararsi ad affrontarli, e val meglio vedere troppo lontano che
lasciarsi sorprendere dall’irreparabile. Non ci facciamo certo nessuna
illusione sulle probabilità che avvertimenti di questo genere siano intesi
dalla maggioranza dei nostri contemporanei; sennonché, come abbiamo detto, l’élite intellettuale non avrebbe bisogno
di essere molto numerosa, soprattutto all’inizio, per dar modo alla sua
influenza di esercitarsi in maniera realmente effettiva, anche su coloro che
non sospettassero nemmeno la sua esistenza e non immaginassero neppur lontanamente
la portata dei suoi lavori.
A questo stesso proposito ci si può rendere conto
dell’inutilità di quei «segreti» a cui abbiamo fatto allusione in precedenza:
esistono azioni che, per la loro stessa natura, rimangono completamente
ignorate dalla massa, e ciò non perché le si tengano nascoste, ma perché essa è
incapace di comprenderle. L’élite non
avrebbe nessun bisogno di far conoscere pubblicamente i mezzi della sua azione,
soprattutto perché ciò sarebbe inutile, e perché, quand’anche lo volesse, non
potrebbe renderli comprensibili in un linguaggio intelligibile dalla
maggioranza; essa saprebbe in partenza che è fatica sprecata e che gli sforzi
fatti in questo senso potrebbero essere suscettibili di un impiego molto
migliore. Non contestiamo però l’inopportunità o il pericolo di certe
divulgazioni: chissà quanta gente sarebbe tentata, qualora ne venissero
indicati i mezzi, di provare ad ottenere delle realizzazioni, per le quali non
avrebbe ricevuto nessuna preparazione, unicamente «per vedere», senza conoscerne
la vera ragion d’essere né sapere dove potrebbero condurla; e questa non
sarebbe che un’ulteriore causa di squilibrio che non è proprio il caso di
aggiungere a tutte quelle altre da cui è già afflitta la mentalità occidentale,
e da cui senza dubbio sarà ancora afflitta per molto tempo; tale causa di
squilibrio sarebbe anzi tanto più temibile in quanto si tratterebbe di cose di
natura più profonda; peraltro, tutti coloro che possiedono certe conoscenze
sono invece, per questo fatto stesso, pienamente qualificati per rendersi conto
di simili pericoli, e sapranno sempre comportarsi di conseguenza senza essere
legati da altri obblighi oltre quelli che implica, in modo del tutto naturale,
il grado di sviluppo intellettuale a cui sono giunti.
Del resto occorre necessariamente incominciare dalla
preparazione teorica, la sola essenziale e veramente indispensabile, e la
teoria può in ogni caso venire esposta senza riserve, o per lo meno con la sola
riserva di quanto è propriamente inesprimibile e incomunicabile; tocca a
ciascuno capire nella misura delle sue possibilità, e quanto a coloro che non
capiscono, se è vero che non ne otterranno nessun vantaggio, è pur vero che non
ne possono nemmeno riportare alcun danno: rimarranno semplicemente com’erano
prima. Forse qualcuno si stupirà della nostra insistenza su cose che in fondo
sono di un’estrema semplicità e non dovrebbero provocare nessuna difficoltà;
sennonché l’esperienza ci ha dimostrato come le precauzioni che si possono
prendere a questo riguardo non siano mai troppe, cosicché preferiamo esagerare
nelle spiegazioni su certi punti piuttosto che rischiare di vedere il nostro
pensiero mal interpretato; le precisazioni che dobbiamo ancora formulare
derivano in gran parte da questa preoccupazione, e poiché si riferiscono ad
un’incomprensione che abbiamo effettivamente constatato in svariate
circostanze, esse proveranno a sufficienza che non c’è nulla di esagerato nel
nostro timore di malintesi.
[1] A
questo punto si può ricordare il «motore immobile» di Aristotele; ovviamente
questo simbolismo è suscettibile di molteplici applicazioni.
[2] Riproduciamo qui l’ammissione molto esplicita di Max Müller: «La concentrazione del pensiero, chiamata dagli Indù êkâgratâ (o êkâgrya), è una cosa per noi quasi sconosciuta. Le nostre menti sono come dei caleidoscopi di pensiero in costante movimento; chiudere gli occhi della nostra mente a ogni altra cosa, fissandoci su un unico pensiero, è diventato per la maggior parte di noi quasi altrettanto impossibile quanto l’afferrare una nota senza le sue armoniche. Con la vita che conduciamo oggi... è diventato impossibile, o quasi, giungere a quell’intensità di pensiero che gli Indù chiamano êkêgratâ, il cui ottenimento era per essi la condizione indispensabile di ogni speculazione filosofica e religiosa» (Preface to the Sacred Books of tbe East, pagg. XXIII-XXIV). Meglio non si potrebbe definire la dispersione mentale degli Occidentali, e non ci restano da rettificare che due punti del testo: ciò che riguarda gli Indù dev’esser posto al presente e non al passato, per essi la cosa permane sempre la stessa; né si tratta assolutamente di «speculazione filosofica e religiosa», ma esclusivamente di «speculazione metafisica».
[3] Facciamo qui allusione a una teoria metafisica estremamente importante, cui diamo il nome di «teoria del gesto», e che esporremo forse un giorno in uno studio particolare. La parola «progressione» deve essere qui intesa in un’accezione che è la trasposizione analogica del suo senso matematico, trasposizione che la rende applicabile nel campo dell’universale, e non più soltanto nella sfera della quantità. A questo proposito, si veda inoltre quanto abbiamo detto dell’apûrva e delle «azioni e reazioni concordanti» in Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, parte 3a, cap. XIII.
[2] Riproduciamo qui l’ammissione molto esplicita di Max Müller: «La concentrazione del pensiero, chiamata dagli Indù êkâgratâ (o êkâgrya), è una cosa per noi quasi sconosciuta. Le nostre menti sono come dei caleidoscopi di pensiero in costante movimento; chiudere gli occhi della nostra mente a ogni altra cosa, fissandoci su un unico pensiero, è diventato per la maggior parte di noi quasi altrettanto impossibile quanto l’afferrare una nota senza le sue armoniche. Con la vita che conduciamo oggi... è diventato impossibile, o quasi, giungere a quell’intensità di pensiero che gli Indù chiamano êkêgratâ, il cui ottenimento era per essi la condizione indispensabile di ogni speculazione filosofica e religiosa» (Preface to the Sacred Books of tbe East, pagg. XXIII-XXIV). Meglio non si potrebbe definire la dispersione mentale degli Occidentali, e non ci restano da rettificare che due punti del testo: ciò che riguarda gli Indù dev’esser posto al presente e non al passato, per essi la cosa permane sempre la stessa; né si tratta assolutamente di «speculazione filosofica e religiosa», ma esclusivamente di «speculazione metafisica».
[3] Facciamo qui allusione a una teoria metafisica estremamente importante, cui diamo il nome di «teoria del gesto», e che esporremo forse un giorno in uno studio particolare. La parola «progressione» deve essere qui intesa in un’accezione che è la trasposizione analogica del suo senso matematico, trasposizione che la rende applicabile nel campo dell’universale, e non più soltanto nella sfera della quantità. A questo proposito, si veda inoltre quanto abbiamo detto dell’apûrva e delle «azioni e reazioni concordanti» in Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, parte 3a, cap. XIII.