"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

domenica 29 marzo 2015

René Guénon, Le condizioni dell’esistenza corporea

René Guénon
Le condizioni dell’esistenza corporea *

* Pubblicato nella rivista La Gnose, n. di gennaio 1912. (Rivista di Studi Tradizionali, n. 35) 

Secondo il Sankhya di Kapila, esistono cinque tanmâtra o essenze elementari percettibili (o piuttosto «concepibili») idealmente, ma incomprensibili e inafferrabili in nessuna modalità della manifestazione universale, non essendo esse manifestate: per questa ragione è impossibile attribuire loro denominazioni particolari, poiché non possono essere definite da alcuna rappresentazione formale. Questi tanmâtra sono i principi potenziali, o, per impiegare un’espressione che ricorda la dottrina di Platone, le «idee-archetipi» sia dei cinque elementi del mondo materiale fisico, sia, beninteso, d’una indefinità d’altre modalità dell’esistenza manifestata, corrispondenti analogicamente a questi elementi nei gradi molteplici dell’esistenza; e, secondo la medesima corrispondenza, queste idee principiali implicano anche in potenza, rispettivamente, le cinque condizioni le cui combinazioni costituiscono le delimitazioni di quella particolare possibilità di manifestazione che noi chiamiamo esistenza corporea.
Per cui, i cinque tanmâtra o idee principiali sono gli elementi «essenziali», le cause primordiali dei cinque elementi «sostanziali» della manifestazione fisica, i quali non ne sono che determinazioni particolari, modificazioni esteriori. Nella modalità fisica, essi s’esprimono nelle cinque condizioni in cui si articolano le leggi dell’esistenza corporea[1]; leggi intermediarie tra il principio e la conseguenza, che traducono la relazione tra la causa e l’effetto (relazione nella quale si può vedere la causa come attiva e l’effetto come passivo) o tra l’essenza e la sostanza, considerate come l’àlef e il tau i due punti estremi della modalità di manifestazione che si prende in considerazione (i quali, nell’universalità della loro estensione, lo sono ugualmente per ogni altra modalità). Ma né l’essenza né la sostanza appartengono per se stesse al dominio di questa manifestazione, non più di quanto le due estremità dello Yin-Yang siano contenute nel piano della curva ciclica; esse sono al di qua e al di là di questo piano ed è perciò che, in realtà, la curva dell’esistenza non è mai chiusa.
I cinque elementi del mondo fisico[2] sono, come si sa, l’Etere (Âkâsha), l’Aria (Vâyu), il Fuoco (Têjas), l’Acqua (Apa), e la Terra (Prithvî); l’ordine nel quale sono enumerati è quello del loro sviluppo, conformemente all’insegnamento del Vêda[3]. Si è voluto sovente assimilare gli elementi ai differenti stati o gradi di condensazione della materia fisica, producentisi a cominciare dall’Etere primordiale omogeneo che riempie tutta l’estensione unendo così tra loro tutte le parti del mondo corporeo; secondo questa prospettiva si fa corrispondere, procedendo dal più denso al più sottile, cioè nell’ordine inverso a quello della loro differenziazione, la Terra allo stato solido, l’Acqua allo stato liquido, l’Aria allo stato gassoso, e il Fuoco a uno stato ancor più rarefatto, assai simile allo «stato radiante» recentemente scoperto dai fisici e da essi studiato, con i loro speciali metodi di osservazione e sperimentazione. Questo punto di vista contiene certamente una parte di verità, ma è troppo sistematico, ovvero troppo particolareggiato, e l’ordine che stabilisce tra gli elementi differisce dal precedente in un punto, giacché colloca il Fuoco prima dell’Aria immediatamente dopo l’Etere, come se fosse il primo elemento a differenziarsi in seno a questo centro cosmico originario. Al contrario, secondo l’insegnamento conforme alla dottrina ortodossa, viene prima l’Aria, ed essa, quale elemento neutro (non contenente che in potenza la dualità attivo-passiva), produce in se stessa, differenziandosi per polarizzazione (facendo passare questa dualità dalla potenza all’atto), il Fuoco, elemento attivo, e l’Acqua, elemento passivo (si potrebbe anzi dire «reattivo», cioè agente in modo riflesso, correlativamente all’azione «spontanea» del suo elemento complementare), l’azione e reazione reciproca dei quali danno vita (per una sorta di cristallizzazione o precipitazione residuale) alla Terra, «elemento terminale e finale» della manifestazione corporea. Potremmo considerare più giustamente gli elementi come differenti modalità vibratorie della materia fisica, modalità con le quali essa si rende percettibile successivamente (in successione puramente logica beninteso)[4] a ciascuno dei sensi della nostra individualità corporea; d’altronde, tutto ciò sarà sufficientemente spiegato e giustificato dalle considerazioni che esporremo nel seguito di questo studio.
Dobbiamo, innanzitutto, stabilire che l’Etere e l’Aria sono elementi distinti, contrariamente a quanto sostengono alcune scuole eterodosse[5]; ma per rendere più comprensibile quanto diremo su questa questione, ricorderemo subito che le cinque condizioni alle quali è sottomessa l’esistenza corporea sono lo spazio, il tempo, la materia, la forma e la vita. Di conseguenza, per riunire in una sola definizione l’enunciazione di queste cinque condizioni, si può dire che un corpo è «una forma materiale vivente nel tempo e nello spazio»; d’altronde quando impieghiamo l’espressione «mondo fisico» è sempre come sinonimo di «dominio della manifestazione corporea»[6]. L’enunciazione di tali condizioni nell’ordine innanzi esposto è solo provvisoria e non pregiudica per nulla le relazioni tra loro esistenti, almeno fintantoché non avremo determinato le loro rispettive corrispondenze con i cinque sensi e con i cinque elementi, ì quali d’altronde, sono tutti parimenti sottomessi all’insieme di queste cinque condizioni.
Âkâsha, l’Etere, che è considerato come l’elemento più sottile e quello da cui procedono tutti gli altri (formando, in rapporto alla sua unità primordiale, un quaternario di manifestazione), occupa tutto lo spazio fisico, così come abbiamo detto[7]; tuttavia, non è immediatamente attraverso di esso che questo spazio è percepito, e la sua qualità particolare non è l’estensione, ma il suono. Ciò richiede qualche spiegazione. In effetti, l’Etere, considerato in se stesso è primitivamente omogeneo; la sua differenziazione, che genera gli altri elementi (cominciando dall’Aria) ha origine da un movimento elementare producentesi, a partire da un punto iniziale qualsiasi, in questo ambiente cosmico indefinito. Questo movimento elementare è il prototipo del movimento vibratorio della materia fisica; dal punto di vista spaziale esso si propaga intorno al suo punto di partenza in modo isotropo, cioè mediante onde concentriche producendo un vortice elicoidale che si sviluppa in tutte le direzioni dello spazio: ne risulta la figura di una sfera indefinita che non si chiude mai. Per stabilire i rapporti che uniscono tra di loro le differenti condizioni dell’esistenza corporea, così come le abbiamo precedentemente enumerate, aggiungeremo che questa forma sferica è il prototipo di tutte le forme: essa le contiene tutte in potenza, e la sua prima differenziazione in modo polarizzato può essere rappresentata dalla raffigurazione dello Yin-Yang, com’è facile rendersene conto riferendosi, per esempio, alla concezione simbolica dell’Androgino di Platone[8].
Il movimento, anche il più elementare, suppone necessariamente lo spazio, come pure il tempo, e si può egualmente dire ch’esso è in qualche modo la risultante di queste due condizioni, poiché ne dipende necessariamente, come l’effetto dipende dalla causa (nella quale è contenuto in potenza)[9]; ma non è il movimento elementare in se stesso che ci dà la percezione immediata dello spazio (o più esattamente dell’estensione). In effetti, è molto importante rilevare che, quando parliamo del movimento che si produce nell’Etere dando inizio ad ogni differenziazione, si tratta esclusivamente del movimento elementare, che possiamo chiamare movimento ondulatorio o vibratorio semplice (di lunghezza d’onda e di periodo infinitesimale), per indicare il suo modo di propagazione (che è uniforme nello spazio e nel tempo), o piuttosto la sua rappresentazione geometrica; è solamente considerando gli altri elementi che potremo individuare le complesse modificazioni di questo movimento vibratorio, modificazioni che corrispondono per noi ai diversi ordini di sensazioni. Ciò è tanto più importante in quanto è precisamente su questo punto che si basa tutta la distinzione fondamentale tra le qualità proprie dell’Etere e quelle dell’Aria.
Dobbiamo chiederci ora quale sia, tra le sensazioni corporee, quella che ci fornisce il carattere sensibile del movimento vibratorio, che ce lo fa percepire in modo diretto, senza passare attraverso l’una o l’altra delle diverse modificazioni di cui è suscettibile. Ora, la fisica elementare stessa ci insegna che queste condizioni sono adempiute dalla vibrazione sonora, la cui lunghezza d’onda e velocità di propagazione[10] sono comprese nei limiti apprezzabili dalla nostra percezione sensibile; di conseguenza, si può dunque dire, che è il senso dell’udito a percepire direttamente il movimento vibratorio. Si potrà senza dubbio obiettare che non è la vibrazione eterica a essere percepita in modo sonoro, bensì la vibrazione di un ambiente gassoso, liquido o solido; tuttavia è anche vero che è l’Etere che costituisce l’ambiente originario di propagazione del movimento vibratorio, il quale, per entrare nei limiti di percettibilità che corrispondono all’estensione della nostra facoltà uditiva, deve solamente essere amplificato, onde propagarsi attraverso un ambiente più denso (materia ponderabile), senza perdere per questo il suo carattere di movimento vibratorio semplice (ma la sua lunghezza d’onda e il suo periodo non saranno più infinitesimali). Per manifestare così la qualità sonora, è necessario che questo movimento la contenga già in potenza (direttamente)[11] nel suo ambiente originario, l’Etere; di conseguenza, questa qualità, allo stato potenziale (d’indifferenziazione primordiale), ben costituisce la natura caratteristica dell’Etere in rapporto alla nostra sensibilità corporea[12].
D’altra parte, se si ricerca quale sia fra i cinque sensi quello per cui il tempo ci è più particolarmente manifesto, è facile rendersi conto che è il senso dell’udito; è questo d’altronde un fatto che può essere verificato sperimentalmente da tutti coloro che sono abituati a controllare l’origine rispettiva delle loro diverse percezioni.
La ragione ne è la seguente: perché il tempo possa essere percepito materialmente (cioè entrare in relazione con la materia, specialmente in ciò che concerne il nostro organismo corporeo), occorre che diventi misurabile essendo questa, nel mondo fisico, una caratteristica propria di ogni qualità sensibile (allorché la si consideri in quanto tale)[13]; ora, il tempo non è misurabile direttamente per noi, poiché non è divisibile in se stesso, e noi non concepiamo la misura che attraverso la divisione, almeno in modo usuale e sensibile (poiché si possono concepire tuttavia altri modi di misura, per esempio l’integrazione). Il tempo non sarà dunque reso misurabile se non esprimendolo in funzione di una variabile divisibile; e, come vedremo più avanti, questa variabile non può essere che lo spazio, la divisibilità essendo una qualità essenzialmente inerente a questo. Di conseguenza, per misurare il tempo, bisognerà considerarlo in quanto entra in relazione con lo spazio, combinandosi con esso in qualche modo, e il risultato di questa combinazione sarà il movimento, nel quale, lo spazio percorso, essendo la somma di una serie di spostamenti elementari considerati in modo successivo (cioè precisamente nella condizione temporale), è funzione[14] del tempo impiegato per percorrerlo; la relazione che esiste tra questo spazio e questo tempo esprime la legge del movimento considerato[15] Inversamente, il tempo potrà allora esprimersi ugualmente in funzione dello spazio, invertendo il rapporto considerato precedentemente; ciò equivarrà a considerare il movimento come una rappresentazione spaziale del tempo. La sua rappresentazione più naturale sarà quella che si tradurrà numericamente attraverso la funzione più semplice; esso sarà dunque un movimento oscillatorio (rettilineo o circolare) uniforme (cioè di velocità o di periodo oscillatorio costante) che non può essere inteso se non come una sorta di amplificazione (implicante d’altronde una differenziazione rispetto alle direzioni dello spazio) del movimento vibratorio elementare; poiché questo è anche il carattere della vibrazione sonora, si comprenderà immediatamente come sia proprio l’udito, tra i sensi, a procurarci la percezione del tempo.
Dobbiamo però aggiungere che, se lo spazio e il tempo sono le condizioni necessarie del movimento, non ne sono affatto le cause prime; sono essi stessi degli effetti, per mezzo dei quali si manifesta il movimento, che a sua volta è un effetto (secondario rispetto a questi due, che in tal senso possono essere ritenuti come le sue cause immediate, poiché è da essi condizionato) delle stesse cause essenziali, che contengono potenzialmente l’integralità di tutti i loro effetti e che si sintetizzano nella causa totale e suprema, concepita come la Potenza Universale, illimitata e incondizionata[16]. D’altra parte, affinché il movimento possa attuarsi, occorre che vi sia qualcosa che venga mosso, in altri termini, una sostanza (nel senso etimologico della parola)[17] sulla quale esso si eserciti; ciò che viene mosso è la materia, la quale interviene nella produzione del movimento soltanto come una condizione puramente passiva. Le reazioni della materia sottoposta al movimento (la passività implica sempre una reazione) sviluppano in essa le differenti qualità sensibili, le quali, come già abbiamo detto, corrispondono agli elementi le cui combinazioni costituiscono quella modalità della materia che sappiamo essere (in quanto oggetto, non di percezione, ma di pura concezione)[18] il substratum della manifestazione fisica. In questo dominio, l’attività non è dunque inerente alla materia, né ad essa spontanea, ma le appartiene in un modo riflesso, in quanto questa materia coesiste con lo spazio ed il tempo, ed è questa attività della materia in movimento a costituire, non la vita in se stessa, ma la manifestazione della vita nel dominio che qui consideriamo. Il primo effetto di tale attività è di dare a questa materia la forma, essendo necessariamente informe fintantoché rimane nello stato omogeneo e indifferenziato, che è quello dell’Etere primordiale; essa è solamente suscettibile di assumere tutte le forme che sono contenute in potenza nell’estensione integrale della sua possibilità particolare[19]. Si può dunque dire che è anche il movimento a determinare la manifestazione della forma in modo fisico o corporeo; e, come ogni forma procede per differenziazione dalla forma sferica primordiale, così ogni movimento può ridursi a un insieme di elementi di cui ciascuno è un movimento vibratorio elicoidale il quale si differenzierà dal vortice sferico elementare soltanto quando lo spazio non sarà più considerato come isotropo.
2°. Vâyu è l’Aria, più particolarmente l’Aria in movimento (considerata come principio del movimento differenziato[20]), poiché questa parola, nel suo significato primitivo, designa propriamente il soffio o il vento[21]. La mobilità è dunque ritenuta la natura caratteristica di questo elemento, che costituisce la prima differenziazione a partire dall’Etere primordiale (e che, come questo, è neutro, poiché la polarizzazione esteriore si produrrà solo nella dualità dei complementari Fuoco e Acqua). Questa prima differenziazione necessita un movimento complesso, costituito da un insieme di movimenti vibratori elementari, determinante una rottura dell’omogeneità dell’ambiente cosmico, e propagantesi lungo certe particolari e determinate direzioni a partire dal suo punto d’origine. Prodottasi questa differenziazione, lo spazio non deve più esser considerato isotropo; esso può, invece, essere riferito a un insieme di più direzioni definite, prese come assi di coordinate, e che, servendo a misurarlo in una porzione della sua estensione, ed anche, teoricamente, nella sua totalità, rappresentano appunto le direzioni dello spazio. Questi assi di coordinate costituiranno (almeno nella nozione ordinaria del cosiddetto spazio «euclideo», il quale corrisponde direttamente alla percezione sensibile dell’estensione corporea) i tre diametri ortogonali dello sferoide indefinito comprendente tutta l’estensione del suo dispiegamento, e il loro centro potrà essere un punto qualsiasi di questa estensione, la quale sarà allora considerata come il prodotto dello sviluppo di tutte le virtualità spaziali contenute in tale punto (principialmente indeterminato). Occorre notare che il punto, in se stesso, non è affatto contenuto nello spazio, né può essere in alcun modo condizionato da questo, poiché è invece esso a crearlo dalla sua «ipseità» (sdoppiata o polarizzata in essenza e sostanza)[22]: il che equivale a dire che lo contiene in potenza: è lo spazio che procede dal punto e non è il punto ad esser determinato dallo spazio; ma, secondariamente (ogni manifestazione o modificazione esteriore non essendo che contingente e accidentale rispetto alla sua «natura intima»), il punto determina se stesso nello spazio per realizzare l’estensione attuale delle sue potenzialità d’indefinita moltiplicazione (di se stesso da parte di se stesso). Si può ancora dire che questo punto primordiale e principiale riempie tutto lo spazio con lo spiegamento delle sue possibilità (considerate in modo attivo nel punto stesso «effettuante» dinamicamente l’estensione, e in modo passivo in questa stessa estensione realizzata staticamente); esso si situa in questo spazio solamente quando è considerato nelle particolari posizioni che è suscettibile di occupare, cioè in quelle sue modificazioni che corrispondono precisamente a ognuna delle sue possibilità speciali. Così, l’estensione esiste già allo stato potenziale nel punto stesso; essa comincia ad esistere nello stato attuale solo quando questo punto, nella sua prima manifestazione, si è già in qualche modo sdoppiato per porsi di fronte a se stesso, perché si può parlare allora della distanza elementare tra due punti (benché questi non siano in principio e in essenza che un solo e medesimo punto), mentre che, quando si considerava un punto unico (o piuttosto, quando si considerava il punto unicamente sotto l’aspetto dell’unità principiale), non si potrebbe evidentemente parlare di distanza. Tuttavia, bisogna far notare che la distanza elementare non è ciò che corrisponde a questo sdoppiamento nel dominio della rappresentazione spaziale o geometrica (la quale è per noi unicamente un simbolo). Metafisicamente, se si assume il punto come rappresentazione dell’Essere nella sua unità e identità principiale, cioè di Âtmâ considerato al di fuori di ogni condizione (o determinazione) e di ogni differenziazione, l’esteriorizzazione di detto punto (che può esser vista come una sua immagine, in cui si riflette), e la distanza che li unisce (pur separandoli nel contempo) e che segna la relazione esistente tra loro (relazione implicante un rapporto di causalità, reso geometricamente dal senso della distanza, colta come un segmento avente una certa «direzione» e andante dal punto-causa verso il punto-effetto), corrispondono rispettivamente ai tre termini del ternario che abbiamo distinto nell’Essere, considerato come conoscente se stesso (cioè in Buddhi), termini che, al di fuori di questa prospettiva, sono tra loro perfettamente identici e vengono designati Sat, Chit, Ânanda.
Abbiamo detto che il punto è il simbolo dell’Essere nella sua Unità; ciò può concepirsi nel seguente modo: se l’estensione a una dimensione, o la linea, è misurata quantitativamente da un numero a, la misura quantitativa dell’estensione a due dimensioni, o della superficie, sarà a2, e quella dell’estensione a tre dimensioni, o del volume, sarà a3. L’aggiungere una dimensione all’estensione equivale dunque ad aumentare di un’unità l’esponente della quantità corrispondente (che è la misura di questa estensione) e, inversamente, togliere una dimensione all’estensione equivale a diminuire di una unità questo stesso esponente; se si sopprime l’ultima dimensione, quella della linea (e, conseguentemente, l’ultima unità dell’esponente), geometricamente, rimane il punto, e, numericamente, resta a0, cioè dal punto di vista algebrico, l’unità stessa, il che identifica quantitativamente il punto a questa unità.
È dunque un errore credere, come ritengono taluni, che il punto possa corrispondere numericamente allo zero, poiché il punto costituisce già un’affermazione, quella dell’Essere puro (in tutta la sua universalità); indubbiamente il punto non ha alcuna dimensione, perché, in se stesso, non è affatto situato nello spazio, il quale, come abbiamo visto, contiene solamente l’indefinità delle sue manifestazioni (o delle sue determinazioni particolari); il punto, non avendo dimensioni, non ha neppure una forma; ma dire che è informale non vuole affatto dire che esso sia nulla (poiché così viene considerato lo zero da coloro che lo assimilano al punto), e del resto, sebbene sia senza forma, esso contiene in potenza lo spazio, il quale, realizzato in atto, sarà a sua volta il contenente di tutte le forme (nel mondo fisico almeno)[23].
Abbiamo detto che l’estensione esiste in atto dal momento che il punto si è manifestato esteriorizzandosi, poiché esso l’ha proprio in tal modo realizzata; ma non bisogna credere che ciò conferisca all’estensione un inizio temporale, perché si tratta di un punto di partenza puramente logico, di un inizio ideale dell’estensione compresa nella sua integralità (e non limitata alla sola estensione corporea)[24]. Il tempo interviene solo quando si considerano le due posizioni del punto come successive, mentre che, d’altra parte, la relazione di causalità esistente tra loro implica la loro simultaneità; e, sempre considerando questa prima differenziazione sotto l’aspetto della successione, cioè in modo temporale, la distanza che ne risulta (come intermediaria tra il punto principiale e la sua riflessione esteriore, il primo essendo supposto essersi immediatamente situato di fronte alla seconda)[25] può esser considerata come misurante l’ampiezza del movimento vibratorio elementare di cui abbiamo parlato in precedenza.
Tuttavia, se la simultaneità e la successione non coesistessero, il movimento stesso non sarebbe possibile, perché, in tal caso, o il punto mobile (o almeno considerato tale nel corso del suo processo di modificazione) sarebbe là ove non è, il che è assurdo, o non sarebbe in nessun luogo, il che equivale a dire che non vi sarebbe attualmente alcun spazio in cui il movimento possa prodursi di fatto[26].
È a ciò che si riducono insomma tutte le argomentazioni che sono state avanzate contro la possibilità del movimento, in specie da parte di certi filosofi greci; questo problema è d’altronde uno di quelli che più mettono in imbarazzo gli studiosi e i filosofi moderni. La sua soluzione è tuttavia molto semplice, ed è data, come l’abbiamo già indicato altrove, dalla coesistenza della successione e della simultaneità: successione nelle modalità della manifestazione, nello stato «attuale», ma simultaneità in principio, nello stato «potenziale», le quali rendono possibile la concatenazione logica delle cause e degli effetti (essendo ogni effetto implicito e contenuto in potenza nella sua causa, la quale non è per nulla alterata o modificata dall’attuazione di questo effetto)[27]. Dal punto di vista fisico, la nozione di successione è connessa alla condizione temporale, e quella della simultaneità alla condizione spaziale[28]; è il movimento, risultante, nel suo passaggio dalla potenza all’atto, dall’unione di queste due condizioni, che concilia (o equilibra) le suddette due nozioni, facendo coesistere, in modo simultaneo dal punto di vista puramente spaziale (il quale è essenzialmente statico), un corpo (l’identità essendo così conservata attraverso tutte le modificazioni, contrariamente a quanto sostenuto dalla teoria buddista della «dissoluzione totale») in una serie indefinita di posizioni (le quali sono altrettante modificazioni di questo stesso corpo, accidentali e contingenti rispetto a ciò che costituisce la sua realtà intima, sia sostanziale che essenziale), posizioni che sono del resto successive dal punto di vista temporale (il quale è cinetico nella sua relazione con quello spaziale)[29].
D’altra parte, poiché il movimento «attuale» suppone il tempo e la sua coesistenza con lo spazio, dobbiamo rilevare quanto segue: un corpo può muoversi secondo l’una o l’altra delle tre dimensioni dello spazio, o secondo una direzione che è una combinazione di queste tre dimensioni, perché, qualunque sia la direzione (fissa o variabile) del suo movimento, essa può sempre essere ricondotta ad un insieme più o meno complesso di componenti dirette secondo i tre assi di coordinate cui può essere riferito lo spazio considerato; inoltre, in tutti i casi, questo corpo si muove sempre e necessariamente nel tempo. Di conseguenza, se si passa dalla successione alla simultaneità, il tempo diventerà un’altra dimensione dello spazio; in altri termini, sopprimere la condizione temporale equivale ad aggiungere una dimensione supplementare allo spazio fisico, di cui il nuovo spazio così ottenuto costituisce un prolungamento o un’estensione. Questa quarta dimensione corrisponde dunque all’«onnipresenza» nel dominio considerato, ed è mediante questa trasposizione nel «non-tempo» che si può concepire la «permanente attualità» dell’Universo manifestato; in tal modo si spiegano anche (tenendo presente d’altronde che tutte le modificazioni non possono assimilarsi al movimento, il quale è solo una modificazione esteriore di un ordine particolare) tutti i fenomeni che sono comunemente considerati miracolosi o sovrannaturali[30], e a torto, poiché essi appartengono pur sempre al dominio della nostra individualità attuale (in una o l’altra delle sue molteplici modalità, quella corporea costituendone solo una), dominio di cui la concezione del «tempo immobile» ci permette di comprenderne integralmente l’intera indefinità[31].
Ritorniamo ora alla concezione del punto occupante tutta l’estensione con l’indefinità delle sue manifestazioni, cioè delle sue molteplici e contingenti modificazioni. Sotto l’aspetto dinamico[32], queste devono considerarsi, nell’estensione (di cui esse sono tutti i punti), come altrettanti centri di forza (ognuno dei quali è potenzialmente il centro stesso dell’estensione), la forza non essendo nient’altro che l’affermazione (in modo manifestato) della volontà dell’Essere, simboleggiato dal punto, volontà che, in senso universale, costituisce la sua potenza attiva o la sua «energia produttrice», la sua Shakti[33], ad esso indissolubilmente unita, e esercitantesi sul dominio d’attività dell’Essere, cioè, sull’estensione stessa considerata passivamente o sotto l’aspetto statico (come campo d’azione di uno di questi centri di forza)[34]. Così, in tutte le sue manifestazioni e in ognuna di esse, il punto può essere riguardato (rispetto a queste manifestazioni) come polarizzandosi in modo attivo e passivo, o, se si preferisce, in modo diretto o riflesso[35]; l’aspetto dinamico, attivo o diretto, corrisponde all’essenza, mentre l’aspetto statico, passivo o riflesso, corrisponde alla sostanza[36]; ma, beninteso, la considerazione di questi due aspetti (tra loro complementari) in ogni modalità della manifestazione non altera per nulla l’unità del punto principiale (né quella dell’Essere di cui esso è il simbolo); e ciò permette di concepire nettamente l’identità fondamentale dell’essenza e della sostanza, che sono, come abbiamo detto all’inizio di questo studio, i due poli della manifestazione universale.
L’estensione, nel nostro mondo fisico, dal punto di vista sostanziale, non è affatto distinta dall’Etere primordiale (Âkâsha) fintantoché non si produce un movimento complesso determinante una differenziazione formale; ma l’indefinità delle combinazioni possibili dei movimenti dà luogo in seguito, in questa estensione, all’indefinità delle forme producentesi tutte per differenziazione, come abbiamo già detto, a partire dalla forma sferica originaria. Il movimento, dal punto di vista fisico, è il necessario fattore di ogni differenziazione, dunque la condizione di tutte le manifestazioni formali, e anche, simultaneamente, di tutte le manifestazioni vitali, essendo, nel dominio qui considerato, le une e le altre sottoposte ugualmente al tempo e allo spazio, e presupponendo d’altra parte, un «substratum» materiale, sul quale si esercita quell’attività che si traduce fisicamente con il movimento.
È opportuno precisare che tutte le forme corporee sono necessariamente viventi, poiché la vita, come la forma, è una condizione propria di ogni esistenza fisica[37]; la vita fisica comporta del resto una indefinità di gradi, e le sue suddivisioni generali, dal nostro punto di vista terrestre almeno, corrispondono ai regni minerale, vegetale e animale (ma le distinzioni che si fanno tra loro non hanno che un valore del tutto relativo)[38]. Ne consegue che, in questo dominio, qualsiasi forma è sempre in uno stato di movimento o di attività, che manifesta una sua propria vita, ed è solamente mediante un’astrazione concettuale che essa può essere ritenuta statica o in riposo[39].
Mediante la mobilità, la forma si manifesta fisicamente e si rivela ai nostri sensi, e, così come la mobilità è la natura caratteristica dell’Aria (Vâyu), così il tatto è il senso che le corrisponde propriamente, poiché è mediante il tatto che percepiamo la forma in modo generale[40]. Tuttavia, questo senso, a motivo del suo modo limitato di percezione, che avviene esclusivamente per contatto, non può darci ancora direttamente ed immediatamente la nozione integrale dell’estensione corporea (a tre dimensioni)[41], la quale spetterà solo al senso della vista; sennonché l’esistenza attuale di questa estensione è già sottintesa da quella della forma, poiché quest’ultima ne condiziona la manifestazione, per lo meno nel mondo fisico[42].
D’altra parte, procedendo l’Aria dall’Etere, il suono è pure in essa percepibile. Poiché il movimento differenziato implica, come abbiamo già visto, la distinzione delle direzioni dello spazio, la funzione dell’Aria nella percezione del suono, a parte la sua qualità di ambiente in cui si amplificano le vibrazioni eteriche, consisterà principalmente nel farci riconoscere la direzione verso la quale questo suono si propaga rispetto alla situazione attuale del nostro corpo. Nell’organo fisiologico dell’udito, la parte connessa alla percezione della direzione (percezione che diventa effettivamente completa solo con la nozione dell’estensione a tre dimensioni) è costituita dai «canali semi-circolari», i quali sono proprio orientati secondo le tre dimensioni dello spazio fisico[43].
Infine, a prescindere dalle sue qualità sensibili, l’Aria è l’ambiente sostanziale donde procede il soffio vitale (prâna): per questo motivo le cinque fasi della respirazione e dell’assimilazione, che sono modalità o aspetti del soffio vitale, vengono nel loro insieme identificate a Vâyu: è questa la funzione particolare dell’Aria in relazione alla vita. Constatiamo dunque che, anche per questo elemento come per il precedente, abbiamo dovuto prendere in considerazione, come avevamo previsto, la totalità delle cinque condizioni dell’esistenza corporea e le loro reciproche relazioni; lo stesso sarà per ciascuno degli altri tre elementi procedenti dai due primi, e di cui dobbiamo ora occuparci.

(la redazione del testo non fu completata)



[1] I cinque tanmâtra non si possono tuttavia ritenere manifestati da queste condizioni, non più che dagli elementi e dalle qualità sensibili a questi corrispondenti; ma, al contrario, è dai cinque tanmâtra (in quanto principio, supporto e fine) che sono manifestate tutte queste cose, così come tutto ciò che risulta dalle loro indefinite combinazioni.
[2] Ciascuno di questi elementi primitivi viene denominato bhûta, da bhû, «essere», più particolarmente con il senso di «sussistere»; questo termine bhûta implica dunque una determinazione sostanziale, che ben corrisponde, in effetti, alla nozione di elemento corporeo.
[3] L’origine dell’Etere e dell’Aria, non è menzionata nel testo dei Vêda dove si parla della genesi degli altri tre elementi (Chhândogha Upanishad), ma è indicata in un altro passaggio (Taittiriyaka Upanishad).
[4] In effetti, non possiamo pensare in nessun modo di accettare una concezione del genere di quella della «statua ideale» che ha immaginato Condillac nel suo Traité des Sensations.
[5] Particolarmente le scuole Jaina, Bauddha e Charvaka, con le quali la maggior parte dei filosofi atomisti greci concorda su questo punto; è necessario tuttavia fare un’eccezione per Empedocle, il quale ammette i cinque elementi, ma li suppone nel seguente ordine di sviluppo: l’Etere, il Fuoco, la Terra, l’Acqua e l’Aria; non vi insisteremo oltre, perché non ci proponiamo d’esaminare qui le opinioni delle varie scuole greche di «filosofia fisica».
[6] La mancanza d’espressioni adeguate, nelle lingue occidentali, costituisce sovente una grande difficoltà per l’esposizione del pensiero metafisico, come abbiamo già più volte fatto notare.
[7] «L’Etere, che è diffuso dappertutto, penetra nello stesso tempo l’esteriore e l’interiore delle cose» (Shankarâchârya, citato nel nostro studio Il Demiurgo).
[8] Ciò potrebbe anche essere avvalorato da diverse considerazioni d’ordine embriologico, che ci allontanerebbero troppo dal nostro argomento, per cui ci limitiamo a questo semplice accenno.
[9] Tuttavia, sia ben chiaro che il movimento non può cominciare, nelle condizioni spaziale e temporale che ne rendono possibile la produzione, che per l’azione (attività esteriorizzata, in modo riflesso) d’una causa principiale la quale è indipendente da queste condizioni (vedere oltre).
[10] La velocità, in un movimento qualsiasi, è in ogni momento il rapporto tra lo spazio percorso ed il tempo impiegato a percorrerlo; e in questa formula generale, tale rapporto (costante o variabile a seconda che il movimento sia o no uniforme) esprime la legge determinante del movimento considerato (vedere più oltre).
[11] Invero esso possiede in potenza le altre qualità sensibili, ma indirettamente, poiché non le può manifestare, ovvero produrle in atto, che mediante differenti complesse modificazioni (l’amplificazione non costituendone al contrario che una modificazione semplice, la prima di tutte).
[12] D’altronde, questa qualità sonora appartiene pure agli altri quattro elementi, non più come qualità propria o caratteristica, ma in quanto essi procedono tutti dall’Etere; ogni elemento, procedendo immediatamente da quello che vien prima nella serie del loro sviluppo, è percepibile dai sensi corrispondenti ai precedenti elementi e, in più dal senso che corrisponde alla sua propria natura particolare.
[13] Questo carattere è implicito per la presenza della materia fra le condizioni dell’esistenza fisica; ma per realizzare la misura, è allo spazio che dobbiamo rapportare tutte le altre condizioni, così come abbiamo visto per il tempo; noi misuriamo anche la materia con la divisione, ed essa non è divisibile se non in quanto è estesa, cioè situata nello spazio (vedere più avanti per la dimostrazione dell’assurdità della teoria atomista).
[14] Nel senso matematico di quantità variabile dipendente da un’altra.
[15] È la formula della velocità, di cui abbiamo parlato precedentemente, e che, considerata in ogni istante (cioè in funzione di variazioni infinitesimali del tempo e dello spazio) rappresenta la derivata dello spazio rispetto al tempo.
[16] Ciò è chiaramente espresso nel simbolismo biblico in una sua speciale applicazione cosmogonica al mondo fisico: Qaïn («il forte e possente trasformatore, colui che centralizza, afferra e assimila a sé») corrisponde al tempo, Habel («il dolce e pacifico liberatore, colui che libera e distende, che evapora, che sfugge dal centro») allo spazio, e Sheth («la base e il fondo delle cose») al movimento (vedere le opere di Fabre d’Olivet). La nascita di Qaïn precede quella d’Habel, cioè la manifestazione percettibile del tempo precede (logicamente), quella dello spazio, così come il suono è la qualità sensibile che si sviluppa per prima. L’assassinio d’Habel da parte di Qaïn rappresenta allora la distruzione apparente, nell’esteriorità delle cose, della simultaneità da parte della successione; la nascita di Sheth è consecutiva a questo assassinio e come condizionata da ciò che esso rappresenta. Tuttavia Sheth, o il movimento, non procede affatto da Qaïn e da Habel, o dal tempo e dallo spazio, benché la sua manifestazione sia una conseguenza dell’azione dell’uno sull’altro (considerando allora lo spazio passivo rispetto al tempo); ma, come essi, nasce da Adam stesso, cioè procede direttamente, come essi, dall’esteriorizzazione delle potenze dell’Uomo Universale, che l’ha, come dice Fabre d’Olivet, «generato, per mezzo della sua facoltà assimilatrice, nella sua ombra riflessa».
Il tempo, nei suoi tre aspetti di passato, presente e futuro, unisce tra loro tutte le modificazioni, considerate come successive, di ciascuno degli esseri ch’esso conduce, attraverso la Corrente delle Forme, verso la Trasformazione finale; analogamente, Shiva, sotto l’aspetto di Mahâdêva, dai tre occhi e brandendo il trishûla (tridente), si tiene al centro della Ruota delle Cose. Lo spazio prodotto dall’espansione delle potenzialità del punto principiale e centrale, fa coesistere nella sua unità la molteplicità delle cose, che, considerate (esteriormente e analiticamente) come simultanee, sono tutte contenute in esso e penetrate dall’Etere che le riempie interamente; similmente Vishnu, sotto l’aspetto di Vâsudêva, manifesta le cose, penetrandole nella loro essenza intima, con molteplici modificazioni, ripartite sulla circonferenza della Ruota delle Cose, senza che l’unità della sua Essenza suprema ne sia alterata (cfr. Bhagavad-Gîtâ, X). Infine, il movimento, o meglio il «mutamento» è la legge di ogni modificazione o diversificazione nel manifestato, legge ciclica ed evolutiva, che manifesta Prajâpati, o Brahmâ considerato come «il Signore delle Creature», che è anche «il Sostanziatore e il Sostenitore organico».
[17] Ma non nel senso in cui l’intende Spinoza.
[18] Cfr. il dogma dell’«Immacolata Concezione» (vedere: Abdul Hadi, Pages dediées à Mercure, «Études Traditionnelles» d’agosto e settembre 1946).
[19] Vedere Le Demiurge (citazione dal Vêda).
[20] Questa differenziazione implica anzitutto l’idea di una o più particolari direzioni nello spazio, come vedremo in seguito.
[21] La parola Vâyu deriva dalla radice verbale , andare, muoversi (che si è conservata sin nel francese: il va; mentre le radici i e , che si riferiscono alla stessa idea, si ritrovano rispettivamente nel latino ire e nell’inglese to go). Analogicamente, l’aria atmosferica, in quanto ambiente circondante il nostro corpo e percepibile dal nostro organismo, ci è resa sensibile dal suo spostamento (stato cinetico ed eterogeneo) prima che ne percepiamo la pressione (stato statico e omogeneo). Ricorderemo che Aer (dalla radice àlef, resc, la quale si riferisce più particolarmente al movimento rettilineo) significa, secondo Fabre d’Olivet, «ciò che conferisce a ogni cosa il principio del movimento».
[22] Nel dominio di manifestazione considerato, l’essenza è rappresentata dal centro (punto iniziale) e la sostanza dalla circonferenza (superficie indefinita d’espansione, terminale di questo punto); cfr. il significato geroglifico della particella ebraica «àlef-tau», formata dalla prima e ultima lettera dell’alfabeto.
[23] Ci si può render conto in modo elementare dello sviluppo delle potenzialità spaziali contenute nel punto, osservando che lo spostamento del punto genera la linea, che quello della linea genera la superficie, la quale a sua volta genera il volume. Sennonché, questa osservazione presuppone la realizzazione dell’estensione, compresa l’estensione a tre dimensioni, poiché ciascuno degli elementi successivamente presi in considerazione non può evidentemente produrre il seguente che spostandosi in una dimensione che gli è attualmente esteriore (e rispetto alla quale esso si trovava già situato); al contrario, tutti questi elementi sono realizzati simultaneamente (il tempo essendo allora fuori causa) nello e attraverso il dispiegamento originario dello sferoide indefinito e non chiuso che abbiamo considerato, dispiegamento che si effettua del resto, non in un qualsiasi spazio «attuale», ma in un puro vuoto privo di ogni attribuzione positiva, di per se stesso improduttivo, ma che, in potenza passiva, è pieno di tutto ciò che il punto contiene in potenza attiva (essendo, in qualche modo, l’aspetto negativo di ciò di cui il punto è l’aspetto positivo). Questo vuoto, saturo, in modo originariamente omogeneo ed isotropo, delle virtualità del punto principiale, sarà l’ambiente (o, se si vuole, il «luogo geometrico») di tutte le sue ulteriori modificazioni e differenziazioni, essendo quindi, rispetto alla manifestazione universale, ciò che è l’Etere per il mondo fisico. Il vuoto, così inteso, e in quella pienezza che trae integralmente dall’espansione delle potenze attive del punto (le quali costituiscono gli elementi di questa pienezza), ha una sua esistenza (diversamente, esso non sarebbe, poiché il vuoto non può essere comunemente concepito che come una «non-entità»); in tal modo, si differenzia totalmente dal «vuoto universale» (sarwa-shûnya) di cui parlano i Buddisti, i quali pretendono del resto di identificarlo con l’Etere, e ritenendo quest’ultimo come «non-sostanziale», non lo enumerano tra gli elementi corporei. D’altronde, il vero «vuoto universale» non è il vuoto che abbiamo ora considerato, il quale è suscettibile di contenere tutte le possibilità dell’Essere (simboleggiate spazialmente dalle virtualità del punto), ma, al contrario, tutto ciò che è al di fuori di esso e dove non può più esser questione né di «essenza» né di «sostanza»; esso è propriamente il Non-Essere (o lo zero metafisico) o più esattamente un aspetto di quest’ultimo, che, del resto, comprende tutto quanto, nella Possibilità totale, non è suscettibile di alcuno sviluppo in modo esteriore o manifestato e che, appunto per ciò, è assolutamente inesprimibile.
[24] Questa estensione corporea è la sola che conoscono gli astronomi, che con i loro metodi d’osservazione non ne possono studiare che una certa porzione; il che genera in loro l’illusione della pretesa «infinità dello spazio», essendo portati, a motivo di una vera miopia intellettuale a considerare «tendente all’infinito» tutto quanto è oltre la portata della loro esperienza sensibile e che tuttavia, in realtà, è solamente del semplice indefinito.
[25] Questa localizzazione implica già, d’altronde, un primo riflesso (precedente quello qui considerato), ma con il quale il punto principiale si identifica con se stesso (determinandosi) per farne il centro effettivo dell’estensione in via di attuazione, e a partire dal quale si riflette, in seguito, in tutti gli altri punti (puramente virtuali rispetto ad esso) di questa estensione che è il suo campo di manifestazione.
[26] Effettivamente, il punto è un «certo luogo» non appena si situi nello spazio (la sua potenzialità in modo passivo) per realizzarlo, cioè farlo passare dalla potenza all’atto, e si determini in questa stessa realizzazione, che ogni movimento, anche elementare, presuppone necessariamente.
[27] Leibnitz sembra aver almeno intravisto questa soluzione quando formulò la sua teoria dell’«armonia prestabilita», la quale è stata generalmente assai mal compresa da coloro che hanno voluto darne un’interpretazione.
[28] È mediante queste due nozioni (puramente ideali quando non vengano considerate da questo particolare punto di vista, dal quale solamente sono percepibili ai nostri sensi) che Leibnitz definì rispettivamente il tempo e lo spazio.
[29] È evidente che tutte queste posizioni coesistono simultaneamente in quanto luoghi situati in una medesima estensione, di cui esse costituiscono differenti porzioni (del resto quantitativamente equivalenti), tutte egualmente suscettibili di essere occupate da uno stesso corpo, il quale può essere considerato sia in ognuna di queste posizioni presa isolatamente, sia in rapporto al loro insieme, al di fuori del punto di vista temporale.
[30] Vi sono fatti che appaiono inspiegabili solo perché, per cercarne la spiegazione, non si esce dalle condizioni ordinarie del tempo fisico. Ad esempio, si sostiene che, la ricostituzione subitanea di tessuti organici lesionati, constatabile in certi casi riguardati come «miracolosi», non sia naturale, perché contraria alle leggi fisiologiche secondo cui avviene la rigenerazione di questi tessuti, la quale si opera mediante generazioni (o bipartizioni) multiple e successive di cellule, processo che esige necessariamente la collaborazione del tempo. Innanzitutto, non è provato che una ricostituzione di questo genere, anche se subitanea, sia realmente istantanea, cioè non richieda nessun tempo per prodursi, ed è possibile che, in certe circostanze, la moltiplicazione delle cellule venga resa molto più rapida che nei casi normali, sì da richiedere una durata così ridotta da non essere colta dalla nostra percezione sensibile. Inoltre, anche ammettendo che si tratti di un fenomeno veramente istantaneo, è ancora possibile che, in certe particolari condizioni, diverse da quelle ordinarie, ma nondimeno ugualmente naturali, questo fenomeno si compia in effetti fuori del tempo (il che implica l’«istantaneità» in questione, la quale, nei casi considerati, equivale alla simultaneità delle bipartizioni cellulari multiple, o almeno si traduce così nella sua corrispondenza corporea o fisiologica), o, se si preferisce, si compia nel «non-tempo», mentre che, nelle condizioni ordinarie, si compie nel tempo. Non vi sarebbe miracolo per chi potesse comprendere nel suo vero senso e risolvere il seguente problema, molto più paradossale in apparenza che in realtà: «com’è possibile, pur vivendo nel presente, far sì che un avvenimento che si produsse nel passato non abbia avuto luogo?». Ed è essenziale sottolineare che ciò (che non è più impossibile a priori che impedire presentemente la realizzazione di un avvenimento nel futuro, poiché il rapporto di successione non è un rapporto causale) non implica affatto un ritorno nel passato in quanto tale (ritorno che sarebbe una impossibilità, così come lo sarebbe pure un trasferimento nel futuro in quanto tale), poiché non vi è evidentemente né passato, né futuro rispetto all’«eterno presente».
[31] A questo proposito, possiamo fare un’altra osservazione sulla rappresentazione numerica di questa indefinità (continuando a considerarla come simbolo spaziale): la linea è misurata, ossia rappresentata quantitativamente, da un numero a alla prima potenza; poiché la sua misura s’effettua prendendo la divisione decimale come base, si può porre a = 10 n, Per cui si avrà per la superficie: a2 = 100 n2, e per il volume: a3 = 1.000 n3; per l’estensione a quattro dimensioni, occorrerà aggiungere un fattore a, e si avrà: a4 = 10.000 n4. Del resto, si può dire che tutte le potenze di 10 sono contenute virtualmente nella sua quarta potenza, così come il Denario, manifestazione completa dell’Unità, è contenuto nel Quaternario.
[32] Occorre notare che «dinamico» non è affatto sinonimo di «cinetico»; il movimento può esser considerato come la conseguenza di una certa azione della forza (rendendo così questa azione misurabile con un corrispettivo spaziale, che permette di definirne l’intensità), ma non può identificarsi a questa stessa forza; d’altronde, in altre modalità e in altre condizioni, la forza (o la volontà) in azione produce evidentemente tutt’altra cosa che il movimento, poiché, come l’abbiamo già notato, questo costituisce solo un caso particolare tra le indefinite possibili modificazioni comprese nel mondo esteriore, cioè nell’insieme della manifestazione universale.
[33] Questa potenza attiva può d’altronde esser colta sotto diversi aspetti: come potere creatore, essa viene chiamata Kriyâ-Shakti, mentre è denominata Jnâna-Shakti come potere di conoscenza, e Ichchhâ-Shakti, come potere di desiderio, e così di seguito, considerando l’indefinita molteplicità degli attributi manifestati dall’Essere nel mondo esteriore, ma senza frazionare, nelle pluralità di questi aspetti, l’unità della Potenza Universale, la quale è necessariamente correlativa alla unità essenziale dell’Essere e dettata da questa stessa unità. – Nell’ordine psicologico, questa potenza attiva è rappresentata da àlef, scin, tau, la «facoltà volitiva» di àlef, jod, scin, l’«uomo intellettuale» (vedere Fabre d’Olivet, La Langue hébraïque restituée).
[34] La Possibilità Universale, considerata, nella sua unità integrale (ma, beninteso, con riferimento alle sole possibilità di manifestazione), come l’aspetto femminile dell’Essere (il cui aspetto maschile è Purusha, che è l’Essere stesso nella sua identità suprema e «non-agente»), si polarizza dunque in potenza attiva (Shakti) e potenza passiva (Prakriti).
[35] Ma questa polarizzazione resterà potenziale (dunque del tutto ideale, e non sensibile) fintantoché non esamineremo il complementarismo attuale del Fuoco e dell’Acqua (restando entrambi, del resto, polarizzati in potenza); prima, i due aspetti attivo e passivo possono essere dissociati solo concettualmente, poiché l’aria è ancora un elemento neutro.
[36] Di ogni punto dell’estensione, l’aspetto statico è riflesso rispetto a quello dinamico, il quale è diretto in quanto partecipa immediatamente dell’essenza del punto principiale (il che implica una identificazione); quest’ultimo aspetto, tuttavia è riflesso rispetto al punto principiale considerato di per se stesso nella sua indivisibile unità; non bisogna mai perdere di vista che la considerazione dell’attività e delle passività implica sempre una relazione o un rapporto tra due termini reciprocamente complementari.
[37] Sia ben inteso che, reciprocamente, la vita, nel mondo fisico, non può manifestarsi altrimenti che nelle forme: ma ciò non toglie che sia possibile una vita informale al di fuori di questo mondo fisico; non è tuttavia legittimo considerare la vita, sia pure in tutta l’indefinità della sua estensione, come qualcosa di più d’una possibilità contingente paragonabile a tutte le altre, e intervenente, allo stesso titolo di queste altre, nella determinazione di certi stati individuali degli esseri manifestati, stati che procedono da certi aspetti particolareggiati e rifratti dell’Essere Universale.
[38] È impossibile determinare i caratteri che permettono di stabilire distinzioni certe e precise tra questi tre regni, i quali sembra che abbiano dei punti di contatto soprattutto nelle loro forme più elementari, embrionali in qualche modo.
[39] Appare dunque sufficientemente chiaro cosa bisogna pensare, dal punto di vista fisico, del preteso «principio dell’inizio della materia»: la materia veramente inerte, cioè priva di ogni attribuzione o proprietà attuale, quindi indistinta e indifferenziata, pura potenza passiva e ricettiva sulla quale si esercita una attività di cui essa non è affatto la causa, è concepibile, lo ripetiamo ancora, solo in quanto la si riguardi separatamente da questa attività di cui essa non è che il «substratum» e da cui trae tutta la sua realtà attuale; questa attività (alla quale essa non si oppone che per l’effetto di un riflesso contingente che non le conferisce alcuna realtà indipendente), per reazione (a motivo di questo stesso riflesso), fa sì che sia, nelle condizioni particolari dell’esistenza fisica, il luogo di tutti i fenomeni sensibili (ed anche di altri fenomeni che non rientrano nei limiti di percezione dei nostri sensi), l’ambiente sostanziale e plastico di tutte le modificazioni corporee.
[40] È opportuno notare a questo proposito che gli organi del tatto sono ripartiti su tutta la superficie (esterna ed interna) del nostro organismo che si trova in contatto con l’ambiente atmosferico.
[41] Il contatto non può avvenire che tra due superfici (a causa della impenetrabilità della materia fisica, proprietà questa sulla quale ritorneremo in seguito), per cui la risultante percezione può dare luogo, in un modo immediato, solo alla nozione di superficie, in cui intervengono unicamente due dimensioni dell’estensione.
[42] Dobbiamo fare questa restrizione per non limitare le indefinite possibilità delle combinazioni delle diverse condizioni contingenti d’esistenza, e in particolare di quelle dell’esistenza corporea, le quali si trovano riunite in un modo necessariamente costante solo nel dominio di questa speciale modalità.
[43] Ciò spiega perché è detto che le direzioni dello spazio sono le orecchie di Vaishwânara.

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