Lettere di distacco da Frithjof Schuon[1]
Lettere di M. Vâlsan a F. Schuon - (Seconda lettera - Seconda parte)
Precedute
da una lettera di René Guénon
Lettere di M. Vâlsan a F. Schuon - (Seconda lettera - Seconda parte)
(segue)
Frattanto, una tendenza alla perdita dei caratteri propriamente islamici della tarîqa stessa si riscontrava in diversi dominî:
Frattanto, una tendenza alla perdita dei caratteri propriamente islamici della tarîqa stessa si riscontrava in diversi dominî:
1° - A parte l'insufficiente orientamento
e formazione dottrinale dei fuqarâ in un senso islamico, la pratica dei riti ordinari e l'osservanza
delle prescrizioni della Legge sacra, insomma tutto quel che costituisce la
forma della vita islamica, sono stati in Svizzera e,
conseguentemente, altrove, più una questione d'adattamento personale che non
d'obbligazione divina.
Si potranno invocare, a questo proposito, tutte le scuse o le circostanze attenuanti che si vorranno, ma il fatto patente rimane: in Svizzera le abluzioni sono frequentemente sostituite dal ‘tayammum’, apparentemente senza ragion sufficiente, ed i fuqarâ di Francia si son lasciati prendere da questo cattivo esempio, mentre normalmente osservavano le regole tradizionali; le preghiere quotidiane sono compiute senza nessun rigore rispetto all'orario tradizionale; il digiuno di Ramadân non è rispettato regolarmente, e quelli che lo cominciano lo interrompono per dei futili motivi, come se non dovess'essere un'opera faticosa (ce ne sono che dicono che accordate “dispense” a questo riguardo); le proibizioni di maiale e vino sono dimenticate non appena circostanze familiari o professionali provochino fastidi; peggio ancora, il rispetto da parte di altri degli stessi obblighi e delle prescrizioni che pure definiscono il musulmano, è considerato alla stregua di “formalismo exoterico” o di “sharaismo”!
Questa è evidentemente l'espressione d'uno sventurato pregiudizio “Jnanico” che mi pare essere, d'altro lato, in maniera generale causa d'una mancanza di spirito islamico della tarîqa.Le preghiere quotidiane, d'altronde, sono state ridotte al minimo obbligatorio, ed in ogni caso tutte le preghiere di sunna sono state soppresse. Mi ricordo in quali condizioni avete, nel 1948, abbandonato la “Shafa” ed il “'witr”: erano quindici anni che li facevate “seduto” con noncuranza, ed anche tutti i fuqara svizzeri. Quando, infine, foste convinto che non era normale farli in tal modo senza nessuna ragione valida, mi dichiaraste: “Ma io, non ho più bisogno di farli”. E non li faceste più. I fuqarâ svizzeri vi hanno imitato.
Si potranno invocare, a questo proposito, tutte le scuse o le circostanze attenuanti che si vorranno, ma il fatto patente rimane: in Svizzera le abluzioni sono frequentemente sostituite dal ‘tayammum’, apparentemente senza ragion sufficiente, ed i fuqarâ di Francia si son lasciati prendere da questo cattivo esempio, mentre normalmente osservavano le regole tradizionali; le preghiere quotidiane sono compiute senza nessun rigore rispetto all'orario tradizionale; il digiuno di Ramadân non è rispettato regolarmente, e quelli che lo cominciano lo interrompono per dei futili motivi, come se non dovess'essere un'opera faticosa (ce ne sono che dicono che accordate “dispense” a questo riguardo); le proibizioni di maiale e vino sono dimenticate non appena circostanze familiari o professionali provochino fastidi; peggio ancora, il rispetto da parte di altri degli stessi obblighi e delle prescrizioni che pure definiscono il musulmano, è considerato alla stregua di “formalismo exoterico” o di “sharaismo”!
Questa è evidentemente l'espressione d'uno sventurato pregiudizio “Jnanico” che mi pare essere, d'altro lato, in maniera generale causa d'una mancanza di spirito islamico della tarîqa.Le preghiere quotidiane, d'altronde, sono state ridotte al minimo obbligatorio, ed in ogni caso tutte le preghiere di sunna sono state soppresse. Mi ricordo in quali condizioni avete, nel 1948, abbandonato la “Shafa” ed il “'witr”: erano quindici anni che li facevate “seduto” con noncuranza, ed anche tutti i fuqara svizzeri. Quando, infine, foste convinto che non era normale farli in tal modo senza nessuna ragione valida, mi dichiaraste: “Ma io, non ho più bisogno di farli”. E non li faceste più. I fuqarâ svizzeri vi hanno imitato.
La “regola”, poi, si è estesa al di fuori
della Svizzera ... Io stesso ero obbligato a fare
queste preghiere all'insaputa dei fuqarâ per non aver l'aria, davanti ai “vostri” fedeli, di provocare
“divergenze” con voi! Per tutti questi abbandoni di sunna tanto in materia di preghiere quanto in ogni altra materia,
bisogna ricordare le parole dell'Inviato di Allah - su di lui il rito unitivo e quello pacificante - : “Chi abbandona la mia sunna non è dei miei!” (Man taraka sunnatî falaysa minnî). Contro una qualificazione
troppo “islamica” dei fuqarâ si sentivano dalla Svizzera (soprattutto nel 1946) dei richiami
di questo tipo: “Non siamo entrati nell'Islam che per uscirne!”. Un volta domandavate caritatevolmente ad un faqir francese: “Si è sempre musulmani al l00%,
a Parigi?” Ed aggiungevate amabilmente: “Qui (a Losanna) s'è piuttosto indù!”.
Ebbene, lo siete stato talmente tanto che un bel
giorno una buona parte dei vostri discepoli svizzeri si sono decisi ad andar a
vedere da più vicino il lato propriamente indù, ma sfortunatamente in
quell'occasione sono “usciti” dall'Islam
per davvero! A questo proposito bisogna osservare anche che i fuqarâ non sanno “pregare” in quanto musulmani; quest'è una grandissima lacuna che
spiega la mancanza d'attività spirituale in molti, e l'assenza d'interesse per
la loro vita islamica. Questa appare loro (soprattutto alle donne) come un sistema
di gesti astratti, di formule vuote e di quadro decorativo, cose in mezzo alle
quali l'essere spirituale assiste senza partecipazione effettiva e si
inaridisce. Quali che siano i privilegi dell'orazione spontanea, semplice e
diretta, fatta dal profondo del cuore, ma la cui
possibilità resta di fatto stesso eccezionale, c'è la necessità d'imparare a
pregare bene, e vi sono delle regole speciali per la preghiera islamica. In
quanto a ciò, sarebbe interessante sapere come accordare le modalità
ordinarie della via d'adorazione con quelle della via di conoscenza.
2° - Preoccupato d'adattare la forma
della tarîqa alle condizioni
della vita in Occidente, ne avete dato una forma personale
ma sensibilmente esteriore. Seguendo una delle vostre dottrine i fuqarâ europei, per il fatto di vivere in
mezzo alle laidezze del mondo moderno, devono “amare il bello” e “coltivare la
bellezza delle forme”. Da ciò è risultata, nel nostro ambiente, una
preoccupazione, costante ed ufficiale, d'ordine estetico
e decorativo che assume un'importanza d'opera meritoria e di criterio
tradizionale. Ci si occupa molto, in tal modo di costumi orientali, d'ogni
sorta di ornamenti (non soltanto islamici!), di tappeti, di mobili, cuscini, lampade,
armi ed altri oggetti (c'è chi ha delle vere e proprie
collezioni di tali cose). Correlativamente ci si occupa molto della messa in
scena di tutto ciò. Una cura speciale è riservata alla documentazione artistica
e fotografica, e soprattutto alla fotografia dello Shaykh in tutte le pose e tenute, nonché
dei fuqarâ; è così
che si giunge a mettersi in tenuta “indù”, cioè a torso e gambe nudi e ci si
domanda perché mai sia necessano di farsi fotografare così, anche se si
arrivava ad avere il gusto di muoversi per casa in una tale tenuta! Ma pure lasciando da parte certi eccessi universalistici al
riguardo, l'importanza accordata alla forma sensibile, al decoro, all’“effetto”,
procede da una certa confusione con l'idea di “forma tradizionale”. Questa è
eminentemente intellettuale ed interiore, e di
riflesso rituale e pratica. Essa non è che accidentalmente e
soprattutto socialmente esteriore e pittoresca. È certo che per noi in
Occidente il vestito tradizionale orientale e l'arredamento del luogo delle
preghiere svolgono un ruolo di corazza e di sbarramento contro le suggestioni e
l'invadenza della vita ordinaria non islamica e modema. Non bisogna, però, che
questi supporti diventino superstizioni o nuove forme d'attaccamento a questo
mondo seducente e fallace poiché, tutto ciò rimanendo in sé delle pure vanità, giungono a porre dei veli sull'autentica via spirituale.
A proposito di tutto ciò, è opportuno
citare un testo di Muhy-i-Din che ricorderà il senso verso il quale deve
tendere, sotto questo aspetto, la vita del faqîr. Consigliando al discepolo di
fuggire la compagnia degli esseri, fa un'estensione agli oggetti stessi:
“Questa condotta sarà osservata anche per
quel che concerne i vestiti e le abitazioni; quando un discepolo s'accorgerà d'amare il suo abito, lo venda e ne acquisti un
altro; se non ha bisogno d'un altro abito in cambio, faccia dono di quello che ama
a qualcun altro; quando amerà la sua casa, la lasci per un'altra. In modo
generale non deve rimanere con una cosa che gli prende una parte del cuore.
Dovrà diventare così “solitario” nell'esteriore, poiché Allah, sia Egli
glorificato, non si manifesta ad un cuore che è in
intimità con altri che Lui, siano essi tra gli esseri obbedienti ad Allah o tra
gli altri”.
Quale che sia la differenza delle
condizioni d'esistenza in un ambiente non islarnico e moderno, e l'interesse a
costituirsi al contrario una certa economia individuale di forma islamica (vesti, luogo
di preghiere, ecc ... ), è certo che questo testo suggerisce che c'è un limite
immediato dinanzi al quale ci si deve arrestare in questo genere d'adattamento!
D'altra parte, i fuqarâ Svizzeri e certi altri influenzati da loro, hanno un'aria
sia pontificale che marziale, in ogni caso solenne;
ora, ciò non può essere che la traduzione d'uno stato di spirito ben curioso,
ma che non è affatto islamico. Chi sa come son fatti i veri musulmani, non
manca mai d'essere colpito da questa fierezza appariscente, dall'attenzione
costante per la gerarchia e dalla ricerca della “posa” e dell’“effetto”. Se ne è talmente impensieriti che non ci si può impedire di
domandarsi su cosa si fondi un tale comportamento, ed in ogni caso quale ne sia
il significato spirituale...
3° - Nello stesso tempo, riti ed altri elementi iniziatici della via diminuivano
d'importanza o scomparivano: il “Wird” quotidiano è effettuato in
versione “abbreviata”; le sedute di “dhikr in comune” cessarono nel 1946 in Svizzera e, per analogia, altrove.
Contemporaneamente, stabilivate le riunioni del Venerdì (in luogo di quelle del
Sabato), con dei programmi improvvisati comprendenti la recitazione dei Nomi
divini, la recitazione d'un versetto coranico qualunque, la recitazione di “Muhammadun
rasul Allah” ecc.,
programmi che, a causa della loro mancanza di consistenza tecnica e d'interesse
reale, presto caddero in disuso, in Svizzera ancor prima che altrove... Ciononostante
un accento importante veniva posto sull'incantazione individuale,
ed in quest'accento v'era una cosa positivissima. Sfortunatamente, però, allorché la forza psichico-spirituale dell'invocatore non è
sufficientemente nutrita e sostenuta dalle risorse della mentalità e della disciplina
islamiche ed iniziatiche adeguate, per molti la virtù dell'invocazione s'affievolisce
ed appare infine la rilassatezza e ne conseguono la mancanza di gusto e
d'interesse. V'è, in ciò, un fenomeno che si può osservare non solamente in
Svizzera ma anche altrove, in qualsiasi luogo in cui la regolarità islamica e
l'austerità muhammadiana sono
sostituite dalle “libertà” d'una mentalità dalla
pretesa “jnanica” e dalle “indifferenze” d'uno spirito troppo “universalista”.
4° - Voi invece, ispirandovi alla
documentazione orientale, introduceste una specie di cerimoniale ritualistico
da voi inventato, che non aveva nulla in comune con il simbolismo islamico, e
sprovvisto d'ogni autentico valore iniziatico. È così che abbiamo
conosciuto i “Tre Oggetti”, costituiti dall'innocente assemblaggio d'un
pugnale, d'un bruciaprofumi e d'un candelabro disposti a triangolo dinanzi a sé
(mentre il profumo brucia, la candela illumina). Questa installazione, che
comporta un'altra delle disposizioni speciali secondo i tre momenti
dell'invocazione quotidiana, deve sostenere, secondo voi, per via di
corrispondenti suggestioni, l'interesse dell'invocatore nel suo lavoro
spirituale. Tutto ciò segna una distanza nettissima rispetto alle prescrizioni
ordinarie della via che prevedono che il recitante debba cacciare dal suo
spirito ogni pensiero ed ogni presenza che non sia
quella d'Allah (salvo quando ne considera un simbolo diretto, come quello del
Nome scritto).
Avete rinnovato persino i “Cinque Mudra”, ovvero
sistema di cinque gesti compiuti all'inizio della seduta d'invocazione per
attualizzare le cinque idee fondamentali dell'invocazione: in questo vi è
qualcosa che deriva dall'anjâli indù
e qualcosa che deriva dai gesti pontificati del cattolicesimo; quanto al resto,
deriva, francamente, piuttosto dal mimodramma!
La teoria attuale relativa a dei
riti-cerimonie è che voi non li “accordate” che ad
alcuni fra i vostri discepoli, scelti soprattutto fra quelli che sono vostri
amici personali, che vogliono approfittare della vostra “baraka personale”. Nel 1946-1947, erano state più
o meno generalizzate e si facevano i Mudra
addirittura in comune; più tardi la pratica è rimasta privata, ora sono
riservati ad un’“élite” all'interno della tarîqa;
e se è così, è perché essi hanno, secondo la vostra opinione, un valore
eccezionale. Parlando dei “Tre Oggetti” e dei “Cinque Mudra”, lo Shaykh Abdu-1-Wahid Yahya li ha qualificati di “fantasie
che nulla hanno a che vedere con il simbolismo tradizionale”.
A parte la vanità di queste cose prese in
loro stesse, quel che mi sembra debba esser
sottolineato, a causa dello spirito sincretistico ed universalista dal quale
esse procedono, è la loro funzione dissolvente in relazione ai caratteri
propriamente islamici della tarîqa. L'apparizione di queste cose nella tarîqa ha malauguratamente una spiegazione d'un altro ordine: è l'assenza di conoscenze tecniche
propriamente islamiche. Ebbene, da parte vostra, ciò è ancor più grave di ogni
altra cosa[2].
Quando a ciò voi rispondete che che i “Cinque Mudra” ed i “Tre Oggetti” sono
istituiti al fine di veicolare la vostra “baraka personale”, ci
si può chiedere perché mai questa baraka non può essere veicolata con dei mezzi di forma islamica, visto
che voi siete musulmano e che i vostri discepoli che li utilizzano lo sono essi
pure? Se dalle caratteristiche del veicolo si può dedurre la natura
dell'influenza veicolata, non si potrebbe pensare che questa “baraka”
non sia in realtà islamica?
Ma dato che il “rito”
che veicola o attualizza questa baraka è visibilmente “sincretista”, si tratta sempre e proprio
d'un'influenza d'origine spirituale piuttosto che d’un’“influenza psichica”? In
quest'ultimo caso, qual è la funzione dal punto di vista iniziatico? Più
precisamente, quale ruolo origina in rapporto all'influenza spirituale della silsila [Catena “genealogica” spirituale ed iniziatica, risalendo la quale si incontrano i vari
passaggi tramite i quali è stata trasmessa la relativa influenza. Il primo
anello è sempre il Profeta - su di lui il rito unitivo e quello pacificante.
N.d.t.]? Essendo che queste non possono, nella realtà,
essere divergenti, quale avrà il sopravvento? Occorre quantomeno sperare che
sia la silsila... D'altronde, è
quel che sembra risulti pensando al fatto che i vostri
amici s'impegnano davvero a ridurre l'importanza di questi “mezzi” dicendo che
i suddetti non hanno mai avuto una larga diffusione nella tarîqa, e che non se ne può fare
un'obiezione fondamentale. In questo caso, tuttavia, si continua a persistere
nell'attribuire a questi riti una virtù autenticamente iniziatica ed all'influenza veicolata il nome di “baraka”? Bisogna lo stesso che si sappia esattamente
quel che si vuol sostenere: se si tratta di cose valide ed
autentiche, si abbia il coraggio di spiegarle e legittimarle; se, invece, se ne
si vuol diminuire la gravità, si riconosca chiaramente che si tratta di cose
prive d'importanza intrinseca. Ma in questo caso la
prima domanda che si pone è quella concernente la natura dalle “ispirazioni”
donde queste invenzioni procedono. Secondo me questa è già tradita dal “sincretismo”
dei riti in causa.
5° - Questa tendenza a creare dei “mezzi”
o dei “supporti” al di fuori di quelli che comporta la via iniziatica nella sua
forza autenticamente islamica, si manifesta inoltre nella domanda sui “temi di
meditazione”, e sempre in un senso universalistico. Prima di dirvi qual è il
mio pensiero esatto su alcuni punti determinati di questo problema, farò
un'osservazione di carattere generale. Nella tecnica islarnica, la meditazione metodica
è regolarmente legata all'incantazione dalla sua stessa forma[3]. Che si tratti della recitazione riflessiva del Corano o dell'orazione
discorsiva, o soprattutto di formule da ripetere, o di nomi da invocare
(continuativamente o per un determinato numero di volte) - che è il modo più
caratteristico dell'incantazione iniziatica -, gli “adhkâr” [plurale di “dhikr”: ricordo, menzione,
invocazione, incantazione, appunto. N.d.T.] sono, in modo naturale, dei
supporti anch'essi, nonché temi di meditazione e di
concentrazione. Il senso del termine “dhikr” esprime bene questa doppia
funzione: “ricordo” ed “incantazione”. Queste formule
recano in sé stesse le idee che possono e devono essere
attualizzate durante l'invocazione[4];
possiedono inoltre, a causa della loro appartenenza alla rivelazione sacra, le virtù
segrete che permettono di sviluppare queste idee in modo organico, partendo
dalla loro forma verbale e dal loro senso letterale. Il lavoro spirituale si sviluppa
tanto simultaneamente quanto armoniosamente nei due aspetti di “forma” e di
“fondo” e si compie in entrambi i modi “sensibile”
ed “intelligibile”;
non interviene nessuna discordanza tra questa copia di fattori complementari. Si può aggiungere che una concezione intellettuale che non ha relazione
necessaria con il supporto della
formula d'incantazione non ha nessuna possibilità d'attualizzarsi regolarmente, né di
sussistere nella coscienza del recitante, ed ancor
meno di fissarvisi. Allo stesso modo, generalizzando, si può dire che una
“realizzazione” di stati che comincerebbe su basi che non si rifanno a queste
regole d'omogeneità tra la forma del supporto e l'essenza iniziatica dell’idea, sarà sempre
qualcosa d'arbitrario e di vago, e rischierà d'arrivare a delle conseguenze
irregolari.
Ciò permetterà
di far comprendere perché in un'organizzazione iniziatica islamica non si può
pensare di praticare che formule della rivelazione muhammadiana e della
tradizione esoterica della silsila. Tale è il caso delle
formule ordinarie del “'wird” o la recitazione continuativa
d'uno stesso versetto del Corano (ad esempio, il versetto del Trono) o di certe
sure (al-Fâtiha, al-Ikhlas, ecc.) o d'una formula eulogica quale il “tasbîh” (Subhâna-llâh) oppure il “tahmîd” (al-hamdu lillah)
o il “takbîr” (Allâhu akbar), od ancora il “tahlîl” (la ilaha illâ llâh), cioè la recitazione della Shahâda (quest'ultima potendo essere nella sua forma semplice ovvero in una più
sviluppata, come nella terza formula del wird, per esempio); allo stesso
modo, determinate formule di “preghiere sul Profeta”, delle quali esiste un
grandissimo numero; le indicazioni tecniche ordinarie dicono semplicemente
quali sono le verità da liberare intelligibilmente dalla formula nel corso
della recitazione.
(Muhy-i-Dîn Ibn 'Arabi dice che all'inizio della sua carriera iniziatica aveva praticato così per parecchi anni un solo versetto coranico;
lo recitava senza sosta ed in ogni circostanza, addirittura durante le
preghiere prescritte (oltre alle formule obbligatorie di queste) al punto
ch'era conosciuto e designato (kunya)
con questo versetto, nel suo paese!).
Il metodo
introdotto dai vostri temi di meditazione non ha un tale carattere tradizionale. Voi proponete delle
formule redatte da voi stesso e che si rifanno a delle attitudini spirituali ed a verità intellettuali. Esse devono fungere da mezzo, non
da incantazione, ma d'una certa attualizzazione d'idee spirituali concomitante
all'invocazione del Nome, e per mezzo d'una ripetizione mentale d'argomenti od enunciazioni inclusi nei temi. Questa concomitanza è
prescritta soprattutto nella prima parte della seduta individuale
d'invocazione; il tema è ricondotto ulteriormente nella coscienza in caso di
distrazione.
Nei confronti di questo metodo faccio
prima di tutto l'osservazione che, contrariamente ai metodi noti, la
meditazione e la contemplazione non derivano dalla formula del dhikr, il Nome, ma è proposta
dall'esterno con l'aiuto d'un'altra forma mentale. Non
si tratta di negare che le esortazioni al pensiero attivo che portano questi
temi non siano d'una certa quale utilità, ma il modo col quale intervengono nel
lavoro incantatorio e l'importanza che vi vogliono
assumere presentano delle difficoltà tecniche. Tanto per cominciare, c'è una
certa “mescolanza” tra gli elementi di tema psicologico e le verità sacre del
Nome. Le necessità proprie dell'invocazione esigono, piuttosto, di distaccarsi dal “pregiudizio”
del tema. In alcuni momenti avete dovuto rendervi conto di quel che questo
metodo comportava d'inadeguato e financo di sterile, visto
che si sono potuti osservare in tal modo alcuni tentennamenti sia per quanto
riguarda l'applicazione pratica delle meditazioni sulle invocazioni sia per
quanto riguarda l'importanza di questo tipo di lavoro meditativo. Molti anni
orsono, vi avevo fatto notare che v'era, in ciò,
associazione di due attività distinte ed eterogenee, le quali in realtà si
fanno concorrenza e che d'altronde, è impossibile conservare simultaneamente.
Avevate concesso, allora, che si facesse dapprima la sola meditazione per un
certo tempo, per poi cominciare l'invocazione che doveva continuare senza tema.
Più tardi però, in un'altra occasione, ci
avete detto quanto segue: “Avevo accettato,
per un periodo, in base alla
domanda di qualcuno, che si facesse
inizialmente la meditazione da sola, per poi fare l'invocazione soltanto. Ma sono
ritornato in seguito al metodo precedente e ribadisco
di nuovo: la meditazione sul tema dev'essere fatta simultaneamente all'invocazione,
ecc ...”[5].
M'è sempre parso che l'associazione delle
due cose tanto diverse come la meditazione su un tema
qualsiasi e l'invocazione d'Allah sia in sé cosa assurda, e dato che in fondo
la coscienza non poteva fare allo stesso tempo due cose divergenti, succede in
realtà che l'una o l'altra è normalmente esclusa, o che le due si alternano fra
di loro o, ancora, s'intralciano a vicenda. Una simile difficoltà non si
presenta mai nei metodi islamici, sia che si tratti
della recitazione d'un versetto o di una formula iniziatica, sia che si tratti
d'un nome divino. Non si può associare, al contrario, alla formula
d'incantazione un'attività differente dalla recitazione, ma
convergente verso lo stesso effetto. Ad esempio: pronunciando la “Shahâda” si mettono in relazione gli
elementi che la compongono coi differenti centri
sottili figurati come localizzati nel corpo del dhâkir [Colui che effettua il dhikr.
N.d.T.]; oppure, invocando il Nome, si praticano certe intensità del soffio e
flessioni delle vocali in rapporto alla proiezione del Nome su diversi punti
del corpo, oppure si fissa lo sguardo sulla forma del Nome scritta, ovvero figurandoselo nel mentale, ecc ... Non è questo il
gerere di pratiche che si riscontra nel vostro metodo iniziatico; pure se
qualche volta lo menzionate, come nel caso della visualizzazione del Nome, non
è in quella direzione che vanno, di fatto, le vostre istruzioni, né il vostro
metodo; la pratica della visualizzazione che avete conosciuto a Mostaghanem
secondo le istruzioni di S. ["S". sta per 'Sidî", letteralmente: "Mio
Signore, appellativo di rispetto col quale in certe turûq, come quella Alawi cui appartenevano tanto Vâlsan quanto
Schuon, ci si rivolge prima di tutto ad uno Shaykh o ad un muqqaddim, ma anche agli altri fuqarâ]
Adda dal tempo dello Shaykh Ahmed non è mai stato in uso propriamente detto
presso di voi, ed ancor meno nei metodi attuali[6].
Un'altra annotazione concerne il
carattere intrinseco di questi temi. Le idee che questi temi enunciano non
hanno veramente un carattere islamico preciso; esse partecipano piuttosto d'una
concezione intellettuale indeterminata, e si rifanno evidentemente ad uno “stile di pensiero europeo”, ma non ad una forma
spirituale sacra. Non si tratta di contestare che le verità teoriche che questi
temi esprimono abbiano una corrispondenza nelle “verità sufî”. Si tratta di constatare ch'esse hanno, col Sufismo, tanto rapporto quanto
con il Cristianesimo, il Buddhismo, l'Induismo, ecc ... , è per questo, d'altro
canto, che voi potevate ritenerle adattabili alle differenti forme tradizionali
che volevate dirigere in Occidente. Non si tratta nemmeno di rimproverare a
questi temi di non essere in arabo! Se fossero state tradotte in arabo, non per
questo avrebbero avuto il minimo valore in più, mentre la contrario i fuqarâ avrebbero
avuto difficoltà a comprenderle, senza parlare dell'effetto “strano” che queste
formule farebbero su quelli che sono abituati all'arabo sacro della
Rivelazione. La presenza e l'impiego di queste formule di stile occidentale m'è parso come un debole surrogato delle formule islamiche
autentiche. È difficile gustare le vere modalità della
fede e della grazia islamiche. Sotto questo aspetto si
può anche osservare che i primi temi erano assai meno distanti da questo
carattere islamico di quelli che hanno fatto séguito, il che dimostra che ci
troviamo dinanzi ad un allontanamento progressivo.
Nel medesimo ordine di cose, si presenta
una particolare difficoltà con l'artificio metodico di considerare il Nome come
entità indipendente ed autosufficiente. Una serie di temi
dicono: “'Non c'è che il Nome, è per questo che muoio
in Lui”, “'Non c'è che il Nome, è per questo che vinco grazie a Lui” (“...che
sono pacificato in Lui..., che sarò liberato da Lui... , che non sono altro che
Lui... che non sono nulla all'infuori di Lui solo…”).
La verità, naturalmente, è che è che non
c'è che il Nome, ma anche il Nominato (per non parlare del Nominante).
Sappiamo, certamente, che il Nome ed il Nominato sono
“essenzialmente” identici, ma ciò non è “essenzialmente” esatto. Quale può essere
il vantaggio “tecnico” d'avere una formula inesatta e falsa financo nella sua
forma e nel suo potere di suggestione? Poichè secondo il suo potere di suggestione essa significa “che non c'è nessun Nominato ma solo il Nome”. Se il tema deve suggerire da
solo un’idea, questa è proprio, in questo caso, l'affermazione del Nome in quanto entità sussistente di per sé!
Non si puo far intervenire, qui, che per complicazione, l'idea che il Nome è identico al Nominato: la formula, al
contrario, la nega nella sua funzione tecnica propria.
C'è, in un tale metodo, un caso di pura
onomatolatria, il Nome non essendo più, in realtà, un “mezzo” od un “intermediario”, bensì lo scopo stesso. Si potrebbe
meglio chiarire la situazione di questa concezione intellettuale facendo un
accostamento con la situazione degli esseri celesti staccati dalle loro radici principiali. Lo Shaykh Abd al Wahid Yahya dice, a
questo riguardo (Les “racines des plantes”: Ed. Trad., sett.
1946) [Versione italiana: “Le ‘radici delle piante’” cap. 62, pagg. 326-331 de:
"Simboli della Scienza Sacra”, Adelphi,
Milano 1975". N.d.T.]: “L'invocazione degli angeli considerati... non alla stregua di quegli
intermediari celesti” ch'essi sono dal punto di vista
dell'ortodossia tradizionale, bensì come vere e proprie potenze indipendenti
costituisce propriamente l’“associazionismo” (in arabo: shirk), nel senso che
dà a questo termine la tradizione islamica, visto che tali potenze appaiono
allora inevitabilmente come associate
alla Presenza divina stessa,
invece d'essere semplicemente derivati da
questa”. Faccio qui una semplice analogia: ma la “personificazione del Nome la
giustifica abbastanza in quanto tale”.
Malgrado la teoria del Nome che avete fatto, non
c'è in realtà nessun interesse tecnico nell'immaginare in modo metodico “che
non c'è che il Nome”. La verità utile e “vera” insieme è “che non c'è che
Allah”. Quando si dice ciò, si dice implicitamente che
il nome d’“Allah” è identico ad Allah per istituzione divina, ma quando
si dice “che non c'è che il Nome”, non si dice né implicitamente né
esplicitamente che non c'è che Allah; e bisogna far intervenire una teoria che
deve “scusare” l'affermazione come “artificio” tecnico! Il metodo tecnico
autentico istituito da Dio tramite il Suo Profeta è di dire “Allah” facendo così simultaneamente le
due cose identiche nell'essenza: designare Allah
e dire il Suo Nome. È questa la maniera in cui si utilizza “tecnicamente”
l'identità essenziale tra il Nome ed il Nominato, non
dislocandoli e sostituendo l'uno
con l'altro.
Ma quale può essere l'interesse di parlare
d'Allah designandolo tramite
l'intermediario del termine “Nome”? Ciò è, evidentemente, molto artificiale.
Quando, però, dei temi affermano: “Solo il Nome è
reale” o “Solo il Nome è”, o “Solo il Nome è permanente”, o ancora “Solo il
Nome è assoluto”, o
“Solo il Nome è infinito”, “Solo il Nome
è eterno”, ciò non è più soltanto artificiale, ma anche erroneo dal punto di
vista teologico e metafisico dato che, in questa prospettiva d'unicità d'Allah solo è reale. Allah solo è, Allah solo
è eterno, infinito, assoluto, ecc... Ed in ogni modo
il Nome solo non può essere assoluto o infinito! Non può neppure essere “reale”,
poiché metafisicamente è una pura astrazione. Da
questo punto di vista i Nomi divini sono “rapporti e relazioni” (nisab wa idâfât)! L'idea metodica
d'attribuire al Nome una realtà autonoma e totale è una pura alterazione della
verità e della concezione metafisica. Le formule islamiche non contraddicono
mai le verità principiati e rimangono sempre vere, qualsiasi sia il piano della
loro applicazione; esse inoltre sono sempre, ad ogni livello,
dei mezzi metodici. Lo stesso dicasi quando la Shahâda interviene nel Corano per
affermare degli aspetti propriamente divini
ma determinati, come ar-Rahmân, ar-Rahîm, o al-Azîz, al-Hakîm,
ecc .. , la formula ricollega i suoi nomi divini alla Divinità totale, Allah o
all'Ipseità assoluta, Huwa, che è il
loro principio d'identificazione universale, e dice: “Bismi-llahi r-Rahmâni-r-Rahîm”, o “La ilaha illa Huwa-r-Rahmâni-r-Rahîm”, “La ilaha illa Huwa-l-Azîzu-l-Hakîm”. Se i vostri temi fossero
tradotti in arabo, credo che nessun musulmano cosciente potrebbe pronunciarli. È,
questa, un'illustrazione chiarissima dei rischi di un'iniziativa individuale in
materia di tecnica iniziatica. In modo generale, di fronte alle normali
possibilità della tradizione iniziatica, queste formule dalle tendenze universalistiche,
mi son parse svolgere, alla stessa stregua delle altre innovazioni
summenzionate, un ruolo “dissolvente” dei caratteri prorpi della via islarnica.
Avendo consultato in modo molto sommario lo Shaykh Abdu-l-Wahid Yahya su questo
punto, m'ha risposto così, pochi mesi fa: "Il mio
parere su quest'argomento è semplicissimo: mi sembra del tutto inammissibile
che, in una tarîqa, si faccia uso di
temi di meditazione che non si basino espressamente su qualche formula
propriamente islamica. Questi temi sedicenti “universalisti” non sono, in
realtà, altro che fantasia, senza qualsiasi valore
tradizionale, come tutto ciò che non trova appoggio in una forma determinata (e
d'altra parte è evidente che quelli che sono arrivati ad un punto di vista
realmente universale non hanno più bisogno alcuno di supporti di questo
gerere); quest'è un altro esempio nettissimo di quella mancanza di conoscenze
tecniche della quale vi parlavo, conoscenze alle quali è più che impossibile
supplire con delle “improvvisazioni” come queste. In fondo, ciò ha lo stesso valore ultimo dei procedimenti “universalistici”
in uso presso i discepoli di Vivekananda e gli altri “neo-vedàntisti”; è ancor più
grave, però, quando queste cose s'introducono in un'orgtnizzazione iniziatica
regolare, di quando esse sono fatto proprio di persone
che, insomma, non agiscono che per conto loro e non hanno alcunché d'autentico
da trasmettere. La penso esattamente come voi in quanto al loro effetto “dissolvente”
dal punto di vista islamico; sembrerebbe che si faccia di tutto per “deislamizzare”
la tarîqa ed
allora, come dicevo, sarà tutto quel che si vuole tranne una tarîqa. Aggiungo ancora
che tutto ciò cade interamente nel “soggettivo”, nel senso ordinario della parola;
le cose di questo genere mi fanno pensare, d'altro canto, che in realtà l'altro
senso che si attribuisce loro non è tanto differente quanto lo si vuol dire, e
che nella stessa differenza che vi si vuol vedere c'è una buona parte
d'illusione…”.
Aggiungerò inoltre due osservazioni
riguardo ai due ordini principali d'obiettivi che i vostri temi di meditazione
propongono, ossia: la concettualizzazione di certe verità universali e la
costituzione d'attitudini spirituali del tarîqa.
L'insegnamento tradizionale dell'Islam li considera nei modi seguenti:
In quanto alle idee universali quali
l'Eternità, l'Infnito, l'Unità, la Verità, la Perfezione, la Pace, la Via, la
Bellezza, la Bontà, la Maestà ecc…, i metodi islamici, sempre basati
sull'incantazione, utilizzano principalmente l'invocazione speciale ed autonoma d'un nome divino corrispondente, o certe coppie di
nomi. Per concezioni più complesse o più circostanziate,
ci sono invece dei versetti o formule che includono tali Nomi divini.
L'invocazione del nome Allah, al
contrario, resta quella dell'incondizionamento assoluto. Per le attitudini spirituali del dhâkir, senza voler dire che le
esortazioni non siano necessarie, è l'esercizio pratico delle opere e
l'acquisizione delle virtù (al-mu'âmalât)
che sono previste prima di tutto, e non un semplice sforzo di convinzione mentale.
L'acquisizione delle virtù è condizionata da discipline i cui fondamenti si
trovano nelle regole sacre della via, più precisamente nei caratteri muhammadiani
della via di povertà, di rinuncia e di devozione. La semplice meditazione sulle
qualità corrispondenti rischia fortemente di rimanere sterile e d'efficacia
illusoria, se il resto dell'essere è insufficientemente educato e santificato;
d'altronde, il segno dell'efficacia in quanto all'acquisizione di virtù
attraverso la meditazione, sarebbe giustamente la loro traduzione nei modi
pratici dell'esistenza del vero faqîr.
Perseguire la “purificazione del mentale” senza vivere, concepire ed agire in una modalità conforme alle regole della fede,
della pietà, della saggezza interiore ed esteriore, è una pura assurdità; ed
anche se ci fossero dei casi eccezionali sotto questo aspetto, ciò non potrebbe
comunque mai giustificare la formulazione di questo metodo come una “regola”
sufficiente applicabile ad una comunità.
Un inconveniente generale di tutti questi
mezzi nuovi ed improvvisazioni che hanno corso ormai
da anni nella tarîqa, è che
l'orientazione di tutto lo sforzo d'organizzazione spirituale e tecnica va nel
senso d'una “esperienza” i cui frutti rimangono problematici, il che non
sarebbe se ci si orientasse verso l'acquisizione dei normali mezzi della via;
quali che siano le reali difficoltà d'una fonnazione che sia adatta agli
Europei per una via islamica, come è qui il caso, in principio, d'una élite, lo
sforzo doveva andare innanzitutto in questo senso, e non in quello inverso
d'abbassamento della via ad un livello troppo inferiore di tecnica islamica ed iniziatica.
***
Per riassumere le contestazioni relative alla situazione presente della tarîqa, si potrebbe dire questo:
In modo generale c'è un'importanza
esagerata accordata alle questioni di forma esteriore mentre si trascurano la forma islamica spirituale ed interiore; nel
dominio esoterico si trascura il lato sacro, e sola efficacia dei comandamenti,
e si sostituisce così il rigore e l'austerità tradizionale con la comodità, la
rilassatezza e l'estetismo; nell'ordine iniziatico si manca di conoscenze tecniche,
si lasciano perdere i mezzi propri alla via e si inventano, al contrario, per
zelo d'adattamento e concezione sincretistica, dei pseudo-riti e dei metodi
impropri per un'organizzazione iniziatica musulmana. La direzione generale della
via non è più assicurata da un contatto normale con le fonti tradizionali; essa
è a discrezione d'un comportamento in qualche maniera
solipsistica che si sostiene con delle “ispirazioni” di carattere “universalistico”
il cui effetto è la perdita progressiva dei caratteri islamici della via, e la
diminuzione della sua efficacia spirituale.
Molti membri della tariqa europea,
malgrado non conoscano che questa, e che perciò non possono avere che un'esperienza
limitata, hanno l'impressione di non aver avuto, così,
che un contatto indiretto con le realtà proprie all'esoterismo islamico. Altri
hanno perfino pensato che la via iniziatica islamica non è per nulla
interessante visto che si riduce a delle cose assai
esteriori e prive di alcun carattere tecnico; quest'ultima opinione è nondimeno
tanto più ingannevole perché tiene conto del fatto che eravate considerato in
qualità di rappresentante particolarmente qualificato dell'esoterismo islamico,
ed addirittura il solo per l'Occidente, mentre già in paesi islamici era
difficilissimo poterne trovare uno onde trame profitto.
Se a tutto ciò s'aggiunge
inoltre l'importanza che assumono le “storie personali” nell'ambiente svizzero
da sempre, suscitate soprattutto dalla vostra “autocrazia” intellettuale e dalla
vostra “infallibilità”, non si può esser troppo sorpresi nel constatare la
proporzione eccessiva di quelli che hanno abbandonato la tarîqa o la vostra direzione personale. A questo riguardo, mi
permetto di farvi osservare che, per esempio, su una cinquantina di membri
svizzeri ricollegati da diciassette anni in qua, non ve ne restano ora che dai
venti ai venticinque (uomini e donne), alcuni dei quali si mantengono appena in
contatto con voi; tutti gli altri hanno lasciato la via e l'Islam, sia per
rientrare nel Cattolicesimo, sia per andare a porsi dal lato “indù”, sia per
cadere in uno stato indeterminato, il più probabilmente profano. La situazione
spirituale di tutti questi membri costituisce naturalmente una pesante responsabilità per voi. Questo risultato è
certamente in rapporto anche con i criteri d'ammissione dei membri e con la
loro formazione dottrinale, e ciò risalta maggiormente qualora lo si paragoni con la situazione dei membri al di fuori
della Svizzera, reclutati soprattutto in base alla comprensione dell'opera
tradizionale dello Shaykh Abdu-l-Wahid Yahya, al quale restano più attaccati in
modo naturale, il che vale loro, d'altra parte, una maggiore aderenza alla via
islamica stessa. Ad ogni modo, tuttavia, gli sforzi d’“adattamento” della via
non avranno l'effetto d'assicurare ai membri delle condizioni favorevoli di
sviluppo iniziatico, né di mantenere la coesione della tarîqa.
In questa situazione non c'è niente di
sorprendente nel fatto che un certo numero di membri della tarîqa non siano contenti, né rassicurati in quanto alla loro
condizione iniziatica e tradizionale, tanto più che lo Shaykh Abdu-l-Wahid Yahya
è lungi dal riporre in quest'organizzazione la stessa fiducia di prima[7]. C'è inoltre la convinzione che anche se certi
miglioramenti o riforme potevano ancora essere realizzate
nella nostra organizzazione, questi sembrano dover rimanere circoscritti entro
i limiti d'una certa prospettiva intellettuale e d'una mentalità piuttosto
particolare che lascerebbero sempre scoperte possibilità ben altrimenti
interessanti per alcuni membri. Quelli che, con me, intendono restare fedeli
alla via iniziatica islamica, ritengono esser loro diritto ricercare sempre la
realizzazione della concezione tradizionale ed
iniziatica sulla cui base sono entrati tutti nella tarîqa e con la quale non hanno nessuna intenzione di rompere: in
tutto ciò v'è una conseguenza del fatto che il patto iniziatico è fatto, in
realtà, con Allah, ferma restando la
sua natura di affiliazione ad una via, e che l'unico fondamento dei rapporti
iniziatici personali con il “murshid” è la fiducia nella sua
verità e nella sua virtù tradizionale nel senso più completo. Allorchè questa
fiducia diminuisce in una misura troppo sensibile ovvero viene a mancare, si
produce una situazione che comporta la convenienza d'una
separazione.
Aggiungerò, a questo proposito, una
precisazione ancora: in principio, non sarebbe neppure necessario giustificare
una tale opinione allorché si manifesta, dato che essa
opera in tutti i casi di per sé stessa, allo stesso modo in cui la fiducia che
si accorda al murshid può imporsi in modo spontaneo ed immediato
senza alcuna deliberazione propriamente detta. Naturalmente, le relazioni in
questione possono essere basate anche su ragioni dimostrabili, almeno in una
certa misura. Qualche volta, invece, nulla può giustificare l'opinione
sfavorevole che ci si fa, magari anche solo provvisoriamente, nei confronti del
murshid:
soltanto questa reazione condiziona in tutti i casi il
profitto attuale dell'aspirante ad una via iniziatica e del discepolo che si
trovi già sotto un'obbedienza spirituale.
Ignorando in quale misura voi stesso
siate disposto ad accettare queste notizie per voi sui rapporti tra discepoli e
murshid, e per facilitare la spiegazione, vi citerò innanzitutto questo testo dello Shaykh
al Akbar che
sottolinea l'importanza tecnica dell'opinione personale del discepolo nei
confronti del “maestro”, ed il grado in cui questa condiziona l'esistenza dei rapporti
fra di loro:
“Quando ti troverai tra le mani d'uno Shaykh irreprensibile (mahfûs)
che osserva scrupolosamente la pietà (wara) in tutti i suoi
stati e del quale si attesta l'eccellenza e che si cita come autorità, che di fatto corrisponde a quel che si dice di lui, se tu trovi
nella tua anima della venerazione (ihtirâm) per lui e della
considerazione (ta'shîm) per la sua verità, in ciò si troverà il fondamento
del tuo profitto e della tua salvezza per mezzo delle sue mani. Se tu non puoi
provare venerazione per lui, cerca un altro, poiché non potrai mai trar
profitto da questi finché tu non l'accompagnerai con
venerazione (hurma). Neppure se fosse, questi, il più eminente ed il più sapiente degli uomini, se hai di lui un'opinione
sfavorevole, non potrai ottenere un profitto grazie a lui. Quando,
invece, troverai qualcuno che fa sorgere nel tuo animo della venerazione,
mettiti al suo servizio e sii morto nelle sue mani, e che ti rigiri allora come
vorrà senza che tu abbia una volontà propria nella tua anima”. (Mawâqi an nujûm). Un'altra volta dice che “il discepolo resterà al servizio dei
maestri sinché porterà venerazione per loro e se succede che il cuore perde
questo sentimento non deve restare con essi una sola ora di più; poiché non ne
otterrà beneficio alcuno ma danno soltanto; la compagnia spirituale (subha)
non reca profitto che quando è accompagnata da sentimento di venerazione
(Futâhât,
cap. 181)”.Tale regola fondamentale è tanto più
importante in quanto l'ipotesi formulata dallo Shaykh
al Akbar è che ci si
trovi in presenza d'un maestro autentico, e che la separazione da lui s'impone
semplicissimamente a causa dell'opinione del discepolo nei suoi confronti. Ma al di fuori di questo fatto elementare che può essere ricondotto
alla nozione d'affinità spirituale, una separazione dal “murshid” può imporsi in seguito ad
irregolarità manifeste da parte di questi. È così che lo Shaykh al Akbar, enunciando le condizioni del
magistero iniziatico, e dopo aver parlato d'una
prima categoria di maestri, e cioè “quelli che
sono conoscitori del Libro e della Sunna, che li professano esteriormente e li
realizzano interiormente, rispettando i limiti d'Allah, appoggiandosi sulle
prescrizioni della legge e non ricorrendo a delle interpretazioni quando si
tratta d'evitare delle cose (proibite o dubbie)”, ecc ... , aggiunge questo a
riguardo d'un'altra categoria: “Si tratta dei maestri che sono caratterizzati
da degli stati che fanno sì che abbiano degli sbandamenti e che non osservano questa
correzione nelle loro manifestazioni. Questi li si lasciano
nei loro stati e non si resta in compagnia loro neppure se compiono dei prodigi
e non ci si rimette alla loro assistenza sinchè sono irriverenti nei confronti
della Legge, poiché noi non abbiamo altra via verso Allah che quella che Egli Stesso ci ha tracciata, e colui il quale
pretende che ne esiste un’altra costui
dice una cosa falsa. Non si prende come moddello un maestro che non osserva le
convenienze, anche se è sincero nei suoi stati, ma lo si
rispetta” (Ibidem). Quel che,
inoltre, è notevole, è che questa classificazione dei maestri in due catergorie è fatta in base a
segni esteriori e controllabili. Ma per fare il punto di questo problema delle
relazioni tra discepolo e murshid, si
evince che allorché la convinzione del discepolo è
sfavorevole al proseguimento della via sotto la stessa guida spirituale, questo
fatto esercita i suoi effetti in modo incoercibile. È allo stesso concetto che
si rifanno in fondo le vostre stesse parole nella vostra risposta a me: “Nessun
maestro tratterrà un discepolo che ripone la sua fiducia in un altro Maestro”;
per esser completi, però, bisogna aggiungere quel che dice lo Shaykh al-Akbar
sulla convenienza e finanche sulla necessità di lasciare un “maestro” in cui
non si ripone tutta la fiducia richiesta, e ciò al di fuori da ogni obbligo di
riporla in qualcheduno altro (problema che resta
d'altra parte di competenza personale d'ognuno).
Dopo le spiegazioni date in questa
lettera, concluderò così:
Quale che sia la vostra opinione su tutto
ciò non dubito che voi stesso siate convinto che la separazione intervenuta era non solamente utile ma necessaria. Da parte mia, sono
felice del vostro accordo, poiché in questo modo si evitano delle complicazioni.
Non dubitavo, d'altra parte, che tale doveva essere il vostro comportamento perché, in altri casi, considerate di
poter “autorizzare” delle uscite dalla tarîqa
e dall'Islam stesso, nel nostro caso non dovevate prendere nessuna decisione di
questo genere: noi restiamo nell'Islam e nella tarîqa, siamo fedeli ai principi tradizionali ed
iniziatici, rispettiamo il patto della via iniziatica, e nell'intento di
ricercare le migliori condizioni d'adempimento, ci teniamo al riparo da tutti i
rischi possibili d'un orientamento non-islamico e pseudo-iniziatico.
La forma nella quale avete manifestato il
vostro accordo può apparire eccessiva, ma comprendo che in questo modo volevate
fugare ogni contestazione in merito alla validità della nuova branca della tarîqa, affermandone voi stesso il
carattere regolarmente indipendente. Penso, d'altro canto, che la separazione sopravvenuta
tra di noi sarà proficua per voi stesso, al fine d'un
esame più profondo dell'organizzazione che dirigete. Formulo comunque, a questo
riguardo, unitamente a tutti i miei amici, i migliori auguri nella speranza che
Allah ci guiderà tutti nella via
tracciata dal Suo Profeta ed i Saggi, il lignaggio
iniziatico. Amîn. Wa-l-hamdu
lillâhi Rabbi-l-âlamin!
Ricevete, carissimo e venerato Maestro, il mio
miglior ricordo e i miei migliori auguri di Pace, di Misericordia e di Benedizione.
N.B. Potete constatare
che mi sono astenuto, qui come nella mia precedente lettera, dal ripercorrere
le mie difficoltà con voi, ma dato che nella vostra lettera dite che non ho “mai
potuto comprendere la vostra natura”, mi sarà sufficiente rispondervi che stava
piuttosto a voi il conoscere la mia; tenendone conto qualora ciò fosse
rientrato nelle vostre possibilità.
D'altra parte, quando dite che non ho “mai
voluto fare l'esperienza seria di determinate regole tradizionali, ciò che era l' unica cosa che avrebbe potuto delucidarmi in merito al
vostro ruolo”, devo concluderne che quest'opinione è, per me, la migliore delle
prove che voi non vi siete reso conto di quale fosse effettivamente il mio
caso, e quanto la mia situazione fosse inutilmente penosa. Non insisterò oltre
su questo problema che è in ogni caso privo d'importanza, ora come ora. Quanto
a quest'altra frase, concepita secondo la stessa maniera “assoluta” (vi si trova un terzo “mai”): “Non
avete mai compreso il racconto coranico dell'incontro di Mosè con il Khidr” vi dirò semplicemente quanto segue: quel che aveva fatto difetto a Mosè era la “pazienza” mentre io, in
circostanze incornparabilmente più modeste ne ho comunque avuta abbastanza, tanta
dà far ritenere, a persone ben piazzate e dotate d'autorità, che ho pagato
tutto il tributo della “sottomissione”. Mosè, inoltre, era obbligato a credere
nella verità del Khidr visto che è Allâh stesso che ve l'aveva impegnato e che pertanto, la questione della mancanza di fiducia non doveva porsi per lui.
[1] Testo
tratto da: Michel Vâlsan, Lettere di
distacco da F. Schuon, Edizioni Al-Khâtamu Al-Dhahabiyy, Al-Qâhira
[2] Si ponga bene mente al fatto che, se si vuole disporsi favorevolmente ad entrare nella Khalwa [Ritiro, isolamento
individuale, a scopo meditativo e contemplativo,
di solito in una stanzetta. Può
durare anche sino ad un massimo di 40 giorni. Si tratta comunque
di un mezzo tecnico sempre meno utilizzato in epoca contemporanea. N.d.T.] e fare l'invocazione, esistono delle
adeguate prescrizioni tradizionali, e non c'è nessun bisogno d'andarle a cercare al di fuori dell'Islam o d'inventarle: bisogna mettersi
in stato di purificazione, compiere due rak'at rituali sul luogo stesso dell'invocazione (ciò è fra l'altro più normale e
più efficace per un musulmano che non i cinque
mudra, e se è il caso può fare qualche rak'at in più), dopodichè domanda ad Allâh il suo soccorso e la sua grazia; si può anche fare una recitazione d'una
formula introduttiva
oppure un du'a. È semplicissimo,
efficacissimo ed islamicissimo, ma per ciò bisogna evidentemente vivere e pensare in forma
islamica.
[3] Quando si tratta di lavoro senza supporto auditivo, c'è supporto visuale o tema di concezione
immaginativa, sempre formalmente legate ad un simbolismo sacro.
[4] Si hanno così formule dal contenuto assai
vario: “preghiere”, “lodi” e “glorificazioni”, “attestazioni”, “avvertimenti” o
“ingiunzioni divine”, “definizioni principiali” ecc ...
[5] I fuqarâ di Parigi hanno
anche ricevuto notizia che in Svizzera si pratica quest’“associazione” in un
modo ancor più caratteristico, definito come “rotazione
continua del la formula del tema nel mentale” durante l'intera invocazione, ma
ciò sembra essere piuttosto un'esagerazione speciale ed occasionale.
[6] Aggiungerò incidentalmente che, nello stesso ordine d'idee sono le indicazioni sulla concentrazione sono sempre state
carenti in tema di precisione e di carattere tecnico.
[7] Non spetta a me di determinare l'atteggiamento dello Shaykh Abdu-l-Wahid
Yahya di fronte a questa crisi della tarîqa. Dato che
però da parte vostra si sostiene che il suo atteggiamento attuale è dovuto al
fatto che avrebbe ricevuto delle “informazioni inesatte” o “esagerate”, citerò qui quanto mi diceva lui stesso, ultimamente, a
questo riguardo: “Constato ... una volta di più il procedimento che consiste
nel dire che l'uno o l'altro deve aver avuto delle “false informazioni”; non
c'è da meravigliarsene dato che si giunge a venirmi a dire che ne ho ricevute
anch'io, come se lo si sapesse meglio di me, e come se fossi incapace di
rendermi conto da solo cosa stia accadendo; a questo punto, comincio a
domandarmi se decisamente mi si prende per un imbecille!”.
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