"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

giovedì 2 novembre 2017

René Guénon, Autorità spirituale e Potere temporale - V - Dipendenza della regalità nei confronti del sacerdozio

René Guénon
Autorità spirituale e Potere temporale

V - Dipendenza della regalità nei confronti del sacerdozio

Ritorniamo ora ai rapporti tra Brâhmani e Ksatriya nell’ambito dell’organizzazione sociale dell’India: di norma appartiene agli Ksatriya il potere esteriore, in quanto la sfera dell’azione, quella che li riguarda più direttamente, è il mondo esterno e sensibile; ma questo potere non è nulla senza un principio interiore, puramente spirituale, qual è quello incarnato dall’autorità dei Brâhmani, in cui esso trova la propria unica reale garanzia.
Perciò il rapporto tra i due poteri può anche essere rappresentato come un rapporto tra «interiore» ed «esteriore», rapporto che in effetti simboleggia perfettamente quello tra la conoscenza e l’azione, o, se si vuole, tra «motore» e «mobile», per riprendere l’idea esposta da noi precedentemente, la quale del resto si riferiva tanto alla teoria aristotelica quanto alla dottrina indù[1].
È dall’armonia tra «interiore» ed «esteriore», che non deve essere affatto intesa come una sorta di «parallelismo» se non si vogliono misconoscere le differenze essenziali tra i due campi, è da questa armonia, dicevamo, che discende la vita normale di quella che si può chiamare l’entità sociale; è bene osservare che con questa espressione non si vuole suggerire una qualsiasi assimilazione della collettività a un essere vivente, tanto più che oggi certa gente ha fatto uno strano abuso di una tale assimilazione, assumendo come una vera e propria identità quella che è soltanto analogia e corrispondenza[2].
In cambio della garanzia che l’autorità spirituale dà al loro potere, gli Ksatriya, mediante la forza di cui dispongono, devono assicurare ai Brâhmani il mezzo per svolgere in pace, al riparo dal disordine e dall’agitazione, la propria funzione di conoscenza e di insegnamento; è quanto il simbolismo indù rappresenta nella figura di Skandha, Signore della guerra, che protegge la meditazione di Ganesha, Signore della conoscenza[3]. È da rilevare che la stessa cosa si insegnava, anche esteriormente, nel medioevo occidentale; infatti san Tommaso d’Aquino dichiara espressamente che tutte le funzioni umane sono subordinate alla contemplazione come al loro fine superiore, «sicché, a considerarle come si deve, esse tutte appaiono al servizio di coloro che contemplano la verità», e che in fondo l’intero reggimento della vita civile ha come vera ragion d’essere di assicurare la pace necessaria a tale contemplazione.
È evidente quanto ciò sia lontano dal punto di vista moderno e come la prevalenza della tendenza all’azione, tipica degli Occidentali, non debba condurre necessariamente alla svalutazione della contemplazione, cioè della conoscenza, a patto che questi possiedano una civiltà di carattere tradizionale, la quale nel medioevo era una forma religiosa (da cui la sfumatura teologica che nella concezione di san Tommaso è sempre legata alla contemplazione mentre in Oriente la contemplazione è intesa nella sfera della metafisica pura).
D’altra, parte, nella dottrina indù e nell’organizzazione sociale che ne è l’applicazione, presso un popolo le cui attitudini alla contemplazione, intese questa volta nel senso dell’intellettualità pura, sono chiaramente preponderanti, anzi in genere sviluppate a un grado che è difficile trovare altrove, il posto assegnato agli Ksatriya, cioè all’azione, pur essendo subordinato come dev’essere normalmente, è tuttavia ben lungi dall’essere trascurabile, poiché comprende tutto ciò che si può chiamare il potere apparente. Del resto, come abbiamo rilevato in un’altra occasione[4], coloro i quali, influenzati dalle erronee interpretazioni che circolano in Occidente, avessero qualche dubbio sull’importanza reale, per quanto relativa, accordata all’azione sia dalla dottrina indù sia da tutte le altre dottrine tradizionali, non dovrebbero, per convincersene, che riferirsi alla Bhagavad Gîtâ, a uno di quei testi, cioè, destinati particolarmente all’uso degli Ksatriya, cosa questa che non si può dimenticare se si vuole veramente comprenderne il senso[5].
I Brâhmani non devono far altro che esercitare un’autorità in certo qual modo invisibile, la quale può, come tale, restare ignota, ma non per questo cessa di essere il principio immediato di ogni potere visibile; questa autorità è come il perno intorno al quale ruotano tutte le cose contingenti, l’asse fisso intorno a cui il mondo compie la sua rivoluzione, il polo o il centro immutabile che dirige e regola il movimento cosmico senza parteciparvi[6].
La dipendenza del potere temporale dall’autorità spirituale ha il suo segno tangibile nella consacrazione dei re; essi non sono veramente «legittimati» se non quando abbiano ricevuto dal sacerdozio l’investitura e la consacrazione, le quali implicano la trasmissione di un’«influenza spirituale» necessaria all’esercizio regolare delle loro funzioni[7]. Tale influenza si manifesta talora all’esterno con effetti nettamente sensibili, di cui citeremo come un esempio il potere di guarigione dei re di Francia, il quale era direttamente legato alla consacrazione, manifestandosi in seguito a essa e non per trasmissione al re da parte del suo predecessore. Questo dimostra come tale influenza non appartenga al re, ma gli sia conferita quasi per delegazione dell’autorità spirituale, delegazione in cui consiste propriamente il «diritto divino», come dicevamo in precedenza; il re, quindi, ne è soltanto il depositario, e può di conseguenza perderlo in determinati casi; per questo motivo, nella «cristianità» medioevale, il Papa poteva sciogliere i sudditi dal giuramento di fedeltà verso il loro sovrano[8].
Nella tradizione cattolica, del resto, si rappresenta san Pietro che tiene in mano non soltanto la chiave d’oro del potere sacerdotale, bensì anche la chiave d’argento del potere regale; queste due chiavi erano, presso gli antichi Romani, uno degli attributi di Giano, e come tali erano le chiavi dei «grandi misteri» e dei «piccoli misteri», i quali, secondo le nostre precedenti spiegazioni, corrispondono altresì, rispettivamente, all’«iniziazione sacerdotale» e all’«iniziazione regale»[9]. A questo proposito, è opportuno osservare che mentre Giano raffigura l’origine comune dei due poteri, san Pietro è l’incarnazione del potere sacerdotale, al quale le due chiavi sono trasferite: è per mezzo suo infatti che viene trasmesso il potere regale[10], mentre il potere sacerdotale è ricevuto direttamente dalla fonte.
Ciò che precede definisce i rapporti normali tra l’autorità spirituale e il potere temporale; se questi rapporti fossero sempre e dappertutto osservati, mai nessun conflitto potrebbe nascere tra l’una e l’altro, perché ognuno di essi occuperebbe il posto che gli compete in virtù della gerarchia delle funzioni e degli esseri, gerarchia la quale, torniamo a insistervi, è rigorosamente conforme alla natura stessa delle cose. Purtroppo, ciò accade di rado, e di fatto le relazioni normali sono state troppo spesso disconosciute o addirittura rovesciate; a questo proposito è importante rilevare innanzi tutto come sia già un grave errore considerare lo spirituale e il temporale semplicemente come due termini correlativi o complementari senza rendersi conto che il secondo ha il suo principio nel primo. Si può cadere facilmente in questo errore perché, come dicevamo, la complementarità ha una sua ragione d’essere in una situazione in cui i due poteri appaiono divisi e in cui l’uno non ha nell’altro il suo principio ultimo e supremo, ma soltanto il principio immediato e relativo.
Come facemmo rilevare in un’altra occasione per quanto riguarda la conoscenza e l’azione[11], tale complementarità non è falsa, ma soltanto insufficiente, perché corrisponde a un punto di vista pur sempre esteriore, qual è del resto la divisione stessa dei due poteri, necessaria in una condizione del mondo in cui il potere unico e supremo non è più a portata dell’umanità ordinaria. Si potrebbe anche dire che, all’atto della loro differenziazione, i due poteri si presentano, per forza di cose, nel loro rapporto normale di subordinazione, e che il concepirli come correlativi non può avvenire se non in una fase ulteriore del cammino discendente del ciclo storico; a questa nuova fase si riferiscono più specificamente certe espressioni simboliche che mettono in evidenza soprattutto l’aspetto della complementarità, anche se una corretta interpretazione permette ancora di riconoscere un’indicazione del rapporto di subordinazione. Si ricordi, a questo proposito, l’apologo molto noto, ma poco compreso in Occidente, del cieco e del paralitico, che rappresenta in effetti, in uno dei suoi significati più importanti, i rapporti tra vita attiva e vita contemplativa: l’azione abbandonata a se stessa è cieca, e l’immutabilità essenziale della conoscenza si traduce esteriormente in un’immobilità paragonabile a quella del paralitico.
Il punto di vista della complementarità è raffigurato dall’aiuto reciproco tra i due uomini ciascuno dei quali supplisce con le proprie facoltà alle manchevolezze dell’altro; e se l’origine dell’apologo, o per lo meno la interpretazione particolare che ne è data in questa versione[12], deve essere riferita al confucianesimo, è facile capire come quest’ultimo debba limitarsi a tale punto di vista, poiché la sua sfera di azione esclusiva è quella dell’ordine umano e sociale. A questo proposito, è bene altresì osservare che in Cina la distinzione tra taoismo, dottrina puramente metafisica, e confucianesimo, dottrina sociale (procedenti entrambi dalla medesima tradizione integrale, la quale rappresenta il principio comune di entrambi), corrisponde esattamente a quella tra spirituale e temporale[13]; occorre aggiungere che l’importanza del «non agire» nella prospettiva taoista giustifica in particolare, per chi esamini le cose dall’esterno[14], il simbolismo impiegato nell’apologo citato.
Tuttavia, è importante tener presente che nell’associazione dei due uomini è il paralitico a rivestire una funzione di direzione, e che la sua stessa posizione sulle spalle del cieco simboleggia la superiorità della contemplazione sull’azione, superiorità che Confucio stesso era lungi dal contestare in linea di principio, come testimonia il racconto del suo incontro con Lao-tzu, quale ci è stato tramandato dallo storico Sima Qian; Confucio ammetteva di non essere «nato alla conoscenza», di non essere giunto alla conoscenza per eccellenza, la quale è di ordine metafisico puro, e, come abbiamo detto prima, appartiene esclusivamente, per la sua natura stessa, al detentori della vera autorità spirituale[15].
Se è sbagliato considerare lo spirituale e il temporale semplici correlativi, esiste tuttavia un altro errore, ancora più grave, il quale consiste nel subordinare lo spirituale al temporale, cioè la conoscenza all’azione; questo errore, che capovolge i rapporti normali, corrisponde alla tendenza che è caratteristica generale dell’Occidente moderno, la quale non può evidentemente affiorare se non in un periodo di decadenza intellettuale molto avanzata. Attualmente però, alcuni si spingono ancora più lontano in questa direzione, e giungono alla negazione del valore della conoscenza in quanto tale e perfino, come conseguenza logica essendo le due cose solidali, alla negazione dichiarata di qualsiasi autorità spirituale; quest’ultimo gradino nella degenerazione, il quale comporta la dominazione delle caste più basse, è uno dei segni caratteristici della fase finale del Kali-Yuga.
Se esaminiamo l’attuale situazione della religione, poiché è questa la forma particolare che la spiritualità assume nel mondo occidentale, il capovolgimento dei rapporti può esprimersi nel modo seguente: invece di considerare l’intero ordine sociale come procedente dalla religione, in quanto imperniato in qualche modo su di essa e avente in essa il suo principio (così come avveniva nella «cristianità» medioevale e come avviene nell’Islâm, che a questo riguardo le è perfettamente paragonabile), oggi non si vuol vedere nella religione niente di più che uno degli elementi dell’ordine sociale, un elemento fra tutti gli altri e sullo stesso livello degli altri; si tratta dell’asservimento dello spirituale al temporale, o addirittura dell’assorbimento del primo nel secondo, in attesa della completa negazione della spiritualità, che è il punto d’arrivo inevitabile. Di fatto, considerare le cose a questo modo conduce fatalmente a «umanizzare» la religione, a trattarla cioè come fatto meramente umano, di carattere sociale, o meglio «sociologico», per gli uni, di carattere forse più psicologico per gli altri; ma allora non si tratta più di religione, perché la religione comporta in sé essenzialmente qualcosa di «sovraumano», senza il quale non si è più nella sfera della spiritualità: infatti, come abbiamo spiegato in precedenza, temporale e umano sono in realtà identici.
Ci troviamo quindi di fronte a una vera negazione implicita della religione e dello spirituale, nonostante le apparenze, di modo che la negazione esplicita e dichiarata non sarà tanto l’instaurazione di un nuovo stato di cose quanto il riconoscimento di un fatto compiuto. In tal modo il capovolgimento dei rapporti prepara direttamente la soppressione del termine superiore, anzi la implica virtualmente, così come la rivolta degli Ksatriya contro l’autorità dei Brâhmani prepara, come vedremo, ed esige, per così dire, l’avvento delle caste più basse; del resto, coloro che hanno seguito fin qui la nostra esposizione capiranno senza fatica che in questo accostamento è contenuto qualcosa di più di un semplice paragone.




[1] Anche qui si potrebbe applicare, come allora, l’immagine del centro e della circonferenza della «ruota delle cose».
[2] L’essere vivente ha in sé il proprio principio d’unità, superiore alla molteplicità degli elementi che intervengono nella sua costituzione; niente di simile avviene per la collettività, la quale non è propriamente altro se non la somma degli individui che la compongono; di conseguenza, un termine come «organizzazione», quando si applichi all’uno e all’altra, non può, parlando rigorosamente, avere lo stesso senso. Si può dire, tuttavia, che la presenza di un’autorità spirituale introduce nella società un principio superiore agli individui, essendo tale autorità, per origine e per natura, essa stessa «sovraindividuale»; ma ciò suppone che la società non sia considerata esclusivamente sotto un aspetto temporale; e questa considerazione, la sola che permetta di fare della società qualcosa di più che una semplice collettività nel senso anzidetto, è appunto fra quelle che più completamente sfuggono ai sociologi contemporanei, i quali pretendono di identificare la società con un essere vivente.
[3] Ganesha e Skandha sono del resto rappresentati come fratelli, essendo entrambi figli di Shiva; è questo un altro modo di esprimere il fatto che i due poteri, spirituale e temporale, procedono da un unico principio.
[4] La crisi del mondo moderno.
[5] La Bhagavad Gîtâ, per la precisione, è soltanto un episodio del Mahâbhârata, il quale, con il Râmâyana, è uno dei due Itihâsa. Il suddetto carattere della Bhagavad Gîtâ spiega l’uso che vi si fa del simbolismo guerresco, sotto certi aspetti paragonabile a quello della «guerra santa» dei musulmani; vi è del resto un modo «interiore» di leggere il libro, conferendogli il suo senso profondo: in questo caso esso prende il nome di Âtma-Gîtâ.
[6] Come dicemmo nel nostro studio Il Re del Mondo, l’asse e il polo sono prima di tutto simboli del principio unico dei due poteri; però essi possono anche essere applicati all’autorità spirituale nei confronti del potere temporale, come stiamo facendo qui, sia perché tale autorità, a causa del suo attributo essenziale di conoscenza, partecipa effettivamente dell’immutabilità del principio supremo (ciò che costituisce il significato fondamentale di tali simboli), sia perché, come dicevamo in precedenza, essa rappresenta direttamente questo principio nei confronti del mondo esteriore.
[7] Traduciamo con «influenza spirituale» il termine ebraico e arabo barakah; il rito dell’«imposizione delle mani» è uno dei più abituali modi di trasmissione della barakah, nonché della produzione di certi effetti, di guarigione in particolare, ottenuti per mezzo di essa.
[8] La tradizione musulmana insegna anche che la barakah può essere perduta; in egual modo, nella tradizione estremo-orientale il «mandato del Cielo» è revocabile quando il sovrano non adempie regolarmente le sue funzioni, in armonia con l’ordine cosmico.
[9] Secondo un altro simbolismo, sono inoltre le chiavi delle porte del «Paradiso celeste» e del «Paradiso terrestre», come si vedrà dal testo dantesco che citeremo più oltre; ci parrebbe però inopportuno, almeno per il momento, fare precisazioni in certo qual modo «tecniche» circa il «potere delle chiavi», o spiegare altre cose che più o meno direttamente gli si riferiscono. Se vi facciamo allusione, è unicamente perché coloro che ne avessero qualche conoscenza capiscano che da parte nostra si tratta di un riserbo del tutto volontario, a cui del resto non siamo tenuti da nessun impegno nel confronti di chicchessia.
[10] Per quanto riguarda la trasmissione del potere regale, ci sono tuttavia casi eccezionali in cui, per ragioni speciali, esso è conferito direttamente da rappresentanti del potere supremo, origine degli altri due; i re Saul e Davide furono così consacrati non dal Gran Sacerdote, ma dal profeta Samuele. Ciò può essere accostato a quanto dicevamo in altra sede (Il Re del Mondo, cap. IV) sul triplice carattere del Cristo come profeta, sacerdote e re e del suo rapporto con le funzioni rispettive dei tre Re Magi, esse stesse corrispondenti alla divisione dei «tre mondi» che citavamo in una nota precedente; la funzione «profetica», implicando l’ispirazione diretta, corrisponde propriamente al «mondo celeste».
[11] La crisi del mondo moderno.
[12] Un’altra applicazione dello stesso apologo, questa volta cosmologica e non più sociale, si incontra nelle dottrine dell’India, dove essa è contenuta nel Sânkhya: qui il paralitico è Purusha, in quanto immutabile e «non agente», mentre la cieca è Prakriti, la cui potenzialità indifferenziata si identifica con le tenebre del caos; si tratta effettivamente di due principi complementari, in quanto poli della manifestazione universale, derivanti da un principio superiore unico, che è l’Essere puro, cioè Îshwara, la cui considerazione supera il punto di vista particolare del Sânkhya. Per ricollegare questa interpretazione con la precedente bisogna tener conto che si può stabilire una corrispondenza analogica fra la contemplazione, o conoscenza, e Purusha, e tra l’azione e Prakriti; non possiamo però addentrarci qui nella spiegazione di questi due principi e dobbiamo accontentarci di rinviare a quanto abbiamo esposto, a questo proposito, nell’Uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta.
[13] La divisione della tradizione estremo-orientale in due rami distinti divenne fatto compiuto nel secolo VI prima dell’era cristiana, epoca di cui abbiamo segnalato il carattere particolare in un’altra opera (La crisi del mondo moderno): ritroveremo questa divisione anche in seguito.
[14] Diciamo dall’esterno, perché da un punto di vista interiore il «non agire» è in realtà l’attività suprema in tutta la sua pienezza; ma, proprio a causa del suo carattere totale e assoluto, tale attività non appare all’esterno come avviene invece per le attività particolari, determinate e relative.
[15] Da ciò risulta come non esista alcuna opposizione di principio fra taoismo e confucianesimo; essi non sono, né potrebbero essere, due scuole rivali perché ciascuno ha una sua sfera propria nettamente distinta; se ci furono tuttavia lotte, e talora violente, come abbiamo segnalato in precedenza, esse furono dovute soprattutto all’incomprensione e all’esclusivismo dei confuciani, dimentichi dell’esempio dato loro dal loro stesso maestro.

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