"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

venerdì 28 febbraio 2014

René Guénon, La crisi del mondo moderno. Cap. 1 - L'età oscura

René Guénon
La crisi del mondo moderno

Cap. 1 - L'età oscura

La dottrina indù insegna che la durata di un ciclo umano, a cui dà il nome di Manvantara, si suddivide in quattro età, le quali segnano altrettante fasi di un oscuramento graduale della spiritualità primordiale; e si tratta degli stessi periodi che le tradizioni dell’antico Occidente indicavano come le età dell’oro, dell’argento, del bronzo e del ferro. Attualmente, noi ci troviamo nella quarta età, il Kali-Yuga o «età oscura», e si dice che ci troviamo in essa da più di seimila anni, vale a dire da un’epoca di molto anteriore a tutte quelle conosciute dalla storia «classica».
Da allora, le verità un tempo accessibili a tutti sono diventate via via sempre più nascoste e difficili da raggiungere; coloro che le posseggono sono via via sempre meno numerosi, e, se il tesoro della saggezza «non-umana», anteriore a tutte le età, non può mai perdersi, essa si ammanta di veli sempre più impenetrabili, che la dissimulano agli sguardi e sotto i quali è estremamente difficile scoprirla. Ecco perché, con i simboli più diversi, si parla ovunque di qualcosa che è andato perduto, almeno in apparenza e in relazione al mondo esteriore, qualcosa che dev’essere ritrovato da coloro che aspirano alla conoscenza; ma è detto anche che ciò che è così nascosto ritornerà ad essere visibile alla fine di questo ciclo, la quale, in virtù della continuità che collega ogni cosa, sarà al tempo stesso l’inizio di un ciclo nuovo.
Senza dubbio ci si chiederà: perché lo sviluppo ciclico deve svolgersi in un tal senso discendente, dal superiore all’inferiore, corrispondendo, come si nota con tutta evidenza, alla negazione stessa dell’idea di «progresso» così come è intesa dai moderni? Il fatto è che lo sviluppo di ogni manifestazione implica necessariamente un allontanamento, sempre più ampio, dal principio da cui essa deriva; partendo dal punto più alto essa tende necessariamente verso il basso, ed esattamente come i corpi pesanti vi tende con un moto incessantemente crescente, fino a quando non incontra un punto d’arresto. Questa caduta potrebbe essere caratterizzata come una materializzazione progressiva, poiché l’espressione del principio è pura spiritualità; e parliamo della sua espressione, e non del principio stesso, poiché questo non può essere designato con nessuno dei termini che sembrano indicare una qualunque opposizione, dal momento che è al di là di ogni opposizione.
D’altronde, termini come «spirito» e «materia», che qui per comodità mutuiamo dal linguaggio occidentale, per noi hanno solo un valore simbolico; e, in ogni caso, potrebbero realmente corrispondere a ciò di cui si tratta solo a condizione di eliminare le interpretazioni speciali che dà di loro la filosofia moderna, il cui «spiritualismo» ed il cui «materialismo» sono per noi solo due forme complementari implicantesi a vicenda e parimenti trascurabili per chi vuole elevarsi al di sopra di tali punti di vista contingenti. D’altra parte, in questa sede non ci proponiamo di trattare di metafisica pura, ed è per questo che, senza perdere di vista i principi essenziali, possiamo permetterci di usare, pur prendendo le precauzioni indispensabili per evitare ogni equivoco, dei termini che, anche se inadeguati, si prestano a rendere le cose più facilmente comprensibili, almeno nella misura in cui ciò è possibile senza arrivare a snaturarli.
Ciò che dicevamo a proposito dello sviluppo della manifestazione, pur essendo esatto nell’insieme, si presenta tuttavia come troppo semplificato e schematico, in quanto può far pensare che tale sviluppo si effettui in linea retta, secondo un senso unico e senza alcuna oscillazione di sorta; la realtà è ben più complessa. In effetti, come peraltro abbiamo già detto, in tutte le cose occorre considerare due tendenze opposte, l’una discendente e l’altra ascendente o, se si vuole usare una diversa rappresentazione, l’una centrifuga e l’altra centripeta; ed è dal prevalere dell’una o dell’altra tendenza che derivano le due fasi complementari della manifestazione: una di allontanamento dal principio, l’altra di ritorno verso il principio, le quali spesso sono equiparate simbolicamente ai movimenti del cuore o alle due fasi della respirazione. Nonostante queste due fasi siano ordinariamente descritte come successive, occorre comprendere che, in realtà, le due tendenze alle quali corrispondono agiscono sempre simultaneamente, quantunque in proporzioni diverse; e talvolta, in certi momenti critici in cui la tendenza discendente sembra sul punto di prevalere definitivamente nel moto complessivo del mondo, si verifica l’intervento di un’azione particolare che rafforza la tendenza contraria, in modo da ristabilire un certo equilibrio, quantomeno relativo e per quanto lo possano permettere le condizioni del momento, e tale da operare anche un parziale raddrizzamento per effetto del quale il movimento di caduta può apparire come fermato o temporaneamente neutralizzato[1].
È facile comprendere che questi dati tradizionali, che qui dobbiamo limitarci a presentare in maniera molto sommaria, permettono di concepire delle vedute ben diverse da tutti i saggi di «filosofia della storia» a cui si dedicano i moderni, vedute di ben altra vastità e profondità. Ma, per il momento, non pensiamo certo di risalire alle origini del presente ciclo e nemmeno, più semplicemente, agli inizi del Kali-Yuga; le nostre intenzioni, almeno in maniera diretta, si fermano ad un ambito molto più limitato e cioè alle ultime fasi del Kali-Yuga. In effetti, all’interno di ciascuno dei grandi periodi di cui abbiamo parlato prima, è possibile distinguere delle ulteriori fasi secondarie, che ne costituiscono altrettante suddivisioni; e, siccome ogni parte è in qualche modo analoga al tutto, queste suddivisioni riproducono, per così dire in scala più ridotta, il moto generale del grande ciclo nel quale si integrano; e anche in questo caso, una ricerca completa sul come una tale legge possa applicarsi alle diverse situazioni particolari ci condurrebbe ben al di là del limiti di questo studio.
Per completare queste considerazioni preliminari, accenneremo solamente ad alcune delle ultime epoche particolarmente critiche che ha attraversato l’umanità: quelle che rientrano nel periodo che si usa chiamare «storico», perché questo è effettivamente il solo che sia veramente accessibile alla storia ordinaria o «profana»; e questi cenni ci condurranno, in maniera del tutto naturale, a ciò che costituisce l’oggetto proprio del presente studio, dal momento che l’ultima di queste epoche critiche non è altra che quella costituita da ciò che si chiamano tempi moderni.
Vi è un fatto alquanto strano, che sembra non sia mai stato sottolineato come merita: il periodo propriamente «storico», nel senso da noi prima indicato, risale esattamente al VI secolo prima dell’era cristiana, come se a quel punto si avesse, nel tempo, quasi una barriera impossibile da infrangere con l’aiuto dei mezzi di indagine di cui dispongono i ricercatori ordinari. In effetti, a partire da questa epoca si possiede ovunque una cronologia molto precisa e chiaramente stabilita; mentre, per tutto ciò che è anteriore generalmente si giunge solo ad una approssimazione molto vaga e le date proposte per gli stessi avvenimenti variano spesso di parecchi secoli. E colpisce non poco il fatto che questo accada perfino per quei paesi di cui si possiedono ben più che delle semplici sparse vestigia, come l’Egitto per esempio; mentre la cosa che forse stupisce ancor di più è che in un caso eccezionale e privilegiato come è quello della Cina, che possiede degli annali relativi a delle epoche molto più lontane, annali che sono datati per mezzo dell’osservazione astronomica e che quindi non dovrebbero lasciar adito ad alcun dubbio, i moderni continuano a classificare tali epoche come «leggendarie», come se si trovassero al cospetto di un dominio per il quale non riconoscono a se stessi alcuna possibilità di certezza né alcuna possibilità di ottenerne.
L’antichità detta «classica» non è dunque, a dire il vero, che una antichità del tutto relativa, e perfino molto più prossima ai tempi moderni di quanto lo sia l’antichità vera, poiché essa risale solo alla metà del Kali-Yuga, la cui stessa durata, in base alla dottrina indù, non è che la decima parte di quella del Manvantara; da questo si potrà giudicare a sufficienza fino a che punto i moderni abbiano ragione di andar fieri dell’estensione delle proprie conoscenze storiche! Ma costoro risponderanno senza dubbio, a mo’ di giustificazione, che in tutto ciò si tratta solo di periodi «leggendari» ed è per questo che essi ritengono di non doverne tenere conto; ma una tale risposta equivale esattamente ad una confessione di ignoranza e dimostra una incomprensione che è la sola che possa spiegare il loro disprezzo per la tradizione; e in effetti, lo spirito specificamente moderno non è altro che lo spirito antitradizionale, come avremo modo di spiegare più avanti.
Nel corso del VI secolo prima dell’era cristiana sono avvenuti dei cambiamenti considerevoli presso quasi tutti i popoli, quale che sia stata la loro causa e anche se essi hanno avuto delle caratteristiche diverse a seconda dei paesi interessati. In certi casi si è trattato di un riadattamento della tradizione nei confronti di condizioni differenti da quelle che esistevano prima, riadattamento compiuto in un senso rigorosamente ortodosso: è il caso della Cina, per esempio, ove la dottrina, anteriormente costituita da un unico insieme, venne divisa in due parti nettamente distinte, il Taoismo, riservato ad una élite e comprendente la metafisica pura e le scienze tradizionali d’ordine puramente speculativo, e il Confucianesimo, comune a tutti indistintamente e il cui dominio comprendeva le applicazioni pratiche e principalmente sociali. Presso i Persiani, sembra che si sia avuto parimenti un riadattamento del Mazdeismo, fu quella infatti l’epoca dell’ultimo Zoroastro[2].
In quel periodo, in India nacque il Buddhismo, che, al di là di ciò che possa essere stato il suo carattere originario, doveva invece sfociare, almeno in alcune delle sue branche, in una rivolta contro lo spirito tradizionale, giungendo fino alla negazione di ogni autorità, fino ad una vera anarchia, nel senso etimologico di «assenza di principio», sia nell’ordine intellettuale che nell’ordine sociale[3]. La cosa curiosa è che in India non si trova alcun monumento che risalga a prima di questa epoca, e gli orientalisti, che vogliono far cominciare tutto dal Buddhismo di cui esagerano singolarmente l’importanza, hanno cercato di trar partito da questa constatazione, a favore della loro tesi; tuttavia la spiegazione del fatto è abbastanza semplice: è che tutte le costruzioni anteriori erano in legno, di modo che esse sono scomparse naturalmente senza lasciare alcuna traccia[4]; la cosa vera è che un tale cambiamento nel modo di costruire corrisponde necessariamente ad una profonda modificazione delle condizioni generali d’esistenza del popolo presso cui si è prodotto.
Accostandoci all’Occidente, constatiamo che, presso gli Ebrei, quest’epoca fu quella della cattività babilonese, e la cosa che forse stupisce di più è che un breve periodo di settant’anni possa essere bastato per far perder loro perfino la scrittura, tanto che in seguito dovettero ricostruire i Libri sacri con dei caratteri del tutto diversi da quelli usati fino ad allora. E si potrebbero citare ancora ben altri avvenimenti che si rifanno più o meno alla stessa data: ricorderemo solamente che per Roma si trattò dell’inizio del periodo propria- mente «storico», che era stato preceduto dall’epoca «leggendaria» dei re; mentre si sa anche, quantunque in maniera un po’ vaga, che presso i popoli celtici si produssero allora degli importanti movimenti; ma senza voler insistere ulteriormente, vediamo che cosa accadde in Grecia. Anche lì, il VI secolo fu il punto di partenza della civiltà cosiddetta «classica», la sola alla quale i moderni riconoscono il carattere «storico», mentre tutto ciò che precede è molto mal conosciuto, tanto da essere considerato come «leggendario», nonostante le recenti scoperte archeologiche non permettono più di dubitare che, perlomeno, vi fu una civiltà molto reale; e noi abbiamo più di una ragione per pensare che questa prima civiltà ellenica fosse molto più interessante intellettualmente di quella che l’ha seguita, mentre i loro rapporti presenterebbero qualche analogia con quelli esistenti fra l’Europa del Medio Evo e l’Europa moderna. Tuttavia, è necessario notare che la rottura non fu così radicale come in quest’ultimo caso, poiché si ebbe, almeno parzialmente, un riadattamento effettuato nell’ordine tradizionale, principalmente nel dominio dei «misteri», a cui bisogna ricollegare il Pitagorismo che fu soprattutto una restaurazione del precedente Orfismo, sotto una nuova forma, ed i cui legami evidenti con il culto delfico dell’Apollo iperboreo permettono perfino di prendere in considerazione una filiazione continua e regolare con una delle più antiche tradizioni dell’umanità. D’altra parte, si vide subito apparire qualcosa di cui non vi era ancora alcun esempio, e che doveva in seguito esercitare un’influenza nefasta su tutto il mondo occidentale: intendiamo parlare di quel particolare modo di pensare che prese e conservò il nome di «filosofia»; ed è questo un punto molto importante che merita alcune considerazioni.
Il termine «filosofia», di per sé, può certamente essere assunto in un senso molto legittimo, che indubbiamente fu il suo senso primitivo, soprattutto se è vero, come si pretende, che sia stato Pitagora ad impiegarlo per primo: etimologicamente esso non significa altro che «amore per la saggezza»; dunque inizialmente indicava una disposizione preliminare necessaria per pervenire alla saggezza, e può anche indicare, per naturale estensione, la ricerca che, partendo da questa stessa disposizione, deve condurre alla conoscenza. Si tratta dunque di uno stadio preliminare e preparatorio, di un incamminarsi verso la saggezza[5], di un grado corrispondente ad uno stato inferiore a quello del saggio; la deviazione che si è prodotta in seguito consiste nell’aver scambiato questo grado transitorio con lo scopo stesso, e nell’aver preteso di sostituire la «filosofia» alla saggezza, cosa questa che implica la dimenticanza o la misconoscenza della vera natura di quest’ultima. È così che nacque ciò che possiamo chiamare la filosofia «profana», vale a dire una pretesa saggezza puramente umana, quindi di ordine semplicemente razionale, la quale ha preso il posto della vera saggezza tradizionale: sopra-razionale e «non umana». Tuttavia, qualcosa di quest’ultima rimase ancora nel corso di tutta l’antichità; ne è la prova, innanzi tutto la persistenza dei «misteri», il cui carattere essenzialmente «iniziatico» non potrebbe essere contestato, e poi il fatto che l’insegnamento degli stessi filosofi presentava, ad un tempo e il più sovente, un aspetto «exoterico» ed uno «esoterico», ove quest’ultimo poteva permettere il collegamento ad un punto di vista superiore; cosa questa che, peraltro, si evidenzia in maniera molto chiara, quantunque forse incompleta per certi aspetti, alcuni secoli dopo presso gli Alessandrini. Ora, perché la filosofia «profana» venisse a costituirsi definitivamente come tale, occorreva che rimanesse solo l’«exoterismo» e si giungesse fino alla negazione pura e semplice di ogni «esoterismo»; ed è proprio in questo che doveva sfociare, presso i moderni, il movimento iniziato presso i Greci; le tendenze che si erano già affermate presso costoro dovevano essere spinte fino alla loro più estrema conseguenza, mentre l’eccessiva importanza da essi accordata al pensiero razionale doveva accentuarsi fino a sfociare nel «razionalismo»: attitudine particolarmente moderna che consiste, non semplicemente nell’ignorare, ma nel negare espressamente tutto ciò che è di ordine sopra-razionale.
Ma non anticipiamo anzitempo, poiché avremo modo di ritornare su queste conseguenze e di seguirne lo sviluppo in un’altra parte del presente studio.
In ciò che abbiamo appena detto, una cosa è da tener presente in modo particolare dal punto di vista in cui ci poniamo: ed è che alcune delle origini del mondo moderno è opportuno ricercarle nell’antichità «classica»; non si ha dunque del tutto torto quando ci si richiama alla civiltà greco-latina e quando si pretende di esserne i continuatori. Occorre precisare, tuttavia, che si tratta solo di una continuità alla lontana ed anche un po’ infedele, poiché, malgrado tutto, in questa antichità vi erano parecchie cose, nell’ordine intellettuale e spirituale, di cui non si potrebbe trovare l’equivalente presso i moderni; e in ogni caso, nel corso dell’oscuramento progressivo della vera conoscenza, si tratta di due gradi assai differenti. D’altronde, si potrebbe supporre che la decadenza della civiltà antica abbia prodotto, in maniera graduale e senza soluzione di continuità, uno stato più o meno simile a quello che vediamo oggi, ma, in effetti, non fu così, poiché in Occidente, in un periodo intermedio, si è avuta un’altra epoca critica che è stata al tempo stesso una di quelle epoche di raddrizzamento a cui facevamo allusione prima.
Tale epoca è quella dell’inizio e dell’espansione del Cristianesimo, la quale ha coinciso, da un lato, con la dispersione del popolo ebraico e, dall’altro, con l’ultima fase della civiltà greco-latina; e possiamo limitarci ad accennare rapidamente a questi avvenimenti, nonostante la loro importanza, sia perché in genere essi sono meglio conosciuti di quelli di cui abbiamo parlato fino ad ora, sia perché il loro sincronismo è stato maggiormente messo in risalto, perfino dagli storici dalle concezioni più superficiali. Molto spesso sono state anche segnalati alcuni tratti comuni fra la decadenza antica e l’epoca attuale, e, senza voler spingere oltremodo il parallelismo, si deve riconoscere che effettivamente vi sono alcune somiglianze assai marcate. La filosofia puramente «profana» aveva guadagnato terreno: l’apparizione dello scetticismo, da un lato, il successo del «moralismo» stoico ed epicureo, dall’altro, mostrano bene fino a che punto si fosse abbassata l’intellettualità. Al tempo stesso, le antiche dottrine sacre, che quasi nessuno comprendeva più, erano degenerate, proprio per tale incomprensione, in «paganesimo», nel vero senso della parola, vale a dire che ormai erano solo delle «superstizioni», delle cose che, avendo perduto il loro significato profondo, sopravvivevano a se stesse con delle manifestazioni tutte esteriori.
Contro tale tendenza vi furono dei tentativi di reazione: lo stesso ellenismo tentò di rivivificarsi con l’aiuto di elementi tratti da quelle dottrine orientali con le quali poteva trovarsi in contatto; ma ciò non era più sufficiente: la civiltà greco-latina era destinata a perire e il raddrizzamento doveva venire da un’altra parte e compiersi con una forma del tutto diversa. Fu il Cristianesimo che compì tale trasformazione; e, lo diciamo di sfuggita, il raffronto che si può stabilire, sotto certi aspetti, fra quei tempi ed i nostri, è forse uno degli elementi determinanti del «messianismo» disordinato che si presenta attualmente. Dopo il periodo confuso delle invasioni barbariche, necessario per portare a termine la distruzione dell’antico stato di cose, venne reinstaurato un ordine normale per la durata di alcuni secoli: fu il Medio Evo, così misconosciuto dai moderni, i quali sono incapaci di comprenderne l’intellettualità, e ai quali quest’epoca deve apparire certamente molto più estranea e lontana che l’antichità «classica».
Il vero Medio Evo, per noi, va dal regno di Carlo Magno agli inizi del XIV secolo; da quest’ultima data prende il via una nuova decadenza che, attraverso tappe diverse, andrà accentuandosi fino ai giorni nostri. È questo il vero punto di partenza della crisi moderna: l’inizio della disgregazione della «Cristianità», con cui si identificava essenzialmente la civiltà occidentale del Medio Evo; e, ad un tempo, la fine del regime feudale, strettamente solidale con questa stessa «Cristianità», e l’inizio della costituzione delle «nazionalità». Occorre dunque far risalire l’epoca moderna a circa due secoli prima di quanto si faccia ordinariamente; il Rinascimento e la Riforma furono soprattutto delle risultanti, rese possibili solo dalla precedente decadenza; ma, lungi dall’essere un raddrizzamento, esse segnarono una caduta molto più profonda, poiché portarono a compimento la rottura definitiva con lo spirito tradizionale: il Rinascimento nel dominio delle scienze e delle arti, la Riforma nello stesso dominio religioso, che tuttavia era quello in cui una tale rottura poteva sembrare più difficile da concepire.
In realtà, ciò che viene chiamato Rinascimento fu, come abbiamo detto in altre occasioni, la morte di molte cose; col pretesto di un ritorno alla civiltà greco-romana, si riprese di questa solo ciò che vi era stato di più esteriore, solo quello che era stato possibile esprimere chiaramente nei testi scritti; e d’altronde, questo ritorno incompleto poteva solo avere un carattere molto superficiale, poiché si trattava di forme che, ormai da secoli, avevano cessato di vivere la loro vera vita.
Quanto alle scienze tradizionali del Medio Evo, dopo aver avuto qualche ultima manifestazione nel corso del Rinascimento, scomparvero quasi totalmente, al pari di quelle delle lontane civiltà annientate da un qualche cataclisma; e questa volta nulla doveva rimpiazzarle. Non rimase altro che la filosofia e la scienza «profane», vale a dire la negazione della vera intellettualità, la limitazione della conoscenza all’ordine più inferiore, lo studio empirico e analitico di fatti non più collegati ad alcun principio, la dispersione in una moltitudine indefinita di dettagli insignificanti, l’accumulo di ipotesi senza fondamento che si distruggono incessantemente a vicenda: vedute frammentarie che possono solo condurre a nulla, salvo che a quelle applicazioni pratiche che costituiscono la sola effettiva superiorità della civiltà moderna; superiorità poco invidiabile, d’altronde, la quale, sviluppandosi fino a soffocare ogni altra preoccupazione, ha dato a questa civiltà il carattere puramente materiale che ne fa una vera mostruosità.
La cosa del tutto straordinaria è la rapidità con cui la civiltà del Medio Evo è piombata nell’oblio più totale; gli uomini del XVII secolo non ne avevano più la minima nozione, ed i monumenti che di essa rimanevano non rappresentavano più niente ai loro occhi, né nell’ordine intellettuale né tampoco nell’ordine estetico; e da ciò è facile giudicare quanto la mentalità fosse cambiata nel frattempo. Qui non intraprenderemo una ricerca dei fattori, certo molto complessi, che concorsero a questo cambiamento, così radicale che sembra perfino difficile ammettere che si sia potuto effettuare spontaneamente e senza l’intervento di una volontà direttiva la cui esatta natura resta necessariamente molto enigmatica; a questo proposito, vi sono delle circostanze molto strane, come quella che, ad un certo momento, coincise con la volgarizzazione e col presentare come delle nuove scoperte delle cose che in realtà erano note da lungo tempo, ma la cui conoscenza non era stata resa fino ad allora di dominio pubblico a causa di certi inconvenienti che rischiavano di vincerla sui vantaggi[6]. Altrettanto inverosimile è il fatto che la leggenda che fece del Medio Evo un’epoca di «tenebre», di ignoranza e di barbarie, sia nata e si sia accreditata da sola, e che la falsificazione della storia a cui si sono dedicati i moderni sia stata intrapresa senza alcuna idea precostituita; ma non ci addentreremo nell’esame di questa questione, poiché, qualunque sia il modo con cui un tale lavoro è stato svolto, ciò che ci preme, per il momento, è la constatazione del risultato, che in definitiva è quello che importa di più.
Vi è un termine che fu in auge nel Rinascimento, e che riassumeva in anticipo tutto il programma della civiltà moderna: il termine «umanesimo». E in effetti si trattava di ridurre tutto a delle dimensioni puramente umane, di prescindere da ogni principio di ordine superiore e, per dirla simbolicamente, di allontanarsi dal cielo con la scusa di conquistare la terra; i Greci, di cui si pretendeva seguire l’esempio, non si erano mai spinti tanto in questa direzione, nemmeno al tempo della loro più grande decadenza intellettuale, e da loro neanche le preoccupazioni utilitaristiche erano mai passate in primo piano, come doveva ben presto accadere presso i moderni. L’«umanesimo» era già un primo abbozzo di ciò che è divenuto il «laicismo» contemporaneo; e col voler ricondurre tutto a misura d’uomo, assumendo quest’ultimo come fine a se stesso, si è finito per scendere, passo dopo passo, al livello di ciò che nell’uomo vi è di più inferiore, fino a ricercare solo più la soddisfazione dei bisogni inerenti alla parte materiale della sua natura; ricerca ben illusoria, del resto, poiché essa crea sempre molti più bisogni artificiali di quanti ne possa soddisfare.
Giungerà il mondo moderno fino al fondo di questa china fatale o, come è accaduto per il mondo greco-latino, si produrrà un nuovo raddrizzamento prima che raggiunga il fondo dell’abisso verso cui è trascinato?
Sembra proprio che un arresto a metà strada non sia più tanto possibile, e che, in base a tutte le indicazioni fornite dalle dottrine tradizionali, si sia entrati veramente nella fase finale Kali-Yuga, nel periodo più oscuro di questa «età oscura», in quello stato di dissoluzione da cui non è più possibile uscire se non con un cataclisma, poiché non è più di un semplice raddrizzamento che si ha bisogno, ma di un rinnovamento totale. Il disordine e la confusione regnano in tutti i domini; essi sono stati spinti ad un punto che oltrepassa di molto tutto ciò che si era visto in precedenza e, partiti dall’Occidente, adesso minacciano d’invadere il mondo intero.
Sappiamo bene che il loro trionfo non può mai essere che apparente e passeggero, ma, a un tale grado, esso si presenta come il segno della più grave di tutte le crisi attraversate dall’umanità nel corso del suo ciclo attuale. Non siamo forse giunti a quell’epoca temibile annunciata dai Libri sacri dell’India, «ove le caste saranno mescolate e la famiglia stessa non esisterà più»? Basta guardarsi attorno per convincersi che questo è lo stato in cui si trova realmente il mondo attuale, e per constatare dappertutto quella decadenza profonda che il Vangelo chiama «l’abominio della desolazione». Non bisogna nascondersi la gravità della situazione, bisogna considerarla per quella che è, senza alcun «ottimismo», ma anche senza alcun «pessimismo», poiché, come dicevamo prima, la fine dell’antico mondo sarà anche l’inizio di un mondo nuovo.
A questo punto si pone un interrogativo: qual è la ragion d’essere di un periodo come quello che viviamo? E in effetti, per anormali che siano le attuali condizioni considerate di per sé, devono tuttavia rientrare nell’ordine generale delle cose, in quell’ordine che, secondo una formula estremo-orientale, è composto dalla somma di tutti i disordini; quest’epoca, per quanto penosa e fosca sia, deve pur avere, al pari delle altre, il suo posto assegnato nell’insieme dello sviluppo umano, e d’altronde il fatto stesso che sia stata prevista dalle dottrine tradizionali è, in proposito, una indicazione sufficiente.
Quanto abbiamo detto circa il moto generale di un ciclo di manifestazione, che si svolge nella direzione di una progressiva materializzazione, fornisce subito la spiegazione di un tale stato di cose e fa ben comprendere che ciò che è anormale e disordinato da un certo punto di vista particolare è nondimeno la conseguenza di una legge relativa ad un punto di vista superiore e più vasto. Aggiungiamo, senza insistervi ulteriormente, che al pari di ogni cambiamento di stato, il passaggio da un ciclo ad un altro può compiersi solo nell’oscurità; anche qui si tratta di una legge molto importante e le cui applicazioni sono molteplici, ma la cui esposizione, anche appena dettagliata, per ciò stesso ci condurrebbe troppo lontano[7].
Ma non è tutto: l’epoca moderna deve necessariamente corrispondere allo sviluppo di alcune delle possibilità che, fin dall’origine, erano incluse nella potenzialità del ciclo attuale; possibilità che, per inferiore che fosse il posto da loro occupato nella gerarchia dell’insieme, dovevano essere chiamate a manifestarsi al pari delle altre, secondo l’ordine loro assegnato.
Sotto questo profilo, ciò che secondo la tradizione caratterizza l’ultima fase del ciclo è, si potrebbe dire, lo sfruttamento di tutto ciò che è stato trascurato o rigettato nel corso delle fasi precedenti; ed effettivamente è proprio questo che possiamo constatare nella civiltà moderna, la quale vive, in qualche modo, di ciò che le civiltà anteriori avevano rifiutato. Per rendersene conto, basta vedere in che modo i rappresentanti di quelle civiltà che si sono conservate fino ad oggi nel mondo orientale valutano le scienze occidentali e le loro applicazioni industriali. Queste conoscenze inferiori, così vane per chi possiede una conoscenza di altro ordine, dovevano tuttavia essere «realizzate», e potevano esserlo solo ad uno stadio in cui la vera intellettualità fosse sparita; queste ricerche dalla portata esclusivamente pratica, nel senso più ristretto del termine, dovevano essere compiute, ma potevano esserlo solo all’estremo opposto della spiritualità primordiale, da degli uomini sprofondati nella materia al punto da non riuscire a concepire nulla al di fuori di essa e ridotti ad essere tanto più schiavi di questa materia per quanto vorrebbero servirsene, cosa questa che li conduce ad una agitazione sempre crescente, senza freno e senza scopo, alla dispersione nella pura molteplicità, fino alla dissoluzione finale.
Tratteggiata per grandi linee e ridotta all’essenziale, è questa la vera spiegazione del mondo moderno; ma va detto molto chiaramente che questa spiegazione non potrebbe minimamente esser presa come una giustificazione. Un male inevitabile resta pur sempre un male, e perfino se dal male deve scaturire un bene, ciò non toglie nulla al carattere stesso del male. Peraltro, noi impieghiamo qui questi termini di «bene» e di «male» solo per farci comprendere meglio e al di là di ogni intenzione specificamente «morale». I disordini parziali non possono non esserci, perché sono elementi necessari dell’ordine totale; ciò malgrado, un’epoca di disordine è, di per sé, qualcosa di paragonabile ad una mostruosità, la quale, pur essendo la conseguenza di certe leggi naturali, non per questo non rimane una deviazione ed una sorta di errore; o di paragonabile ad un cataclisma, il quale, pur derivando dall’ordine naturale delle cose, resta comunque, visto isolatamente, uno sconvolgimento ed una anomalia. La civiltà moderna, come tutte le cose, ha necessariamente la sua ragion d’essere, e se essa è veramente quella che conclude un ciclo, si può dire che è ciò che dev’essere e che sopraggiunge a tempo e a luogo; ma non per questo non dovrà essere giudicata secondo la parola evangelica troppo spesso mal compresa: «È inevitabile che avvengano scandali, ma guai all’uomo per colpa del quale avviene lo scandalo!».

[1] Tutto ciò è da riferire alla funzione di «conservazione divina» che, nella tradizione indù, è rappresentata da Vishnu, ed in particolare è da riferire alla dottrina degli Avâtara o «discese» del principio divino nel mondo manifestato, che naturalmente non pensiamo di sviluppare in questa sede. 
[2] Occorre notare che il nome di Zoroastro designa, in realtà, non un particolare personaggio, ma una funzione, ad un tempo profetica e legislativa; vi furono diversi Zoroastri che vissero in epoche molto diverse; ed è perfino verosimile che questa funzione abbia avuto un carattere collettivo, al pari di quella di Vyâsa in India; così come in Egitto ciò che venne attribuito a Thoth o Hermes rappresenta l’opera di tutta la casta sacerdotale. 
[3] In realtà, la questione del Buddhismo è lungi dall’essere così semplice come sembrano mostrare queste brevi considerazioni; ed è interessante notare che se gli Indù, dal punto di vista della loro tradizione, hanno sempre condannato il Buddhismo, molti fra loro professano nondimeno un grande rispetto per lo stesso Buddha, ed alcuni arrivano perfino a considerarlo il nono Avatâra, mentre altri identificano quest’ultimo con il Cristo. D’altra parte, per quanto attiene il Buddhismo così come lo si conosce oggigiorno, occorre accuratamente distinguere fra le due sue forme del Mahâyâna e dell’Hinayâna, o del «Grande Veicolo» e del «Piccolo Veicolo»; in linea generale si può dire che il Buddhismo, fuori dall’India, differisce notevolmente dalla sua forma indiana originaria, la quale incominciò a perdere terreno dopo la morte di Ashoka e sparì completamente alcuni secoli più tardi. 
[4] Questo caso non è certo specifico dell’India e si riscontra anche in Occidente; è esattamente per lo stesso motivo che non si trova alcun vestigio delle città galliche, la cui esistenza è tuttavia incontestabile, essendo attestata da testimonianze dell’epoca; ed anche in questo caso gli storici moderni hanno approfittato di questa assenza di monumenti per dipingere i Galli come dei selvaggi che vivevano nelle foreste. 
[5] Il rapporto, in questo caso, è quasi lo stesso di quello esistente, nella dottrina taoista, fra lo stato di «uomo dotato» e quello di «uomo trascendente». 
[6] Fra i fatti di questo genere, che produssero le più gravi conseguenze, citiamo solo due esempi: la pretesa invenzione della stampa, che i Cinesi conoscevano ancor prima dell’era cristiana, e la scoperta «ufficiale» dell’America, con la quale, nel corso di tutto il Medio Evo, esistettero comunicazioni molto più frequenti di quanto generalmente si pensi. 
[7] Nei misteri d’Eleusi questa legge era rappresentata dal simbolismo del chicco di grano; gli alchimisti la raffiguravano con la «putrefazione» e col colore nero che segna l’inizio della «Grande Opera»; ciò che i misteri cristiani chiamano la «notte oscura dell’anima» non è che l’applicazione di questa legge allo sviluppo spirituale dell’essere che si eleva verso gli stati superiori; e sarebbe facile segnalare ancora molte altre concordanze.

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