La crisi del mondo moderno
Cap. 1 - L'età oscura
La dottrina indù insegna che la
durata di un ciclo umano, a cui dà il nome di Manvantara, si suddivide
in quattro età, le quali segnano altrettante fasi di un oscuramento graduale
della spiritualità primordiale; e si tratta degli stessi periodi che le
tradizioni dell’antico Occidente indicavano come le età dell’oro, dell’argento,
del bronzo e del ferro. Attualmente, noi ci troviamo nella quarta età, il Kali-Yuga
o «età oscura», e si dice che ci troviamo in essa da più di seimila anni, vale
a dire da un’epoca di molto anteriore a tutte quelle conosciute dalla storia «classica».
Da allora, le verità un tempo accessibili a tutti sono diventate via via sempre
più nascoste e difficili da raggiungere; coloro che le posseggono sono via via
sempre meno numerosi, e, se il tesoro della saggezza «non-umana», anteriore a
tutte le età, non può mai perdersi, essa si ammanta di veli sempre più
impenetrabili, che la dissimulano agli sguardi e sotto i quali è estremamente
difficile scoprirla. Ecco perché, con i simboli più diversi, si parla ovunque
di qualcosa che è andato perduto, almeno in apparenza e in relazione al mondo
esteriore, qualcosa che dev’essere ritrovato da coloro che aspirano alla
conoscenza; ma è detto anche che ciò che è così nascosto ritornerà ad essere
visibile alla fine di questo ciclo, la quale, in virtù della continuità che
collega ogni cosa, sarà al tempo stesso l’inizio di un ciclo nuovo.
Senza dubbio ci si chiederà: perché
lo sviluppo ciclico deve svolgersi in un tal senso discendente, dal superiore
all’inferiore, corrispondendo, come si nota con tutta evidenza, alla negazione
stessa dell’idea di «progresso» così come è intesa dai moderni? Il fatto è che
lo sviluppo di ogni manifestazione implica necessariamente un allontanamento,
sempre più ampio, dal principio da cui essa deriva; partendo dal punto più alto
essa tende necessariamente verso il basso, ed esattamente come i corpi pesanti
vi tende con un moto incessantemente crescente, fino a quando non incontra un
punto d’arresto. Questa caduta potrebbe essere caratterizzata come una
materializzazione progressiva, poiché l’espressione del principio è pura
spiritualità; e parliamo della sua espressione, e non del principio stesso,
poiché questo non può essere designato con nessuno dei termini che sembrano
indicare una qualunque opposizione, dal momento che è al di là di ogni
opposizione.
D’altronde, termini come «spirito» e
«materia», che qui per comodità mutuiamo dal linguaggio occidentale, per noi
hanno solo un valore simbolico; e, in ogni caso, potrebbero realmente
corrispondere a ciò di cui si tratta solo a condizione di eliminare le
interpretazioni speciali che dà di loro la filosofia moderna, il cui
«spiritualismo» ed il cui «materialismo» sono per noi solo due forme
complementari implicantesi a vicenda e parimenti trascurabili per chi vuole
elevarsi al di sopra di tali punti di vista contingenti. D’altra parte, in
questa sede non ci proponiamo di trattare di metafisica pura, ed è per questo
che, senza perdere di vista i principi essenziali, possiamo permetterci di
usare, pur prendendo le precauzioni indispensabili per evitare ogni equivoco,
dei termini che, anche se inadeguati, si prestano a rendere le cose più
facilmente comprensibili, almeno nella misura in cui ciò è possibile senza
arrivare a snaturarli.
Ciò che dicevamo a proposito dello
sviluppo della manifestazione, pur essendo esatto nell’insieme, si presenta
tuttavia come troppo semplificato e schematico, in quanto può far pensare che
tale sviluppo si effettui in linea retta, secondo un senso unico e senza alcuna
oscillazione di sorta; la realtà è ben più complessa. In effetti, come peraltro
abbiamo già detto, in tutte le cose occorre considerare due tendenze opposte,
l’una discendente e l’altra ascendente o, se si vuole usare una diversa
rappresentazione, l’una centrifuga e l’altra centripeta; ed è dal prevalere
dell’una o dell’altra tendenza che derivano le due fasi complementari della
manifestazione: una di allontanamento dal principio, l’altra di ritorno verso
il principio, le quali spesso sono equiparate simbolicamente ai movimenti del
cuore o alle due fasi della respirazione. Nonostante queste due fasi siano
ordinariamente descritte come successive, occorre comprendere che, in realtà,
le due tendenze alle quali corrispondono agiscono sempre simultaneamente,
quantunque in proporzioni diverse; e talvolta, in certi momenti critici in cui
la tendenza discendente sembra sul punto di prevalere definitivamente nel moto
complessivo del mondo, si verifica l’intervento di un’azione particolare che
rafforza la tendenza contraria, in modo da ristabilire un certo equilibrio,
quantomeno relativo e per quanto lo possano permettere le condizioni del
momento, e tale da operare anche un parziale raddrizzamento per effetto del
quale il movimento di caduta può apparire come fermato o temporaneamente
neutralizzato[1].
È facile comprendere che questi dati
tradizionali, che qui dobbiamo limitarci a presentare in maniera molto
sommaria, permettono di concepire delle vedute ben diverse da tutti i saggi di
«filosofia della storia» a cui si dedicano i moderni, vedute di ben altra
vastità e profondità. Ma, per il momento, non pensiamo certo di risalire alle
origini del presente ciclo e nemmeno, più semplicemente, agli inizi del Kali-Yuga;
le nostre intenzioni, almeno in maniera diretta, si fermano ad un ambito molto
più limitato e cioè alle ultime fasi del Kali-Yuga. In effetti,
all’interno di ciascuno dei grandi periodi di cui abbiamo parlato prima, è
possibile distinguere delle ulteriori fasi secondarie, che ne costituiscono
altrettante suddivisioni; e, siccome ogni parte è in qualche modo analoga al
tutto, queste suddivisioni riproducono, per così dire in scala più ridotta, il
moto generale del grande ciclo nel quale si integrano; e anche in questo caso,
una ricerca completa sul come una tale legge possa applicarsi alle diverse
situazioni particolari ci condurrebbe ben al di là del limiti di questo studio.
Per completare queste considerazioni
preliminari, accenneremo solamente ad alcune delle ultime epoche
particolarmente critiche che ha attraversato l’umanità: quelle che rientrano
nel periodo che si usa chiamare «storico», perché questo è effettivamente il
solo che sia veramente accessibile alla storia ordinaria o «profana»; e questi
cenni ci condurranno, in maniera del tutto naturale, a ciò che costituisce
l’oggetto proprio del presente studio, dal momento che l’ultima di queste
epoche critiche non è altra che quella costituita da ciò che si chiamano tempi
moderni.
Vi è un fatto alquanto strano, che
sembra non sia mai stato sottolineato come merita: il periodo propriamente
«storico», nel senso da noi prima indicato, risale esattamente al VI secolo
prima dell’era cristiana, come se a quel punto si avesse, nel tempo, quasi una
barriera impossibile da infrangere con l’aiuto dei mezzi di indagine di cui
dispongono i ricercatori ordinari. In effetti, a partire da questa epoca si
possiede ovunque una cronologia molto precisa e chiaramente stabilita; mentre,
per tutto ciò che è anteriore generalmente si giunge solo ad una
approssimazione molto vaga e le date proposte per gli stessi avvenimenti
variano spesso di parecchi secoli. E colpisce non poco il fatto che questo
accada perfino per quei paesi di cui si possiedono ben più che delle semplici
sparse vestigia, come l’Egitto per esempio; mentre la cosa che forse stupisce
ancor di più è che in un caso eccezionale e privilegiato come è quello della
Cina, che possiede degli annali relativi a delle epoche molto più lontane,
annali che sono datati per mezzo dell’osservazione astronomica e che quindi non
dovrebbero lasciar adito ad alcun dubbio, i moderni continuano a classificare
tali epoche come «leggendarie», come se si trovassero al cospetto di un dominio
per il quale non riconoscono a se stessi alcuna possibilità di certezza né
alcuna possibilità di ottenerne.
L’antichità detta «classica» non è
dunque, a dire il vero, che una antichità del tutto relativa, e perfino molto
più prossima ai tempi moderni di quanto lo sia l’antichità vera, poiché essa
risale solo alla metà del Kali-Yuga, la cui stessa durata, in base alla
dottrina indù, non è che la decima parte di quella del Manvantara; da
questo si potrà giudicare a sufficienza fino a che punto i moderni abbiano
ragione di andar fieri dell’estensione delle proprie conoscenze storiche! Ma
costoro risponderanno senza dubbio, a mo’ di giustificazione, che in tutto ciò
si tratta solo di periodi «leggendari» ed è per questo che essi ritengono di
non doverne tenere conto; ma una tale risposta equivale esattamente ad una
confessione di ignoranza e dimostra una incomprensione che è la sola che possa
spiegare il loro disprezzo per la tradizione; e in effetti, lo spirito
specificamente moderno non è altro che lo spirito antitradizionale, come avremo
modo di spiegare più avanti.
Nel corso del VI secolo prima dell’era
cristiana sono avvenuti dei cambiamenti considerevoli presso quasi tutti i
popoli, quale che sia stata la loro causa e anche se essi hanno avuto delle
caratteristiche diverse a seconda dei paesi interessati. In certi casi si è
trattato di un riadattamento della tradizione nei confronti di condizioni
differenti da quelle che esistevano prima, riadattamento compiuto in un senso
rigorosamente ortodosso: è il caso della Cina, per esempio, ove la dottrina,
anteriormente costituita da un unico insieme, venne divisa in due parti
nettamente distinte, il Taoismo, riservato ad una élite e comprendente la
metafisica pura e le scienze tradizionali d’ordine puramente speculativo, e il
Confucianesimo, comune a tutti indistintamente e il cui dominio comprendeva le applicazioni
pratiche e principalmente sociali. Presso i Persiani, sembra che si sia avuto
parimenti un riadattamento del Mazdeismo, fu quella infatti l’epoca dell’ultimo
Zoroastro[2].
In quel periodo, in India nacque il
Buddhismo, che, al di là di ciò che possa essere stato il suo carattere
originario, doveva invece sfociare, almeno in alcune delle sue branche, in una
rivolta contro lo spirito tradizionale, giungendo fino alla negazione di ogni
autorità, fino ad una vera anarchia, nel senso etimologico di «assenza di
principio», sia nell’ordine intellettuale che nell’ordine sociale[3].
La cosa curiosa è che in India non si trova alcun monumento che risalga a prima
di questa epoca, e gli orientalisti, che vogliono far cominciare tutto dal
Buddhismo di cui esagerano singolarmente l’importanza, hanno cercato di trar
partito da questa constatazione, a favore della loro tesi; tuttavia la
spiegazione del fatto è abbastanza semplice: è che tutte le costruzioni anteriori
erano in legno, di modo che esse sono scomparse naturalmente senza lasciare
alcuna traccia[4]; la cosa
vera è che un tale cambiamento nel modo di costruire corrisponde
necessariamente ad una profonda modificazione delle condizioni generali
d’esistenza del popolo presso cui si è prodotto.
Accostandoci all’Occidente,
constatiamo che, presso gli Ebrei, quest’epoca fu quella della cattività
babilonese, e la cosa che forse stupisce di più è che un breve periodo di
settant’anni possa essere bastato per far perder loro perfino la scrittura,
tanto che in seguito dovettero ricostruire i Libri sacri con dei caratteri del
tutto diversi da quelli usati fino ad allora. E si potrebbero citare ancora ben
altri avvenimenti che si rifanno più o meno alla stessa data: ricorderemo
solamente che per Roma si trattò dell’inizio del periodo propria- mente
«storico», che era stato preceduto dall’epoca «leggendaria» dei re; mentre si
sa anche, quantunque in maniera un po’ vaga, che presso i popoli celtici si
produssero allora degli importanti movimenti; ma senza voler insistere
ulteriormente, vediamo che cosa accadde in Grecia. Anche lì, il VI secolo fu il
punto di partenza della civiltà cosiddetta «classica», la sola alla quale i
moderni riconoscono il carattere «storico», mentre tutto ciò che precede è
molto mal conosciuto, tanto da essere considerato come «leggendario»,
nonostante le recenti scoperte archeologiche non permettono più di dubitare
che, perlomeno, vi fu una civiltà molto reale; e noi abbiamo più di una ragione
per pensare che questa prima civiltà ellenica fosse molto più interessante
intellettualmente di quella che l’ha seguita, mentre i loro rapporti
presenterebbero qualche analogia con quelli esistenti fra l’Europa del Medio
Evo e l’Europa moderna. Tuttavia, è necessario notare che la rottura non fu
così radicale come in quest’ultimo caso, poiché si ebbe, almeno parzialmente,
un riadattamento effettuato nell’ordine tradizionale, principalmente nel
dominio dei «misteri», a cui bisogna ricollegare il Pitagorismo che fu
soprattutto una restaurazione del precedente Orfismo, sotto una nuova forma, ed
i cui legami evidenti con il culto delfico dell’Apollo iperboreo permettono
perfino di prendere in considerazione una filiazione continua e regolare con
una delle più antiche tradizioni dell’umanità. D’altra parte, si vide subito
apparire qualcosa di cui non vi era ancora alcun esempio, e che doveva in
seguito esercitare un’influenza nefasta su tutto il mondo occidentale:
intendiamo parlare di quel particolare modo di pensare che prese e conservò il
nome di «filosofia»; ed è questo un punto molto importante che merita alcune
considerazioni.
Il termine «filosofia», di per sé,
può certamente essere assunto in un senso molto legittimo, che indubbiamente fu
il suo senso primitivo, soprattutto se è vero, come si pretende, che sia stato
Pitagora ad impiegarlo per primo: etimologicamente esso non significa altro che
«amore per la saggezza»; dunque inizialmente indicava una disposizione
preliminare necessaria per pervenire alla saggezza, e può anche indicare, per
naturale estensione, la ricerca che, partendo da questa stessa disposizione,
deve condurre alla conoscenza. Si tratta dunque di uno stadio preliminare e
preparatorio, di un incamminarsi verso la saggezza[5],
di un grado corrispondente ad uno stato inferiore a quello del saggio; la
deviazione che si è prodotta in seguito consiste nell’aver scambiato questo
grado transitorio con lo scopo stesso, e nell’aver preteso di sostituire la
«filosofia» alla saggezza, cosa questa che implica la dimenticanza o la
misconoscenza della vera natura di quest’ultima. È così che nacque ciò che
possiamo chiamare la filosofia «profana», vale a dire una pretesa saggezza puramente
umana, quindi di ordine semplicemente razionale, la quale ha preso il posto
della vera saggezza tradizionale: sopra-razionale e «non umana». Tuttavia,
qualcosa di quest’ultima rimase ancora nel corso di tutta l’antichità; ne è la
prova, innanzi tutto la persistenza dei «misteri», il cui carattere
essenzialmente «iniziatico» non potrebbe essere contestato, e poi il fatto che
l’insegnamento degli stessi filosofi presentava, ad un tempo e il più sovente,
un aspetto «exoterico» ed uno «esoterico», ove quest’ultimo poteva permettere
il collegamento ad un punto di vista superiore; cosa questa che, peraltro, si
evidenzia in maniera molto chiara, quantunque forse incompleta per certi
aspetti, alcuni secoli dopo presso gli Alessandrini. Ora, perché la filosofia
«profana» venisse a costituirsi definitivamente come tale, occorreva che
rimanesse solo l’«exoterismo» e si giungesse fino alla negazione pura e
semplice di ogni «esoterismo»; ed è proprio in questo che doveva sfociare,
presso i moderni, il movimento iniziato presso i Greci; le tendenze che si
erano già affermate presso costoro dovevano essere spinte fino alla loro più
estrema conseguenza, mentre l’eccessiva importanza da essi accordata al
pensiero razionale doveva accentuarsi fino a sfociare nel «razionalismo»:
attitudine particolarmente moderna che consiste, non semplicemente
nell’ignorare, ma nel negare espressamente tutto ciò che è di ordine
sopra-razionale.
Ma non anticipiamo anzitempo, poiché
avremo modo di ritornare su queste conseguenze e di seguirne lo sviluppo in
un’altra parte del presente studio.
In ciò che abbiamo appena detto, una
cosa è da tener presente in modo particolare dal punto di vista in cui ci
poniamo: ed è che alcune delle origini del mondo moderno è opportuno ricercarle
nell’antichità «classica»; non si ha dunque del tutto torto quando ci si
richiama alla civiltà greco-latina e quando si pretende di esserne i
continuatori. Occorre precisare, tuttavia, che si tratta solo di una continuità
alla lontana ed anche un po’ infedele, poiché, malgrado tutto, in questa
antichità vi erano parecchie cose, nell’ordine intellettuale e spirituale, di
cui non si potrebbe trovare l’equivalente presso i moderni; e in ogni caso, nel
corso dell’oscuramento progressivo della vera conoscenza, si tratta di due
gradi assai differenti. D’altronde, si potrebbe supporre che la decadenza della
civiltà antica abbia prodotto, in maniera graduale e senza soluzione di
continuità, uno stato più o meno simile a quello che vediamo oggi, ma, in
effetti, non fu così, poiché in Occidente, in un periodo intermedio, si è avuta
un’altra epoca critica che è stata al tempo stesso una di quelle epoche di
raddrizzamento a cui facevamo allusione prima.
Tale epoca è quella dell’inizio e
dell’espansione del Cristianesimo, la quale ha coinciso, da un lato, con la
dispersione del popolo ebraico e, dall’altro, con l’ultima fase della civiltà
greco-latina; e possiamo limitarci ad accennare rapidamente a questi
avvenimenti, nonostante la loro importanza, sia perché in genere essi sono meglio
conosciuti di quelli di cui abbiamo parlato fino ad ora, sia perché il loro
sincronismo è stato maggiormente messo in risalto, perfino dagli storici dalle
concezioni più superficiali. Molto spesso sono state anche segnalati alcuni
tratti comuni fra la decadenza antica e l’epoca attuale, e, senza voler
spingere oltremodo il parallelismo, si deve riconoscere che effettivamente vi
sono alcune somiglianze assai marcate. La filosofia puramente «profana» aveva
guadagnato terreno: l’apparizione dello scetticismo, da un lato, il successo
del «moralismo» stoico ed epicureo, dall’altro, mostrano bene fino a che punto
si fosse abbassata l’intellettualità. Al tempo stesso, le antiche dottrine
sacre, che quasi nessuno comprendeva più, erano degenerate, proprio per tale
incomprensione, in «paganesimo», nel vero senso della parola, vale a dire che
ormai erano solo delle «superstizioni», delle cose che, avendo perduto il loro
significato profondo, sopravvivevano a se stesse con delle manifestazioni tutte
esteriori.
Contro tale tendenza vi furono dei
tentativi di reazione: lo stesso ellenismo tentò di rivivificarsi con l’aiuto
di elementi tratti da quelle dottrine orientali con le quali poteva trovarsi in
contatto; ma ciò non era più sufficiente: la civiltà greco-latina era destinata
a perire e il raddrizzamento doveva venire da un’altra parte e compiersi con
una forma del tutto diversa. Fu il Cristianesimo che compì tale trasformazione;
e, lo diciamo di sfuggita, il raffronto che si può stabilire, sotto certi aspetti,
fra quei tempi ed i nostri, è forse uno degli elementi determinanti del
«messianismo» disordinato che si presenta attualmente. Dopo il periodo confuso
delle invasioni barbariche, necessario per portare a termine la distruzione
dell’antico stato di cose, venne reinstaurato un ordine normale per la durata
di alcuni secoli: fu il Medio Evo, così misconosciuto dai moderni, i quali sono
incapaci di comprenderne l’intellettualità, e ai quali quest’epoca deve
apparire certamente molto più estranea e lontana che l’antichità «classica».
Il vero Medio Evo, per noi, va dal
regno di Carlo Magno agli inizi del XIV secolo; da quest’ultima data prende il
via una nuova decadenza che, attraverso tappe diverse, andrà accentuandosi fino
ai giorni nostri. È questo il vero punto di partenza della crisi moderna:
l’inizio della disgregazione della «Cristianità», con cui si identificava
essenzialmente la civiltà occidentale del Medio Evo; e, ad un tempo, la fine
del regime feudale, strettamente solidale con questa stessa «Cristianità», e
l’inizio della costituzione delle «nazionalità». Occorre dunque far risalire
l’epoca moderna a circa due secoli prima di quanto si faccia ordinariamente; il
Rinascimento e la Riforma furono soprattutto delle risultanti, rese possibili
solo dalla precedente decadenza; ma, lungi dall’essere un raddrizzamento, esse
segnarono una caduta molto più profonda, poiché portarono a compimento la
rottura definitiva con lo spirito tradizionale: il Rinascimento nel dominio
delle scienze e delle arti, la Riforma nello stesso dominio religioso, che
tuttavia era quello in cui una tale rottura poteva sembrare più difficile da
concepire.
In realtà, ciò che viene chiamato
Rinascimento fu, come abbiamo detto in altre occasioni, la morte di molte cose;
col pretesto di un ritorno alla civiltà greco-romana, si riprese di questa solo
ciò che vi era stato di più esteriore, solo quello che era stato possibile
esprimere chiaramente nei testi scritti; e d’altronde, questo ritorno
incompleto poteva solo avere un carattere molto superficiale, poiché si
trattava di forme che, ormai da secoli, avevano cessato di vivere la loro vera
vita.
Quanto alle scienze tradizionali del
Medio Evo, dopo aver avuto qualche ultima manifestazione nel corso del
Rinascimento, scomparvero quasi totalmente, al pari di quelle delle lontane
civiltà annientate da un qualche cataclisma; e questa volta nulla doveva
rimpiazzarle. Non rimase altro che la filosofia e la scienza «profane», vale a
dire la negazione della vera intellettualità, la limitazione della conoscenza
all’ordine più inferiore, lo studio empirico e analitico di fatti non più
collegati ad alcun principio, la dispersione in una moltitudine indefinita di
dettagli insignificanti, l’accumulo di ipotesi senza fondamento che si
distruggono incessantemente a vicenda: vedute frammentarie che possono solo
condurre a nulla, salvo che a quelle applicazioni pratiche che costituiscono la
sola effettiva superiorità della civiltà moderna; superiorità poco invidiabile,
d’altronde, la quale, sviluppandosi fino a soffocare ogni altra preoccupazione,
ha dato a questa civiltà il carattere puramente materiale che ne fa una vera
mostruosità.
La
cosa del tutto straordinaria è la rapidità con cui la civiltà del Medio Evo è
piombata nell’oblio più totale; gli uomini del XVII secolo non ne avevano più
la minima nozione, ed i monumenti che di essa rimanevano non rappresentavano
più niente ai loro occhi, né nell’ordine intellettuale né tampoco nell’ordine
estetico; e da ciò è facile giudicare quanto la mentalità fosse cambiata nel
frattempo. Qui non intraprenderemo una ricerca dei fattori, certo molto
complessi, che concorsero a questo cambiamento, così radicale che sembra
perfino difficile ammettere che si sia potuto effettuare spontaneamente e senza
l’intervento di una volontà direttiva la cui esatta natura resta
necessariamente molto enigmatica; a questo proposito, vi sono delle circostanze
molto strane, come quella che, ad un certo momento, coincise con la
volgarizzazione e col presentare come delle nuove scoperte delle cose che in
realtà erano note da lungo tempo, ma la cui conoscenza non era stata resa fino
ad allora di dominio pubblico a causa di certi inconvenienti che rischiavano di
vincerla sui vantaggi[6].
Altrettanto inverosimile è il fatto che la leggenda che fece del Medio Evo
un’epoca di «tenebre», di ignoranza e di barbarie, sia nata e si sia
accreditata da sola, e che la falsificazione della storia a cui si sono
dedicati i moderni sia stata intrapresa senza alcuna idea precostituita; ma non
ci addentreremo nell’esame di questa questione, poiché, qualunque sia il modo
con cui un tale lavoro è stato svolto, ciò che ci preme, per il momento, è la
constatazione del risultato, che in definitiva è quello che importa di più.
Vi
è un termine che fu in auge nel Rinascimento, e che riassumeva in anticipo
tutto il programma della civiltà moderna: il termine «umanesimo». E in effetti
si trattava di ridurre tutto a delle dimensioni puramente umane, di prescindere
da ogni principio di ordine superiore e, per dirla simbolicamente, di
allontanarsi dal cielo con la scusa di conquistare la terra; i Greci, di cui si
pretendeva seguire l’esempio, non si erano mai spinti tanto in questa
direzione, nemmeno al tempo della loro più grande decadenza intellettuale, e da
loro neanche le preoccupazioni utilitaristiche erano mai passate in primo
piano, come doveva ben presto accadere presso i moderni. L’«umanesimo» era già
un primo abbozzo di ciò che è divenuto il «laicismo» contemporaneo; e col voler
ricondurre tutto a misura d’uomo, assumendo quest’ultimo come fine a se stesso,
si è finito per scendere, passo dopo passo, al livello di ciò che nell’uomo vi
è di più inferiore, fino a ricercare solo più la soddisfazione dei bisogni
inerenti alla parte materiale della sua natura; ricerca ben illusoria, del
resto, poiché essa crea sempre molti più bisogni artificiali di quanti ne possa
soddisfare.
Giungerà
il mondo moderno fino al fondo di questa china fatale o, come è accaduto per il
mondo greco-latino, si produrrà un nuovo raddrizzamento prima che raggiunga il
fondo dell’abisso verso cui è trascinato?
Sembra
proprio che un arresto a metà strada non sia più tanto possibile, e che, in
base a tutte le indicazioni fornite dalle dottrine tradizionali, si sia entrati
veramente nella fase finale Kali-Yuga, nel periodo più oscuro di questa
«età oscura», in quello stato di dissoluzione da cui non è più possibile uscire
se non con un cataclisma, poiché non è più di un semplice raddrizzamento che si
ha bisogno, ma di un rinnovamento totale. Il disordine e la confusione regnano
in tutti i domini; essi sono stati spinti ad un punto che oltrepassa di molto
tutto ciò che si era visto in precedenza e, partiti dall’Occidente, adesso
minacciano d’invadere il mondo intero.
Sappiamo
bene che il loro trionfo non può mai essere che apparente e passeggero, ma, a
un tale grado, esso si presenta come il segno della più grave di tutte le crisi
attraversate dall’umanità nel corso del suo ciclo attuale. Non siamo forse
giunti a quell’epoca temibile annunciata dai Libri sacri dell’India, «ove le
caste saranno mescolate e la famiglia stessa non esisterà più»? Basta
guardarsi attorno per convincersi che questo è lo stato in cui si trova
realmente il mondo attuale, e per constatare dappertutto quella decadenza
profonda che il Vangelo chiama «l’abominio della desolazione». Non
bisogna nascondersi la gravità della situazione, bisogna considerarla per
quella che è, senza alcun «ottimismo», ma anche senza alcun «pessimismo»,
poiché, come dicevamo prima, la fine dell’antico mondo sarà anche l’inizio di
un mondo nuovo.
A
questo punto si pone un interrogativo: qual è la ragion d’essere di un periodo
come quello che viviamo? E in effetti, per anormali che siano le attuali
condizioni considerate di per sé, devono tuttavia rientrare nell’ordine
generale delle cose, in quell’ordine che, secondo una formula
estremo-orientale, è composto dalla somma di tutti i disordini; quest’epoca, per
quanto penosa e fosca sia, deve pur avere, al pari delle altre, il suo posto
assegnato nell’insieme dello sviluppo umano, e d’altronde il fatto stesso che
sia stata prevista dalle dottrine tradizionali è, in proposito, una indicazione
sufficiente.
Quanto
abbiamo detto circa il moto generale di un ciclo di manifestazione, che si
svolge nella direzione di una progressiva materializzazione, fornisce subito la
spiegazione di un tale stato di cose e fa ben comprendere che ciò che è
anormale e disordinato da un certo punto di vista particolare è nondimeno la
conseguenza di una legge relativa ad un punto di vista superiore e più vasto.
Aggiungiamo, senza insistervi ulteriormente, che al pari di ogni cambiamento di
stato, il passaggio da un ciclo ad un altro può compiersi solo nell’oscurità;
anche qui si tratta di una legge molto importante e le cui applicazioni sono
molteplici, ma la cui esposizione, anche appena dettagliata, per ciò stesso ci
condurrebbe troppo lontano[7].
Ma
non è tutto: l’epoca moderna deve necessariamente corrispondere allo sviluppo
di alcune delle possibilità che, fin dall’origine, erano incluse nella
potenzialità del ciclo attuale; possibilità che, per inferiore che fosse il
posto da loro occupato nella gerarchia dell’insieme, dovevano essere chiamate a
manifestarsi al pari delle altre, secondo l’ordine loro assegnato.
Sotto questo
profilo, ciò che secondo la tradizione caratterizza l’ultima fase del ciclo è,
si potrebbe dire, lo sfruttamento di tutto ciò che è stato trascurato o rigettato
nel corso delle fasi precedenti; ed effettivamente è proprio questo che
possiamo constatare nella civiltà moderna, la quale vive, in qualche modo, di
ciò che le civiltà anteriori avevano rifiutato. Per rendersene conto, basta
vedere in che modo i rappresentanti di quelle civiltà che si sono conservate
fino ad oggi nel mondo orientale valutano le scienze occidentali e le loro
applicazioni industriali. Queste conoscenze inferiori, così vane per chi
possiede una conoscenza di altro ordine, dovevano tuttavia essere «realizzate»,
e potevano esserlo solo ad uno stadio in cui la vera intellettualità fosse
sparita; queste ricerche dalla portata esclusivamente pratica, nel senso più
ristretto del termine, dovevano essere compiute, ma potevano esserlo solo
all’estremo opposto della spiritualità primordiale, da degli uomini sprofondati
nella materia al punto da non riuscire a concepire nulla al di fuori di essa e
ridotti ad essere tanto più schiavi di questa materia per quanto vorrebbero
servirsene, cosa questa che li conduce ad una agitazione sempre crescente,
senza freno e senza scopo, alla dispersione nella pura molteplicità, fino alla
dissoluzione finale.
Tratteggiata
per grandi linee e ridotta all’essenziale, è questa la vera spiegazione del
mondo moderno; ma va detto molto chiaramente che questa spiegazione non
potrebbe minimamente esser presa come una giustificazione. Un male inevitabile
resta pur sempre un male, e perfino se dal male deve scaturire un bene, ciò non
toglie nulla al carattere stesso del male. Peraltro, noi impieghiamo qui questi
termini di «bene» e di «male» solo per farci comprendere meglio e al di là di
ogni intenzione specificamente «morale». I disordini parziali non possono non
esserci, perché sono elementi necessari dell’ordine totale; ciò malgrado,
un’epoca di disordine è, di per sé, qualcosa di paragonabile ad una
mostruosità, la quale, pur essendo la conseguenza di certe leggi naturali, non
per questo non rimane una deviazione ed una sorta di errore; o di paragonabile
ad un cataclisma, il quale, pur derivando dall’ordine naturale delle cose,
resta comunque, visto isolatamente, uno sconvolgimento ed una anomalia. La
civiltà moderna, come tutte le cose, ha necessariamente la sua ragion d’essere,
e se essa è veramente quella che conclude un ciclo, si può dire che è ciò che
dev’essere e che sopraggiunge a tempo e a luogo; ma non per questo non dovrà
essere giudicata secondo la parola evangelica troppo spesso mal compresa: «È
inevitabile che avvengano scandali, ma guai all’uomo per colpa del quale
avviene lo scandalo!».
[1] Tutto
ciò è da riferire alla funzione di «conservazione divina» che, nella tradizione
indù, è rappresentata da Vishnu, ed in particolare è da riferire alla
dottrina degli Avâtara o «discese» del principio divino nel mondo
manifestato, che naturalmente non pensiamo di sviluppare in questa sede.
[2] Occorre notare che il nome di Zoroastro designa, in realtà, non un particolare personaggio, ma una funzione, ad un tempo profetica e legislativa; vi furono diversi Zoroastri che vissero in epoche molto diverse; ed è perfino verosimile che questa funzione abbia avuto un carattere collettivo, al pari di quella di Vyâsa in India; così come in Egitto ciò che venne attribuito a Thoth o Hermes rappresenta l’opera di tutta la casta sacerdotale.
[3] In realtà, la questione del Buddhismo è lungi dall’essere così semplice come sembrano mostrare queste brevi considerazioni; ed è interessante notare che se gli Indù, dal punto di vista della loro tradizione, hanno sempre condannato il Buddhismo, molti fra loro professano nondimeno un grande rispetto per lo stesso Buddha, ed alcuni arrivano perfino a considerarlo il nono Avatâra, mentre altri identificano quest’ultimo con il Cristo. D’altra parte, per quanto attiene il Buddhismo così come lo si conosce oggigiorno, occorre accuratamente distinguere fra le due sue forme del Mahâyâna e dell’Hinayâna, o del «Grande Veicolo» e del «Piccolo Veicolo»; in linea generale si può dire che il Buddhismo, fuori dall’India, differisce notevolmente dalla sua forma indiana originaria, la quale incominciò a perdere terreno dopo la morte di Ashoka e sparì completamente alcuni secoli più tardi.
[4] Questo caso non è certo specifico dell’India e si riscontra anche in Occidente; è esattamente per lo stesso motivo che non si trova alcun vestigio delle città galliche, la cui esistenza è tuttavia incontestabile, essendo attestata da testimonianze dell’epoca; ed anche in questo caso gli storici moderni hanno approfittato di questa assenza di monumenti per dipingere i Galli come dei selvaggi che vivevano nelle foreste.
[5] Il rapporto, in questo caso, è quasi lo stesso di quello esistente, nella dottrina taoista, fra lo stato di «uomo dotato» e quello di «uomo trascendente».
[6] Fra i fatti di questo genere, che produssero le più gravi conseguenze, citiamo solo due esempi: la pretesa invenzione della stampa, che i Cinesi conoscevano ancor prima dell’era cristiana, e la scoperta «ufficiale» dell’America, con la quale, nel corso di tutto il Medio Evo, esistettero comunicazioni molto più frequenti di quanto generalmente si pensi.
[7] Nei misteri d’Eleusi questa legge era rappresentata dal simbolismo del chicco di grano; gli alchimisti la raffiguravano con la «putrefazione» e col colore nero che segna l’inizio della «Grande Opera»; ciò che i misteri cristiani chiamano la «notte oscura dell’anima» non è che l’applicazione di questa legge allo sviluppo spirituale dell’essere che si eleva verso gli stati superiori; e sarebbe facile segnalare ancora molte altre concordanze.
[2] Occorre notare che il nome di Zoroastro designa, in realtà, non un particolare personaggio, ma una funzione, ad un tempo profetica e legislativa; vi furono diversi Zoroastri che vissero in epoche molto diverse; ed è perfino verosimile che questa funzione abbia avuto un carattere collettivo, al pari di quella di Vyâsa in India; così come in Egitto ciò che venne attribuito a Thoth o Hermes rappresenta l’opera di tutta la casta sacerdotale.
[3] In realtà, la questione del Buddhismo è lungi dall’essere così semplice come sembrano mostrare queste brevi considerazioni; ed è interessante notare che se gli Indù, dal punto di vista della loro tradizione, hanno sempre condannato il Buddhismo, molti fra loro professano nondimeno un grande rispetto per lo stesso Buddha, ed alcuni arrivano perfino a considerarlo il nono Avatâra, mentre altri identificano quest’ultimo con il Cristo. D’altra parte, per quanto attiene il Buddhismo così come lo si conosce oggigiorno, occorre accuratamente distinguere fra le due sue forme del Mahâyâna e dell’Hinayâna, o del «Grande Veicolo» e del «Piccolo Veicolo»; in linea generale si può dire che il Buddhismo, fuori dall’India, differisce notevolmente dalla sua forma indiana originaria, la quale incominciò a perdere terreno dopo la morte di Ashoka e sparì completamente alcuni secoli più tardi.
[4] Questo caso non è certo specifico dell’India e si riscontra anche in Occidente; è esattamente per lo stesso motivo che non si trova alcun vestigio delle città galliche, la cui esistenza è tuttavia incontestabile, essendo attestata da testimonianze dell’epoca; ed anche in questo caso gli storici moderni hanno approfittato di questa assenza di monumenti per dipingere i Galli come dei selvaggi che vivevano nelle foreste.
[5] Il rapporto, in questo caso, è quasi lo stesso di quello esistente, nella dottrina taoista, fra lo stato di «uomo dotato» e quello di «uomo trascendente».
[6] Fra i fatti di questo genere, che produssero le più gravi conseguenze, citiamo solo due esempi: la pretesa invenzione della stampa, che i Cinesi conoscevano ancor prima dell’era cristiana, e la scoperta «ufficiale» dell’America, con la quale, nel corso di tutto il Medio Evo, esistettero comunicazioni molto più frequenti di quanto generalmente si pensi.
[7] Nei misteri d’Eleusi questa legge era rappresentata dal simbolismo del chicco di grano; gli alchimisti la raffiguravano con la «putrefazione» e col colore nero che segna l’inizio della «Grande Opera»; ciò che i misteri cristiani chiamano la «notte oscura dell’anima» non è che l’applicazione di questa legge allo sviluppo spirituale dell’essere che si eleva verso gli stati superiori; e sarebbe facile segnalare ancora molte altre concordanze.
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