Oriente e Occidente
Parte prima
Illusioni occidentali
IV
IV
Terrori immaginari e pericoli reali
Nonostante la grande stima che hanno di se stessi e della
propria civiltà, gli Occidentali sentono che il loro dominio sul resto del
mondo, per essere alla mercé di avvenimenti che essi non possono prevedere, né,
a maggior ragione, impedire, è lungi dall’essere assicurato in modo definitivo.
Ciò di cui però non vogliono accorgersi è che la causa principale dei pericoli che li minacciano è insita nel carattere stesso della civiltà europea: tutto ciò che si fonda esclusivamente sulla materialità, come in questo caso, non può avere che un successo transitorio; il cambiamento, che è la legge in questa sfera essenzialmente instabile, può avere le peggiori conseguenze sotto tutti gli aspetti, e ciò con una rapidità tanto più subitanea quanto più la velocità raggiunta è grande: l’eccesso stesso del progresso materiale rischia fortemente di sfociare in qualche cataclisma.
Si pensi all’incessante perfezionamento dei mezzi di distruzione, all’importanza sempre più considerevole che essi rivestono nelle guerre moderne, alle prospettive poco rassicuranti che certe invenzioni offrono per l’avvenire, e non si potrà più negare una tale possibilità; del resto, ad essere pericolose non sono solo le macchine espressamente destinate ad uccidere.
Al punto in cui sono giunte le cose, già a partire da questo momento, non ci vuole molta immaginazione per raffigurarsi l’eventualità che l’Occidente finisca con il distruggere se stesso, o in una guerra gigantesca, di cui l’ultima[1] non offre che una pallida idea, o a causa degli effetti imprevisti di qualche prodotto che, manipolato imprudentemente, sarebbe in grado di far saltare in aria non più una fabbrica o una città, ma tutto un continente. Certo si può ancora sperare che sia l’Europa come l’America si fermino su questa strada e si riprendano in tempo prima di giungere a tali estremi; catastrofi minori potranno servir loro come utili avvertimenti e causare, con il timore che provocheranno, l’arresto di questa corsa vertiginosa che può condurre soltanto ad un abisso. Ciò è possibile, soprattutto se verrà ad aggiungersi qualche delusione sentimentale un po’ troppo forte, tale da distruggere nelle masse l’illusione del «progresso morale»; lo sviluppo eccessivo del sentimentalismo potrebbe dunque addirittura contribuire a questo salutare risultato, ed è anzi necessario che ciò avvenga nel caso che l’Occidente, lasciato a se stesso, debba trovare esclusivamente nella propria mentalità i mezzi d’una reazione che presto o tardi diventerà necessaria. Né tutto ciò basterebbe assolutamente a imprimere, proprio in quel momento, un’altra direzione alla civiltà occidentale, giacché essendo l’equilibrio ben difficile da realizzare in tali condizioni, vi sarà ancora da temere un ritorno alla pura e semplice barbarie, conseguenza naturale della negazione dell’intellettualità.
Ciò di cui però non vogliono accorgersi è che la causa principale dei pericoli che li minacciano è insita nel carattere stesso della civiltà europea: tutto ciò che si fonda esclusivamente sulla materialità, come in questo caso, non può avere che un successo transitorio; il cambiamento, che è la legge in questa sfera essenzialmente instabile, può avere le peggiori conseguenze sotto tutti gli aspetti, e ciò con una rapidità tanto più subitanea quanto più la velocità raggiunta è grande: l’eccesso stesso del progresso materiale rischia fortemente di sfociare in qualche cataclisma.
Si pensi all’incessante perfezionamento dei mezzi di distruzione, all’importanza sempre più considerevole che essi rivestono nelle guerre moderne, alle prospettive poco rassicuranti che certe invenzioni offrono per l’avvenire, e non si potrà più negare una tale possibilità; del resto, ad essere pericolose non sono solo le macchine espressamente destinate ad uccidere.
Al punto in cui sono giunte le cose, già a partire da questo momento, non ci vuole molta immaginazione per raffigurarsi l’eventualità che l’Occidente finisca con il distruggere se stesso, o in una guerra gigantesca, di cui l’ultima[1] non offre che una pallida idea, o a causa degli effetti imprevisti di qualche prodotto che, manipolato imprudentemente, sarebbe in grado di far saltare in aria non più una fabbrica o una città, ma tutto un continente. Certo si può ancora sperare che sia l’Europa come l’America si fermino su questa strada e si riprendano in tempo prima di giungere a tali estremi; catastrofi minori potranno servir loro come utili avvertimenti e causare, con il timore che provocheranno, l’arresto di questa corsa vertiginosa che può condurre soltanto ad un abisso. Ciò è possibile, soprattutto se verrà ad aggiungersi qualche delusione sentimentale un po’ troppo forte, tale da distruggere nelle masse l’illusione del «progresso morale»; lo sviluppo eccessivo del sentimentalismo potrebbe dunque addirittura contribuire a questo salutare risultato, ed è anzi necessario che ciò avvenga nel caso che l’Occidente, lasciato a se stesso, debba trovare esclusivamente nella propria mentalità i mezzi d’una reazione che presto o tardi diventerà necessaria. Né tutto ciò basterebbe assolutamente a imprimere, proprio in quel momento, un’altra direzione alla civiltà occidentale, giacché essendo l’equilibrio ben difficile da realizzare in tali condizioni, vi sarà ancora da temere un ritorno alla pura e semplice barbarie, conseguenza naturale della negazione dell’intellettualità.
Ad ogni modo, qualunque cosa possa avverarsi di queste
previsioni, che forse si riferiscono ad un avvenire lontano, gli Occidentali
d’oggi sono ancora convinti che il progresso, o quel che essi chiamano con tale
nome, possa e debba essere continuo e indefinito; illudendosi più che mai sul
proprio conto, essi hanno attribuito a se stessi la missione di far penetrare
questo progresso dappertutto, imponendolo, se necessario con la forza, ai
popoli che hanno il torto, ai loro occhi imperdonabile, di non accettarlo con
la massima prontezza. Questo furore propagandistico a cui già abbiamo fatto
allusione è dannosissimo per tutti, ma soprattutto per gli stessi Occidentali,
perché li rende temuti e detestati; lo spirito di conquista non era mai stato
spinto tanto oltre, e soprattutto mai si era mimetizzato sotto le ipocrite
apparenze del «moralismo» moderno. D’altra parte l’Occidente dimentica di non
aver avuto nessuna esistenza storica in un’epoca in cui le civiltà orientali
avevano già raggiunto il loro pieno sviluppo[2]; con
le sue pretese, esso appare agli occhi degli Orientali quale un bambino che,
orgoglioso di aver imparato rapidamente qualche rudimentale conoscenza, si
creda in possesso del sapere totale e voglia insegnarlo a vegliardi colmi di
saggezza e di esperienza.
Tutto ciò non rappresenterebbe di per sé che una bizzarria
piuttosto inoffensiva di cui vi sarebbe soltanto da sorridere, sennonché gli
Occidentali hanno a loro disposizione la forza bruta, e l’uso che ne fanno
cambia interamente il volto delle cose: infatti, per coloro che, completamente
contro la propria volontà, entrano in contatto con gli Occidentali, il vero
pericolo è proprio questo, e non l’«assimilazione», che questi ultimi sono del
tutto incapaci di realizzare, non essendo intellettualmente e neppure
fisicamente qualificati per portarla a buon fine. In effetti, i popoli europei,
senza dubbio perché formati da elementi eterogenei e privi dei caratteri d’una
razza vera e propria, sono quelli che presentano le caratteristiche etniche
meno stabili, le quali più rapidamente scompaiono quando si mescolino ad altre
razze; dovunque si verifichi una fusione di questo genere, è sempre
l’Occidentale che, lungi dal poter assorbire gli altri, finisce con l’esserne
assorbito. Quanto al punto di vista intellettuale, le considerazioni che siamo
venuti esponendo ci dispensano da ulteriori considerazioni in merito; una
civiltà che è continuamente in movimento, che non ha né tradizione né principio
profondo, non può evidentemente esercitare un reale influsso su quelle che
possiedono precisamente tutto ciò che manca ad essa; e se di fatto non si
esercita l’influsso inverso, è soltanto perché gli Occidentali sono incapaci di
comprendere ciò che a loro è estraneo; la loro impenetrabilità a questo
riguardo non ha altra causa che un’inferiorità mentale, mentre quella degli
Orientali è fatta di intellettualità pura.
Ci sono verità che è necessario dire e ripetere con
insistenza, per quanto spiacevoli possano apparire a molti: tutte le superiorità
di cui si vantano gli Occidentali sono puramente immaginarie, ad eccezione
della sola superiorità materiale; quest’ultima essendo fin troppo reale,
nessuno pensa di contestarla, e nessuno, in fondo, gliela invidia; la disgrazia
è che essi ne abusano. Per chiunque abbia il coraggio di vedere le cose come
stanno, la conquista coloniale, come qualsiasi altra conquista a mano armata,
non può riposare su nessun altro diritto se non quello della forza bruta; si
invochi per un popolo il fatto che sul suo territorio esso si trova troppo allo
stretto, e la necessità di estendere il suo campo di attività; si dica che non
può farlo se non a spese di coloro che sono troppo deboli per resistergli:
tutto questo lo accettiamo, né vediamo come si potrebbe impedire che avvengano
cose di questo genere; ma per lo meno non si pretenda di far intervenire in
queste cose gli interessi della «civiltà», che non c’entrano per nulla. Questi
pretesti sono l’espressione di ciò che noi chiamiamo ipocrisia «moralistica»:
incosciente nella massa, la quale non fa che accettare docilmente le idee che
le vengono inculcate, essa non deve però esserlo ugualmente in tutti, e noi non
riusciamo ad ammettere, in particolare, che gli uomini di Stato si lascino
trarre in inganno dalla fraseologia di cui si servono.
Quando una nazione europea si impadronisce di un paese
qualsiasi, sia pur esso abitato da tribù veramente barbare, non possiamo certo
credere che si intraprendano prima una costosa spedizione e poi lavori di ogni
sorta solo per avere il piacere o l’onore di «civilizzare» della povera gente
che di esser «civilizzata» non ha mai chiesto; bisogna essere alquanto ingenui
per non rendersi conto che il motivo vero è completamente diverso, e consiste
nella speranza di vantaggi ben più tangibili. Qualunque siano i pretesti
invocati, quel che si vuole anzitutto è sfruttare il paese, e soventissimo,
quando ciò sia possibile, i suoi abitanti, perché è intollerabile che questi
continuino a vivere a modo loro, anche quando non danno un gran fastidio; ma
poiché la parola «sfruttare» suona male, una cosa del genere, in linguaggio
moderno, viene chiamata «valorizzare» un paese; non fa naturalmente nessuna
differenza, ma basta cambiare le parole perché la sensibilità comune non si
senta più urtata.
Naturalmente, a conquista ultimata, gli Europei daranno
libero corso al loro proselitismo, giacché per loro si tratta di un vero e
proprio bisogno; ogni popolo vi fa intervenire il suo temperamento speciale,
gli uni più brutalmente, gli altri con mano più leggera, e quest’ultima
attitudine, quand’anche non sia dettata da alcun calcolo, è senza dubbio la più
abile. Quanto ai risultati ottenuti, si dimentica invariabilmente che la
civiltà propria di certi popoli non è fatta per altri, di mentalità diversa;
trattandosi di selvaggi il male non sarebbe forse grandissimo, sennonché,
adottando gli atteggiamenti esteriori della civiltà europea (poiché tutto ciò
resta pur sempre molto superficiale), essi sono in genere maggiormente inclini
ad imitarne gli aspetti deteriori che ad assimilare ciò che essa può contenere
di buono. Non vogliamo però insistere troppo su questo aspetto della questione,
che solo incidentalmente prendiamo in considerazione; ben più grave è il fatto
che gli Europei, quando si trovano in presenza di popoli civili, si comportino
come se si trattasse di selvaggi, ed è in tal modo che essi si rendono
veramente insopportabili; e non parliamo soltanto della gente poco
raccomandabile, tra cui coloni e funzionari vengono troppo sovente reclutati,
parliamo di tutti gli Europei quasi senza eccezione.
È uno strano atteggiamento (soprattutto per uomini che
parlano continuamente di «diritto» e di «libertà») questo, che li spinge a
negare a tutte le civiltà diverse dalla propria il diritto a un’esistenza
indipendente. È questo infatti tutto ciò che gli si domanderebbe in molti casi,
e non è poi dimostrarsi troppo esigenti; esistono degli Orientali che a
quest’unica condizione sopporterebbero anche un’amministrazione straniera,
talmente poco li tocca la preoccupazione delle contingenze materiali; la
dominazione europea diventa per essi intollerabile soltanto quando intacchi le
loro istituzioni tradizionali. Sennonché è proprio lo spirito tradizionale che
gli Occidentali combattono principalmente, il quale tanto più temono quanto
meno capiscono, essendone essi stessi privi. Gli uomini di questa specie hanno
istintivamente paura di tutto ciò che è più grande di loro; sfortunatamente per
essi, tutti i loro tentativi in questo senso rimarranno sempre vani, poiché in
queste cose è presente una forza di cui essi non immaginano l’immensità; che se
poi la loro indiscrezione attirerà loro qualche disavventura non stiano a
prendersela che con se stessi. D’altronde non si vede in nome di che cosa essi
vogliono obbligare tutti a interessarsi esclusivamente di ciò che interessa
loro, a mettere le preoccupazioni economiche in primo piano, o ad adottare il
regime politico a cui vanno le loro preferenze, il quale, anche ammettendo che
per certi popoli sia il migliore, tale non è necessariamente per tutti. La cosa
più straordinaria però è che essi abbiano simili pretese non soltanto nei
riguardi dei popoli che hanno conquistato, ma altresì verso quelli presso cui
sono riusciti ad introdursi e a stabilirsi dando falsamente ad intendere di rispettare
la loro indipendenza; di fatto poi, queste pretese essi le estendono all’intera
umanità.
Se così non fosse, in generale non ci sarebbero prevenzioni
né ostilità sistematica contro gli Occidentali; i loro rapporti con gli altri
uomini sarebbero simili alle normali relazioni tra popoli diversi; essi
verrebbero presi per quel che sono, con le loro qualità e i loro difetti, e,
pur rammaricandosi forse di non poter mantenere con loro relazioni
intellettuali veramente interessanti, gli Orientali non cercherebbero affatto
di modificarli, poiché non sanno cosa sia il proselitismo. Ad esempio, quegli
stessi fra gli Orientali che sono conosciuti come i più refrattari a tutto ciò
che è straniero, i Cinesi, vedrebbero senza avversione degli Europei venire
individualmente a stabilirsi fra di loro per praticarvi il commercio, se non
sapessero fin troppo bene, per averne fatto la triste esperienza, a cosa si
espongono lasciandoli fare, e quali abusi sono ben presto la conseguenza di ciò
che all’inizio sembrava affatto inoffensivo. I Cinesi sono il popolo più
profondamente pacifico che esista; se diciamo pacifico e non «pacifista», è
perché essi non provano assolutamente il bisogno di costruire a questo
proposito magniloquenti teorie umanitarie: la guerra ripugna al loro
temperamento, ed è tutto. Si tratta, da un certo punto di vista relativo, di
una debolezza, sennonché vi è nella natura della razza cinese una forza d’altro
tipo che ne compensa gli effetti, la cui coscienza contribuisce certamente a
rendere possibile questo animus
pacifico: questa razza è dotata di un potere di assorbimento tale, da aver
sempre potuto assimilare tutti i suoi successivi conquistatori, e per di più
con un’incredibile rapidità; la storia ne è la prova evidente. Stando così le
cose niente potrebbe essere più ridicolo del chimerico terrore del «pericolo
giallo», inventato un tempo da Guglielmo II, il quale lo simboleggiò
addirittura in uno di quei quadri dalle pretese mistiche che si compiaceva di
dipingere per occupare i propri ozi; ci vuole tutta l’ignoranza della quasi
totalità degli Occidentali, e la loro incapacità a rendersi conto di quanto gli
altri uomini siano diversi da loro, per arrivare al punto di immaginare il
popolo cinese che si leva in armi e marcia alla conquista dell’Europa;
un’invasione cinese, se mai dovesse aver luogo, non potrebbe essere che una
penetrazione pacifica, e in ogni caso non è questo un pericolo imminente.
Vero è che, se i Cinesi avessero la mentalità occidentale,
le odiose stupidità che ad ogni occasione vengono pubblicamente spacciate sul
loro conto sarebbero già state largamente sufficienti a incitarli ad inviare
delle spedizioni in Europa; molto meno è necessario come pretesto per un
intervento armato da parte degli Occidentali, sennonché queste cose lasciano
perfettamente indifferenti gli Orientali. A nostra conoscenza nessuno ha mai
osato dire la verità sull’origine degli avvenimenti che accaddero nel 1900;
eccola in poche parole: il territorio delle legazioni europee a Pechino è
sottratto alla giurisdizione dell’autorità cinese; ora, si era formato nei
dintorni della legazione tedesca un vero covo di ladri, clienti della missione
luterana, e di qui essi si spargevano per la città, saccheggiavano tutto quel
che potevano, e poi col bottino ripiegavano sul loro rifugio, dove, poiché
nessuno aveva diritto di inseguirli, erano sicuri dell’impunità; la popolazione
finì con l’esasperarsene e minacciò d’invadere il territorio della legazione
per impadronirsi dei malfattori che vi si trovavano; il ministro della Germania
volle opporsi e si mise ad arringare la folla, con il solo risultato di farsi
accoppare nella mischia; per vendicare l’oltraggio, una spedizione fu subito
organizzata, e il fatto più curioso fu che tutti gli Stati Europei, Inghilterra
compresa, vi si lasciarono trascinare, al seguito della Germania; in tale
circostanza lo spettro del «pericolo giallo» era certamente servito a qualcosa.
Naturalmente i belligeranti trassero dal loro intervento apprezzabili benefici,
soprattutto sotto il profilo economico; né furono solo gli Stati ad ottenere
vantaggi dall’avventura: conosciamo degli individui che si sono procurate
ottime posizioni per aver fatto la guerra nelle cantine delle legazioni; guai a
dire a questa gente che il «pericolo giallo» non è una realtà!
Si obietterà forse che non esistono soltanto i Cinesi, ma
anche i Giapponesi, e che questi ultimi sono senza ombra di dubbio un popolo
guerriero; questo è vero, ma anzitutto i Giapponesi, i quali sono il prodotto
di una mescolanza in cui predominano gli elementi malesi, non appartengono
propriamente alla razza gialla, e di conseguenza la loro tradizione ha
necessariamente un carattere diverso. Se il Giappone ha attualmente l’ambizione
di esercitare la sua egemonia sull’Asia intera e di «organizzarla» a modo suo,
ciò accade precisamente perché lo Shintoismo (tradizione che sotto molti
aspetti differisce profondamente dal Taoismo cinese e che attribuisce una
grande importanza ai riti guerrieri) è venuto in contatto con il nazionalismo,
naturalmente preso a modello dall’Occidente ‑ i Giapponesi sono sempre stati
eccellenti imitatori ‑, e si è trasformato in un imperialismo del tutto simile
a quelli che si possono trovare in altri paesi. Tuttavia, se i Giapponesi
tenteranno una simile impresa incontreranno tanta resistenza quanta ne
troverebbero i popoli europei, e fors’anche di più. Infatti, per nessun altro
popolo i Cinesi hanno tanta ostilità quanto per i Giapponesi, probabilmente
perché questi ultimi, in quanto loro vicini, paiono loro particolarmente pericolosi;
i Cinesi temono i Giapponesi come un uomo che ama la sua tranquillità teme
tutto ciò che minaccia di sconvolgerla, ma soprattutto li disprezzano.
Soltanto in Giappone il preteso «progresso» occidentale è
stato accolto con un entusiasmo tanto più grande in quanto si crede di poterlo
far servire a realizzare l’ambizione di cui abbiamo detto; e tuttavia la
superiorità degli armamenti, anche unita alle più notevoli qualità guerriere,
non sempre prevale contro certe forze di altra natura: i Giapponesi se ne sono
bene accorti a Formosa; né la Corea è per loro un possedimento sicuro. In
fondo, se i Giapponesi furono facili vincitori in una guerra di cui buona parte
dei Cinesi non venne a conoscenza che quando era già terminata, ciò è dovuto al
fatto che essi furono favoriti, per ragioni particolari, da certi elementi
ostili alla dinastia Manciù i quali sapevano benissimo che altre influenze
sarebbero intervenute a tempo per impedire che le cose andassero troppo oltre.
In un paese come la Cina, molti avvenimenti, guerre o rivoluzioni, assumono un
aspetto completamente diverso a seconda che siano visti da lontano o da vicino,
e, per quanto strano ciò possa sembrare, è la distanza che li ingrandisce:
visti dall’Europa sembrano importanti; in Cina, essi si riducono a semplici
incidenti locali.
È in virtù di un’illusione ottica dello stesso genere che
gli Occidentali attribuiscono un’eccessiva importanza a quel che fanno certe
piccole minoranze turbolente, formate da persone sovente del tutto ignorate dai
loro stessi compatrioti, i quali, in ogni caso, non hanno per costoro nessuna
stima. Intendiamo parlare di qualche individuo cresciuto in Europa o in
America, come se ne trovano oggi più o meno in tutti i paesi orientali, e che,
avendo perduto a causa di questa educazione il senso della tradizione e non
conoscendo nulla della propria civiltà, crede di far bene sbandierando il
«modernismo» più spinto. Questi «giovani» Orientali, come essi stessi si
dichiarano per meglio mettere in evidenza le loro tendenze, non potrebbero mai
acquisire un influsso reale nel proprio paese; talvolta vengono usati a loro
insaputa per servire a uno scopo di cui non si accorgono neppure, e ciò è tanto
più facile in quanto essi si prendono molto sul serio; ma capita anche che,
riprendendo contatto con la loro razza, poco per volta aprano gli occhi, si
rendano conto che la loro presunzione era fatta soprattutto di ignoranza, e
finiscano col ritornare a essere dei veri Orientali. Tali elementi non
rappresentano che infime eccezioni, ma, facendo un po’ di rumore all’esterno,
attirano l’attenzione degli Occidentali, i quali naturalmente li considerano
con simpatia e, guardandoli, finiscono con il perdere di vista le moltitudini
silenziose nei confronti delle quali essi sono assolutamente inesistenti.
I veri Orientali non ci tengono affatto a farsi conoscere
all’estero, e ciò spiega alcuni errori abbastanza curiosi. Siamo stati spesso
colpiti dalla facilità con cui qualche scrittore incompetente e senza nessuna
autorità, talvolta addirittura al soldo di una potenza europea, riesce a farsi
accettare come rappresentante autentico del pensiero orientale, pur se non
esprime che idee completamente occidentali. A costoro si crede sulla parola
solo perché portano un nome orientale, e poiché mancano i termini di paragone,
si fa loro credito per attribuire a tutti i loro compatrioti concezioni od
opinioni che a essi soli appartengono e sovente sono agli antipodi dello
spirito orientale; e beninteso, i loro scritti sono strettamente riservati al
pubblico europeo o americano, e in Oriente nessuno ne ha mai inteso parlare.
Al di fuori di queste eccezioni individuali e dell’eccezione
collettiva costituita dal Giappone, nei paesi orientali il progresso materiale
non interessa nessuno in modo serio, o, al massimo, si riconoscono ad esso
pochi vantaggi reali e molti inconvenienti. A questo proposito esistono però
due attitudini differenti, che possono anche sembrare opposte da un punto di
vista esteriore, e tuttavia sono il frutto di uno stesso modo di pensare. Gli
uni non vogliono a nessun costo sentir parlare di questo preteso progresso e,
richiudendosi in un atteggiamento di resistenza puramente passiva, continuano a
comportarsi come se non esistesse; gli altri preferiscono accettarlo
transitoriamente pur continuando a considerarlo soltanto come una sgradevole
necessità imposta da circostanze che faranno il loro tempo, e ciò unicamente
perché vedono negli strumenti che esso può mettere a loro disposizione un mezzo
per resistere più efficacemente alla dominazione occidentale e per affrettarne
la fine[3].
Queste due correnti esistono dappertutto, in Cina, in India e nei paesi
musulmani; se la seconda sembra attualmente tendere ad imporsi abbastanza
generalmente, sulla prima bisogna però guardarsi dal concludere che sia avvenuto
un cambiamento profondo nel modo d’essere dell’Oriente; tutta la differenza si
riduce ad una semplice questione di opportunità, e non è certo in questo modo
che può cominciare un reale riavvicinamento con l’Occidente, tutt’altro.
Gli Orientali che vogliono provocare nei loro paesi uno
sviluppo industriale che permetta loro di lottare senza più svantaggio con i
popoli europei sul medesimo terreno in cui questi ultimi sviluppano tutta la
loro attività, non rinunciano affatto, con ciò, a quel che c’è d’essenziale
nella loro civiltà; inoltre la concorrenza economica non potrà essere che una
fonte di nuovi conflitti, se non si stabilisce un accordo su un altro piano e a
un livello più elevato. Tuttavia vi sono degli Orientali, anche se poco
numerosi, che sono giunti a pensare questo: poiché gli Occidentali sono
decisamente refrattari all’intellettualità, non cerchiamo di avere dei rapporti
con loro su questo piano; nonostante tutto si potrebbero però stabilire con
certi popoli dell’Occidente relazioni amichevoli limitate al settore puramente economico.
Anche questa è un’illusione: o si incomincia con l’intendersi sui principi, e
tutte le difficoltà secondarie si appianeranno in seguito da sole, oppure non
si giungerà mai ad intendersi veramente su nulla, e tocca all’Occidente, se ne
è in grado, fare i primi passi sulla via di un riavvicinamento effettivo,
poiché in realtà è dall’incomprensione di cui esso ha dato prova finora che
tutti gli ostacoli provengono.
Sarebbe augurabile che gli Occidentali, rassegnandosi una
buona volta a vedere la causa dei più pericolosi malintesi dov’essa
effettivamente si trova, si sbarazzassero di quei ridicoli terrori di cui il
famoso «pericolo giallo» è certamente il più bell’esempio. Sennonché, oltre il
«pericolo giallo», si ha pure l’abitudine di agitare ad ogni occasione lo
spettro del «panislamismo»; in questo caso il timore è forse meno privo di
fondamento, poiché i popoli musulmani, i quali occupano una posizione
intermedia tra l’Oriente e l’Occidente, possiedono, mescolate tra di loro,
certe caratteristiche dell’uno e dell’altro, e sono dotati in particolare di
uno spirito molto più combattivo di quello degli Orientali puri; ma non è certo
il caso di esagerare. Il vero panislamismo è soprattutto un’affermazione di
principio, dal carattere essenzialmente dottrinale; perché essa assuma la forma
di una rivendicazione politica bisognerà che gli Europei commettano errori ben
gravi; ad ogni buon conto, il panislamismo non ha niente in comune con un
qualunque «nazionalismo», il quale è del tutto incompatibile con i concetti
fondamentali dell’Islâm. Insomma, in quasi tutti i casi ‑ e noi pensiamo qui
soprattutto all’Africa settentrionale ‑ una ben intesa politica di
«associazione», che rispetti integralmente la religione islamica e implichi una
rinuncia definitiva ad ogni tentativo di «assimilazione», sarà probabilmente
sufficiente a evitare il pericolo, se pericolo c’è; quando si pensi, ad esempio,
che le condizioni imposte per ottenere la naturalizzazione francese equivalgono
a una vera e propria abiura (e si potrebbero citare molti altri fatti di questo
stesso genere), non ci si può stupire dei frequenti urti e delle difficoltà che
una più esatta comprensione delle cose potrebbe evitare molto facilmente;
sennonché, anche in questo caso, è precisamente tale comprensione che manca
completamente agli Europei. Quel che non bisognerebbe dimenticare, è che la
civiltà islamica, in tutti i suoi elementi essenziali, è rigorosamente
tradizionale, come tradizionali sono tutte le civiltà dell’Oriente; questa
ragione è pienamente sufficiente perché il panislamismo, sotto qualunque forma
si presenti, non possa mai identificarsi con un movimento quale il bolscevismo,
come sembrano temere i male informati. Non vorremmo qui formulare un qualunque
apprezzamento sul bolscevismo russo, giacché è molto difficile sapere
esattamente di cosa si tratti: è probabile che la realtà sia molto diversa da
ciò che se ne dice generalmente, e ben più complessa di quanto i fautori e gli
avversari del bolscevismo possano pensare; comunque sia, è certo che si tratta
di un movimento nettamente antitradizionale, dunque di spirito completamente
moderno e occidentale. Profondamente ridicola è la pretesa di opporre allo
spirito occidentale la mentalità tedesca o quella russa, e noi non comprendiamo
quale significato possano avere le parole per coloro che sostengono una tale
opinione, né per coloro che qualificano di «asiatico» il bolscevismo; di fatto
la Germania, al contrario, è uno dei paesi in cui lo spirito occidentale è
portato al suo grado più estremo; quanto ai Russi, seppure hanno qualche
rassomiglianza esteriore con gli Orientali, intellettualmente ne sono
lontanissimi. Ci resta da aggiungere che nell’Occidente noi comprendiamo il
Giudaismo, il quale non ha mai esercitato nessuna influenza fuori del mondo
occidentale, e la cui azione non è forse stata completamente estranea alla
formazione della mentalità moderna in generale; appunto la parte preponderante
sostenuta dagli elementi israeliti nel bolscevismo è per gli Orientali, e
soprattutto per i Musulmani, un grave motivo per diffidare e tenersi in
guardia; non parliamo poi dei pochi agitatori del tipo «giovani turchi», i quali,
sovente di origine israelita, sono fondamentalmente antimusulmani, e non hanno
la minima autorità.
Né il bolscevismo può introdursi in India, in opposizione
com’è con tutte le istituzioni tradizionali, in particolare con l’istituzione
delle caste; da questo punto di vista gli Indù non farebbero differenza tra
l’azione distruttiva che esso potrebbe provocare e quella tentata dagli Inglesi
da molto tempo e con ogni mezzo; e dove l’una è fallita, l’altra non avrebbe
miglior fortuna. Per quanto riguarda la Cina, tutto quel che è russo vi è
generalmente visto con molta antipatia, e del resto lo spirito tradizionale non
vi è meno solidamente radicato che in tutto il resto dell’Oriente; se certe
cose vi possono essere più facilmente tollerate in quanto transitorie, ciò
avviene grazie alla capacità d’assorbimento propria della razza cinese, la
quale permette di trarre, anche da un disordine temporaneo, il partito più
vantaggioso; infine, a dar credito alla leggenda di accordi inesistenti e
impossibili, non è il caso di invocare la presenza in Russia di qualche banda
di mercenari che sono solo volgari briganti, e di cui i Cinesi sono ben
contenti di sbarazzarsi a favore dei loro vicini. Quando i bolscevichi dicono
di guadagnare sostenitori alle loro idee fra gli Orientali, o si vantano o si
illudono; la verità è che gli Orientali vedono nella Russia, bolscevica o no,
un aiuto possibile contro la dominazione di altre potenze occidentali; ma le
idee bolsceviche sono loro perfettamente indifferenti, e anche se essi giudicano
un’intesa o un’alleanza temporanea accettabili in determinate circostanze, è
perché sanno bene che tali idee non potranno mai mettere radici nel loro paese;
se le cose stessero diversamente, si guarderebbero bene dal favorirle, anche
minimamente. In vista di una determinata azione ci si può evidentemente servire
dell’aiuto di gente con la quale non si ha nessun pensiero in comune e per cui
non si prova né stima né simpatia; per i veri Orientali il bolscevismo, come
tutto ciò che proviene dall’Occidente, non sarà mai nient’altro che una forza
bruta; se questa forza può temporaneamente render loro qualche servigio,
probabilmente si stimeranno fortunati, ma si può star sicuri che appena non
avranno più nessun vantaggio da aspettarsi prenderanno le misure opportune
affinché non diventi un pericolo per se stessi. D’altronde, gli Orientali che
aspirano a liberarsi da una dominazione occidentale non acconsentirebbero
certamente, per riuscirvi, a mettersi in tale condizione da rischiare di
ricader subito sotto un’altra dominazione occidentale; essi non guadagnerebbero
nulla nel cambiamento, e, poiché il loro temperamento esclude ogni fretta
febbrile, preferiranno sempre aspettare circostanze più favorevoli, per quanto
lontane esse possono apparire, piuttosto che esporsi a una simile eventualità.
Quest’ultima considerazione aiuta a capire perché gli
Orientali che sembrano più impazienti di scrollarsi di dosso il giogo
dell’Inghilterra non abbiano pensato di approfittare, a questo fine, della
guerra del 1914: il fatto è che essi sapevano benissimo che, in caso di
vittoria, la Germania non avrebbe mancato di imporre loro al minimo un
protettorato più o meno dissimulato, e non volevano a nessun costo piegarsi a
questo nuovo asservimento. Nessun Orientale che abbia avuto occasione di vedere
i Tedeschi un po’ da vicino pensa che sia possibile intendersi meglio con essi
che con gli Inglesi; lo stesso si può dire dei Russi, ma la Germania, con la
sua formidabile organizzazione, ispira generalmente, e a ragione, più timore che
non la Russia. Gli Orientali non saranno mai favorevoli ad alcuna potenza
Europea, ma saranno sempre e soltanto ostili a quelle, quali esse siano, che
vogliono opprimerli; per tutto il resto, il loro atteggiamento non può essere
che neutro. Parliamo qui, beninteso, ponendoci dal solo punto di vista politico
e per ciò che riguarda gli Stati e le collettività; naturalmente può sempre
darsi che esistano simpatie e antipatie individuali, le quali restano fuori da
queste considerazioni; così quando parliamo dell’incomprensione occidentale
consideriamo soltanto la mentalità generale, senza escludere con questo
eccezioni sempre possibili, le quali sono però molto rare. Se tuttavia qualcuno
è come noi persuaso dell’immenso interesse che presenta il ritorno a relazioni
normali tra l’Oriente e l’Occidente, bisogna pur che si pensi fin da ora a
prepararlo con i mezzi di cui si dispone, per deboli che essi siano, e il primo
di questi mezzi è il far comprendere a coloro che di comprenderlo siano in
grado quali sono le condizioni indispensabili per questo riavvicinamento.
Queste condizioni sono, come abbiamo detto, prima di tutto
intellettuali, e alcune di esse sono negative, altre positive; in primo luogo:
distruggere tutti i pregiudizi, i quali sono altrettanti ostacoli (e a ciò
tendono essenzialmente tutte le considerazioni che siamo andati fin qui
esponendo); poi: restaurare la vera intellettualità, che l’Occidente ha
perduto, e che lo studio del pensiero orientale, per poco che sia intrapreso
come si deve, può potentemente aiutare a ritrovare. Si tratta, tutto sommato,
di una completa riforma dello spirito occidentale; tale per lo meno è il fine
ultimo da raggiungere; sennonché simile riforma non potrà evidentemente essere
attuata che in una ristretta élite,
ciò che d’altronde sarà sufficiente perché essa porti i suoi frutti a scadenza
più o meno lontana, grazie all’azione che tale élite non mancherà di esercitare, anche senza ricercarlo
espressamente, su tutto l’ambiente occidentale. Sarebbe questo, molto
verosimilmente, l’unico mezzo perché si risparmino all’Occidente pericoli di
ben altra realtà che non quelli che esso immagina, i quali sempre più lo
minacceranno se continua a seguire il suo cammino attuale. Sarebbe questo
inoltre l’unico modo di salvare, al momento voluto, tutto quel che potrebbe
esser conservato della civiltà occidentale, tutto quello cioè che essa può
contenere di vantaggioso sotto qualche angolo visuale, e di compatibile con
l’intellettualità normale, invece di lasciarla completamente scomparire in
qualcuno di quei cataclismi alle possibilità dei quali accennavamo all’inizio
del presente capitolo, senza voler con questo arrischiare la minima predizione.
Soprattutto, se una tale eventualità dovesse realizzarsi, la costituzione
preventiva di una élite intellettuale
nel senso vero della parola rappresenterebbe l’unica possibilità di impedire il
ritorno alla barbarie; ed eviterebbe inoltre, se l’élite avesse avuto il tempo di agire abbastanza in profondità sulla
mentalità generale, l’assorbimento o l’assimilazione dell’Occidente da parte di
altre civiltà, ipotesi molto meno temibile della precedente, ma che tuttavia
presenterebbe degli inconvenienti almeno transitori, a causa delle rivoluzioni
etniche che necessariamente precederebbero l’assimilazione vera e propria.
A questo proposito, e prima di proseguire, ci importa
precisare nettamente il nostro atteggiamento: non è nostra intenzione attaccare
l’Occidente in quanto tale, ma soltanto ‑ il che è completamente diverso ‑ lo
spirito moderno, nel quale individuiamo la causa del decadimento intellettuale
dell’Occidente; a nostro giudizio niente sarebbe più auspicabile della
ricostituzione di una civiltà propriamente occidentale su basi normali, poiché
la diversità delle civiltà, la quale è sempre esistita, è la naturale
conseguenza delle differenze mentali che caratterizzano le razze. Ma la
diversità delle forme non esclude affatto l’accordo sui principi: intesa e
armonia non vogliono assolutamente dire uniformità, e pensare il contrario
equivale a sacrificare a quelle utopie ugualitarie contro cui precisamente
insorgiamo. Una civiltà normale, nel senso che noi intendiamo, potrà sempre
svilupparsi senza essere un pericolo per le altre civiltà; possedendo la
coscienza dell’esatta posizione che deve occupare nell’insieme dell’umanità
terrestre, essa saprà attenervisi e non creerà più antagonismo, non avendo
nessuna pretesa di egemonia e astenendosi da qualsiasi proselitismo.
Non osiamo tuttavia affermare che una civiltà puramente
occidentale potrebbe intellettualmente possedere l’equivalente di tutto quel
che le civiltà orientali possiedono; nel passato dell’Occidente, anche
risalendo fino alle epoche più lontane che la storia ci permette di
raggiungere, questo equivalente, nella sua pienezza, non si ritrova (salvo
forse in qualche scuola estremamente poco accessibile, e di cui, proprio per
questa ragione, è difficile dire qualcosa di certo); quelle che vi si trovano
sono però cose tutt’altro che insignificanti, e i nostri contemporanei hanno il
grave torto di ignorarle sistematicamente. Per di più, se un giorno l’Occidente
riuscirà ad allacciare relazioni intellettuali con l’Oriente, non vediamo
perché non potrebbe approfittarne per ovviare alle mancanze che ancora
l’affliggerebbero; si possono prendere lezioni o ispirazioni dagli altri senza
rinunciare con ciò alla propria indipendenza, soprattutto se, invece di
accontentarsi di prestiti puri e semplici, si è capaci di adattare quel che si
ottiene nel modo più conforme alla propria mentalità. Una volta ancora, queste
non sono che possibilità lontane; attendendo che l’Occidente ritorni alle
proprie tradizioni, forse, per preparare tale ritorno e ritrovarne gli
elementi, non c’è altro mezzo che procedere per analogia con le forme
tradizionali che, esistendo ancora attualmente, possono essere studiate in modo
diretto. La comprensione delle civiltà orientali potrebbe dunque contribuire a
ricondurre l’Occidente alle vie tradizionali fuori delle quali esso si è
gettato sconsideratamente, mentre nello stesso tempo questo ritorno alla
tradizione realizzerebbe di per sé un riavvicinamento effettivo con l’Oriente:
si tratta di due cose intimamente legate, da qualunque angolo visuale siano
considerate, le quali ci appaiono ugualmente utili, anzi addirittura
necessarie.
Ciò che abbiamo ancora da dire aiuterà a capire meglio
queste considerazioni; ma si dovrebbe aver già capito come noi non critichiamo
l’Occidente per il vano piacere di criticare, né per mettere in evidenza la sua
inferiorità intellettuale nei confronti dell’Oriente; se il lavoro da cui
bisogna incominciare appare soprattutto negativo, la ragione ne è che, come
dicevamo all’inizio, è prima di tutto indispensabile sbarazzare il terreno per
potere in seguito costruire sopra di esso. Se infatti l’Occidente rinunciasse ai
propri pregiudizi, lo scopo sarebbe già per metà (o forse più che per metà)
ottenuto, poiché nulla più si opporrebbe alla costituzione di una élite intellettuale, e coloro che
possedessero le qualità richieste per farne parte, non vedendo più ergersi davanti
a sé le barriere quasi insormontabili create dalle attuali condizioni,
troverebbero allora facilmente il modo di esercitare e sviluppare queste
facoltà, mentre ora esse sono compresse e soffocate dalla formazione, o meglio
dalla deformazione mentale, imposta attualmente a chiunque non abbia il
coraggio di uscire risolutamente dai quadri convenzionali. D’altronde, per
rendersi veramente conto dell’inanità dei pregiudizi di cui stiamo parlando
occorre già un certo grado di comprensione positiva, e, per certuni almeno, è
forse più difficile giungere a questo stadio che andar più lontano quando
l’abbiano raggiunto; per un’intelligenza ben conformata la verità, per quanto
elevata, deve essere più facilmente assimilabile che tutte le vane sottigliezze
di cui si compiace la «saggezza profana» del mondo occidentale.
[1]
L’«ultima» guerra a cui l’autore si riferisce è in questo caso la «prima»
grande guerra mondiale, questo studio essendo stato pubblicato per la prima
volta nel 1924. (N.d.T.)
[2] È possibile che ci siano state delle civiltà occidentali anteriori, sennonché quella attuale non è per nulla la loro erede, e anche il loro ricordo si è perduto; non dobbiamo perciò preoccuparcene in questa sede.
[3] È proprio ciò che vediamo accadere oggi, e su una scala molto più vasta di quel che potevano immaginare i lettori del 1924, quando questo libro venne scritto. Che nonostante l’utilizzazione del progresso materiale lo spirito della tradizione si conservi intatto e intangibile in Oriente, benché più inaccessibile e meno cosciente nei più, verrà confermato da René Guénon nell’«Aggiunta» del 1948. E la considerazione di questa presenza può anzi dare a tutte queste pagine, e agli avvenimenti del nostro tempo, un significato alquanto diverso da quello apparente. Senza pretendere di trarne qui una spiegazione adeguata, accenneremo soltanto al fatto che ciò che la tradizione estremo-orientale chiama «Volontà del Cielo», attraverso gli esseri che ne sono il supporto nel mondo umano, sempre e dappertutto fa servire ai propri disegni anche le influenze che di per sé presentano il carattere più sovversivo, il cui scatenamento, del resto, al momento dovuto, non rappresenta che l’esaurirsi definitivo delle possibilità che ad esse corrispondono, nell’insieme del ciclo di manifestazione di cui fanno parte. (N.d.T.)
[2] È possibile che ci siano state delle civiltà occidentali anteriori, sennonché quella attuale non è per nulla la loro erede, e anche il loro ricordo si è perduto; non dobbiamo perciò preoccuparcene in questa sede.
[3] È proprio ciò che vediamo accadere oggi, e su una scala molto più vasta di quel che potevano immaginare i lettori del 1924, quando questo libro venne scritto. Che nonostante l’utilizzazione del progresso materiale lo spirito della tradizione si conservi intatto e intangibile in Oriente, benché più inaccessibile e meno cosciente nei più, verrà confermato da René Guénon nell’«Aggiunta» del 1948. E la considerazione di questa presenza può anzi dare a tutte queste pagine, e agli avvenimenti del nostro tempo, un significato alquanto diverso da quello apparente. Senza pretendere di trarne qui una spiegazione adeguata, accenneremo soltanto al fatto che ciò che la tradizione estremo-orientale chiama «Volontà del Cielo», attraverso gli esseri che ne sono il supporto nel mondo umano, sempre e dappertutto fa servire ai propri disegni anche le influenze che di per sé presentano il carattere più sovversivo, il cui scatenamento, del resto, al momento dovuto, non rappresenta che l’esaurirsi definitivo delle possibilità che ad esse corrispondono, nell’insieme del ciclo di manifestazione di cui fanno parte. (N.d.T.)