"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

martedì 3 marzo 2015

René Guénon, Spirito e intelletto

René Guénon
Spirito e intelletto* 

* Études Traditionnelles, luglio-agosto 1947. (Rivista di Studi Tradizionali  n. 16) 

Ci è stato fatto osservare che mentre spesso si afferma che lo spirito altro non è se non Âtmâ, vi sono tuttavia casi in cui questo stesso spirito sembra identificarsi soltanto con Buddhi; si tratta forse di una contraddizione? Certamente non si può farne una semplice questione di terminologia perché allora, se così fosse, non sarebbe possibile limitarsi a ciò ma si dovrebbero accettare indistintamente i molteplici significati, più o meno vaghi ed abusivi, che volgarmente vengono attribuiti al termine «spirito», quando, al contrario, noi ci siamo sempre applicati con cura al fine di eliminarli; e tanto meno l’insufficienza anche troppo evidente delle lingue occidentali, per quanto riguarda l’espressione delle idee d’ordine metafisico, deve impedire che si prendano tutte le necessarie precauzioni ad evitare confusioni. Diciamo subito che a giustificare il doppio impiego di uno stesso termine, sta la corrispondenza esistente tra «livelli» diversi di realtà, corrispondenza che rende possibile la trasposizione di certi termini dall’uno all’altro di tali livelli.
Il caso in questione è in definitiva paragonabile a quello del termine «essenza» il quale è analogamente suscettibile d’essere applicato in molte maniere diverse: in quanto correlativo di «sostanza» designa propriamente, dal punto di vista della manifestazione universale, Purusha considerato in relazione a Prakriti; ma può anche essere trasposto al di là di questa dualità, cosa che necessariamente accade quando si parla dell’«Essenza divina», anche se, come molto spesso si verifica in Occidente, coloro i quali fanno uso di questa espressione non vanno al di là dell’Essere puro nella loro concezione della Divinità[1]. Si può del pari parlare dell’essenza di un essere come complementare della sua sostanza, ma si può anche definire come essenza ciò che costituisce la realtà ultima, immutabile e incondizionata di questo essere, per il fatto che la prima non è altro in definitiva, se non l’espressione della seconda nei confronti della manifestazione. Ora, se si dice che lo spirito d’un essere fa tutt’uno con la sua essenza, ciò si può ugualmente intendere nell’uno o nell’altro di questi due sensi; e, se ci si pone dal punto di vista della realtà assoluta, lo spirito o l’essenza non sono e non possono essere nient’altro che Âtmâ. Soltanto, bisogna far bene attenzione che Âtmâ, comprendendo in sé e principialmente ogni realtà, non può di per se stesso entrare in relazione con checchessia; così, quando si abbiano in vista i principi costitutivi di un essere nei suoi stati condizionati, ciò che in esso si considera come spirito, per esempio nella terna «Spirito, anima, corpo», non può più essere l’Âtmâ incondizionato, ma ciò che in qualche modo lo rappresenta più direttamente nella manifestazione. Potremmo aggiungere che non si tratta neanche più dell’essenza correlativa della sostanza, in quanto, se è vero che è nei confronti della manifestazione che la si deve prendere in esame, essa non è tuttavia nella manifestazione stessa; non potrà trattarsi quindi che del primo e più elevato di tutti i principi manifestati, cioè Buddhi.
Dal momento che ci si pone dal punto di vista di uno stato di manifestazione quale lo stato individuale umano, bisogna anche far intervenire quella che nella fattispecie si potrebbe chiamare una questione di «prospettiva»; così, quando parliamo dell’universale distinguendolo dall’individuale, dobbiamo comprendervi non solo il non-manifestato, ma anche tutto ciò che nella manifestazione stessa è d’ordine sopra-individuale, cioè la manifestazione informale a cui Buddhi essenzialmente appartiene. Parimenti, poiché l’individualità come tale comprende insieme gli elementi psichici e corporei, non possiamo definire spirituali se non i principi che trascendono questa individualità, com’è appunto il caso di Buddhi o dell’intelletto; per questo possiamo dire, come spesso abbiamo fatto, che per noi l’intellettualità pura e la spiritualità in fondo sono sinonimi; e d’altronde lo stesso intelletto è suscettibile di una trasposizione analoga a quelle di cui parlavamo prima, dal momento che non si trova in generale nessuna difficoltà a parlare di «Intelletto divino». A questo proposito faremo ancora osservare, che quantunque i guna siano inerenti a Prakriti, non si può non considerare sattwa come una tendenza che orienta l’essere verso gli stati superiori; si tratta insomma di una conseguenza della stessa «prospettiva» che fa apparire gli stati superiori come gradi intermedi fra lo stato umano e lo stato incondizionato, anche se fra questo ed un qualsiasi stato condizionato, fosse pure il più elevato di tutti, non vi è in realtà alcuna comune misura[2].
Una cosa su cui è bene insistere in modo particolare è la natura essenzialmente sopra-individuale dell’intelletto puro; d’altronde, soltanto ciò che appartiene a quest’ordine può veramente essere detto «trascendente», poiché questo termine non può normalmente essere applicato se non a quanto è al di là del dominio individuale. L’intelletto non è quindi mai individualizzato; e questo, dal punto di vista speciale del mondo corporeo, si può anche esprimere con l’affermazione che lo spirito, quali che siano le apparenze, in realtà non è mai «incarnato», cosa d’altronde ugualmente vera in tutte le accezioni in cui il termine «spirito» può essere legittimamente impiegato[3]. Ne risulta che la distinzione fra lo spirito e gli elementi d’ordine individuale è molto più profonda di tutte quelle che si possono stabilire in seno a questi ultimi, e in particolare fra gli elementi psichici e gli elementi corporei, cioè tra quelli che appartengono rispettivamente alla manifestazione sottile e alla manifestazione grossolana, entrambe le quali non sono in definitiva se non modalità della manifestazione formale[4].
Ma non è tutto: non soltanto Buddhi, come prima tra le manifestazioni di Prakriti, costituisce il legame fra tutti gli stati di manifestazione, ma, se si considerano le cose a partire dall’ordine principiale, essa appare altresì come il raggio luminoso direttamente emanato dal Sole spirituale, il quale è lo stesso Âtmâ; si può dunque dire che essa è anche la prima manifestazione di Âtmâ[5], benché sia fuori causa che questo, non potendo in sé essere infirmato o modificato da alcuna contingenza, rimane sempre non-manifestato[6]. Orbene, la luce è essenzialmente una e la sua natura non è diversa nel Sole e nei suoi raggi, i quali ultimi non si distinguono se non in modo illusorio nei confronti del Sole stesso (benché questa distinzione non sia meno reale per l’occhio che percepisce questi raggi e che rappresenta qui l’essere nella manifestazione)[7]; in ragione di questa «connaturalità» essenziale, Buddhi non è dunque in definitiva che l’espressione stessa di Âtmâ nella manifestazione. Questo raggio luminoso che lega tra loro tutti gli stati è anche simbolicamente rappresentato come il soffio in virtù del «quale» essi sussistono, il che, si osserverà, è strettamente conforme al significato etimologico dei termini designanti lo spirito (si tratti del latino spiritus o del greco pneuma); e così, come abbiamo già spiegato in altre occasioni, egli è propriamente il sûtrâtmâ; ciò equivale anche a dire che egli in realtà è Âtmâ stesso o, più precisamente, ch’egli è l’apparenza che Âtmâ assume se invece di considerare unicamente il principio supremo (il quale sarebbe allora rappresentato come il Sole contenente in sé tutti i suoi raggi allo stato «indistinto»), si considerano anche gli stati di manifestazione, tale apparenza (quella che sembra dare al raggio un’esistenza distinta dalla sua sorgente) essendo tale unicamente dal punto di vista degli esseri i quali sono situati in questi stati, in quanto è evidente che l’«esteriorità» di costoro nei confronti del Principio non può se non essere puramente illusoria.
La conclusione che discende immediatamente da tutto ciò è la seguente: finché l’essere si trova nello stato umano, e non solo in questo ma in qualsiasi stato manifestato individuale o sopra-individuale, non può esservi per lui alcuna differenza effettiva tra lo spirito e l’intelletto né, per conseguenza, fra la spiritualità e l’intellettualità vera. In altri termini, per giungere allo scopo supremo e definitivo non c’è altra via per tale essere che il raggio stesso mediante il quale egli è unito al sole spirituale; qualunque sia la diversità apparente delle vie al punto di partenza, esse presto o tardi devono unificarsi tutte in questa sola via «assiale»; e quando l’essere avrà seguito quest’ultima fino alla fine, «entrerà nel suo proprio Sé» al di fuori del quale egli non è mai stato se non in modo illusorio, poiché questo «Sé», lo si chiami analogicamente spirito, essenza, o in qualsiasi altro modo, è identico alla realtà assoluta nella quale tutto è contenuto, cioè all’Âtmâ supremo ed incondizionato.


[1] Nella tradizione indù, l’uso del termine Purushottama indica appunto la stessa trasposizione in rapporto a ciò che Purusha designa nel suo significato più abituale.

[2] Cfr. F. Schuon, «Des modes de la réalisation spirituelle» nel n. di aprile-maggio 1947 di Études Traditionnelles.

[3] Si potrebbe anche dire che è questo in linea generale a mettere in evidenza la più netta ed importante fra le accezioni ed i significati illegittimi che troppo spesso vengono attribuiti a questo stesso termine.

[4] È anche per questa ragione che l’uomo, a rigore, non può parlare del «suo spirito» come parla della «sua anima» e del «suo corpo», nel possessivo essendo implicito che si tratta di un elemento appartenente propriamente all’«io» cioè all’ordine individuale. Nella divisione ternaria degli elementi dell’essere, l’individuo, come tale, è composto dall’anima e dal corpo, mentre lo spirito (in mancanza del quale d’altronde esso non potrebbe esistere in alcun modo) è trascendente nei suoi confronti.

[5] Cfr. La Grande Triade, cap. XI, pag. 97, nota I.

[6] Secondo la formula delle Upanishad, Egli è «ciò per cui tutto è manifestato e che in se stesso non è manifestato da niente».

[7] È noto che la luce è il simbolo tradizionale della natura stessa dello spirito: altrove abbiamo fatto osservare, a questo proposito, che si trovano ugualmente espressioni come «luce spirituale» e «luce intelligibile» quasi esse fossero in qualche modo sinonimi, il che implica manifestamente ancora un’assimilazione tra lo spirito e l’intelletto.

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