"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

sabato 7 marzo 2015

Michel Vâlsan, Lettere di distacco da Frithjof Schuon - IV

Michel Vâlsan
Lettere di distacco da Frithjof Schuon[1]
Precedute da una lettera di René Guénon

Lettere di M. Vâlsan a F. Schuon - (Seconda lettera - Seconda parte)

(segue)
Frattanto, una tendenza alla perdita dei caratteri propriamente islamici della tarîqa stessa si riscontrava in diversi dominî:

1° - A parte l'insufficiente orientamento e formazione dottrinale dei fuqarâ in un senso islamico, la pratica dei riti ordinari e l'osservanza delle prescrizioni della Legge sacra, insomma tutto quel che costituisce la forma della vita islamica, sono stati in Svizzera e, conseguentemente, altrove, più una questione d'adattamento personale che non d'obbligazione divina.
Si potranno invocare, a questo proposito, tutte le scuse o le circostanze attenuanti che si vorranno, ma il fatto patente rimane: in Svizzera le abluzioni sono frequentemente sostituite dal tayammum’, apparentemente senza ragion sufficiente, ed i fuqarâ di Francia si son lasciati prendere da questo cattivo esempio, mentre normalmente osservavano le regole tradizionali; le preghiere quotidiane sono compiute senza nessun rigore rispetto all'orario tradizionale; il digiuno di Ramadân non è rispettato regolarmente, e quelli che lo cominciano lo interrompono per dei futili motivi, come se non dovess'essere un'opera faticosa (ce ne sono che dicono che accordate “dispense” a questo riguardo); le proibizioni di maiale e vino sono dimenticate non appena circostanze familiari o professionali provochino fastidi; peggio ancora, il rispetto da parte di altri degli stessi obblighi e delle prescrizioni che pure definiscono il musulmano, è considerato alla stregua di “formalismo exoterico” o di “sharaismo”!
Questa è evidentemente l'espressione d'uno sventurato pregiudizio “Jnanico” che mi pare essere, d'altro lato, in maniera generale causa d'una mancanza di spirito islamico della tarîqa.Le preghiere quotidiane, d'altronde, sono state ridotte al minimo obbligatorio, ed in ogni caso tutte le preghiere di sunna sono state soppresse. Mi ricordo in quali condizioni avete, nel 1948, abbandonato la “Shafa” ed il “'witr”: erano quindici anni che li facevate “seduto” con noncuranza, ed anche tutti i fuqara svizzeri. Quando, infine, foste convinto che non era normale farli in tal modo senza nessuna ragione valida, mi dichiaraste: “Ma io, non ho più bisogno di farli”. E non li faceste più. I fuqarâ svizzeri vi hanno imitato.
La “regola”, poi, si è estesa al di fuori della Svizzera ... Io stesso ero obbligato a fare queste preghiere all'insaputa dei fuqarâ per non aver l'aria, davanti ai “vostri” fedeli, di provocare “divergenze” con voi! Per tutti questi abbandoni di sunna tanto in materia di preghiere quanto in ogni altra materia, bisogna ricordare le parole dell'Inviato di Allah - su di lui il rito unitivo e quello pacificante - : “Chi abbandona la mia sunna non è dei miei!” (Man taraka sunnatî falaysa minnî). Contro una qualificazione troppo “islamica” dei fuqarâ si sentivano dalla Svizzera (soprattutto nel 1946) dei richiami di questo tipo: “Non siamo entrati nell'Islam che per uscirne!”. Un volta domandavate caritatevolmente ad un faqir francese: “Si è sempre musulmani al l00%, a Parigi?” Ed aggiungevate amabilmente: “Qui (a Losanna) s'è piuttosto indù!”. Ebbene, lo siete stato talmente tanto che un bel giorno una buona parte dei vostri discepoli svizzeri si sono decisi ad andar a vedere da più vicino il lato propriamente indù, ma sfortunatamente in quell'occasione sono “usciti” dall'Islam per davvero! A questo proposito bisogna osservare anche che i fuqarâ non sanno “pregare” in quanto musulmani; quest'è una grandissima lacuna che spiega la mancanza d'attività spirituale in molti, e l'assenza d'interesse per la loro vita islamica. Questa appare loro  (soprattutto alle donne) come un sistema di gesti astratti, di formule vuote e di quadro decorativo, cose in mezzo alle quali l'essere spirituale assiste senza partecipazione effettiva e si inaridisce. Quali che siano i privilegi dell'orazione spontanea, semplice e diretta, fatta dal profondo del cuore, ma la cui possibilità resta di fatto stesso eccezionale, c'è la necessità d'imparare a pregare bene, e vi sono delle regole speciali per la preghiera islamica. In quanto a ciò, sarebbe interessante sapere come accordare le modalità ordinarie della via d'adorazione con quelle della via di conoscenza.

2° - Preoccupato d'adattare la forma della tarîqa alle condizioni della vita in Occidente, ne avete dato una forma personale ma sensibilmente esteriore. Seguendo una delle vostre dottrine i fuqarâ europei, per il fatto di vivere in mezzo alle laidezze del mondo moderno, devono “amare il bello” e “coltivare la bellezza delle forme”. Da ciò è risultata, nel nostro ambiente, una preoccupazione, costante ed ufficiale, d'ordine estetico e decorativo che assume un'importanza d'opera meritoria e di criterio tradizionale. Ci si occupa molto, in tal modo di costumi orientali, d'ogni sorta di ornamenti (non soltanto islamici!), di tappeti, di mobili, cuscini, lampade, armi ed altri oggetti (c'è chi ha delle vere e proprie collezioni di tali cose). Correlativamente ci si occupa molto della messa in scena di tutto ciò. Una cura speciale è riservata alla documentazione artistica e fotografica, e soprattutto alla fotografia dello Shaykh in tutte le pose e tenute, nonché dei fuqarâ; è così che si giunge a mettersi in tenuta “indù”, cioè a torso e gambe nudi e ci si domanda perché mai sia necessano di farsi fotografare così, anche se si arrivava ad avere il gusto di muoversi per casa in una tale tenuta! Ma pure lasciando da parte certi eccessi universalistici al riguardo, l'importanza accordata alla forma sensibile, al decoro, all’“effetto”, procede da una certa confusione con l'idea di “forma tradizionale”. Questa è eminentemente intellettuale ed interiore, e di riflesso rituale e pratica. Essa non è che accidentalmente e soprattutto socialmente esteriore e pittoresca. È certo che per noi in Occidente il vestito tradizionale orientale e l'arredamento del luogo delle preghiere svolgono un ruolo di corazza e di sbarramento contro le suggestioni e l'invadenza della vita ordinaria non islamica e modema. Non bisogna, però, che questi supporti diventino superstizioni o nuove forme d'attaccamento a questo mondo seducente e fallace poiché, tutto ciò rimanendo in sé delle pure vanità, giungono a porre dei veli sull'autentica via spirituale.
A proposito di tutto ciò, è opportuno citare un testo di Muhy-i-Din che ricorderà il senso verso il quale deve tendere, sotto questo aspetto, la vita del faqîr. Consigliando al discepolo di fuggire la compagnia degli esseri, fa un'estensione agli oggetti stessi:
“Questa condotta sarà osservata anche per quel che concerne i vestiti e le abitazioni; quando un discepolo s'accorgerà d'amare il suo abito, lo venda e ne acquisti un altro; se non ha bisogno d'un altro abito in cambio, faccia dono di quello che ama a qualcun altro; quando amerà la sua casa, la lasci per un'altra. In modo generale non deve rimanere con una cosa che gli prende una parte del cuore. Dovrà diventare così “solitario” nell'esteriore, poiché Allah, sia Egli glorificato, non si manifesta ad un cuore che è in intimità con altri che Lui, siano essi tra gli esseri obbedienti ad Allah o tra gli altri”.
Quale che sia la differenza delle condizioni d'esistenza in un ambiente non islarnico e moderno, e l'interesse a costituirsi al contrario una certa economia individuale di forma islamica  (vesti, luogo di preghiere, ecc ... ), è certo che questo testo suggerisce che c'è un limite immediato dinanzi al quale ci si deve arrestare in questo genere d'adattamento!
D'altra parte, i fuqarâ Svizzeri e certi altri influenzati da loro, hanno un'aria sia pontificale che marziale, in ogni caso solenne; ora, ciò non può essere che la traduzione d'uno stato di spirito ben curioso, ma che non è affatto islamico. Chi sa come son fatti i veri musulmani, non manca mai d'essere colpito da questa fierezza appariscente, dall'attenzione costante per la gerarchia e dalla ricerca della “posa” e dell’“effetto”. Se ne è talmente impensieriti che non ci si può impedire di domandarsi su cosa si fondi un tale comportamento, ed in ogni caso quale ne sia il significato spirituale...

3° - Nello stesso tempo, riti ed altri elementi iniziatici della via diminuivano d'importanza o scomparivano: il “Wird” quotidiano è effettuato in versione “abbreviata”; le sedute di “dhikr in comune” cessarono nel 1946 in Svizzera e, per analogia, altrove. Contemporaneamente, stabilivate le riunioni del Venerdì (in luogo di quelle del Sabato), con dei programmi improvvisati comprendenti la recitazione dei Nomi divini, la recitazione d'un versetto coranico qualunque, la recitazione di “Muhammadun rasul Allah” ecc., programmi che, a causa della loro mancanza di consistenza tecnica e d'interesse reale, presto caddero in disuso, in Svizzera ancor prima che altrove... Ciononostante un accento importante veniva posto sull'incantazione individuale, ed in quest'accento v'era una cosa positivissima. Sfortunatamente, però, allorché la forza psichico-spirituale dell'invocatore non è sufficientemente nutrita e sostenuta dalle risorse della mentalità e della disciplina islamiche ed iniziatiche adeguate, per molti la virtù dell'invocazione s'affievolisce ed appare infine la rilassatezza e ne conseguono la mancanza di gusto e d'interesse. V'è, in ciò, un fenomeno che si può osservare non solamente in Svizzera ma anche altrove, in qualsiasi luogo in cui la regolarità islamica e l'austerità muhammadiana sono sostituite dalle “libertà” d'una mentalità dalla pretesa “jnanica” e dalle “indifferenze” d'uno spirito troppo “universalista”.

4° - Voi invece, ispirandovi alla documentazione orientale, introduceste una specie di cerimoniale ritualistico da voi inventato, che non aveva nulla in comune con il simbolismo islamico, e sprovvisto d'ogni autentico valore iniziatico. È così che abbiamo conosciuto i “Tre Oggetti”, costituiti dall'innocente assemblaggio d'un pugnale, d'un bruciaprofumi e d'un candelabro disposti a triangolo dinanzi a sé (mentre il profumo brucia, la candela illumina). Questa installazione, che comporta un'altra delle disposizioni speciali secondo i tre momenti dell'invocazione quotidiana, deve sostenere, secondo voi, per via di corrispondenti suggestioni, l'interesse dell'invocatore nel suo lavoro spirituale. Tutto ciò segna una distanza nettissima rispetto alle prescrizioni ordinarie della via che prevedono che il recitante debba cacciare dal suo spirito ogni pensiero ed ogni presenza che non sia quella d'Allah (salvo quando ne considera un simbolo diretto, come quello del Nome scritto).
Avete rinnovato persino i “Cinque Mudra”, ovvero sistema di cinque gesti compiuti all'inizio della seduta d'invocazione per attualizzare le cinque idee fondamentali dell'invocazione: in questo vi è qualcosa che deriva dall'anjâli indù e qualcosa che deriva dai gesti pontificati del cattolicesimo; quanto al resto, deriva, francamente, piuttosto dal mimodramma!
La teoria attuale relativa a dei riti-cerimonie è che voi non li “accordate” che ad alcuni fra i vostri discepoli, scelti soprattutto fra quelli che sono vostri amici personali, che vogliono approfittare della vostra “baraka personale”. Nel 1946-1947, erano state più o meno generalizzate e si facevano i Mudra addirittura in comune; più tardi la pratica è rimasta privata, ora sono riservati ad un’“élite” all'interno della tarîqa; e se è così, è perché essi hanno, secondo la vostra opinione, un valore eccezionale. Parlando dei “Tre Oggetti” e dei “Cinque Mudra”, lo Shaykh Abdu-1-Wahid Yahya li ha qualificati di “fantasie che nulla hanno a che vedere con il simbolismo tradizionale”.
A parte la vanità di queste cose prese in loro stesse, quel che mi sembra debba esser sottolineato, a causa dello spirito sincretistico ed universalista dal quale esse procedono, è la loro funzione dissolvente in relazione ai caratteri propriamente islamici della tarîqa. L'apparizione di queste cose nella tarîqa ha malauguratamente una spiegazione d'un altro ordine: è l'assenza di conoscenze tecniche propriamente islamiche. Ebbene, da parte vostra, ciò è ancor più grave di ogni altra cosa[2].
Quando a ciò voi rispondete che che i “Cinque Mudra” ed i “Tre Oggetti” sono istituiti al fine di veicolare la vostra “baraka personale”, ci si può chiedere perché mai questa baraka non può essere veicolata con dei mezzi di forma islamica, visto che voi siete musulmano e che i vostri discepoli che li utilizzano lo sono essi pure? Se dalle caratteristiche del veicolo si può dedurre la natura dell'influenza veicolata, non si potrebbe pensare che questa “baraka” non sia in realtà islamica?
Ma dato che il “rito” che veicola o attualizza questa baraka è visibilmente “sincretista”, si tratta sempre e proprio d'un'influenza d'origine spirituale piuttosto che d’un’“influenza psichica”? In quest'ultimo caso, qual è la funzione dal punto di vista iniziatico? Più precisamente, quale ruolo origina in rapporto all'influenza spirituale della silsila [Catena “genealogica” spirituale ed iniziatica, risalendo la quale si incontrano i vari passaggi tramite i quali è stata trasmessa la relativa influenza. Il primo anello è sempre il Profeta - su di lui il rito unitivo e quello pacificante. N.d.t.]? Essendo che queste non possono, nella realtà, essere divergenti, quale avrà il sopravvento? Occorre quantomeno sperare che sia la silsila... D'altronde, è quel che sembra risulti pensando al fatto che i vostri amici s'impegnano davvero a ridurre l'importanza di questi “mezzi” dicendo che i suddetti non hanno mai avuto una larga diffusione nella tarîqa, e che non se ne può fare un'obiezione fondamentale. In questo caso, tuttavia, si continua a persistere nell'attribuire a questi riti una virtù autenticamente iniziatica ed all'influenza veicolata il nome di “baraka”? Bisogna lo stesso che si sappia esattamente quel che si vuol sostenere: se si tratta di cose valide ed autentiche, si abbia il coraggio di spiegarle e legittimarle; se, invece, se ne si vuol diminuire la gravità, si riconosca chiaramente che si tratta di cose prive d'importanza intrinseca. Ma in questo caso la prima domanda che si pone è quella concernente la natura dalle “ispirazioni” donde queste invenzioni procedono. Secondo me questa è già tradita dal “sincretismo” dei riti in causa.

5° - Questa tendenza a creare dei “mezzi” o dei “supporti” al di fuori di quelli che comporta la via iniziatica nella sua forza autenticamente islamica, si manifesta inoltre nella domanda sui “temi di meditazione”, e sempre in un senso universalistico. Prima di dirvi qual è il mio pensiero esatto su alcuni punti determinati di questo problema, farò un'osservazione di carattere generale. Nella tecnica islarnica, la meditazione metodica è regolarmente legata all'incantazione dalla sua stessa forma[3]. Che si tratti della recitazione riflessiva del Corano o dell'orazione discorsiva, o soprattutto di formule da ripetere, o di nomi da invocare (continuativamente o per un determinato numero di volte) - che è il modo più caratteristico dell'incantazione iniziatica -, gli “adhkâr[plurale di “dhikr”: ricordo, menzione, invocazione, incantazione, appunto. N.d.T.] sono, in modo naturale, dei supporti anch'essi, nonché temi di meditazione e di concentrazione. Il senso del termine “dhikr” esprime bene questa doppia funzione: “ricordo” ed “incantazione”. Queste formule recano in stesse le idee che possono e devono essere attualizzate durante l'invocazione[4]; possiedono inoltre, a causa della loro appartenenza alla rivelazione sacra, le virtù segrete che permettono di sviluppare queste idee in modo organico, partendo dalla loro forma verbale e dal loro senso letterale. Il lavoro spirituale si sviluppa tanto simultaneamente quanto armoniosamente nei due aspetti di “forma” e di
“fondo” e si compie in entrambi i modi “sensibile” ed “intelligibile”; non interviene nessuna discordanza tra questa copia di fattori complementari. Si può aggiungere che una concezione intellettuale che non ha relazione necessaria con il supporto della formula d'incantazione non ha nessuna possibilità d'attualizzarsi regolarmente, né di sussistere nella coscienza del recitante, ed ancor meno di fissarvisi. Allo stesso modo, generalizzando, si può dire che una “realizzazione” di stati che comincerebbe su basi che non si rifanno a queste regole d'omogeneità tra la forma del supporto e l'essenza iniziatica dell’idea,  sarà sempre qualcosa d'arbitrario e di vago, e rischierà d'arrivare a delle conseguenze irregolari.
Ciò permetterà di far comprendere perché in un'organizzazione iniziatica islamica non si può pensare di praticare che formule della rivelazione muhammadiana e della tradizione esoterica della silsila. Tale è il caso delle formule ordinarie del “'wird” o la recitazione continuativa d'uno stesso versetto del Corano (ad esempio, il versetto del Trono) o di certe sure (al-Fâtiha, al-Ikhlas, ecc.) o d'una formula eulogica quale il “tasbîh” (Subhâna-llâh) oppure il “tahmîd” (al-hamdu lillah) o il “takbîr” (Allâhu akbar), od ancora il “tahlîl” (la ilaha illâ llâh), cioè la recitazione della Shahâda (quest'ultima potendo essere nella sua forma semplice ovvero in una più sviluppata, come nella terza formula del wird, per esempio); allo stesso modo, determinate formule di “preghiere sul Profeta”, delle quali esiste un grandissimo numero; le indicazioni tecniche ordinarie dicono semplicemente quali sono le verità da liberare intelligibilmente dalla formula nel corso della recitazione.
(Muhy-i-Dîn Ibn 'Arabi dice che all'inizio della sua carriera iniziatica aveva praticato così per parecchi anni un solo versetto coranico; lo recitava senza sosta ed in ogni circostanza, addirittura durante le preghiere prescritte (oltre alle formule obbligatorie di queste) al punto ch'era conosciuto e designato (kunya) con questo versetto, nel suo paese!).
Il metodo introdotto dai vostri temi di meditazione non ha un tale carattere tradizionale. Voi proponete delle formule redatte da voi stesso e che si rifanno a delle attitudini spirituali ed a verità intellettuali. Esse devono fungere da mezzo, non da incantazione, ma d'una certa attualizzazione d'idee spirituali concomitante all'invocazione del Nome, e per mezzo d'una ripetizione mentale d'argomenti od enunciazioni inclusi nei temi. Questa concomitanza è prescritta soprattutto nella prima parte della seduta individuale d'invocazione; il tema è ricondotto ulteriormente nella coscienza in caso di distrazione.
Nei confronti di questo metodo faccio prima di tutto l'osservazione che, contrariamente ai metodi noti, la meditazione e la contemplazione non derivano dalla formula del dhikr, il Nome, ma è proposta dall'esterno con l'aiuto d'un'altra forma mentale. Non si tratta di negare che le esortazioni al pensiero attivo che portano questi temi non siano d'una certa quale utilità, ma il modo col quale intervengono nel lavoro incantatorio e l'importanza che vi vogliono assumere presentano delle difficoltà tecniche. Tanto per cominciare, c'è una certa “mescolanza” tra gli elementi di tema psicologico e le verità sacre del Nome. Le necessità proprie dell'invocazione esigono,  piuttosto, di distaccarsi dal “pregiudizio” del tema. In alcuni momenti avete dovuto rendervi conto di quel che questo metodo comportava d'inadeguato e financo di sterile, visto che si sono potuti osservare in tal modo alcuni tentennamenti sia per quanto riguarda l'applicazione pratica delle meditazioni sulle invocazioni sia per quanto riguarda l'importanza di questo tipo di lavoro meditativo. Molti anni orsono, vi avevo fatto notare che v'era, in ciò, associazione di due attività distinte ed eterogenee, le quali in realtà si fanno concorrenza e che d'altronde, è impossibile conservare simultaneamente. Avevate concesso, allora, che si facesse dapprima la sola meditazione per un certo tempo, per poi cominciare l'invocazione che doveva continuare senza tema. Più tardi però, in un'altra occasione, ci
avete detto quanto segue: “Avevo accettato, per un periodo, in  base alla domanda di qualcuno, che si facesse inizialmente la meditazione da sola, per poi fare l'invocazione soltanto. Ma sono ritornato in seguito al metodo precedente e ribadisco di nuovo: la meditazione sul tema dev'essere fatta simultaneamente all'invocazione, ecc ...”[5].
M'è sempre parso che l'associazione delle due cose tanto diverse come la meditazione su un tema qualsiasi e l'invocazione d'Allah sia in sé cosa assurda, e dato che in fondo la coscienza non poteva fare allo stesso tempo due cose divergenti, succede in realtà che l'una o l'altra è normalmente esclusa, o che le due si alternano fra di loro o, ancora, s'intralciano a vicenda. Una simile difficoltà non si presenta mai nei metodi islamici, sia che si tratti della recitazione d'un versetto o di una formula iniziatica, sia che si tratti d'un nome divino. Non si può associare, al contrario, alla formula d'incantazione un'attività differente dalla recitazione, ma convergente verso lo stesso effetto. Ad esempio: pronunciando la “Shahâda” si mettono in relazione gli elementi che la compongono coi differenti centri sottili figurati come localizzati nel corpo del dhâkir [Colui che effettua il dhikr. N.d.T.]; oppure, invocando il Nome, si praticano certe intensità del soffio e flessioni delle vocali in rapporto alla proiezione del Nome su diversi punti del corpo, oppure si fissa lo sguardo sulla forma del Nome scritta, ovvero figurandoselo nel mentale, ecc ... Non è questo il gerere di pratiche che si riscontra nel vostro metodo iniziatico; pure se qualche volta lo menzionate, come nel caso della visualizzazione del Nome, non è in quella direzione che vanno, di fatto, le vostre istruzioni, né il vostro metodo; la pratica della visualizzazione che avete conosciuto a Mostaghanem secondo le istruzioni di S. ["S". sta per 'Sidî", letteralmente: "Mio Signore, appellativo di rispetto col quale in certe turûq, come quella Alawi cui appartenevano tanto Vâlsan quanto Schuon, ci si rivolge prima di tutto ad uno Shaykh o ad un muqqaddim, ma anche agli altri fuqarâ] Adda dal tempo dello Shaykh Ahmed non è mai stato in uso propriamente detto presso di voi, ed ancor meno nei metodi attuali[6].
Un'altra annotazione concerne il carattere intrinseco di questi temi. Le idee che questi temi enunciano non hanno veramente un carattere islamico preciso; esse partecipano piuttosto d'una concezione intellettuale indeterminata, e si rifanno evidentemente ad uno “stile di pensiero europeo”, ma non ad una forma spirituale sacra. Non si tratta di contestare che le verità teoriche che questi temi esprimono abbiano una corrispondenza nelle “verità sufî”. Si tratta di constatare ch'esse hanno, col Sufismo, tanto rapporto quanto con il Cristianesimo, il Buddhismo, l'Induismo, ecc ... , è per questo, d'altro canto, che voi potevate ritenerle adattabili alle differenti forme tradizionali che volevate dirigere in Occidente. Non si tratta nemmeno di rimproverare a questi temi di non essere in arabo! Se fossero state tradotte in arabo, non per questo avrebbero avuto il minimo valore in più, mentre la contrario i fuqarâ avrebbero avuto difficoltà a comprenderle, senza parlare dell'effetto “strano” che queste formule farebbero su quelli che sono abituati all'arabo sacro della Rivelazione. La presenza e l'impiego di queste formule di stile occidentale m'è parso come un debole surrogato delle formule islamiche autentiche. È difficile gustare le vere modalità della fede e della grazia islamiche. Sotto questo aspetto si può anche osservare che i primi temi erano assai meno distanti da questo carattere islamico di quelli che hanno fatto séguito, il che dimostra che ci troviamo dinanzi ad un allontanamento progressivo.
Nel medesimo ordine di cose, si presenta una particolare difficoltà con l'artificio metodico di considerare il Nome come entità indipendente ed autosufficiente. Una serie di temi dicono: “'Non c'è che il Nome, è per questo che muoio in Lui”, “'Non c'è che il Nome, è per questo che vinco grazie a Lui” (“...che sono pacificato in Lui..., che sarò liberato da Lui... , che non sono altro che Lui... che non sono nulla all'infuori di Lui solo…”).
La verità, naturalmente, è che è che non c'è che il Nome, ma anche il Nominato (per non parlare del Nominante). Sappiamo, certamente, che il Nome ed il Nominato sono “essenzialmente” identici, ma ciò non è “essenzialmente” esatto. Quale può essere il vantaggio “tecnico” d'avere una formula inesatta e falsa financo nella sua forma e nel suo potere di suggestione? Poichè secondo il suo potere di suggestione essa significa “che non c'è nessun Nominato ma solo il Nome”. Se il tema deve suggerire da solo un’idea, questa è proprio, in questo caso, l'affermazione del Nome in quanto entità sussistente di per sé! Non si puo far intervenire, qui, che per complicazione, l'idea che il Nome è identico al Nominato: la formula, al contrario, la nega nella sua funzione tecnica propria.
C'è, in un tale metodo, un caso di pura onomatolatria, il Nome non essendo più, in realtà, un “mezzo” od un “intermediario”, bensì lo scopo stesso. Si potrebbe meglio chiarire la situazione di questa concezione intellettuale facendo un accostamento con la situazione degli esseri celesti staccati dalle loro radici principiali. Lo Shaykh Abd al Wahid Yahya dice, a questo riguardo (Les “racines des plantes”: Ed. Trad., sett. 1946) [Versione italiana: “Le ‘radici delle piante’” cap. 62, pagg. 326-331 de: "Simboli della Scienza Sacra”, Adelphi, Milano 1975". N.d.T.]: “L'invocazione degli angeli considerati... non alla stregua di quegli intermediari celesti” ch'essi sono dal punto di vista dell'ortodossia tradizionale, bensì come vere e proprie potenze indipendenti costituisce propriamente l’“associazionismo” (in arabo: shirk), nel senso che dà a questo termine la tradizione islamica, visto che tali potenze appaiono allora inevitabilmente come associate alla Presenza divina stessa, invece d'essere semplicemente derivati da questa”. Faccio qui una semplice analogia: ma la “personificazione del Nome la giustifica abbastanza in quanto tale”.
Malgrado la teoria del Nome che avete fatto, non c'è in realtà nessun interesse tecnico nell'immaginare in modo metodico “che non c'è che il Nome”. La verità utile e “vera” insieme è “che non c'è che Allah”. Quando si dice ciò, si dice implicitamente che il nome d’“Allah” è identico ad Allah per istituzione divina, ma quando si dice “che non c'è che il Nome”, non si dice né implicitamente né esplicitamente che non c'è che Allah; e bisogna far intervenire una teoria che deve “scusare” l'affermazione come “artificio” tecnico! Il metodo tecnico autentico istituito da Dio tramite il Suo Profeta è di dire “Allah” facendo così simultaneamente le due cose identiche nell'essenza: designare Allah e dire il Suo Nome. È questa la maniera in cui si utilizza “tecnicamente” l'identità essenziale tra il Nome ed il Nominato, non dislocandoli e sostituendo l'uno
con l'altro.
Ma quale può essere l'interesse di parlare d'Allah designandolo tramite l'intermediario del termine “Nome”? Ciò è, evidentemente, molto artificiale. Quando, però, dei temi affermano: “Solo il Nome è reale” o “Solo il Nome è”, o “Solo il Nome è permanente”, o ancora “Solo il Nome è assoluto”, o
“Solo il Nome è infinito”, “Solo il Nome è eterno”, ciò non è più soltanto artificiale, ma anche erroneo dal punto di vista teologico e metafisico dato che, in questa prospettiva d'unicità d'Allah solo è reale. Allah solo è, Allah solo è eterno, infinito, assoluto, ecc... Ed in ogni modo il Nome solo non può essere assoluto o infinito! Non può neppure essere “reale”, poiché metafisicamente è una pura astrazione. Da questo punto di vista i Nomi divini sono “rapporti e relazioni” (nisab wa idâfât)! L'idea metodica d'attribuire al Nome una realtà autonoma e totale è una pura alterazione della verità e della concezione metafisica. Le formule islamiche non contraddicono mai le verità principiati e rimangono sempre vere, qualsiasi sia il piano della loro applicazione; esse inoltre sono sempre, ad ogni livello, dei mezzi metodici. Lo stesso dicasi quando la Shahâda interviene nel Corano per affermare degli aspetti propriamente divini ma determinati, come ar-Rahmân, ar-Rahîm, o al-Azîz,  al-Hakîm, ecc .. , la formula ricollega i suoi nomi divini alla Divinità totale, Allah o all'Ipseità assoluta, Huwa, che è il loro principio d'identificazione universale, e dice: “Bismi-llahi r-Rahmâni-r-Rahîm”, o “La ilaha illa Huwa-r-Rahmâni-r-Rahîm”, “La ilaha illa Huwa-l-Azîzu-l-Hakîm”. Se i vostri temi fossero tradotti in arabo, credo che nessun musulmano cosciente potrebbe pronunciarli. È, questa, un'illustrazione chiarissima dei rischi di un'iniziativa individuale in materia di tecnica iniziatica. In modo generale, di fronte alle normali possibilità della tradizione iniziatica, queste formule dalle tendenze universalistiche, mi son parse svolgere, alla stessa stregua delle altre innovazioni summenzionate, un ruolo “dissolvente” dei caratteri prorpi della via islarnica. Avendo consultato in modo molto sommario lo Shaykh Abdu-l-Wahid Yahya su questo punto, m'ha risposto così, pochi mesi fa: "Il mio parere su quest'argomento è semplicissimo: mi sembra del tutto inammissibile che, in una tarîqa, si faccia uso di temi di meditazione che non si basino espressamente su qualche formula propriamente islamica. Questi temi sedicenti “universalisti” non sono, in realtà, altro che fantasia, senza qualsiasi valore tradizionale, come tutto ciò che non trova appoggio in una forma determinata (e d'altra parte è evidente che quelli che sono arrivati ad un punto di vista realmente universale non hanno più bisogno alcuno di supporti di questo gerere); quest'è un altro esempio nettissimo di quella mancanza di conoscenze tecniche della quale vi parlavo, conoscenze alle quali è più che impossibile supplire con delle “improvvisazioni” come queste. In fondo, ciò ha lo stesso valore ultimo dei procedimenti “universalistici” in uso presso i discepoli di Vivekananda e gli altri “neo-vedàntisti”; è ancor più grave, però, quando queste cose s'introducono in un'orgtnizzazione iniziatica regolare, di quando esse sono fatto proprio di persone che, insomma, non agiscono che per conto loro e non hanno alcunché d'autentico da trasmettere. La penso esattamente come voi in quanto al loro effetto “dissolvente” dal punto di vista islamico; sembrerebbe che si faccia di tutto per “deislamizzare” la tarîqa ed allora, come dicevo, sarà tutto quel che si vuole tranne una tarîqa. Aggiungo ancora che tutto ciò cade interamente nel “soggettivo”, nel senso ordinario della parola; le cose di questo genere mi fanno pensare, d'altro canto, che in realtà l'altro senso che si attribuisce loro non è tanto differente quanto lo si vuol dire, e che nella stessa differenza che vi si vuol vedere c'è una buona parte d'illusione…”.
Aggiungerò inoltre due osservazioni riguardo ai due ordini principali d'obiettivi che i vostri temi di meditazione propongono, ossia: la concettualizzazione di certe verità universali e la costituzione d'attitudini spirituali del tarîqa. L'insegnamento tradizionale dell'Islam li considera nei modi seguenti:
In quanto alle idee universali quali l'Eternità, l'Infnito, l'Unità, la Verità, la Perfezione, la Pace, la Via, la Bellezza, la Bontà, la Maestà ecc…, i metodi islamici, sempre basati sull'incantazione, utilizzano principalmente l'invocazione speciale ed autonoma d'un nome divino corrispondente, o certe coppie di nomi. Per concezioni più complesse o più circostanziate, ci sono invece dei versetti o formule che includono tali Nomi divini. L'invocazione del nome Allah, al contrario, resta quella dell'incondizionamento assoluto.  Per le attitudini spirituali del dhâkir, senza voler dire che le esortazioni non siano necessarie, è l'esercizio pratico delle opere e l'acquisizione delle virtù (al-mu'âmalât) che sono previste prima di tutto, e non un semplice sforzo di convinzione mentale. L'acquisizione delle virtù è condizionata da discipline i cui fondamenti si trovano nelle regole sacre della via, più precisamente nei caratteri muhammadiani della via di povertà, di rinuncia e di devozione. La semplice meditazione sulle qualità corrispondenti rischia fortemente di rimanere sterile e d'efficacia illusoria, se il resto dell'essere è insufficientemente educato e santificato; d'altronde, il segno dell'efficacia in quanto all'acquisizione di virtù attraverso la meditazione, sarebbe giustamente la loro traduzione nei modi pratici dell'esistenza del vero faqîr. Perseguire la “purificazione del mentale” senza vivere, concepire ed agire in una modalità conforme alle regole della fede, della pietà, della saggezza interiore ed esteriore, è una pura assurdità; ed anche se ci fossero dei casi eccezionali sotto questo aspetto, ciò non potrebbe comunque mai giustificare la formulazione di questo metodo come una “regola” sufficiente applicabile ad una comunità.
Un inconveniente generale di tutti questi mezzi nuovi ed improvvisazioni che hanno corso ormai da anni nella tarîqa, è che l'orientazione di tutto lo sforzo d'organizzazione spirituale e tecnica va nel senso d'una “esperienza” i cui frutti rimangono problematici, il che non sarebbe se ci si orientasse verso l'acquisizione dei normali mezzi della via; quali che siano le reali difficoltà d'una fonnazione che sia adatta agli Europei per una via islamica, come è qui il caso, in principio, d'una élite, lo sforzo doveva andare innanzitutto in questo senso, e non in quello inverso d'abbassamento della via ad un livello troppo inferiore di tecnica islamica ed iniziatica.
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Per riassumere le contestazioni relative alla situazione presente della tarîqa, si potrebbe dire questo:
In modo generale c'è un'importanza esagerata accordata alle questioni di forma esteriore mentre si trascurano la forma islamica spirituale ed interiore; nel dominio esoterico si trascura il lato sacro, e sola efficacia dei comandamenti, e si sostituisce così il rigore e l'austerità tradizionale con la comodità, la rilassatezza e l'estetismo; nell'ordine iniziatico si manca di conoscenze tecniche, si lasciano perdere i mezzi propri alla via e si inventano, al contrario, per zelo d'adattamento e concezione sincretistica, dei pseudo-riti e dei metodi impropri per un'organizzazione iniziatica musulmana. La direzione generale della via non è più assicurata da un contatto normale con le fonti tradizionali; essa è a discrezione d'un comportamento in qualche maniera solipsistica che si sostiene con delle “ispirazioni” di carattere “universalistico” il cui effetto è la perdita progressiva dei caratteri islamici della via, e la diminuzione della sua efficacia spirituale.
Molti membri della tariqa europea, malgrado non conoscano che questa, e che perciò non possono avere che un'esperienza limitata, hanno l'impressione di non aver avuto, così, che un contatto indiretto con le realtà proprie all'esoterismo islamico. Altri hanno perfino pensato che la via iniziatica islamica non è per nulla interessante visto che si riduce a delle cose assai esteriori e prive di alcun carattere tecnico; quest'ultima opinione è nondimeno tanto più ingannevole perché tiene conto del fatto che eravate considerato in qualità di rappresentante particolarmente qualificato dell'esoterismo islamico, ed addirittura il solo per l'Occidente, mentre già in paesi islamici era difficilissimo poterne trovare uno onde trame profitto.
Se a tutto ciò s'aggiunge inoltre l'importanza che assumono le “storie personali” nell'ambiente svizzero da sempre, suscitate soprattutto dalla vostra “autocrazia” intellettuale e dalla vostra “infallibilità”, non si può esser troppo sorpresi nel constatare la proporzione eccessiva di quelli che hanno abbandonato la tarîqa o la vostra direzione personale. A questo riguardo, mi permetto di farvi osservare che, per esempio, su una cinquantina di membri svizzeri ricollegati da diciassette anni in qua, non ve ne restano ora che dai venti ai venticinque (uomini e donne), alcuni dei quali si mantengono appena in contatto con voi; tutti gli altri hanno lasciato la via e l'Islam, sia per rientrare nel Cattolicesimo, sia per andare a porsi dal lato “indù”, sia per cadere in uno stato indeterminato, il più probabilmente profano. La situazione spirituale di tutti questi membri costituisce naturalmente una pesante responsabilità per voi. Questo risultato è certamente in rapporto anche con i criteri d'ammissione dei membri e con la loro formazione dottrinale, e ciò risalta maggiormente qualora lo si paragoni con la situazione dei membri al di fuori della Svizzera, reclutati soprattutto in base alla comprensione dell'opera tradizionale dello Shaykh Abdu-l-Wahid Yahya, al quale restano più attaccati in modo naturale, il che vale loro, d'altra parte, una maggiore aderenza alla via islamica stessa. Ad ogni modo, tuttavia, gli sforzi d’“adattamento” della via non avranno l'effetto d'assicurare ai membri delle condizioni favorevoli di sviluppo iniziatico, né di mantenere la coesione della tarîqa.
In questa situazione non c'è niente di sorprendente nel fatto che un certo numero di membri della tarîqa non siano contenti, né rassicurati in quanto alla loro condizione iniziatica e tradizionale, tanto più che lo Shaykh Abdu-l-Wahid Yahya è lungi dal riporre in quest'organizzazione la stessa fiducia di prima[7]. C'è inoltre la convinzione che anche se certi miglioramenti o riforme potevano ancora essere realizzate nella nostra organizzazione, questi sembrano dover rimanere circoscritti entro i limiti d'una certa prospettiva intellettuale e d'una mentalità piuttosto particolare che lascerebbero sempre scoperte possibilità ben altrimenti interessanti per alcuni membri. Quelli che, con me, intendono restare fedeli alla via iniziatica islamica, ritengono esser loro diritto ricercare sempre la realizzazione della concezione tradizionale ed iniziatica sulla cui base sono entrati tutti nella tarîqa e con la quale non hanno nessuna intenzione di rompere: in tutto ciò v'è una conseguenza del fatto che il patto iniziatico è fatto, in realtà, con Allah, ferma restando la sua natura di affiliazione ad una via, e che l'unico fondamento dei rapporti iniziatici personali con il “murshid” è la fiducia nella sua verità e nella sua virtù tradizionale nel senso più completo. Allorchè questa fiducia diminuisce in una misura troppo sensibile ovvero viene a mancare, si produce una situazione che comporta la convenienza d'una separazione.
Aggiungerò, a questo proposito, una precisazione ancora: in principio, non sarebbe neppure necessario giustificare una tale opinione allorché si manifesta, dato che essa opera in tutti i casi di per sé stessa, allo stesso modo in cui la fiducia che si accorda al murshid può imporsi in modo spontaneo ed immediato senza alcuna deliberazione propriamente detta. Naturalmente, le relazioni in questione possono essere basate anche su ragioni dimostrabili, almeno in una certa misura. Qualche volta, invece, nulla può giustificare l'opinione sfavorevole che ci si fa, magari anche solo provvisoriamente, nei confronti del murshid: soltanto questa reazione condiziona in tutti i casi il profitto attuale dell'aspirante ad una via iniziatica e del discepolo che si trovi già sotto un'obbedienza spirituale.
Ignorando in quale misura voi stesso siate disposto ad accettare queste notizie per voi sui rapporti tra discepoli e murshid, e per facilitare la spiegazione, vi citerò innanzitutto questo testo dello Shaykh al Akbar che sottolinea l'importanza tecnica dell'opinione personale del discepolo nei confronti del “maestro”, ed il grado in cui questa condiziona l'esistenza dei rapporti fra di loro:
“Quando ti troverai tra le mani d'uno Shaykh irreprensibile (mahfûs) che osserva scrupolosamente la pietà (wara) in tutti i suoi stati e del quale si attesta l'eccellenza e che si cita come autorità, che di fatto corrisponde a quel che si dice di lui, se tu trovi nella tua anima della venerazione (ihtirâm) per lui e della considerazione (ta'shîm) per la sua verità, in ciò si troverà il fondamento del tuo profitto e della tua salvezza per mezzo delle sue mani. Se tu non puoi provare venerazione per lui, cerca un altro, poiché non potrai mai trar profitto da questi finché tu non l'accompagnerai con venerazione (hurma). Neppure se fosse, questi, il più eminente ed il più sapiente degli uomini, se hai di lui un'opinione sfavorevole, non potrai ottenere un profitto grazie a lui. Quando, invece, troverai qualcuno che fa sorgere nel tuo animo della venerazione, mettiti al suo servizio e sii morto nelle sue mani, e che ti rigiri allora come vorrà senza che tu abbia una volontà propria nella tua anima”. (Mawâqi an nujûm). Un'altra volta dice che “il discepolo resterà al servizio dei maestri sinché porterà venerazione per loro e se succede che il cuore perde questo sentimento non deve restare con essi una sola ora di più; poiché non ne otterrà beneficio alcuno ma danno soltanto; la compagnia spirituale (subha) non reca profitto che quando è accompagnata da sentimento di venerazione (Futâhât, cap. 181)”.Tale regola fondamentale è tanto più importante in quanto l'ipotesi formulata dallo Shaykh al Akbar è che ci si trovi in presenza d'un maestro autentico, e che la separazione da lui s'impone semplicissimamente a causa dell'opinione del discepolo nei suoi confronti. Ma al di fuori di questo fatto elementare che può essere ricondotto alla nozione d'affinità spirituale, una separazione dal “murshid” può imporsi in seguito ad irregolarità manifeste da parte di questi. È così che lo Shaykh al Akbar, enunciando le condizioni del magistero iniziatico, e dopo aver parlato d'una
prima categoria di maestri, e cioè “quelli che sono conoscitori del Libro e della Sunna, che li professano esteriormente e li realizzano interiormente, rispettando i limiti d'Allah, appoggiandosi sulle prescrizioni della legge e non ricorrendo a delle interpretazioni quando si tratta d'evitare delle cose (proibite o dubbie)”, ecc ... , aggiunge questo a riguardo d'un'altra categoria: “Si tratta dei maestri che sono caratterizzati da degli stati che fanno sì che abbiano degli sbandamenti e che non osservano questa correzione nelle loro manifestazioni. Questi li si lasciano nei loro stati e non si resta in compagnia loro neppure se compiono dei prodigi e non ci si rimette alla loro assistenza sinchè sono irriverenti nei confronti della Legge, poiché noi non abbiamo altra via verso Allah che quella che Egli Stesso ci ha tracciata, e colui il quale pretende che ne esiste un’altra costui dice una cosa falsa. Non si prende come moddello un maestro che non osserva le convenienze, anche se è sincero nei suoi stati, ma lo si rispetta” (Ibidem). Quel che, inoltre, è notevole, è che questa classificazione dei maestri in due catergorie è fatta in base a segni esteriori e controllabili. Ma per fare il punto di questo problema delle relazioni tra discepolo e murshid, si evince che allorché la convinzione del discepolo è sfavorevole al proseguimento della via sotto la stessa guida spirituale, questo fatto esercita i suoi effetti in modo incoercibile. È allo stesso concetto che si rifanno in fondo le vostre stesse parole nella vostra risposta a me: “Nessun maestro tratterrà un discepolo che ripone la sua fiducia in un altro Maestro”; per esser completi, però, bisogna aggiungere quel che dice lo Shaykh al-Akbar sulla convenienza e finanche sulla necessità di lasciare un “maestro” in cui non si ripone tutta la fiducia richiesta, e ciò al di fuori da ogni obbligo di riporla in qualcheduno altro (problema che resta d'altra parte di competenza personale d'ognuno).
Dopo le spiegazioni date in questa lettera, concluderò così:
Quale che sia la vostra opinione su tutto ciò non dubito che voi stesso siate convinto che la separazione intervenuta era non solamente utile ma necessaria. Da parte mia, sono felice del vostro accordo, poiché in questo modo si evitano delle complicazioni. Non dubitavo, d'altra parte, che tale doveva essere il vostro comportamento perché, in altri casi, considerate di poter “autorizzare” delle uscite dalla tarîqa e dall'Islam stesso, nel nostro caso non dovevate prendere nessuna decisione di questo genere: noi restiamo nell'Islam e nella tarîqa, siamo fedeli ai principi tradizionali ed iniziatici, rispettiamo il patto della via iniziatica, e nell'intento di ricercare le migliori condizioni d'adempimento, ci teniamo al riparo da tutti i rischi possibili d'un orientamento non-islamico e pseudo-iniziatico.
La forma nella quale avete manifestato il vostro accordo può apparire eccessiva, ma comprendo che in questo modo volevate fugare ogni contestazione in merito alla validità della nuova branca della tarîqa, affermandone voi stesso il carattere regolarmente indipendente. Penso, d'altro canto, che la separazione sopravvenuta tra di noi sarà proficua per voi stesso, al fine d'un esame più profondo dell'organizzazione che dirigete. Formulo comunque, a questo riguardo, unitamente a tutti i miei amici, i migliori auguri nella speranza che Allah ci guiderà tutti nella via tracciata dal Suo Profeta ed i Saggi, il lignaggio iniziatico. Amîn. Wa-l-hamdu lillâhi Rabbi-l-âlamin!
Ricevete, carissimo e venerato Maestro, il mio miglior ricordo e i miei migliori auguri di Pace, di Misericordia e di Benedizione.

N.B. Potete constatare che mi sono astenuto, qui come nella mia precedente lettera, dal ripercorrere le mie difficoltà con voi, ma dato che nella vostra lettera dite che non ho “mai potuto comprendere la vostra natura”, mi sarà sufficiente rispondervi che stava piuttosto a voi il conoscere la mia; tenendone conto qualora ciò fosse rientrato nelle vostre possibilità.
D'altra parte, quando dite che non ho “mai voluto fare l'esperienza seria di determinate regole tradizionali, ciò che era l' unica cosa che avrebbe potuto delucidarmi in merito al vostro ruolo”, devo concluderne che quest'opinione è, per me, la migliore delle prove che voi non vi siete reso conto di quale fosse effettivamente il mio caso, e quanto la mia situazione fosse inutilmente penosa. Non insisterò oltre su questo problema che è in ogni caso privo d'importanza, ora come ora. Quanto a quest'altra frase, concepita secondo la stessa maniera “assoluta” (vi si trova un terzo “mai”): “Non avete mai compreso il racconto coranico dell'incontro di Mosè con il Khidr” vi dirò semplicemente quanto segue: quel che aveva fatto difetto a Mosè era la “pazienza” mentre io, in circostanze incornparabilmente più modeste ne ho comunque avuta abbastanza, tanta dà far ritenere, a persone ben piazzate e dotate d'autorità, che ho pagato tutto il tributo della “sottomissione”. Mosè, inoltre, era obbligato a credere nella verità del Khidr visto che è Allâh stesso che ve l'aveva impegnato e che pertanto, la questione della mancanza di fiducia non doveva porsi per lui.




[1] Testo tratto da: Michel Vâlsan, Lettere di distacco da F. Schuon, Edizioni Al-Khâtamu Al-Dhahabiyy, Al-Qâhira

[2] Si ponga bene mente al fatto che, se si vuole disporsi favorevolmente ad entrare nella Khalwa [Ritiro, isolamento individuale, a scopo meditativo e contemplativo, di solito in una stanzetta. Può durare anche sino ad un massimo di 40 giorni. Si tratta comunque di un mezzo tecnico sempre meno utilizzato in epoca contemporanea. N.d.T.] e fare l'invocazione, esistono delle adeguate prescrizioni tradizionali, e non c'è nessun bisogno d'andarle a cercare al di fuori dell'Islam o d'inventarle: bisogna mettersi in stato di purificazione, compiere due rak'at rituali sul luogo stesso dell'invocazione (ciò è fra l'altro più normale e più efficace per un musulmano che non i cinque mudra, e se è il caso può fare qualche rak'at in più), dopodichè domanda ad Allâh il suo soccorso e la sua grazia; si può anche fare una recitazione d'una formula introduttiva oppure un du'a. È semplicissimo, efficacissimo ed islamicissimo, ma per ciò bisogna evidentemente vivere e pensare in forma islamica.

[3] Quando si tratta di lavoro senza supporto auditivo, c'è supporto visuale o tema di concezione immaginativa, sempre formalmente legate ad un simbolismo sacro.

[4] Si hanno così formule dal contenuto assai vario: “preghiere”, “lodi” e “glorificazioni”, “attestazioni”, “avvertimenti” o “ingiunzioni divine”, “definizioni principiali” ecc ...

[5] I fuqarâ di Parigi hanno anche ricevuto notizia che in Svizzera si pratica quest’“associazione” in un modo ancor più caratteristico, definito come “rotazione continua del la formula del tema nel mentale” durante l'intera invocazione, ma ciò sembra essere piuttosto un'esagerazione speciale ed occasionale.

[6] Aggiungerò incidentalmente che, nello stesso ordine d'idee sono le indicazioni sulla concentrazione sono sempre state
carenti in tema di precisione e di carattere tecnico.


[7] Non spetta a me di determinare l'atteggiamento dello Shaykh Abdu-l-Wahid Yahya di fronte a questa crisi della tarîqa. Dato che però da parte vostra si sostiene che il suo atteggiamento attuale è dovuto al fatto che avrebbe ricevuto delle “informazioni inesatte” o “esagerate”, citerò qui quanto mi diceva lui stesso, ultimamente, a questo riguardo: “Constato ... una volta di più il procedimento che consiste nel dire che l'uno o l'altro deve aver avuto delle “false informazioni”; non c'è da meravigliarsene dato che si giunge a venirmi a dire che ne ho ricevute anch'io, come se lo si sapesse meglio di me, e come se fossi incapace di rendermi conto da solo cosa stia accadendo; a questo punto, comincio a domandarmi se decisamente mi si prende per un imbecille!”.

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