"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

mercoledì 8 novembre 2017

René Guénon, Autorità spirituale e Potere temporale - VIII Paradiso terrestre e Paradiso celeste

René Guénon
Autorità spirituale e Potere temporale

VIII - Paradiso terrestre e Paradiso celeste

La costituzione politica della «cristianità» medioevale era, come abbiamo visto, essenzialmente feudale: aveva il suo coronamento in una funzione veramente suprema nell’ordine temporale, quella dell’Imperatore, essendo questi, rispetto al re, ciò che i re, a loro volta, erano rispetto ai loro vassalli.
Occorre dire però che questa concezione del Sacro Romano Impero rimase sempre un po’ teorica e non fu mai pienamente realizzata, certo per colpa degli Imperatori stessi i quali, inebriati dall’enorme potenza loro conferita, furono i primi a negare la loro subordinazione nei confronti dell’autorità spirituale, dalla quale avevano tuttavia ricevuto il potere come tutti gli altri sovrani, e forse più direttamente ancora[1]. Si trattò di quella che venne chiamata, per convenzione, la «controversia tra il Sacerdozio e l’Impero», le cui vicissitudini sono abbastanza note perché sia il caso di ricordarle in questa sede, anche solo in modo sommario, tanto più che un’esposizione particolareggiata di questi fatti storici avrebbe scarsa importanza per quanto ci proponiamo qui: più interessante è comprendere quel che avrebbero dovuto essere gli Imperatori, e per quale motivo siano caduti nell’errore che li indusse a scambiare la loro supremazia relativa per una supremazia assoluta.
La distinzione tra Papato e Impero traeva origine, in qualche modo, da una divisione dei poteri che, nell’antica Roma, si trovavano riuniti in una sola persona, giacché, allora, l’Imperatore era anche Pontifex Maximus[2]; non è nostro compito ricercare come si possa spiegare, in questo caso particolare, la riunione dello spirituale con il temporale, ricerca che rischierebbe di impegnarci in considerazioni molto complesse[3]. Comunque sia, il Papa e l’Imperatore erano, non precisamente «le due metà di Dio» come ha scritto Victor Hugo, ma molto più esattamente le due metà di quel Cristo-Giano che certe raffigurazioni ci mostrano con una chiave in una mano e uno scettro nell’altra, emblemi rispettivi dei poteri sacerdotale e regale riuniti in lui in quanto loro principio comune[4].
L’assimilazione simbolica del Cristo con Giano, quale principio supremo dei due poteri, è il segno chiarissimo di una certa continuità tradizionale, troppo sovente ignorata, o negata per partito preso, tra l’antica Roma e la Roma cristiana; e non bisogna scordare che, nel medioevo, l’Imperatore era «romano» come il Papato. Questa stessa raffigurazione ci mostra inoltre quale sia la ragione dell’errore segnalato poco fa e che doveva risultare fatale all’Impero: l’errore consiste, in altre parole, nel ritenere equivalenti le due metà di Giano, le quali tali sono in apparenza, ma non lo sono in realtà quando rappresentano lo spirituale e il temporale. Per usare altri termini, si tratta nuovamente dell’errore che consiste nell’assumere il rapporto tra i due poteri come un rapporto di coordinazione, mentre si tratta di un rapporto di subordinazione: infatti, dal momento in cui sono separati, l’uno procede direttamente dal principio supremo, l’altro ne procede solo indirettamente; ci siamo già sufficientemente spiegati su questo argomento perché sia necessario dilungarcisi.
Alla fine del De Monarchia Dante definisce in modo chiarissimo le attribuzioni rispettive del Papa e dell’Imperatore; esse sono contenute nel seguente importante brano: «L’ineffabile Provvidenza di Dio propose all’uomo due fini: la beatitudine di questa vita, che consiste nell’esercizio della virtù propria ed è rappresentata dal Paradiso terrestre; e la beatitudine della vita eterna, che consiste nel godimento della visione di Dio, cui la virtù umana non può ascendere se non soccorsa dalla luce divina, e che è rappresentata dal Paradiso celeste. A queste due beatitudini, come a conclusioni differenti, occorre giungere con diversi mezzi. Infatti giungiamo alla prima per mezzo degli insegnamenti filosofici, purché li seguiamo operando secondo le virtù morali e intellettuali; e alla seconda per mezzo degli insegnamenti spirituali, che trascendono la ragione umana, purché li seguiamo operando secondo le virtù teologali: la Fede, la Speranza e la Carità. Benché tali conclusioni e mezzi ci siano stati mostrati (le une dalla ragione umana, che ci è manifestata interamente dai filosofi, gli altri dallo Spirito Santo, che mediante i profeti e i sacri scrittori, mediante Gesù Cristo, figlio di Dio a lui coeterno e i suoi discepoli, rivelò la verità soprannaturale a noi necessaria), l’umana cupidigia indurrebbe ad abbandonarli se gli uomini, come cavalli vaganti nella loro bestialità, non fossero “con il morso e con il freno” mantenuti sulla strada. Perciò fu necessaria all’uomo una duplice guida, corrispondente al duplice fine: cioè il Sommo Pontefice che, secondo la Rivelazione, guidasse il genere umano alla vita eterna, e l’Imperatore che, secondo gli insegnamenti filosofici, indirizzasse il genere umano alla felicità temporale. E poiché a questo porto nessuno o pochi (e a prezzo di gravi difficoltà) potrebbero giungere, se il genere umano non riposasse libero nella tranquillità della pace, sedati i flutti della cupidigia lusingatrice, il reggitore del mondo, che è detto Principe romano, deve tendere specialmente alla meta seguente: che in questa aiuola dei mortali si viva liberamente in pac[5].
Il testo, per essere perfettamente compreso, richiede alcune spiegazioni, giacché non bisogna lasciarsi ingannare dalle espressioni: sotto il velo di un linguaggio in apparenza puramente teologico, esso racchiude verità di un ordine molto più profondo, il che del resto è conforme alle abitudini del suo autore e delle organizzazioni iniziatiche a cui era ricollegato[6]. Inoltre, è assai sorprendente, notiamolo di sfuggita, che colui che scrisse queste righe abbia potuto essere presentato talvolta come un nemico del Papato; egli denunciò, come gia abbiamo detto, le insufficienze e le imperfezioni che aveva constatato nelle condizioni del Papato nella sua epoca e in particolare, effetto di esse, il ricorso troppo frequente a mezzi propriamente temporali, dunque poco adatti all’azione di un’autorità spirituale; ma, nel contempo, seppe non imputare all’istituzione in se stessa i difetti degli uomini che la rappresentavano transitoriamente, cosa che non sempre sa fare l’individualismo moderno[7].
Se si rammenta quel che abbiamo già spiegato, si comprenderà senza difficoltà che la distinzione di Dante tra i due fini dell’uomo corrisponde esattamente a quella che esiste tra i «piccoli misteri» e i «grandi misteri», e anche, di conseguenza, a quella tra «iniziazione regale» e «iniziazione sacerdotale». L’Imperatore presiede ai «piccoli misteri», che riguardano il «Paradiso terrestre», cioè la realizzazione della perfezione dello stato umano[8]; il Sovrano Pontefice presiede ai «grandi misteri», che riguardano il «Paradiso celeste», cioè la realizzazione degli stati superumani, ricollegati allo stato umano della funzione «pontificale», intesa nel suo senso strettamente etimologico[9]. L’uomo, in quanto tale, non può evidentemente raggiungere da solo che il primo dei due fini, il quale può esser detto «naturale», mentre il secondo è propriamente «sovrannaturale», poiché si situa di là dal mondo manifestato: la distinzione è dunque veramente quella esistente tra sfera «fisica» e sfera «metafisica».
Qui appare, nel modo più chiaro, la concordanza di tutte le tradizioni, siano esse dell’Oriente o dell’Occidente: nel definire le attribuzioni rispettive dei Brâhmani e degli Ksatriya, avevamo dunque ragione a non vedervi qualcosa di applicabile solo a una certa forma di civiltà, quella dell’India, giacché le ritroviamo, definite in modo esattamente identico, in quella che fu, prima della deviazione moderna, la civiltà tradizionale del mondo occidentale.
Dante assegna dunque all’Imperatore e al Papa la funzione di condurre l’umanità rispettivamente al «Paradiso terrestre» e al «Paradiso celeste»; la prima di queste due funzioni viene adempiuta «secondo la filosofia», la seconda «secondo la Rivelazione»; ma i due termini sono fra quelli che è bene spiegare accuratamente. È ovvio, infatti, che «filosofia» non ha qui il suo significato ordinario e profano perché, se così fosse, essa sarebbe troppo evidentemente inadatta a svolgere la funzione che le è assegnata; per comprendere di che cosa si tratti realmente, occorre restituire alla parola «filosofia» il suo significato primitivo, quello che essa aveva per i pitagorici, i quali furono i primi a farne uso.
Come abbiamo indicato in un’altra occasione[10], questo termine, che significa etimologicamente «amore per la saggezza», designa anzitutto una disposizione iniziale per pervenire alla saggezza, e può anche significare, per estensione del tutto naturale, la ricerca che, partendo da questa disposizione, deve condurre alla vera conoscenza; si tratta dunque di un semplice stadio preliminare e preparatorio, un avvio verso la saggezza, così come il «Paradiso terrestre» è una tappa lungo la via che conduce al «Paradiso celeste».
La «filosofia» così intesa si potrebbe chiamare, volendo, «saggezza umana» perché comprende l’insieme di tutte le conoscenze raggiungibili mediante le sole facoltà dell’individuo umano, facoltà che Dante sintetizza nella ragione: grazie a essa l’uomo viene definito tale. Ma la «saggezza umana», proprio perché solamente umana, non è affatto la vera saggezza, la quale si identifica con la conoscenza metafisica. Quest’ultima è essenzialmente sovrarazionale, e di conseguenza sovraumana; e come, a partire dal «Paradiso terrestre», la via del «Paradiso celeste» abbandona la terra per «salire alle stelle»[11], ovvero per dirigersi verso gli stati superiori, che sono simboleggiati dal pianeti e dalle stelle nel linguaggio dell’astrologia, e dalle gerarchie angeliche in quello della teologia, così per conoscere tutto quel che supera lo stato umano le facoltà individuali diventano impotenti e si rendono indispensabili altri mezzi: a questo punto interviene la «Rivelazione», la quale è una comunicazione diretta con gli stati superiori, comunicazione che, come precisavamo poco fa, è di fatto stabilita dal «pontificato».
La possibilità della «Rivelazione» ha il suo fondamento nell’esistenza di facoltà trascendenti l’individuo: qualunque sia il nome che viene dato loro (che si parli ad esempio di «intuizione intellettuale» o di «ispirazione»), si tratta in fondo sempre della stessa cosa; la prima denominazione potrà far pensare in certo qual modo agli stati «angelici», che sono in effetti identici agli stati sovraindividuali dell’essere, e la seconda evocherà soprattutto quell’operazione dello Spirito Santo cui Dante si riferisce espressamente nel passo citato[12]; si potrà dire altresì che quella che interiormente è «ispirazione», per colui che la riceve in modo diretto, diventa esteriormente «Rivelazione» per la collettività umana alla quale è trasmessa per suo tramite, nella misura in cui una tale trasmissione è possibile, cioè nella misura dell’esprimibile. Naturalmente stiamo qui riassumendo in modo molto sommario, e di conseguenza in modo forse un po’ troppo semplificato, un insieme di considerazioni che se si volessero sviluppare più completamente si rivelerebbero piuttosto complesse e, comunque sia, tali da sfuggire dall’ambito dell’argomento specifico di questo studio; quanto abbiamo detto è in tutti i casi sufficiente per il fine che ci proponiamo in questa sede.
Così intese, la «Rivelazione» e la «filosofia» corrispondono rispettivamente alle due parti della dottrina indù chiamate Shruti e Smrti[13]. Anche in questo caso, bisogna notare che parliamo di corrispondenza e non di identità, poiché la differenza delle forme tradizionali comporta una differenza reale delle prospettive rispettive.
La Shruti, che comprende tutti i testi vedici, è frutto dell’ispirazione diretta; la Smrti è l’insieme delle conseguenze e delle applicazioni diverse che vengono tratte dalla prima mediante la riflessione; il loro rapporto reciproco è, sotto certi aspetti, quello esistente tra conoscenza intuitiva e conoscenza discorsiva; e, in effetti, dei due modi di conoscenza, il primo è sovraumano, il secondo è propriamente umano. Come la sfera della «Rivelazione» è attribuita al Papato e quella della «filosofia» all’Impero, così la Shruti riguarda più direttamente i Brâhmani, la cui principale occupazione è lo studio del Vêda, mentre la Smrti, che comprende il Dharma-Shâstra o «Libro della Legge»[14], cioè l’applicazione sociale della dottrina, riguarda piuttosto gli Ksatriya, ai quali specialmente sono destinati quasi tutti i libri del genere.
La Shruti è il principio da cui deriva tutto il resto della dottrina, e la sua conoscenza, implicando quella degli stati superiori, costituisce i «grandi misteri»; la conoscenza della Smrti, cioè delle applicazioni della Shruti al «mondo dell’uomo», intendendo con tale espressione lo stato umano integrale considerato in tutta l’estensione delle sue possibilità, costituisce i «piccoli misteri»[15]. La Shruti è la luce diretta la quale, come l’intelligenza pura, che è nel contempo la pura spiritualità, corrisponde al sole; la Smrti è la luce riflessa, la quale, come la memoria di cui porta il nome e che è la facoltà «temporale» per definizione, corrisponde alla luna[16]; per questo motivo la chiave dei «grandi misteri» è d’oro e quella dei «piccoli misteri» d’argento, perché l’oro e l’argento sono, in alchimia, l’esatto equivalente del sole e della luna in astrologia. Le due chiavi, quelle di Giano nell’antica Roma, erano uno degli attributi del Pontefice, cui era legata essenzialmente la funzione di «ierofante» o «maestro dei misteri»; come il titolo stesso di Pontifex Maximus, esse si sono conservate tra i principali emblemi del Papato, e d’altronde le parole evangeliche riferentisi al «potere delle chiavi», come in moltissimi altri casi, confermano pienamente la tradizione primordiale.
Si può allora comprendere, meglio di quanto permettesse quel che avevamo spiegato finora, perché le due chiavi sono al tempo stesso quelle del potere spirituale e del potere temporale; per rendere espliciti i rapporti tra i due poteri, si potrebbe dire che il Papa deve conservare per sé la chiave d’oro del «Paradiso celeste» e affidare all’Imperatore la chiave d’argento del «Paradiso terrestre»; abbiamo visto poc’anzi che, nel simbolismo, la seconda chiave era talvolta sostituita dallo scettro, insegna più specifica della regalità[17].
In ciò che abbiamo appena detto vi è un punto sul quale dobbiamo richiamare l’attenzione per evitare una contraddizione anche solo apparente: da una parte abbiamo affermato che la conoscenza metafisica, cioè la vera saggezza, è il principio donde ogni altra conoscenza deriva come sua applicazione al livello contingente; e, dall’altra, abbiamo spiegato che la «filosofia», nel suo senso originario, secondo il quale essa designa l’insieme di tali conoscenze contingenti, deve essere considerata come una preparazione alla saggezza; come possono conciliarsi le due affermazioni? Abbiamo già espresso il nostro pensiero su questa questione, parlando della duplice funzione delle «scienze tradizionali»[18]: si tratta di due punti di vista, uno discendente e l’altro ascendente, di cui il primo corrisponde a uno sviluppo della conoscenza a partire dai principi per giungere ad applicazioni sempre più lontane da questi, e il secondo a una acquisizione graduale della conoscenza procedendo dall’inferiore al superiore, o, se si vuole, dall’esteriore all’interiore. Il secondo punto di vista corrisponde perciò alla via secondo la quale gli uomini possono essere guidati alla conoscenza in modo graduale e proporzionato alle loro capacità intellettuali; ed è così che essi sono guidati dapprima al «Paradiso terrestre», poi al «Paradiso celeste»; ma questo ordine di insegnamento o di comunicazione della «scienza sacra» è l’inverso del suo ordine di costituzione gerarchica.
Di fatto, ogni conoscenza che abbia veramente il carattere di «scienza sacra», di qualunque tipo essa sia, può essere validamente costituita soltanto da coloro che, prima di tutto, posseggono in modo completo la conoscenza principiale, e quindi sono i soli qualificati per attuare, conformemente all’ortodossia tradizionale più rigorosa, ogni adattamento richiesto dalle circostanze di tempo e di luogo; per questo, quando gli adattamenti sono effettuati regolarmente, essi sono necessariamente opera del sacerdozio, al quale appartiene per definizione la conoscenza dei principi; ecco perché soltanto il sacerdozio può conferire legittimamente l’«iniziazione regale», mediante la comunicazione delle conoscenze che la costituiscono. Da questo si può capire meglio come le due chiavi (considerate come quelle proprie della conoscenza nella sfera «metafisica» e nella sfera «fisica») appartengano effettivamente entrambe all’autorità sacerdotale, e come la seconda sia affidata al detentori del potere regale solo per delegazione, se ci si può esprimere così. Infatti, quando la conoscenza «fisica» è separata dal suo principio trascendente, essa perde la sua principale ragione di essere e non tarda a diventare eterodossa; appaiono allora, come abbiamo spiegato, le dottrine «naturalistiche», risultato dell’adulterazione delle «scienze tradizionali» da parte degli Ksatriya ribelli; si tratta già di un avvio verso la «scienza profana», la quale sarà opera delle caste inferiori e il segno del loro dominio nella sfera intellettuale, sempre che in tal caso si possa ancora parlare d’intellettualità.
In questo campo, così come in quello politico, la ribellione degli Ksatriya prepara dunque quella dei Vaishya e degli Shûdra; ed è così che, di tappa in tappa, si giunge al più basso utilitarismo, alla negazione di ogni conoscenza disinteressata, anche di rango inferiore, e di ogni realtà che oltrepassi la sfera sensibile; è quanto si può constatare nella nostra epoca, in cui il mondo occidentale è quasi arrivato all’ultimo stadio del movimento discendente che, come la caduta dei corpi pesanti, aumenta sempre più di velocità.
Nel testo del De Monarchia vi è ancora un punto che non abbiamo chiarito, ed è non meno degno d’attenzione di quanto abbiamo innanzi spiegato: si tratta dell’allusione alla navigazione contenuta nell’ultima frase, simbolismo di cui Dante si serve d’altronde molto frequentemente[19]. Degli emblemi che furono un tempo quelli di Giano, il Papato non ha conservato soltanto le chiavi, ma anche la navicella, attribuita pure a san Pietro e diventata un’immagine della Chiesa[20]: il suo carattere «romano» esigeva questa trasmissione di simboli, senza la quale esso sarebbe stato un puro fatto geografico senza portata reale[21].
Chi vedesse in questo trasferimento di simboli solo un «prestito» casuale della romanità alla Chiesa, di cui sarebbe tentato di dare la colpa al cattolicesimo, dimostrerebbe di avere una mentalità del tutto «profana»; noi vi vediamo, al contrario, una prova di quella regolarità tradizionale senza la quale nessuna dottrina sarebbe valida, e che risale, di gradino in gradino, fino alla grande tradizione primordiale; e siamo certi che nessuno di coloro che comprendono il senso profondo di questi simboli potrà contraddirci.
La figura della navigazione fu usata spesso nell’antichità greco-latina: possiamo citare come esempi la spedizione degli Argonauti alla conquista del «Vello d’oro»[22] e i viaggi di Ulisse; la si trova anche in Virgilio e Ovidio. In India pure si trova questa immagine, e abbiamo già avuto l’occasione di citare, in un nostro libro, una frase contenente espressioni stranamente simili a quelle di Dante: «Lo Yogin», dice Sankarâcârya, «attraversato il mare delle passioni, è unito alla tranquillità e possiede il “Sé” nella sua pienezza»[23]. Il «mare delle passioni» è evidentemente la stessa cosa che i «flutti della cupidigia», e in entrambi i testi si parla della «tranquillità»: la navigazione simbolica rappresenta in effetti la conquista della «grande pace»[24]. Questa può d’altronde intendersi in due modi, secondo che si riferisca al «Paradiso terrestre» o al «Paradiso celeste»; nell’ultimo caso, si identifica alla «luce di gloria» e alla «visione beatifica»[25]; nell’altro, è la «pace» propriamente detta, in un senso più ristretto, ma ancora molto differente dal senso «profano»; e occorre inoltre considerare che Dante applica lo stesso termine «beatitudine» a entrambi i fini dell’uomo. La navicella di san Pietro deve condurre gli uomini al «Paradiso celeste»; ma se la funzione del «Principe romano», cioè dell’Imperatore, è quella di condurre al «Paradiso terrestre», anche in tal caso si tratterà di una navigazione[26]; per questo motivo la «Terra Santa» delle diverse tradizioni, che è appunto il «Paradiso terrestre», viene spesso rappresentata come un’isola: il fine assegnato da Dante al «reggitore del mondo» è la realizzazione della «pace»[27]; il porto, verso cui questi deve dirigere il genere umano, è l’«isola sacra» che permane immutabile in mezzo all’agitazione incessante dei flutti, ed è altresì la «Montagna della Salvezza», il «Santuario della Pace»[28].
Non ci spingeremo oltre nella spiegazione di questo simbolismo, la cui comprensione, dopo i nostri chiarimenti, non dovrebbe più presentare la minima difficoltà, almeno nella misura necessaria alla comprensione delle rispettive funzioni dell’Impero e del Papato; d’altra parte, non potremmo dilungarci ancora senza inoltrarci in un campo di cui non vogliamo occuparci per ora[29]. Il passo del De Monarchia che abbiamo citato è, a nostra conoscenza, l’esposizione più chiara e più completa, nella sua voluta concisione, della costituzione della «cristianità» e del modo in cui i rapporti tra i due poteri dovevano essere intesi. Ci si domanderà perché tale concezione rimase espressione di un ideale che non doveva mai realizzarsi; lo strano è che nel momento stesso in cui Dante la formulava, gli avvenimenti che si svolgevano in Europa erano precisamente di natura tale che dovevano per sempre impedirne l’attuazione.
L’intera opera di Dante è, sotto certi aspetti, il testamento del medioevo agonizzante; essa rivela quel che sarebbe stato il mondo occidentale se non avesse rotto i suoi legami con la propria tradizione; ma, se la deviazione moderna poté prodursi, ciò accadde, in verità, perché quel mondo non aveva in sé tali possibilità, o perlomeno esse erano soltanto prerogativa di una élite già molto ristretta, la quale le realizzò per proprio conto, senza che nulla potesse manifestarsene all’esterno riflettendosi nell’organizzazione sociale. Si era giunti a quel momento della storia in cui doveva cominciare il periodo più oscuro dell’«età oscura»[30], caratterizzato in tutti i campi dallo sviluppo delle possibilità inferiori; questo sviluppo, procedendo sempre nel senso del mutamento e della molteplicità, doveva inevitabilmente portare a ciò che constatiamo oggi: nel campo sociale, come in qualsiasi altro, l’instabilità è al suo culmine, il disordine e la confusione regnano dappertutto sovrani; mai l’umanità è stata così lontana dal «Paradiso terrestre» e dalla spiritualità primordiale.
Bisognerà forse concludere che questo allontanamento sia definitivo, che nessun potere stabile e legittimo reggerà più la terra, che ogni autorità spirituale scomparirà dal mondo e che le tenebre, estendendosi dall’Occidente all’Oriente, nasconderanno per sempre la luce della verità? Se tale fosse la nostra conclusione, non avremmo certo scritto queste pagine, né avremmo scritto nessuno degli altri nostri libri, giacché si sarebbe trattato ovviamente di fatica sprecata; ci rimane ora da dire perché non pensiamo che le cose possano finire così.




[1] Il Sacro Romano Impero ha inizio con Carlo Magno, e si sa che fu il Papa a conferire a quest’ultimo la dignità imperiale; la legittimità dei suoi successori non poteva essere conferita in modo diverso.
[2] È interessante rilevare come il Papa abbia sempre conservato il titolo di Pontifex Maximus, la cui origine è evidentemente estranea al cristianesimo ed è d’altronde molto anteriore; questo fatto è uno di quelli che dovrebbero convincere coloro che sono capaci di riflettere che il cosiddetto «paganesimo» possedeva in realtà un carattere ben diverso da quello che si è voluto attribuirgli.
[3] L’imperatore romano assume in qualche modo le apparenze di uno Ksatriya che eserciti, oltre alla propria, la funzione di un Brâhmano; questa appare perciò un’anomalia, e occorrerebbe studiare se la tradizione romana non possedesse un carattere particolare che le permetteva di considerare tale situazione non come una semplice usurpazione. D’altra parte, è permesso dubitare che gli Imperatori non siano stati, nella loro gran maggioranza, veramente «qualificati» dal punto di vista spirituale; ma occorre talvolta distinguere tra il rappresentante «ufficiale» dell’autorità e i suoi detentori effettivi, ed è sufficiente che questi lo ispirino, quand’anche egli non sia uno di loro, perché le cose siano come devono essere.
[4] Cfr. un articolo di L. Charbonneau-Lassay dal titolo Un ancien emblème du mois de janvier, pubblicato nella rivista «Regnabit» (marzo 1925). La chiave e lo scettro corrispondono, in questo contesto, alla raffigurazione più corrente delle due chiavi d’oro e d’argento; i due simboli sono del resto legati direttamente a Cristo dalla formula liturgica: «O Clavis David, et Sceptrum domus Israël» (Breviario Romano, officio del 20 dicembre).
[5] De Monarchia, III, 16.
[6] A questo proposito, si veda il nostro studio L’Esoterismo di Dante, e il libro di Luigi Valli Il linguaggio segreto di Dante e dei «Fedeli d’amore», Milano, Luni Editrice, 1994; sfortunatamente l’autore di quest’opera morì senza aver potuto portare a termine le sue ricerche e proprio quando queste sembravano averlo portato ad accostarsi all’argomento con una mentalità più vicina all’esoterismo tradizionale.
[7] Quando si tratta del cattolicesimo, si dovrebbe avere sempre la massima cura nel distinguere ciò che ha attinenza col cattolicesimo in quanto dottrina e ciò che si riferisce soltanto allo stato attuale dell’organizzazione della Chiesa cattolica; qualunque giudizio sull’ultimo aspetto non dovrebbe in alcun modo condizionare la valutazione del primo. Quanto diciamo ora a proposito del cattolicesimo (ed è l’esempio più immediato che si presenta parlando di Dante), potrebbe trovare molte altre applicazioni; ma oggi sono pochi coloro che, quando occorra, sanno fare astrazione dalle contingenze storiche; e ciò è tanto vero che, per restare allo stesso esempio, certi difensori del cattolicesimo, in ciò non diversi dai suoi avversari, credono di poter ridurre tutto a una semplice questione di «storicità»: il che è una delle forme della moderna «superstizione dei fatti».
[8] Questa realizzazione è, di fatto, la restaurazione dello «stato primordiale» di cui si parla in tutte le tradizioni, come abbiamo avuto occasione di esporre più volte.
[9] Nel simbolismo della croce la prima di queste due realizzazioni è rappresentata dallo sviluppo indefinito della linea orizzontale, la seconda da quello della linea verticale; esse costituiscono, secondo il linguaggio dell’esoterismo islamico, i due sensi della «dilatazione» e dell’«esaltazione», le quali culminano nella realizzazione dell’«Uomo Universale», che è il Cristo mistico, ovvero il «secondo Adamo» di cui parla san Paolo.
[10] La crisi del mondo moderno.
[11] Purg., XXXIII, 145; cfr. L’Esoterismo di Dante.
[12] L’intelletto puro, il quale ha carattere universale e non individuale, e ricollega fra di loro tutti gli stati dell’essere, è il principio chiamato Buddhi nella dottrina indù; la radice di questo termine esprime essenzialmente l’idea di «saggezza».
[13] Cfr. L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta, cap. I.
[14] Da questo punto di vista, si potrebbero forse dedurre certe conseguenze interessanti dal fatto che, nella tradizione ebraica, fonte di tutto ciò che può avere il nome di «religione» nel suo significato più preciso (e l’islamismo vi si ricollega così come il cristianesimo), la designazione di Torah o «Legge» è applicata all’insieme dei Libri sacri: da ciò noi deduciamo soprattutto una connessione con il fatto che la forma religiosa si addice particolarmente al popoli in cui prevale la natura degli Ksatriya, e con la particolare importanza che assume in tale forma il punto di vista sociale; le ultime due considerazioni sono, del resto, strettamente connesse tra loro.
[15] Deve essere ben chiaro che si tratta sempre di una conoscenza non solamente teorica, ma effettiva, la quale di conseguenza comporta essenzialmente la realizzazione corrispondente.
[16] A questo proposito occorre osservare che il «Paradiso celeste» è essenzialmente il Brahmâ-Loka, identificato con il «Sole spirituale» (cfr. L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta, capp. XXI e XXII), e che inoltre il «Paradiso terrestre» è detto sfiorare la «sfera della luna» (cfr. Il Re del Mondo): la cima della montagna del Purgatorio, secondo il simbolismo della Divina Commedia, è il limite dello stato umano o terrestre, individuale, e il punto di comunicazione con gli stati celesti, sovraindividuali.
[17] Lo scettro, come la chiave, ha rapporti simbolici con l’«asse del mondo»; è un punto che in questa sede possiamo soltanto segnalare di sfuggita, riservandoci di svilupparlo compiutamente in altri studi.
[18] La crisi del mondo moderno.
[19] A questo proposito, si confronti: Arturo Reghini, L’allegoria esoterica di Dante, in «Il Nuovo Patto», settembre-novembre 1921, pp. 546-548.
[20] La barca simbolica di Giano era un’imbarcazione che poteva spostarsi sia avanti che indietro: il che corrisponde al due volti dello stesso Giano.
[21] Bisogna sottolineare con particolare attenzione che, se vi sono nel Vangelo parole e fatti che permettono di attribuire direttamente le chiavi e la barca a san Pietro, ciò avviene perché il Papato, fin dalla sua origine, era predestinato a essere «romano» a causa della posizione di Roma, capitale dell’Occidente.
[22] A essa Dante fa precisamente allusione in un punto della Divina Commedia tra i più caratteristici per l’uso di questo simbolismo (Par., II, 1-18), e non senza motivo ricorda questa allusione nell’ultimo canto del poema (Par., XXXIII, 96); il significato ermetico del «Vello d’oro» era d’altronde conosciuto nel medioevo.
[23] Âtma-Bodha; si veda L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta, cap. XXIII, e Il Re del Mondo.
[24] Questa conquista è rappresentata talvolta anche sotto le apparenze di una guerra; già in precedenza abbiamo segnalato l’uso che di questo simbolismo viene fatto nella Bhagavad Gîtâ, così come presso i musulmani; un simbolismo dello stesso genere si ritrova nei romanzi cavallereschi del medioevo.
[25] Sono questi, precisamente, i differenti significati della parola ebraica Shekinah; d’altronde, i due aspetti che ricordiamo ora sono contenuti nei termini Gloria e Pax della formula: «Gloria in excelsis Deo, et in terra Pax hominibus bonae voluntatis», come abbiamo spiegato nel nostro studio Il Re del Mondo.
[26] È un riferimento al simbolismo dei due oceani, quello delle «acque superiori» e quello delle «acque inferiori», simbolismo che è comune a tutte le dottrine tradizionali.
[27] Su questo punto si potrebbe altresì fare un paragone con l’insegnamento di san Tommaso d’Aquino, da noi riferito più innanzi, così come con il testo di Confucio da noi citato.
[28] In un altro studio abbiamo detto che la «pace» è uno degli attributi fondamentali del «Re del mondo», di cui l’Imperatore riflette uno degli aspetti; un secondo aspetto trova la sua corrispondenza nel Papa; ma ve n’è un terzo, principio dei due precedenti, che non ha rappresentazione visibile in questa organizzazione della «cristianità» (cfr., su questi tre aspetti, Il Re del Mondo). Tenendo conto di tutte le considerazioni fin qui esposte, è facile comprendere che Roma è, per l’Occidente, un’immagine del vero «Centro del mondo», della misteriosa Salem di Melchisedek.
[29] Questo campo è quello dell’esoterismo cattolico del medioevo, inteso più specialmente nei suoi rapporti con l’ermetismo; senza le conoscenze di quest’ordine, i poteri del Papa e dell’imperatore, così come sono stati da noi definiti, non possono avere una realizzazione pienamente effettiva; e sono precisamente queste le conoscenze che sembrano perdute completamente per i moderni. Abbiamo lasciato da parte alcuni punti secondari, perché non erano di grande importanza ai fini di questo studio; ad esempio, l’allusione che Dante fa alle tre virtù teologali – Fede, Speranza e Carità – dovrebbe essere posta in relazione con la funzione che è loro attribuita nella Divina Commedia (cfr. L’Esoterismo di Dante). Inoltre, si potrebbe stabilire un paragone tra le funzioni rispettive delle tre guide di Dante – Virgilio, Beatrice e san Bernardo – e quelle del potere temporale, dell’autorità spirituale e del loro principio comune; per quanto riguarda san Bernardo, bisogna riferirsi a quel che abbiamo detto in precedenza al suo proposito.
[30] Cfr. La crisi del mondo moderno, cap. I.

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