René Guénon
«Conosci te stesso» *
* Articolo, tradotto dall’autore dall’arabo, pubblicato nel maggio 1931 nella rivista El-Maarifa, alla quale René Guénon collaborò per breve tempo all’inizio del periodo trascorso in Egitto. (Rivista di Studi Tradizionali n. 23)
Si cita abitualmente la frase «Conosci te stesso», ma spesso se ne perde di vista l’esatto significato. La confusione che regna riguardo a questa espressione è eliminabile risolvendo due questioni: quella riguardante la sua origine e quella relativa al suo senso reale ed alla sua ragion d’essere. Alcuni lettori potrebbero pensare che le due questioni siano affatto distinte e che non abbiano tra loro nessuna relazione. Riflettendovi, e dopo attento esame, apparirà chiaramente che esse sono invece in stretto rapporto.
Se si domandasse a coloro che hanno studiato la filosofia greca chi fu l’uomo a pronunciare per primo queste sagge parole, i più non esiterebbero a rispondere che fu Socrate, mentre altri vorrebbero attribuirle a Platone ed altri ancora a Pitagora. Di fronte a questi pareri discordi e divergenze di opinione, abbiamo il diritto di
concludere che questa frase non ha per autore nessuno di questi filosofi e che quindi bisogna cercarne l’origine altrove. Ci sembra giusto arrivare a tale conclusione tenendo anche conto del fatto che due di questi filosofi, Pitagora e Socrate, non hanno lasciato alcun scritto.
Quanto a Platone, nessun studioso di filosofia, per quanto estesa sia la sua competenza, sarebbe in grado di distinguere ciò che è stato detto da lui oppure dal suo maestro Socrate. Quasi tutta la dottrina di quest’ultimo ci è pervenuta attraverso Platone, ed inoltre si sa che è proprio dall’insegnamento di Pitagora che Platone ha tratto alcune delle conoscenze di cui fa mostra nei suoi dialoghi. Con ciò vediamo quanto sia difficile stabilire qual parte spetti a ciascuno dei tre filosofi. Quel che si attribuisce a Platone è spesso attribuito anche a Socrate; inoltre, delle teorie considerate, alcune sono anteriori a entrambi e provengono dalla scuola di Pitagora o da Pitagora stesso.
A dire il vero, l’origine dell’espressione che stiamo considerando è ben anteriore a questi tre filosofi; anzi, essa è ancora più antica della storia della filosofia, non solo, ma si trova addirittura al di là dei confini della ricerca filosofica.
Si dice che queste parole fossero scritte sul frontone del tempio d’Apollo a Delfo. Esse furono in seguito adottate da Socrate ed anche da altri filosofi come uno dei principi del loro insegnamento, nonostante la differenza che poté esistere tra questi diversi insegnamenti ed i fini perseguiti dalle varie scuole. È d’altronde probabile che, prima di Socrate, anche Pitagora avesse impiegato questa espressione. Con ciò questi filosofi si proponevano di mostrare che il loro insegnamento non era un insegnamento strettamente personale, risalendo esso ad un’epoca più antica e ad una visione più elevata, in stretta relazione con la sorgente stessa dell’ispirazione originaria, spontanea e divina. Essi erano cioè molto diversi dai filosofi moderni, i quali impiegano tutti i loro sforzi per esprimere qualche cosa di nuovo al fine di presentarlo come una creazione del proprio pensiero e di apparire come i soli autori delle loro opinioni, quasi la verità potesse essere la proprietà di un uomo.
Vediamo ora perché i filosofi dell’antichità hanno voluto far risalire il loro insegnamento a questa espressione, o ad altre analoghe, e perché si può affermare che questa massima appartiene ad un ordine di realtà superiore alla filosofia. Per rispondere alla seconda parte della questione, diremo che la risposta si trova nel senso originario ed etimologico del termine «filosofia», che si dice fosse stato impiegato per la prima volta da Pitagora. La parola filosofia esprime propriamente il fatto di amare sophia, la saggezza, l’ispirazione ad essa, o la disposizione richiesta per ottenerla.
Questa parola è sempre stata impiegata per qualificare una preparazione a questa acquisizione della saggezza, ed in particolar modo gli studi che potevano aiutare il philosophos, o chi aveva per essa una certa attitudine, a diventare sophos, cioè saggio.
Così come il mezzo non può essere preso per un fine, analogamente l’amore per la saggezza non può costituire la saggezza stessa. E poiché la saggezza è di per sé identica alla vera conoscenza interiore, si può dire che la conoscenza filosofica non è che una conoscenza superficiale ed esteriore. Essa non ha dunque in sé e per sé un valore proprio. Essa costituisce solamente un primo grado nella via della conoscenza superiore ed effettiva che è la saggezza.
È ben noto a chi abbia studiato i filosofi antichi che questi disponevano di due specie di insegnamento, l’uno exoterico e l’altro esoterico. Tutto quanto si poneva per iscritto apparteneva solamente al primo. Quanto al secondo è impossibile conoscerne esattamente la natura, sia perché era riservato solo a certuni, sia perché aveva un carattere segreto; caratteristiche queste che non avrebbero avuto una ragione d’essere se non si fosse trattato di qualche cosa superiore alla semplice filosofia.
Si può perlomeno ritenere che questo insegnamento esoterico fosse in stretta e diretta relazione con la saggezza e non si rivolgesse solamente alla ragione o alla logica, com’è nel caso della filosofia, la quale appunto per ciò è sinonimo di conoscenza razionale. I filosofi dell’antichità ammettevano che la conoscenza razionale, cioè la filosofia, non rappresentasse il più elevato grado di conoscenza, cioè la saggezza.
Forse che la saggezza può essere insegnata, come la conoscenza esteriore, mediante le parole o i libri? Ciò è realmente impossibile, e ne vedremo il motivo. Ma possiamo già affermare che la preparazione filosofica non era sufficiente, neanche come semplice preparazione, poiché essa non riguarda che una facoltà limitata quale la ragione, mentre la saggezza è inerente alla realtà dell’essere come totalità.
Esiste dunque una preparazione alla saggezza superiore alla filosofia, che non si rivolge alla ragione, ma all’anima ed allo spirito, e che potremmo chiamare preparazione interiore; e sembra che essa abbia caratterizzato i più alti gradi della scuola di Pitagora. Essa ha esteso la sua influenza, attraverso la scuola di Platone, sino al neo-platonismo della scuola alessandrina, nel quale essa riappare chiaramente, così come presso i neo-pitagorici della stessa epoca.
Anche se per questa preparazione interiore si impiegavano ancora parole, queste non potevano più essere intese se non come simboli destinati a fissare la contemplazione interiore. L’uomo aveva così accesso a certi stati che gli permettevano di andare al di là della conoscenza discorsiva alla quale era anteriormente pervenuto, e, essendo ciò al di sopra della ragione, anch’egli si trovava al di sopra della filosofia, poiché il termine «filosofia» fu sempre impiegato per designare qualche cosa appartenente al solo dominio della ragione.
Tuttavia è sorprendente che i moderni, considerino la filosofia, così definita, come se fosse di per se stessa sufficiente, dimenticando in tal modo ciò che vi è di più elevato.
L’insegnamento esoterico esisteva già nei paesi dell’Oriente prima di diffondersi in Grecia ove fu designato dal termine «misteri». I primi filosofi, in particolare Pitagora, vi ricollegavano il loro insegnamento, non essendo esso che un’espressione nuova di idee antiche. Esistevano più sorta di misteri aventi diverse origini. Quelli che ispirarono Pitagora e Platone erano in rapporto con il culto di Apollo. I «misteri» ebbero sempre un carattere riservato e segreto (la stessa parola mistero etimologicamente significa silenzio totale), le cose alle quali essi si riferivano non potendo essere espresse con parole, ma solamente insegnate con un metodo basato sul silenzio. Ma i moderni, ignorando qualsiasi altro metodo che non sia quello implicante l’uso di parole, e che potremmo chiamare il metodo dell’insegnamento exoterico, hanno erroneamente ritenuto che nei misteri non vi fosse insegnamento alcuno.
Possiamo affermare che questo insegnamento silenzioso si serviva di immagini, simboli ed altri mezzi, aventi lo scopo di condurre l’uomo a stati interiori che gli permettevano di pervenire gradualmente alla conoscenza effettiva; cioè alla saggezza.
Quanto ai «misteri» ricollegati al culto di Apollo e ad Apollo stesso, occorre tener presente che egli era il dio del sole e della luce, essendo questa, in senso spirituale, la sorgente di ogni conoscenza così come delle scienze e delle arti.
Si dice che il culto di Apollo fosse venuto dal nord, come è tramandato da una tradizione molto antica che si ritrova in libri sacri quali il Vêda indù e l’Avesta persiano.
Questa origine nordica era anche riferita più particolarmente a Delfo, che si diceva fosse un centro spirituale universale; c’era infatti nel suo tempio una pietra chiamata omphalos, simboleggiante il centro del mondo.
Si ritiene che la funzione di Pitagora ed il suo nome stesso abbiano un legame certo con il culto di Apollo. Quest’ultimo era chiamato Pythios, ed è detto che Pytho era il nome originale di Delfo. La donna che riceveva l’ispirazione degli Dei nel tempio si chiamava Pizia. Il nome di Pitagora significa dunque guida della Pizia, il che si applica anche ad Apollo. Si racconta pure che fu la Pizia a dichiarare che Socrate era il più saggio degli uomini. Sembra con ciò che Socrate avesse un legame con il centro spirituale di Delfo, così come Pitagora.
Aggiungiamo che se tutte le scienze erano attribuite ad Apollo, ciò avveniva ancor più particolarmente per la geometria e la medicina. Nella scuola pitagorica, la geometria e tutte le diverse scienze matematiche occupavano il primo posto nella preparazione della conoscenza superiore. Proprio in vista di questa conoscenza, tali scienze non erano affatto trascurate, venendo impiegate come simboli della verità spirituale. Anche Platone considerava la geometria un’indispensabile preparazione per ogni altro insegnamento, e, sulla porta della sua scuola, aveva fatto scrivere le parole: «Nessuno può entrare qui se non è geometra». Il senso di tali parole diventa evidente raffrontandolo con un’altra affermazione dello stesso Platone: «Dio fa sempre della geometria» e tenendo presente che Platone, parlando di Dio come geometra, faceva ancora allusione ad Apollo.
Non ci si deve dunque stupire che i filosofi dell’antichità abbiano utilizzato la frase scolpita sul frontone del tempio di Delfo, poiché ora sappiamo dei legami che li ricollegavano ai riti ed al simbolismo di Apollo.
Dopo quanto abbiamo detto possiamo facilmente comprendere il vero significato della frase qui studiata ed il perché dell’erronea interpretazione dei moderni. Quest’ultima è dovuta al fatto che essi considerano la massima in questione come la semplice osservazione di un filosofo al quale, naturalmente, attribuiscono un modo di pensare analogo al loro. Ma in realtà il pensiero antico differiva profondamente dal pensiero moderno. Molti intendono questa frase in un senso psicologico; ma quel che essi chiamano psicologia consiste unicamente nello studio dei fenomeni mentali, i quali non sono che modificazioni esteriori ‑ e non essenziali ‑ dell’essere.
Altri, soprattutto tra coloro che attribuiscono la massima a Socrate, vi vedono una preoccupazione d’ordine morale. Tutte queste interpretazioni «esteriori», pur non essendo completamente false, non giustificano il carattere sacro che la frase aveva all’origine, il quale implica invece un significato molto più profondo di quello che si vorrebbe così attribuirle. Essa significa anzitutto che nessun insegnamento exoterico può dare quella conoscenza reale che l’uomo deve ricercare solamente in se stesso, poiché ogni conoscenza non può essere acquisita che mediante una comprensione personale.
Senza questa comprensione nessun insegnamento può condurre ad un risultato efficace, e l’insegnamento che non suscita in colui che lo riceve una risonanza personale non può procurare alcuna specie di conoscenza. Per questo motivo Platone dice che «tutto ciò che l’uomo impara è già in lui». Tutte le esperienze e tutto quel che lo circonda non sono che occasioni per aiutarlo a prender coscienza di ciò che ha dentro di sé. Questo risveglio viene chiamato da Platone anamnésis, che significa appunto «reminiscenza».
Se questo è vero per ogni conoscenza, lo è ancor di più per una conoscenza più elevata e più profonda, e, per l’uomo che avanza verso questa conoscenza, tutti i mezzi esteriori e variabili diventano sempre più insufficienti, perdendo infine ogni utilità. Pur essendo di aiuto per avvicinarsi di qualche grado alla saggezza, tali mezzi non possono tuttavia procurare l’ottenimento della conoscenza reale, ed è per questo che nell’India si dice correntemente che il vero guru, o maestro, si trova nell’uomo stesso e non nel mondo esteriore, anche se un aiuto esteriore può essere utile, all’inizio, per preparare l’uomo a trovare in sé e da se stesso ciò che non può trovare altrove, e, in particolare, ciò che è al di là della conoscenza razionale. A tal fine, occorre realizzare certi stati interiori del proprio essere nella direzione di quel centro, simbolizzato dal cuore, dove la coscienza dell’uomo deve appunto essere trasferita onde renderlo capace di pervenire alla conoscenza reale. Questi stati erano realizzati nei misteri dell’antichità e rappresentavano i vari gradi della trasposizione dal «mentale» al cuore.
Come abbiamo detto, nel tempio di Delfo esisteva una pietra chiamata omphalos, che, per la corrispondenza esistente tra il macrocosmo ed il microcosmo, rappresentava sia il centro dell’essere umano che il centro del mondo, vale a dire l’uomo, per cui era ben noto che tutto ciò che è nell’uno è in rapporto diretto con ciò che è nell’altro. Avicenna ha detto: «Tu ti credi un nulla, ma è in te che risiede il mondo».
È curioso notare che nell’antichità era molto diffusa la credenza che l’omphalos fosse caduto dal cielo, e per avere un’idea del sentimento dei Greci nei confronti di questa pietra, diremmo che esso era somigliante a quello che noi proviamo per la sacra pietra nera della Kaabah.
La similitudine esistente tra il macrocosmo ed il microcosmo fa sì che l’uno sia l’immagine dell’altro, e la corrispondenza degli elementi che li compongono mostra che l’uomo deve per prima cosa conoscere se stesso per potere in seguito conoscere tutte le cose, poiché, in verità, può trovare dentro di sé tutte le cose. Per questo motivo, certe scienze, soprattutto quelle che facevano parte della conoscenza degli antichi e che sono quasi completamente ignorate dai nostri contemporanei, possiedono un doppio significato. Apparentemente queste scienze sì riferiscono al macrocosmo e possono venir giustamente considerate da questo punto di vista. Ma esse possiedono nello stesso tempo anche un senso più profondo, quello che concerne l’uomo stesso, nonché la via interiore mediante la quale egli può realizzare la conoscenza in se stesso, pervenendo così a una realizzazione che coincide con quella del suo proprio essere. Aristotele ha detto: «L’essere è tutto quel che egli conosce», di modo che, là ove vi è conoscenza effettiva ‑ e non la sua apparenza o la sua ombra ‑ la conoscenza e l’essere sono una sola e medesima cosa.
L’ombra, secondo Platone, è la conoscenza offerta dai sensi ed anche la conoscenza razionale, la quale, sebbene elevata, ha origine dai sensi. Quanto alla conoscenza reale, essa supera il livello della ragione, e la sua realizzazione, o la realizzazione dell’essere stesso, è simile alla formazione del mondo, in conformità alla corrispondenza di cui abbiamo dianzi parlato. Si comprende così perché certe scienze possono descrivere la reale conoscenza sotto le apparenze di tale formazione; questo doppio significato era presente negli antichi misteri, e lo si incontra anche nelle varie specie di insegnamento miranti allo stesso scopo esistenti tra i popoli dell’Oriente. Sembra che pure in Occidente questo insegnamento sia esistito per tutto il medioevo, anche se oggigiorno è completamente sparito al punto che la più parte degli Occidentali non sa più nulla della sua natura e persino della sua esistenza.
Da tutto quanto abbiamo detto appare evidente che la via che conduce alla reale conoscenza non è la ragione, ma lo spirito e l’intero essere, poiché essa non è altro che la realizzazione di questo essere in tutti i suoi stati, la quale coincide con il raggiungimento della conoscenza e l’ottenimento della saggezza suprema. In realtà, le cose che appartengono all’anima, ed anche allo spirito, rappresentano solamente gradi della via verso l’essenza intima, il vero sé, che può essere trovato unicamente quando l’essere ha raggiunto il suo proprio centro; qui, essendo tutte le sue potenze unite e concentrate in un solo punto, a tale essere appaiono tutte le cose, poiché in questo punto sono contenute come nel loro primo ed unico principio, ed allora egli può conoscere tutte le cose in se stesso e da se stesso, cioè la totalità dell’esistenza nell’unità della propria essenza.
È facile vedere quanto ciò sia lontano dalla moderna psicologia e come anzi, vada ben oltre una conoscenza più vera e più profonda dell’anima, rappresentando questa solo un primo passo. Occorre inoltre notare che la parola nafs, anche se si trova nella traduzione in arabo di «conosci te stesso», non può qui essere intesa nel significato corrente di «anima», poiché il suo equivalente greco psyché non compare nell’originale. Non si deve dunque attribuire a questa parola [nafs] il suo senso corrente, dacché è certo che essa possiede un altro significato molto più elevato che la rende assimilabile alla parola essenza e che si riferisce al Sé o all’essere reale: in un hadith, che è come un complemento della massima greca, è infatti detto: «Chi conosce se stesso, conosce il suo Signore».
Quando l’uomo conosce se stesso nella sua essenza profonda, cioè nel centro del suo essere, allora egli conosce il suo Signore, e conosce nello stesso tempo tutte le cose che da Lui vengono e a Lui ritornano. Egli conosce tutte le cose nell’unità suprema del Principio divino, al di fuori del quale, secondo le parole di Muhyiddin Ibn ‘Arabi, «non vi è assolutamente nulla che esista», poiché nulla può esistere al di fuori dell’Infinito.
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