‘Abdul-Hâdî - Ivan Agueli
La
moschea “Umberto”
(In
faccia a “El Azhar”)[1]
Presentiamo questo testo
di Abdul Hadi Agueli del 1907
tratto dalla Rivista bilingue, arabo/italiana intitolata «An-Nâdî/Il
Convito». In questo articolo l'autore presenta la figura dello shaykh ‘Abd Al-Rahmân ‘Elîch
Al-Kabir che ricordiamo fu colui che conferì l'iniziazione al Sufismo (Tasawwuf)
a René Guénon (shaykh 'Abd Al-Wâhid Yahyâ) per tramite proprio del suo muqaddem
Abdul Hadi. A questo shaykh René
Guénon dedicò il suo testo Symbolisme de la Croix.
Uno degli uomini più celebri dell’Islam,
figlio del restauratore del rito Malekita e lui stesso profondo sapiente, da
tutti, dai più umili ai principi ed ai sultani rispettato;
capo di molte congregazioni religiose sparse in tutto il mondo musulmano;
infine, un’autorità incontestabile dell’Islam essoterico ed esoterico,
giuridico e politico, ha fatto costruire a sue spese, su un terreno adiacente
alla casa da lui abitata a El Azhar[2]
stesso, una moschea di cui ha fatto dono all’Italia e che ha dedicato al
defunto re Umberto[3].
È la prima volta, dopo molti secoli, che
un simile fenomeno si produce: e noi ne dobbiamo ai lettori nostri la
spiegazione. Poi che il fatto è non solo della più grande importanza per la
civiltà in generale ed il progresso italiano in
Oriente in particolare, ma ci permette esso di vedere l’Islam sotto la sua vera
luce: come la Religione ch’è al di sopra delle religioni e come fede veramente
universale non occupantesi delle ostilità di lingue, di popoli e di razze, ma riunente
la umanità tutta in un solo sistema completo e generale di organizzazione
spirituale e di ordine ieratico e mistico.
Cerchiamo di conoscere i motivi che hanno
indotto lo Sceik a fare quell’atto altrettanto generoso ed
ardito che insolito; il quale ancora stupisce ed europei e musulmani.
Lo sceik Eleisce è un veggente, un
illuminato che guarda lontano nell’avvenire. Rappresentante attuale di un
elemento islamita che noi, per il momento, chiamiamo
“Akbariya”, egli, come tutti i sufiti[4],
è compreso dal sogno profondamente semitico dei chiliasti, cioè l’unità
religiosa, il regno di Dio su tutta la terra e la vittoria finale, definitiva e
completa del bene sul male. Il fanatismo religioso che altra volta ostacolò
quest’idea, essendosi decomposto in un certo numero di sotto fanatismi di razza
o di regione, in tal modo sostituendo ad un male un
male peggiore, lo Sceik studiò le diverse nazioni le une dopo le altre, per
preferire definitivamente l’Italia, sovra tutto l’Italia dell’avvenire.
Egli vide che l’Italia era altra volta la
nazione più religiosa e, nel tempo stesso, la meno fanatica; che dopo la
trasformazione del fanatismo religioso a cui abbiamo
accennato, essa rimaneva sempre lo nazione meno fanatica, meno esclusivista, e
la più ospitale, la più umana, la più universale, infine. Conoscendo inoltre la
leggenda di Roma ed avendo simpatia per la mentalità
cristiana, pur non accettandone una parte della metafisica: vedendo in ultimo
l’Italia, col suo Rinnovamento, dar l’esempio e mostrare il cammino all’Oriente,
concluse che l’Italia, di preferenza a qualsiasi altra nazione europea, sarebbe
l’alleata naturale dei musulmani il giorno in cui definitivamente essi
decideranno di risvegliarsi.
I buoni rapporti dello Sceik con l’Italia
datano da molti anni. I rappresentanti d’Italia son qui invitati a tutte le sue
feste ed egli è l’ospite d’onore all’Ambasciata nostra. Egli è in
corrispondenza con S.M. il Re d’Italia e, or sono due anni, incaricò il
direttore di questa Rivista di presentare a S.M. molti regali;
gentilezza cui il Re rispose contraccabiando di altri doni che furono
ufficialmente trasmessi. La verità ci obbliga ad aggiungere che il figlio
spirituale dello Sceik, S.E. Mohhammad Aly bey Elui, interprete all’Ambasciata
italiana in Cairo, e che egualmente gode di
profondissima venerazione tra i musulmani, dal Kurdistan al Marocco, appoggiò i
disegni dello Sceik rendendo in tal modo immensi servigi all’Italia, pur
restando musulmano scrupoloso e senza diminuire il proprio prestigio.
Noi vediamo dunque
che lo Sceik ha agito sopra tutto per convinzione e per sentimento; ma nel suo
atto bisogna vedere anche uno scambio di buoni procedimenti.
Come quasi tutti quelli che seguono la
voce spirituale d’Ibn Arabi, lo Sceik s’interessa vivamente ai semiti del Sud.
I musulmani non solo dell’Yemen ma anche
dell’Abissinia e dell’Eritrea sono stati ognora oggetto di sue cure e
preoccupazioni. Le misure prese in favore dell’Islam e dei musulmani dal
governatore Mercatelli nel Benadir, dal Martini in Eritrea e continuate dal suo
successore il marchese Salvago Raggi, hanno profondamente commosso lo Sceik e
tutti i veri musulmani; e poi che gli italiani fabbricano moschee per i
musulmani, lo Sceik ha trovato ben naturale che i musulmani costruiscano una
moschea alla memoria di un defunto re d’Italia. Il di lui
atto si spiega dunque nel modo più semplice, almeno nei riguardi dell’onestà e
della tolleranza. Di straordinario non v’è che l’arditezza.
Si potrebbe chiedere se, dal punto di
vista musulmano, è assolutamente ortodosso ciò che ha fatto il buon Sceik. Noi rispondiamo: 1. che tutto quanto si fa con
intelligenza e sincerità è, a priori, conforme allo
Islam: 2. dal momento che lo Sceik Eleisce ha compiuto quell’atto, vuol
dire che l’atto è perfettamente ortodosso. Poi che non v’ha
miglior giudice di lui per ciò ch’è ortodosso e ciò che non lo è. Così,
malgrado la straordinarietà del fatto, tutti i musulmani, ad eccezione di un
solo, del quale parleremo in seguito, l’hanno applaudito.
Avete mai notato come i latini, in Italia
ed in Francia, si pieghino sempre, istintivamente,
in presenza di atti sinceri, li comprendano o no? È ch’essi
sanno, in ciò avvertiti dalla loro subcoscienza, che di ogni atto “fatto per
Dio” tutto il mondo ne approfitta giacché esso è di utilità cosmica. In ciò
hanno eguali i musulmani, i quali si dicono che dal momento
che v’è una moschea dedicata ad un non musulmano nessuno potrà accusare
l’Islam di fanatismo e d’intransigenza. I sapienti quindi applaudono mentre gli
ignoranti tacciono. Giacché l’esistenza d’una moschea “Umberto” nel centro
dell’Islam intellettuale deve tagliar corto a tutte le leggende di fanatismo
dell’Islam, al cui conto non saran più messi cosi atti d’ignoranza e di
ferocia, che verranno invece rimproverati ad
individui.
Noi possiamo affermare che lo Sceik ha
l’intenzione di ingrandire la moschea unendovi una scuola di scienze laiche; la
quale sarà in tal modo la prima pietra di una università
libera musulmana. Egli s’interessa non solo di scienze religiose e delle scuole
professionali, ma anche di scienze umanitarie e pensa che con l’aiuto di Dio e
l’appoggio di scienziati disinteressati, tanto europei che orientali, l’Oriente
riprenderà le gloriose tradizioni dell’Islam d’altri tempi. Poi che, secondo il
parere dello Sceik, l’antico Oriente e l’Europa moderna si
corrispondono.
Nell’accettare il dono, l’Italia ha preso
l’impegno morale di seguire una politica islamofila. Questo impegno non tocca
per nulla né la diplomazia né il clericalismo, ma unicamente l’amministrazione
delle colonie e soltanto in una certa misura. Esso significa il rilevamento
intellettuale e morale dei musulmani sudditi italiani. Se Garibaldi fosse
vivente esulterebbe.
La moschea “Umberto” basta, sola, a
qualificare l’Italia come potenza islamofila. È il simbolo stesso della pace
feconda che l’Italia desidera regni tra essa e l’Islam; ed essa sola avrà maggiore influenza nell’Oriente musulmano che tutta una
serie di guerre fortunose e di intrighi bene riusciti. Essa permette all’Italia
di praticare in Oriente un sistema che soddisferà gli umanitari e al tempo
stesso gli economisti; i socialisti e gli imperialisti. Se l’Italia saprà
approfittare del momento buono e della situazione, fra venti anni sarà senza
rivali nei mercati dell’Oriente, ciò che produrrà in breve tempo la fortuna
nazionale. E l’Italia guadagnerà ben più nella via del bene che le altre
potenze non abbian guadagnato con la violenza e le menzogne; ed
il nome del re Vittorio Emanuele, il solo re attualmente degno del gran nome, è
garanzia che il progetto si compirà conformemente ai principii dell’onore e che
nessuno, né forte né debole, avrà un motivo legittimo di lagnanza.
Dove sono i fanatici?
Abbiamo detto che l’atto dello sceik
Eleisce è stato accolto in diverso modo. Coloro che conoscono la Sciariya e la
sanno applicare in modo intelligente ai bisogni di nostra epoca nulla han
trovato a ridire. Qualcuno ha applaudito; ed il
silenzio degli altri si deve interpretare favorevolmente. I volgari, gli
ignoranti ed i pescatori di torbidi sono stati
obbligati ad inchinarsi dinanzi l’incontestabile autorità dello Sceik, uno
eccettuato. Noi diremo di lui dopo aver parlato dello sceik Eleisce.
Egli, e insieme il padre suo, il grande
rinnovatore del rito malekita, che possiamo chiamare
il rito africano, sono considerati come l’ultimo refugio del fanatismo; vale a
dire ch’essi sono stati sempre lontani da intrighi politici di qualunque sorta.
La loro integrità, l’austerità ed il sapere profondo,
congiunti ad un casato illustre promettevano ad essi una posizione eccezionalmente
preponderante nell’Islam; ma non ne vollero sapere.
Ciò che ha stabilito la leggenda del loro
fanatismo è un fetwa rimasto celebre, il quale, dicesi, ebbe
per conseguenza la rivolta d’Arabi pascià nel 1882.
Esaminiamo ciò ch’è
un fetwa e colui che lo dà: un mufti. Un uomo qualsiasi,
musulmano o no, vuole conoscere un punto qualunque della religione musulmana,
sia esso un domma, una stipulazione relativa alla vita
religiosa, familiale o sociale; od anche la decisione su un caso qualunque di
coscienza. Questa domanda si chiama Istiftâ e viene indirizzata ad un giureconsulto autorizzato, preposto
“ad hoc”. Questi è il mufti.
Tra i mufti di un paese o di un’epoca, vi
son quelli più o meno sapienti, più o meno celebri; e
le decisioni dei migliori creano dei precedenti che han forza di legge. Così un
mufti non è che una vivente enciclopedia, poi che la prima cosa che a lui si
domanda è “l’oggettività” assoluta: di fare astrazione completa di sé stesso, dei suoi proprii interessi, passioni e
sentimenti; ma di unicamente decidere secondo i principii scientifici e i
testi, di cui taluno data da più di 1000 anni avanti di lui.
Un fetwa ha attinenza dunque con la
probità scientifica, e il darlo a seconda dei proprii
sentimenti non solo sarebbe un sacrilegio, ma anche un torto essenziale fatto
ai principii della più elementare onestà di sapiente. Render quindi un multi responsabile del suo fetwa allo infuori del punto di
vista di scienza del diritto musulmano, è una semplice infamia, visto anche
ch’ei non ha il diritto di starsene zitto. È il dovere religioso e civile
d’ogni mufti di dare un fetwa in
risposta a non importa quale istiftâ, senza preoccuparsi delle
conseguenze del proprio atto.
Un mufti nelle sue funzioni è una
semplice macchina, e se accadranno dei torbidi in sèguito ad
un fetwa, non ne sarà causa colui che
l’ha dato, sibbene colui che l’ha chiesto. Se un multi
è punito per avere dato un fetwa ch’è
al di sopra d’ogni critica nei riguardi della scienza musulmana, egli sarà un
martire ed il suo supplizio potrebbe, date talune circostanze, provocare una
dichiarazione di guerra santa con tutte le sue complicazioni. Chè quello sarebbe un attacco diretto contro la religione;
attacco ben più grave che non sia la violazione di una frontiera od anche tutta
una guerra politica e sanguinosa quanto si voglia.
In seguito agli avvenimenti del 1882, i
due sceiki Eleisce, il padre ed il figlio, il
rinnovatore del rito africano ed il costruttore della moschea “Umberto”, furono
gettali in carcere e condannati a morte. Il padre morì in prigione; il figlio s’ebbe la grazia e fu esiliato. Ed è in tal modo che la
tragedia stessa ha fatto nascere un legame tra lo Sceik e l’attuale Re
d’Italia; poiché i lor padri caddero entrambi vittime di una vendetta cieca che
si sbagliava nelle persone. Ed allorquando il giovine
sovrano, resistendo ai cattivi consiglieri che volevano spingerlo a vendicarsi
fece della sua prima volontà regale un atto di clemenza, lo Sceik qualificò di
profondamente musulmana quell’attitudine evangelica. Certo egli pensava agli
ultimi giorni del suo antenato Aly ibn Abu Thâlib, il quarto ed
ultimo dei califfi teocratici, il genero del Profeta, l’incarnazione e l’ideale
della cavalleria araba e la colonna del misticismo islamita. Colpito da un
barbaro che credeva di aver ragione, e già vicino a spirare, proibì che il suo
assassino fosse messo alla tortura, ma volle fosse solo punito come se avesse
ucciso l’ultimo dei mendicanti. Egli non poteva assolverlo: la legge era
formale e nessuno, neppur lui, aveva il diritto di mutarla.
La mala fortuna perseguitò la Sceik fin
nell’esilio. La di lui notorietà, i suoi natali, la
sua integrità stessa lo resero sospetto; e sotto l’accusa stolta di aspirare al
kaliffato universale del mondo musulmano, per proprio conto o per quello del
sultano del Marocco, fu di nuovo rinchiuso in carcere, questa volta per ordine
di un principe musulmano.
Per due anni ei restò in una cella
immonda in cui ogni cosa era putredine ed ove l’acqua
minacciava di irrompere. E per impaurirlo, si fecero uccidere, dinnanzi a lui incatenato, dei condannati. Finalmente riebbe
la grazia e gli fu concesso onorevole esilio a Roda. Soggiornò anche a Damasco,
ove il celebre avversario dei francesi in Algeria, l’Emiro Abdul-Qâdir, divenne
suo amico e condiscepolo nello stesso insegnamento spirituale. Allorché morì l’Emiro, lo Sceik gli rese gli ultimi uffici e
lo sotterrò a Ssâlihhiya, accanto alla tomba stessa del grande Maestro, lo
Sceik Mohhyid-Dîn ibn Arabi.
Amnistiato dalla regina Vittoria, lo
Sceik tornò a stabilirsi in Cairo. Da qui egli irradia la sua influenza
benefica per il mondo musulmano non solo come sommità scientifica ma anche come
capo supremo di molte congregazioni religiose. Come sempre, egli si mantiene
− e con lui i suoi − lontano ed al di sopra
dei piccoli intrighi del giorno, dalle corruzioni e dalle cupidigie che
allettano l’anima. Ogni qualvolta ritroverete in Oriente un uomo superiore per
carattere e sapere, potete esser quasi sicuri di trovarvi alla presenza di un sciâdilita[5].
Ora, è sovra tutto per virtù della rettitudine e dell’alta spiritualità dello
sceik Eleisce che questa ammirabile congregazione
mantiene le sublimi tradizioni del suo fondatore, il bealo Abul-Hhasan
es-Sciâdhilî, attraverso la generale contaminazione.
Durante l’ultima manifestazione navale,
or sono due anni, io mi recai dallo Sceik per domandargli un fetwa relativo agli
europei stabiliti in Oriente e i di cui governi avevan rotto i patti con la
Turchia inviando le flotte presso il Bosforo. La situazione, senza esser
pericolosa, non era tale da non destare inquietudine. Con le masse delle città
egiziane non si è mai sicuri di nulla. Degli uomini appartenenti a partiti
sedicenti liberali, riformatori e progressisti, eccitavano la plebe contro gli
europei e con quell’attitudine credevano di porsi al riparo da ogni
eventualità. Questa gente detesta gli europei ed
insieme i vecchi musulmani: facendoli battere insieme avrebbe in tutti i modi
guadagnato. Se fossero rimasti vincitori i musulmani, coloro avrebbero
attaccato il nemico e sarebbero stati sbarazzati dagli europei guadagnando al
tempo stesso una buona posizione in mezzo agli altri avversari, i vecchi
musulmani. Se invece avessero vinto gii europei,
sarebbe stato facile di riversare la causa dei torbidi sulle spalle degli
avversari dell’altra parte, cioè sui vecchi musulmani. Per nulla essi avrebbero
sofferto delle rappresaglie, ben sapendo che gli europei avevano commesso degli
errori troppo madornali in fatto di psicologia per poterli confessare in quel
momento.
Poi che mai la vanità occidentale
confesserà di avere studiato l’Oriente durante due secoli per cadere in errori
così ridicoli. Perciò quei piccoli messeri, con la malignità e la mala fede che
sono in loro innate, inventarono un giuoco col quale
avrebbero guadagnalo ad ogni colpo.
I vecchi musulmani sunniti sono incapaci
di simili bizantinismi; ed è una ignoranza che li
onora e che reclama il rispetto. Ma torniamo al fatto.
Appena lo Sceik intese la mia domanda mi
rispose: «Gli europei che sono venuti in tempo di pace tra i musulmani, devono
continuare a godere della sicurtà malgrado la guerra
santa. Se essi vogliono andarsene, che vadano; e sian
salvi con essi i beni e l’onore. Essi non possono esser ritenuti responsabili
di quel che fanno i loro Governi e non possono ritenersi nemici se non in
seguito ad atti individuali di ostilità militare, come ad esempio una intesa col nemico od altra grave infrazione alle leggi
dell’ospitalità». E detto ciò egli guardò attorno per il vasto cortile della
casa. Io compresi quello sguardo che voleva dire: «È poco probabile che avvenga
qualche cosa, ma se avviene, qui vi è posto per molta
gente. È nelle tradizioni nostre».
Durante i massacri di Damasco, l’Emiro
Abdul-Qâdir salvò da certa morte parecchie centinaia di cristiani attorniati
dalla plebe furibonda, dimenticando che altri cristiani avevano ucciso i suoi
amici, e gli avevano rubata la patria e ridotta la sua
condizione di principe regnante in quella di un esiliato.
Ed eccoci al solo uomo che ha non soltanto biasimalo ma anche insultato lo sceik
Eleisce perché egli ha dato una moschea all’Italia.
Voi imaginate forse che costui sia un
uomo assolutamente pietrificato nelle tradizioni del più intransigente
fanatismo del passato, un vero mostro di oscurantismo, un
di coloro che non ammettono, a priori, alcuna discussione, nulla
volendo sapere; una specie di ultimo mohicano predicante sempre e contro tutti
la guerra santa per quanto la libertà religiosa sia stata proclamata in quasi
tutti i paesi d’Europa. Ebbene, voi vi sbagliate. L’uomo in
discorso è lo sceik Mohammed Râscid, direttore della Rivista “El-Manâr’’ (Il
Minareto), il capo intellettuale e scientifico dell’attuale movimento
riformista e razionalista dell’Islam; allievo e successore del famoso bâscmufti
sceik Mohhammad-’Abduh, il quale a sua volta fu allievo del non meno celebre
Giamâlud- Din el- Afghânî. Quest’ultimo creò il movimento di cui si
parla su modelli europei che studiò sul luogo. E fu ancor esso il fondatore
della framassoneria orientale che tanto ha promesso e che così poco ha dato. Ma di ciò tratteremo in altra parte.
Son questi i calvinisti dell’Islam, con
l’ardore di meno ed il genio della nutrizione in più.
Ed è commovente il vedere quali tenere cure han per essi i gesuiti non ostante
le complicazioni coi protestanti d’Occidente. Essi
vogliono un mucchio di cose che noi vogliamo riassumere con una sola frase: «Guarire il malato con un rimedio molto più dannoso della
malattia».
Valga un esempio. Essi pretendono di
combattere la superstizione popolare e intanto non hanno trovato altro mezzo
per arrivare a quello scopo che ridurre l’Islam ad un
semplice regolamento di polizia. Ora, tutto il mondo sa che gli scheletri
dommatici non han vita e che il wahâbismo, come religione vivente, non è
possibile che in una società primitiva ed etnicamente omogenea. Codesta forma
protestante dello Islam è, del resto, tanto esclusiva,
tanto territoriale quanto la superstizione popolare. L’una è intellettuale,
sentimentale l’altra; ma tutte due scaturiscono dalla stessa mentalità. Un
certo veggente, osservando il fenomeno ha detto che «i
filosofi sono dei superstiziosi».
Così questa banda è l’avversaria più
rabbiosa di Ibn Arabi; a tal punto, che il bâscmufti non poté far a meno di
scagliarglisi addosso. Potete dunque giudicare da voi stessi della sincerità e
dell’intelligenza dei framassoni che trascinano nel fango il più grande
filosofo, e il più universale e tollerante, non soltanto dell’Islam ma del
mondo intero; il solo teologo che, non importa in qual religione, ha introdotta la religione del gentiluomo (Dînul murû-’ati) nell’ortodossia. Ma il Grande Maestro nella sua
etica ha già condannato tutto l’Oriente moderno con la eccezionale
severità con cui giudica l’usura, poiché egli tratta quasi da apostata colui
che la pratica.
Del resto quella gente è trasportata da
una corrente di maledizione talmente grande che è più dannosa ai propri amici
che agli avversari. È nel seguire i loro consigli che lord Cromer, senza
volerlo, oh certo! e senza saperlo, rese alla
diplomazia tedesca in Oriente più servigi che non il più abile degli agenti del
Kaiser. Ma noi che non amiamo la Germania non siamo
contenti di tal fatto. E se l’Inghilterra voleva vendere il suo diritto
d’anzianità per un piatto di lenticchie, doveva almeno avvertirne a tempo i
suoi vecchi ammiratori.
Innanzi d’intraprendere la nostra campagna
islamofila noi pregammo Iddio di darci per nemici i Suoi nemici e per amici i
Suoi amici. Ed avemmo lo Sceik Râscid ed avemmo lo
Sceik Eleisce.
L’Ulema Sceik Mohammad Scerbatly, egregio nostro collaboratore ed amico, ha pubblicato
nell’ultimo numero di questa Rivista, nella parte araba, un articolo
riguardante la moschea Umberto I. L’articolo, intitolato «Il carattere islamico
e le furie degli ipocriti», deve chiuder la bocca agli avversari, se pure ve ne sono oltre a quello che abbiamo nominato, e
rinfrancare qualche dubbioso. Ne offriamo intanto un largo riassunto in questa
parte.
La prova più manifesta che Mohhammad è
profeta, è ch’esso è stato inviato per tutta
l’umanità, senza differenza di razze e di religioni. Senza dubbio quelli che
accusano i musulmani di fanatismo errano di molto e calunniano i caratteri
generosissimi della nostra religione; la quale ordina di far del bene e di non fare il male. Un esempio dello spirito che anima i musulmani
ce lo ha dato il virtuoso Ulema Sceik Abdel Rahman
Eleisce con la sua lettera inviata a S.E. il marchese Salvago Raggi Governatore
dell’Eritrea: lo Sceik lo ringrazia per aver protetti i musulmani nel paese da
lui governato e gli augura beni e fortuna se continuerà a trattare gli uomini
tutti con giustizia, senza distinzione fra italiani ed arabi, fra orientali ed
occidentali, fra cristiani e musulmani. Non è prova questa che l’Islam è
lontano da ogni fanatismo?
Il Profeta dice: «Io
sono stato inviato per completare le virtù». Ed
infatti egli ha completato le virtù ed ha seminato fra gli uomini la conoscenza
dei diritti di Dio. Non appartiene all’Islam far male al prossimo ed umiliarlo mostrandogli che la sua credenza è falsa e che
suoi riti son favole. Al contrario, l’Islam disprezza coloro
che maltrattano chi possiede un libro divino (i cristiani e gli
israeliti). Iddio ha detto nel Qorano: «Non dovete
contraddirli se non con dolcezza». Perciò i musulmani son lontani dal fanatismo
e non racchiudono nel loro cuore né odio né disprezzo per chi è contrario alla
loro religione.
Noi abbiamo pubblicata
la lettera del grande, virtuoso Ulema per far intendere agli ignoranti,
sciocchi ed ipocriti che, andando contro le opere dei grandi ulemi sinceri
dell’Islam i quali servono allo scopo del Profeta, non fanno altro che
provocare l’odio dell’Europa contro l’Islam ed i musulmani. Sia lodato Dio,
tutti han rispettata l’opera dello Sceik Eleisce,
tranne un levantino ipocrita che fa una rivista in arabo e la pubblica in
Egitto. Costui pretende che l’opera dello Sceik, il quale ha donato al re
d’Italia una moschea per giovare agli studenti musulmani delle colonie italiane
che sono a El Azhar, è una innovazione nella
religione. Avete mai inteso, o fratelli musulmani, se tal fatto può offendere i
principi dell’Islam?
Ma quell’ignorante ed
ipocrita, pubblicando l’articolo nella sua Rivista non ha fatto che palesare la
propria nullità ed altro non ha dimostrato se non che cerca di seminare la
discordia tra i musulmani d’Egitto ed i loro Ulemi e che vuol rendere odiata ai
sovrani europei la religione musulmana facendo credere che l’opera dello Sceik
è contraria all’Islam. E intanto non ha potuto trovare né un verso del Qorano
né un detto del Profeta per provare le sue asserzioni; anzi tutt’i
discorsi del Profeta ed il Qorano confortano l’opera dello Sceik
Eleisce. Per dimostrar meglio l’ignoranza di quel levantino, basti dire qui che
quando lord Cromer pubblicò nella sua ultima relazione una parola di biasimo per
la religione musulmana, egli scrisse al detto lord per dirgli che se S.O. intendeva biasimare il Qorano, faceva male; se il
biasimò era invece per il fiqh (il fiqh non è altro che la
raccolta dei discorsi del Profeta; le leggi tutte s’informano al fiqh) aveva ragione! E ci pare che basti
per far conoscere il suo valore.
Biasimando l’opera del grande Ulema, egli
ha commesso un errore quasi tanto grande come l’altro
commesso nell’approvare le parole di lord Cromer. Pretenderebbe egli di
conoscere la religione meglio dello Sceik Eleisce? Di
conoscere le leggi islamitiche più di quel grande Imam? Quale innovazione
eretica fece lo Sceik facendo costruire la moschea e
intitolandola al Re Umberto? L’Italia non ne farà forse un ricovero pei suoi sudditi musulmani, aiutandoli in tal modo ad
acquistare la scienza ed a poter vivere in questo paese, mentre prima i somali,
gli eritrei e gli altri sudditi d’Italia non trovavano ricovero religioso? Tale
opera onoranda sarebbe forse una dannosa innovazione nella religione?!
La nostra religione permette che un
cristiano fabbrichi una moschea e la mantenga; non solo, ma ogni cristiano che
fa un’opera simile e produce quindi un bene ai musulmani sarà ricompensato da
Dio, come ci apprendono le fetwa
degli Ulemi, dei capi e degli Imam, di tutti i quattro riti islamitici. Lo
Sceik Eleisce è un uomo che incoraggia tutti coloro
che fanno un po’ di bene per i musulmani a farne ancora. La di
lui esistenza è dunque una benedizione per il mondo musulmano e
l’esistenza della moschea Umberto è un fatto che smentisce recisamente la
leggenda del fanatismo.
Perciò noi, innanzi
di parlare delle fetwe date dagli
Imam sulla questione, ringraziamo lo sceich Eleisce per la sua opera. Ed ora, per chiudere la bocca ai cattivi ed intriganti,
indichiamo qui fatti riportati dai seguaci del Profeta.
L’ulema El ’Samahudi
nel suo libro «Khulaset el Wafê bi Akhbar dâr el Mustapha» (Il sunto fedele
della storia della città del prediletto), edito dalla gran Stamperia ufficiale
alla fine del Ka’da 1285, al cap. VIII, che tratta della visita del califfo El
Walîd, tiglio del califfo Abd El Malik, dice:
Rasîn racconta che la
moschea del Profeta, dopo l’ingrandimento apportatovi dal califfo Osman ben
Affan, che Dio lo abbia in gloria, non fu più toccata né dal califfo Aly, che
Dio lo benedica, né dal califfo Mohawia, che Dio lo benedica, né da Yazid né da
Marawan ben Abd el Malik, ma solo dal califfo El Walîd, figlio del califfo Abd
el Malik, il quale allora aveva come suo rappresentante e governatore alla
Mecca e Medina Omar ben Abd el Aziz.
Come anche riferisce lo storico Ibn Zibâla, il detto califfo El Walîd scrisse
all’imperatore dei Greci: − Noi vogliamo restaurare la moschea del nostro
Profeta; ti prego quindi di aiutarmi in questo restauro, mandando degli operai,
marmi ed orpelli. − L’imperatore inviò una gran
quantità d’ornamenti, venti operai che valevano come cento, 800.000 denari,
lucernarî con le catene per sospenderli.
Yahia poi racconta: Ho sentito dire da
Kuddama ben Musa, che l’imperatore gli aveva inviato
40 Greci, 40 Copti, 40.000 mizcal d’oro e molti carichi d’ornati.
La moschea fu in tal modo restaurata
splendidamente coi soccorsi di un principe cristiano e
con l’opera di operai cristiani.
Così dunque dalla storia dell’Islam si
ricava una vera prova che i grandi califfi non esitavano a chiedere ed accettare aiuti da chi non fosse musulmano, anche per la
ricostruzione delle moschee, e non si opponevano a che un musulmano fosse
beneficato da un cristiano. Non possiamo dunque immaginare di dove lo sceikh
del «Manar» abbia tratto il fondamento delle fandonie con cui imbrattò le
pagine della sua rivista.
Ma, per non tirar troppo in lungo, vogliamo
qui indicare quale sia stata la fetwa degli Imam dei musulmani in ima faccenda
molto simile alla presente. E questa nostra indicazione crediamo
che possa valere come sanzione e castigo ai rinnegati che vogliono spegnere la
luce della virtù colla loro bocca, mentre Iddio vuole che la sua luce rimanga;
egli che dà la vittoria agli uomini puri, sinceri, fedeli.
Ecco qui la questione che portiamo ad
esempio, quella, del signor Leone Lambert, il famoso mercante
francese, quale la riportiamo dai giornali che ne parlarono, e
specialmente il «Manid», nel suo numero in data Lunedi 7 Giamâdillawal 1323 (10
Giugno 1905), sotto il titolo «Una moschea in Francia»:
− Uno dei negozianti francesi
abitanti in Egitto, il signor Leone Lambert, si adoperò di costruire una
moschea a Parigi, inoltrò a tal uopo domanda alla Repubblica francese,
chiedendo la cessione di un pezzo di terreno in posizione centrale, perché ivi
sorgesse la moschea, e chiedendo inoltre aiuti finanziari. Egli provocò anche
dai virtuosi ulema una fetwa per sapere se la cosa fosse lecita. Ecco la sua
richiesta:
Cairo, 24 Gennaio 1905
Che cosa dicono i virtuosi ulema ed
il gran signore, capo della Moschea dell’Azhar, e tutti gli ulema d’Egitto, in
riguardo di un uomo francese, di nome Leone Lambert, dimorante in Cairo coi
figli e solito a recarsi sovente a Parigi, capitale della Francia. In questi
viaggi egli ebbe occasione di vedere molti musulmani colà residenti o di
passaggio, i quali si lamentano che non vi sia a
Parigi una moschea nella quale adempiere le loro funzioni religiose. Questo
francese quindi da molti anni ha chiesto al governo francese la concessione di
un tratto di suolo per costruirvi una moschea, ma Dio
volle che allora molti ostacoli impedissero di conseguire l’intento. Ora molti
musulmani lo hanno incaricato di condurre a termine
l’opera benefica ed egli vuol prima chiedere il permesso agli ulema dell’Islam,
affinché il loro parere sia motivo legale a chiedere al governo francese il
terreno e l’impegno di curare questo che giova ai musulmani. Però è necessario
che gli ulema sappiano che egli non professa la religione musulmana. Dunque può egli curarsi di quanto propone? Rispondete e sarete
ricompensati da Dio.
Leone Lambert
Ecco la risposta:
A Leone Lambert ed ai suoi figli
La risposta alla domanda diretta dal detto signore a S.S. il
capo dell’Azhar ed ai più grandi ulemi dell’Azhar, è
che avendo egli chiesto se gli fosse lecito il costruire una moschea pei
musulmani, essi risposero esser questo lecito e doverne a lui venire la
ricompensa da Dio per questa opera benefica agli islamiti:
Lode a Dio unico, salute e preghiera a colui dopo il quale
non c’è un profeta, a lui ed ai suoi discendenti e
seguaci.
Se il francese possiede il terreno e la costruzione e cede
tutto ai musulmani, allora quella diventa una moschea ed egli sarà
ricompensato.
Anche se il terreno e la costruzione restano in suo
possesso, si avrà egualmente una moschea, egli sarà pure ricompensato par
questa sua opera.
Abd Errachman Assciarbini, capo dell’Azhar. Suleiman Al Abd, Mohammed Al Khalibi, Mustapha Al Hahawi, Mohammed
Annagidi, sciafeiti; Ahmed Mohammed Nasr Al Madwi, Harun Abd Arrazaq, Aly
Kabua Al Hadui, malekiti; Mohammed Rafi Al Bachrawi, hanefita.
[1] Dalla rivista bilingue (arabo-italiana) Il Convito −
An-Nadi [1904-1913].
[2] Al-Azhar Jâmiʿat al-Azhar, più nota come
«Università al-Azhar» il cui nome significa «la
Luminosa», fondata nen X secolo (d.C.), si trova al Cairo ed è tuttora uno dei
principali centri d'insegnamento religioso dell’Islam sunnita. [n.d.r].
[3] Si tratta di Umberto I
(di Savoia, Torino, 14 marzo 1844 – Monza, 29 luglio 1900), Re d'Italia
dal 1878 al 1900. [n.d.r].
[4] Si tratta di coloro,
musulmani, ricoleggati al Sufismo (Tasawwuf)
attraverso un «patto iniziatico» stretto con lo shaykh
rappresentante una Tarîqa. [n.d.r].
[5] Si tratta della tarîqa Shadiliyyah fondata da
Abû-l-Hassan Ash-Shadîlî nel XIV secolo d.C. [n.d.r].
Buona sera, mi auguro vada tutto per il meglio. Gentilmente, sapresti per caso indicarmi la bibliografia completa degli scritti di 'Abd al-Hadi (rahimahu-Llah) per "Il Convito"?
RispondiElimina