René Guénon
Autorità spirituale e Potere temporale
VIII - Paradiso terrestre e Paradiso celeste
La costituzione politica della «cristianità» medioevale era, come abbiamo visto, essenzialmente feudale: aveva il suo coronamento in una funzione veramente suprema nell’ordine temporale, quella dell’Imperatore, essendo questi, rispetto al re, ciò che i re, a loro volta, erano rispetto ai loro vassalli.
Occorre dire però che questa concezione del Sacro Romano Impero rimase sempre un po’ teorica e non fu mai pienamente realizzata, certo per colpa degli Imperatori stessi i quali, inebriati dall’enorme potenza loro conferita, furono i primi a negare la loro subordinazione nei confronti dell’autorità spirituale, dalla quale avevano tuttavia ricevuto il potere come tutti gli altri sovrani, e forse più direttamente ancora[1]. Si trattò di quella che venne chiamata, per convenzione, la «controversia tra il Sacerdozio e l’Impero», le cui vicissitudini sono abbastanza note perché sia il caso di ricordarle in questa sede, anche solo in modo sommario, tanto più che un’esposizione particolareggiata di questi fatti storici avrebbe scarsa importanza per quanto ci proponiamo qui: più interessante è comprendere quel che avrebbero dovuto essere gli Imperatori, e per quale motivo siano caduti nell’errore che li indusse a scambiare la loro supremazia relativa per una supremazia assoluta.
Occorre dire però che questa concezione del Sacro Romano Impero rimase sempre un po’ teorica e non fu mai pienamente realizzata, certo per colpa degli Imperatori stessi i quali, inebriati dall’enorme potenza loro conferita, furono i primi a negare la loro subordinazione nei confronti dell’autorità spirituale, dalla quale avevano tuttavia ricevuto il potere come tutti gli altri sovrani, e forse più direttamente ancora[1]. Si trattò di quella che venne chiamata, per convenzione, la «controversia tra il Sacerdozio e l’Impero», le cui vicissitudini sono abbastanza note perché sia il caso di ricordarle in questa sede, anche solo in modo sommario, tanto più che un’esposizione particolareggiata di questi fatti storici avrebbe scarsa importanza per quanto ci proponiamo qui: più interessante è comprendere quel che avrebbero dovuto essere gli Imperatori, e per quale motivo siano caduti nell’errore che li indusse a scambiare la loro supremazia relativa per una supremazia assoluta.
La distinzione tra Papato e Impero traeva origine, in
qualche modo, da una divisione dei poteri che, nell’antica Roma, si trovavano
riuniti in una sola persona, giacché, allora, l’Imperatore era anche Pontifex Maximus[2]; non è nostro
compito ricercare come si possa spiegare, in questo caso particolare, la
riunione dello spirituale con il temporale, ricerca che rischierebbe di
impegnarci in considerazioni molto complesse[3]. Comunque sia, il Papa e l’Imperatore erano, non precisamente «le due metà di
Dio» come ha scritto Victor Hugo, ma molto più esattamente le due metà di quel
Cristo-Giano che certe raffigurazioni ci mostrano con una chiave in una mano e
uno scettro nell’altra, emblemi rispettivi dei poteri sacerdotale e regale
riuniti in lui in quanto loro principio comu ne[4].
L’assimilazione simbolica del Cristo con Giano, quale
principio supremo dei due poteri, è il segno chiarissimo di una certa
continuità tradizionale, troppo sovente ignorata, o negata per partito preso,
tra l’antica Roma e la Roma cristiana; e non bisogna scordare che, nel
medioevo, l’Imperatore era «romano» come il Papato. Questa stessa raffigurazione
ci mostra inoltre quale sia la ragione dell’errore segnalato poco fa e che
doveva risultare fatale all’Impero: l’errore consiste, in altre parole, nel
ritenere equivalenti le due metà di Giano, le quali tali sono in apparenza, ma
non lo sono in realtà quando rappresentano lo spirituale e il temporale. Per
usare altri termini, si tratta nuovamente dell’errore che consiste
nell’assumere il rapporto tra i due poteri come un rapporto di coordinazione,
mentre si tratta di un rapporto di subordinazione: infatti, dal momento in cui
sono separati, l’uno procede direttamente dal principio supremo, l’altro ne
procede solo indirettamente; ci siamo già sufficientemente spiegati su questo
argomento perché sia necessario dilungarcisi.
Alla fine del De
Monarchia Dante definisce in modo chiarissimo le attribuzioni rispettive
del Papa e dell’Imperatore; esse sono contenute nel seguente importante brano:
«L’ineffabile Provvidenza di Dio propose all’uomo due fini: la beatitudine di
questa vita, che consiste nell’esercizio della virtù propria ed è rappresentata
dal Paradiso terrestre; e la beatitudine della vita eterna, che consiste nel
godimento della visione di Dio, cui la virtù umana non può ascendere se non
soccorsa dalla luce divina, e che è rappresentata dal Paradiso celeste. A
queste due beatitudini, come a conclusioni differenti, occorre giungere con
diversi mezzi. Infatti giungiamo alla prima per mezzo degli insegnamenti
filosofici, purché li seguiamo operando secondo le virtù morali e
intellettuali; e alla seconda per mezzo degli insegnamenti spirituali, che
trascendono la ragione umana, purché li seguiamo operando secondo le virtù
teologali: la Fede, la Speranza e la Carità. Benché tali conclusioni e mezzi ci
siano stati mostrati (le une dalla ragione umana, che ci è manifestata
interamente dai filosofi, gli altri dallo Spirito Santo, che mediante i profeti
e i sacri scrittori, mediante Gesù Cristo, figlio di Dio a lui coeterno e i
suoi discepoli, rivelò la verità soprannaturale a noi necessaria), l’umana
cupidigia indurrebbe ad abbandonarli se gli uomini, come cavalli vaganti nella
loro bestialità, non fossero “con il morso e con il freno” mantenuti sulla
strada. Perciò fu necessaria all’uomo una duplice guida, corrispondente al
duplice fine: cioè il Sommo Pontefice che, secondo la Rivelazione, guidasse il
genere umano alla vita eterna, e l’Imperatore che, secondo gli insegnamenti
filosofici, indirizzasse il genere umano alla felicità temporale. E poiché a
questo porto nessuno o pochi (e a prezzo di gravi difficoltà) potrebbero
giungere, se il genere umano non riposasse libero nella tranquillità della
pace, sedati i flutti della cupidigia lusingatrice, il reggitore del mondo, che
è detto Principe romano, deve tendere specialmente alla meta seguente: che in
questa aiuola dei mortali si viva liberamente in pac e»[5].
Il testo, per essere perfettamente compreso, richiede alcune
spiegazioni, giacché non bisogna lasciarsi ingannare dalle espressioni: sotto
il velo di un linguaggio in apparenza puramente teologico, esso racchiude
verità di un ordine molto più profondo, il che del resto è conforme alle
abitudini del suo autore e delle organizzazioni iniziatiche a cui era
ricollegato[6]. Inoltre, è assai
sorprendente, notiamolo di sfuggita, che colui che scrisse queste righe abbia potuto
essere presentato talvolta come un nemico del Papato; egli denunciò, come gia
abbiamo detto, le insufficienze e le imperfezioni che aveva constatato nelle
condizioni del Papato nella sua epoca e in particolare, effetto di esse, il
ricorso troppo frequente a mezzi propriamente temporali, dunque poco adatti
all’azione di un’autorità spirituale; ma, nel contempo, seppe non imputare
all’istituzione in se stessa i difetti degli uomini che la rappresentavano
transitoriamente, cosa che non sempre sa fare l’individualismo modern o[7].
Se si rammenta quel che abbiamo già spiegato, si comprenderà
senza difficoltà che la distinzione di Dante tra i due fini dell’uomo
corrisponde esattamente a quella che esiste tra i «piccoli misteri» e i «grandi
misteri», e anche, di conseguenza, a quella tra «iniziazione regale» e
«iniziazione sacerdotale». L’Imperatore presiede ai «piccoli misteri», che
riguardano il «Paradiso terrestre», cioè la realizzazione della perfezione
dello stato umano[8]; il Sovrano Pontefice
presiede ai «grandi misteri», che riguardano il «Paradiso celeste», cioè la
realizzazione degli stati superumani, ricollegati allo stato umano della
funzione «pontificale», intesa nel suo senso strettamente etimologico[9]. L’uomo, in quanto tale, non può evidentemente raggiungere da solo che il primo
dei due fini, il quale può esser detto «naturale», mentre il secondo è
propriamente «sovrannaturale», poiché si situa di là dal mondo manifestato: la
distinzione è dunque veramente quella esistente tra sfera «fisica» e sfera «metafisica».
Qui appare, nel modo più chiaro, la concordanza di tutte le
tradizioni, siano esse dell’Oriente o dell’Occidente: nel definire le
attribuzioni rispettive dei Brâhmani
e degli Ksatriya, avevamo dunque
ragione a non vedervi qualcosa di applicabile solo a una certa forma di
civiltà, quella dell’India, giacché le ritroviamo, definite in modo esattamente
identico, in quella che fu, prima della deviazione moderna, la civiltà
tradizionale del mondo occidentale.
Dante assegna dunque all’Imperatore e al Papa la funzione di
condurre l’umanità rispettivamente al «Paradiso terrestre» e al «Paradiso
celeste»; la prima di queste due funzioni viene adempiuta «secondo la
filosofia», la seconda «secondo la Rivelazione»; ma i due termini sono fra
quelli che è bene spiegare accuratamente. È ovvio, infatti, che «filosofia» non
ha qui il suo significato ordinario e profano perché, se così fosse, essa
sarebbe troppo evidentemente inadatta a svolgere la funzione che le è
assegnata; per comprendere di che cosa si tratti realmente, occorre restituire
alla parola «filosofia» il suo significato primitivo, quello che essa aveva per
i pitagorici, i quali furono i primi a farne uso.
Come abbiamo indicato in
un’altra occasione[10], questo termine, che significa etimologicamente «amore per la saggezza», designa
anzitutto una disposizione iniziale per pervenire alla saggezza, e può anche
significare, per estensione del tutto naturale, la ricerca che, partendo da
questa disposizione, deve condurre alla vera conoscenza; si tratta dunque di un
semplice stadio preliminare e preparatorio, un avvio verso la saggezza, così
come il «Paradiso terrestre» è una tappa lungo la via che conduce al «Paradiso
celeste».
La «filosofia» così intesa si potrebbe chiamare, volendo,
«saggezza umana» perché comprende l’insieme di tutte le conoscenze
raggiungibili mediante le sole facoltà dell’individuo umano, facoltà che Dante
sintetizza nella ragione: grazie a essa l’uomo viene definito tale. Ma la
«saggezza umana», proprio perché solamente umana, non è affatto la vera
saggezza, la quale si identifica con la conoscenza metafisica. Quest’ultima è
essenzialmente sovrarazionale, e di conseguenza sovraumana; e come, a partire
dal «Paradiso terrestre», la via del «Paradiso celeste» abbandona la terra per
«salire alle stelle»[11], ovvero per dirigersi verso gli stati superiori, che sono simboleggiati dal
pianeti e dalle stelle nel linguaggio dell’astrologia, e dalle gerarchie
angeliche in quello della teologia, così per conoscere tutto quel che supera lo
stato umano le facoltà individuali diventano impotenti e si rendono
indispensabili altri mezzi: a questo punto interviene la «Rivelazione», la
quale è una comunicazione diretta con gli stati superiori, comunicazione che,
come precisavamo poco fa, è di fatto stabilita dal «pontificato».
La possibilità della «Rivelazione» ha il suo fondamento
nell’esistenza di facoltà trascendenti l’individuo: qualunque sia il nome che
viene dato loro (che si parli ad esempio di «intuizione intellettuale» o di
«ispirazione»), si tratta in fondo sempre della stessa cosa; la prima
denominazione potrà far pensare in certo qual modo agli stati «angelici», che
sono in effetti identici agli stati sovraindividuali dell’essere, e la seconda
evocherà soprattutto quell’operazione dello Spirito Santo cui Dante si
riferisce espressamente nel passo citato[12]; si
potrà dire altresì che quella che interiormente è «ispirazione», per colui che
la riceve in modo diretto, diventa esteriormente «Rivelazione» per la
collettività umana alla quale è trasmessa per suo tramite, nella misura in cui
una tale trasmissione è possibile, cioè nella misura dell’esprimibile.
Naturalmente stiamo qui riassumendo in modo molto sommario, e di conseguenza in
modo forse un po’ troppo semplificato, un insieme di considerazioni che se si
volessero sviluppare più completamente si rivelerebbero piuttosto complesse e,
comunque sia, tali da sfuggire dall’ambito dell’argomento specifico di questo
studio; quanto abbiamo detto è in tutti i casi sufficiente per il fine che ci
proponiamo in questa sede.
Così intese, la «Rivelazione» e la «filosofia» corrispondono
rispettivamente alle due parti della dottrina indù chiamate Shruti e Smrti[13]. Anche in questo caso, bisogna notare che parliamo di corrispondenza e non di
identità, poiché la differenza delle forme tradizionali comporta una differenza
reale delle prospettive rispettive.
La Shruti, che
comprende tutti i testi vedici, è frutto dell’ispirazione diretta; la Smrti è l’insieme delle conseguenze e
delle applicazioni diverse che vengono tratte dalla prima mediante la
riflessione; il loro rapporto reciproco è, sotto certi aspetti, quello
esistente tra conoscenza intuitiva e conoscenza discorsiva; e, in effetti, dei
due modi di conoscenza, il primo è sovraumano, il secondo è propriamente umano.
Come la sfera della «Rivelazione» è attribuita al Papato e quella della
«filosofia» all’Impero, così la Shruti
riguarda più direttamente i Brâhmani,
la cui principale occupazione è lo studio del Vêda, mentre la Smrti,
che comprende il Dharma-Shâstra o
«Libro della Legge»[14], cioè l’applicazione sociale della dottrina, riguarda piuttosto gli Ksatriya, ai quali specialmente sono
destinati quasi tutti i libri del genere.
La Shruti è il
principio da cui deriva tutto il resto della dottrina, e la sua conoscenza,
implicando quella degli stati superiori, costituisce i «grandi misteri»; la
conoscenza della Smrti, cioè delle
applicazioni della Shruti al «mondo
dell’uomo», intendendo con tale espressione lo stato umano integrale
considerato in tutta l’estensione delle sue possibilità, costituisce i «piccoli
misteri»[15]. La Shruti è la luce diretta la quale, come l’intelligenza pura, che è
nel contempo la pura spiritualità, corrisponde al sole; la Smrti è la luce riflessa, la quale, come la memoria di cui porta il
nome e che è la facoltà «temporale» per definizione, corrisponde alla luna[16]; per
questo motivo la chiave dei «grandi misteri» è d’oro e quella dei «piccoli
misteri» d’argento, perché l’oro e l’argento sono, in alchimia, l’esatto
equivalente del sole e della luna in astrologia. Le due chiavi, quelle di Giano
nell’antica Roma, erano uno degli attributi del Pontefice, cui era legata
essenzialmente la funzione di «ierofante» o «maestro dei misteri»; come il
titolo stesso di Pontifex Maximus,
esse si sono conservate tra i principali emblemi del Papato, e d’altronde le
parole evangeliche riferentisi al «potere delle chiavi», come in moltissimi
altri casi, confermano pienamente la tradizione primordiale.
Si può allora comprendere, meglio di quanto permettesse quel
che avevamo spiegato finora, perché le due chiavi sono al tempo stesso quelle
del potere spirituale e del potere temporale; per rendere espliciti i rapporti
tra i due poteri, si potrebbe dire che il Papa deve conservare per sé la chiave
d’oro del «Paradiso celeste» e affidare all’Imperatore la chiave d’argento del
«Paradiso terrestre»; abbiamo visto poc’anzi che, nel simbolismo, la seconda
chiave era talvolta sostituita dallo scettro, insegna più specifica della
regal ità[17].
In ciò che abbiamo appena detto vi è un punto sul quale
dobbiamo richiamare l’attenzione per evitare una contraddizione anche solo
apparente: da una parte abbiamo affermato che la conoscenza metafisica, cioè la
vera saggezza, è il principio donde ogni altra conoscenza deriva come sua
applicazione al livello contingente; e, dall’altra, abbiamo spiegato che la
«filosofia», nel suo senso originario, secondo il quale essa designa l’insieme
di tali conoscenze contingenti, deve essere considerata come una preparazione
alla saggezza; come possono conciliarsi le due affermazioni? Abbiamo già
espresso il nostro pensiero su questa questione, parlando della duplice
funzione delle «scienze tradizionali»[18]: si
tratta di due punti di vista, uno discendente e l’altro ascendente, di cui il
primo corrisponde a uno sviluppo della conoscenza a partire dai principi per
giungere ad applicazioni sempre più lontane da questi, e il secondo a una
acquisizione graduale della conoscenza procedendo dall’inferiore al superiore,
o, se si vuole, dall’esteriore all’interiore. Il secondo punto di vista
corrisponde perciò alla via secondo la quale gli uomini possono essere guidati
alla conoscenza in modo graduale e proporzionato alle loro capacità
intellettuali; ed è così che essi sono guidati dapprima al «Paradiso
terrestre», poi al «Paradiso celeste»; ma questo ordine di insegnamento o di
comunicazione della «scienza sacra» è l’inverso del suo ordine di costituzione
gerarchica.
Di fatto, ogni conoscenza che abbia veramente il carattere
di «scienza sacra», di qualunque tipo essa sia, può essere validamente
costituita soltanto da coloro che, prima di tutto, posseggono in modo completo
la conoscenza principiale, e quindi sono i soli qualificati per attuare,
conformemente all’ortodossia tradizionale più rigorosa, ogni adattamento
richiesto dalle circostanze di tempo e di luogo; per questo, quando gli
adattamenti sono effettuati regolarmente, essi sono necessariamente opera del
sacerdozio, al quale appartiene per definizione la conoscenza dei principi;
ecco perché soltanto il sacerdozio può conferire legittimamente l’«iniziazione
regale», mediante la comunicazione delle conoscenze che la costituiscono. Da
questo si può capire meglio come le due chiavi (considerate come quelle proprie
della conoscenza nella sfera «metafisica» e nella sfera «fisica») appartengano
effettivamente entrambe all’autorità sacerdotale, e come la seconda sia
affidata al detentori del potere regale solo per delegazione, se ci si può
esprimere così. Infatti, quando la conoscenza «fisica» è separata dal suo
principio trascendente, essa perde la sua principale ragione di essere e non
tarda a diventare eterodossa; appaiono allora, come abbiamo spiegato, le
dottrine «naturalistiche», risultato dell’adulterazione delle «scienze
tradizionali» da parte degli Ksatriya
ribelli; si tratta già di un avvio verso la «scienza profana», la quale sarà
opera delle caste inferiori e il segno del loro dominio nella sfera
intellettuale, sempre che in tal caso si possa ancora parlare
d’intellettualità.
In questo campo, così come in quello politico, la ribellione
degli Ksatriya prepara dunque quella
dei Vaishya e degli Shûdra; ed è così che, di tappa in
tappa, si giunge al più basso utilitarismo, alla negazione di ogni conoscenza
disinteressata, anche di rango inferiore, e di ogni realtà che oltrepassi la
sfera sensibile; è quanto si può constatare nella nostra epoca, in cui il mondo
occidentale è quasi arrivato all’ultimo stadio del movimento discendente che,
come la caduta dei corpi pesanti, aumenta sempre più di velocità.
Nel testo del De
Monarchia vi è ancora un punto che non abbiamo chiarito, ed è non meno
degno d’attenzione di quanto abbiamo innanzi spiegato: si tratta dell’allusione
alla navigazione contenuta nell’ultima frase, simbolismo di cui Dante si serve
d’altronde molto frequentemente[19]. Degli emblemi che furono un tempo quelli di Giano, il Papato non ha conservato soltanto le chiavi, ma anche la navicella, attribuita pure a san Pietro e diventata un’immagine della Chiesa[20]: il suo carattere «romano» esigeva questa trasmissione di simboli, senza la quale esso sarebbe stato un puro fatto geografico senza portata reale[21].
Chi
vedesse in questo trasferimento di simboli solo un «prestito» casuale della
romanità alla Chiesa, di cui sarebbe tentato di dare la colpa al cattolicesimo,
dimostrerebbe di avere una mentalità del tutto «profana»; noi vi vediamo, al
contrario, una prova di quella regolarità tradizionale senza la quale nessuna
dottrina sarebbe valida, e che risale, di gradino in gradino, fino alla grande
tradizione primordiale; e siamo certi che nessuno di coloro che comprendono il
senso profondo di questi simboli potrà contraddirci.
La figura della navigazione fu usata spesso nell’antichità
greco-latina: possiamo citare come esempi la spedizione degli Argonauti alla
conquista del «Vello d’oro»[22] e i
viaggi di Ulisse; la si trova anche in Virgilio e Ovidio. In India pure si
trova questa immagine, e abbiamo già avuto l’occasione di citare, in un nostro
libro, una frase contenente espressioni stranamente simili a quelle di Dante:
«Lo Yogin», dice Sankarâcârya, «attraversato il mare delle passioni, è unito
alla tranquillità e possiede il “Sé” nella sua pienezza»[23]. Il «mare delle passioni» è evidentemente la stessa cosa che i «flutti della
cupidigia», e in entrambi i testi si parla della «tranquillità»: la navigazione
simbolica rappresenta in effetti la conquista della «grande pace»[24]. Questa può d’altronde intendersi in due modi, secondo che si riferisca al «Paradiso terrestre» o al «Paradiso celeste»; nell’ultimo caso, si identifica alla «luce di gloria» e alla «visione beatifica»[25]; nell’altro, è la «pace» propriamente detta, in un senso più ristretto, ma ancora molto differente dal senso «profano»; e occorre inoltre considerare che
Dante applica lo stesso termine «beatitudine» a entrambi i fini dell’uomo. La
navicella di san Pietro deve condurre gli uomini al «Paradiso celeste»; ma se
la funzione del «Principe romano», cioè dell’Imperatore, è quella di condurre
al «Paradiso terrestre», anche in tal caso si tratterà di una navigazione[26]; per questo motivo la «Terra Santa» delle diverse tradizioni, che è appunto il «Paradiso terrestre», viene spesso rappresentata come un’isola: il fine assegnato da Dante al «reggitore del mondo» è la realizzazione della «pace»[27]; il porto, verso cui questi deve dirigere il genere umano, è l’«isola sacra» che
permane immutabile in mezzo all’agitazione incessan te dei flutti, ed è altresì la «Montagna della Salvezza», il «Santuario della Pace»[28].
Non ci spingeremo oltre nella spiegazione di questo
simbolismo, la cui comprensione, dopo i nostri chiarimenti, non dovrebbe più
presentare la minima difficoltà, almeno nella misura necessaria alla
comprensione delle rispettive funzioni dell’Impero e del Papato; d’altra parte,
non potremmo dilungarci ancora senza inoltrarci in un campo di cui non vogliamo
occuparci per ora[29]. Il passo del De Monarchia che abbiamo
citato è, a nostra conoscenza, l’esposizione più chiara e più completa, nella
sua voluta concisione, della costituzione della «cristianità» e del modo in cui
i rapporti tra i due poteri dovevano essere intesi. Ci si domanderà perché tale
concezione rimase espressione di un ideale che non doveva mai realizzarsi; lo
strano è che nel momento stesso in cui Dante la formulava, gli avvenimenti che
si svolgevano in Europa erano precisamente di natura tale che dovevano per
sempre impedirne l’attuazione.
L’intera opera di Dante è, sotto certi aspetti, il
testamento del medioevo agonizzante; essa rivela quel che sarebbe stato il
mondo occidentale se non avesse rotto i suoi legami con la propria tradizione;
ma, se la deviazione moderna poté prodursi, ciò accadde, in verità, perché quel
mondo non aveva in sé tali possibilità, o perlomeno esse erano soltanto
prerogativa di una élite già molto
ristretta, la quale le realizzò per proprio conto, senza che nulla potesse
manifestarsene all’esterno riflettendosi nell’organizzazione sociale. Si era
giunti a quel momento della storia in cui doveva cominciare il periodo più oscuro dell’«età oscura»[30], caratterizzato in tutti i campi dallo sviluppo delle possibilità inferiori;
questo sviluppo, procedendo sempre nel senso del mutamento e della
molteplicità, doveva inevitabilmente portare a ciò che constatiamo oggi: nel
campo sociale, come in qualsiasi altro, l’instabilità è al suo culmine, il
disordine e la confusione regnano dappertutto sovrani; mai l’umanità è stata
così lontana dal «Paradiso terrestre» e dalla spiritualità primordiale.
Bisognerà forse concludere che questo allontanamento sia definitivo, che
nessun potere stabile e legittimo reggerà più la terra, che ogni autorità
spirituale scomparirà dal mondo e che le tenebre, estendendosi dall’Occidente
all’Oriente, nasconderanno per sempre la luce della verità? Se tale fosse la
nostra conclusione, non avremmo certo scritto queste pagine, né avremmo scritto
nessuno degli altri nostri libri, giacché si sarebbe trattato ovviamente di
fatica sprecata; ci rimane ora da dire perché non pensiamo che le cose possano
finire così.
[1] Il
Sacro Romano Impero ha inizio con Carlo Magno, e si sa che fu il Papa a
conferire a quest’ultimo la dignità imperiale; la legittimità dei suoi
successori non poteva essere conferita in modo diverso.
[2] È
interessante rilevare come il Papa abbia sempre conservato il titolo di Pontifex Maximus, la cui origine è evidentemente estranea al cristianesimo ed è
d’altronde molto anteriore; questo fatto è uno di quelli che dovrebbero
convincere coloro che sono capaci di riflettere che il cosiddetto «paganesimo»
possedeva in realtà un carattere ben diverso da quello che si è voluto
attribuirgli.
[3]
L’imperatore romano assume in qualche modo le apparenze di uno Ksatriya che eserciti, oltre alla
propria, la funzione di un Brâhmano;
questa appare perciò un’anomalia, e occorrerebbe studiare se la tradizione
romana non possedesse un carattere particolare che le permetteva di considerare
tale situazione non come una semplice usurpazione. D’altra parte, è permesso
dubitare che gli Imperatori non siano stati, nella loro gran maggioranza,
veramente «qualificati» dal punto di vista spirituale; ma occorre talvolta
distinguere tra il rappresentante «ufficiale» dell’autorità e i suoi detentori
effettivi, ed è sufficiente che questi lo ispirino, quand’anche egli non sia
uno di loro, perché le cose siano come devono essere.
[4] Cfr. un
articolo di L. Charbonneau-Lassay dal titolo Un ancien emblème du mois de janvier, pubblicato nella rivista
«Regnabit» (marzo 1925). La chiave e lo scettro corrispondono, in questo
contesto, alla raffigurazione più corrente delle due chiavi d’oro e d’argento;
i due simboli sono del resto legati direttamente a Cristo dalla formula
liturgica: «O Clavis David, et Sceptrum
domus Israël» (Breviario Romano,
officio del 20 dicembre).
[5] De Monarchia, III, 16.
[6] A
questo proposito, si veda il nostro studio L’Esoterismo
di Dante, e il libro di Luigi Valli Il
linguaggio segreto di Dante e dei «Fedeli d’amore», Milano, Luni Editrice,
1994; sfortunatamente l’autore di quest’opera morì senza aver potuto portare a
termine le sue ricerche e proprio quando queste sembravano averlo portato ad
accostarsi all’argomento con una mentalità più vicina all’esoterismo
tradizionale.
[7]
Quando si tratta del cattolicesimo, si dovrebbe avere sempre la massima cura
nel distinguere ciò che ha attinenza col cattolicesimo in quanto dottrina e ciò
che si riferisce soltanto allo stato attuale dell’organizzazione della Chiesa
cattolica; qualunque giudizio sull’ultimo aspetto non dovrebbe in alcun modo
condizionare la valutazione del primo. Quanto diciamo ora a proposito del
cattolicesimo (ed è l’esempio più immediato che si presenta parlando di Dante),
potrebbe trovare molte altre applicazioni; ma oggi sono pochi coloro che,
quando occorra, sanno fare astrazione dalle contingenze storiche; e ciò è tanto
vero che, per restare allo stesso esempio, certi difensori del cattolicesimo,
in ciò non diversi dai suoi avversari, credono di poter ridurre tutto a una
semplice questione di «storicità»: il che è una delle forme della moderna
«superstizione dei fatti».
[8]
Questa realizzazione è, di fatto, la restaurazione dello «stato primordiale» di
cui si parla in tutte le tradizioni, come abbiamo avuto occasione di esporre
più volte.
[9] Nel
simbolismo della croce la prima di queste due realizzazioni è rappresentata
dallo sviluppo indefinito della linea orizzontale, la seconda da quello della
linea verticale; esse costituiscono, secondo il linguaggio dell’esoterismo
islamico, i due sensi della «dilatazione» e dell’«esaltazione», le quali
culminano nella realizzazione dell’«Uomo Universale», che è il Cristo mistico,
ovvero il «secondo Adamo» di cui parla san Paolo.
[10] La crisi del mondo moderno.
[11] Purg., XXXIII, 145; cfr. L’Esoterismo di Dante.
[12]
L’intelletto puro, il quale ha carattere universale e non individuale, e
ricollega fra di loro tutti gli stati dell’essere, è il principio chiamato Buddhi nella dottrina indù; la radice di
questo termine esprime essenzialmente l’idea di «saggezza».
[13] Cfr.
L’uomo e il suo divenire secondo il
Vêdânta, cap. I.
[14] Da
questo punto di vista, si potrebbero forse dedurre certe conseguenze
interessanti dal fatto che, nella tradizione ebraica, fonte di tutto ciò che
può avere il nome di «religione» nel suo significato più preciso (e l’islamismo
vi si ricollega così come il cristianesimo), la designazione di Torah o «Legge» è applicata all’insieme dei Libri sacri: da ciò noi
deduciamo soprattutto una connessione con il fatto che la forma religiosa si
addice particolarmente al popoli in cui prevale la natura degli Ksatriya, e con la particolare
importanza che assume in tale forma il punto di vista sociale; le ultime due
considerazioni sono, del resto, strettamente connesse tra loro.
[15] Deve
essere ben chiaro che si tratta sempre di una conoscenza non solamente teorica,
ma effettiva, la quale di conseguenza comporta essenzialmente la realizzazione
corrispondente.
[16] A
questo proposito occorre osservare che il «Paradiso celeste» è essenzialmente
il Brahmâ-Loka, identificato con il
«Sole spirituale» (cfr. L’uomo e il suo
divenire secondo il Vêdânta, capp. XXI e XXII), e che inoltre il «Paradiso
terrestre» è detto sfiorare la «sfera della luna» (cfr. Il Re del Mondo): la cima della montagna del Purgatorio, secondo il
simbolismo della Divina Commedia, è
il limite dello stato umano o
terrestre, individuale, e il punto di comunicazione con gli stati celesti,
sovraindividuali.
[17] Lo
scettro, come la chiave, ha rapporti simbolici con l’«asse del mondo»; è un punto che in questa sede possiamo
soltanto segnalare di sfuggita, riservandoci di svilupparlo compiutamente in
altri studi.
[18] La crisi del mondo moderno.
[19] A
questo proposito, si confronti: Arturo Reghini, L’allegoria esoterica di Dante, in «Il Nuovo Patto»,
settembre-novembre 1921, pp. 546-548.
[20] La
barca simbolica di Giano era un’imbarcazione che poteva spostarsi sia avanti
che indietro: il che corrisponde al due volti dello stesso Giano.
[21]
Bisogna sottolineare con particolare attenzione che, se vi sono nel Vangelo
parole e fatti che permettono di attribuire direttamente le chiavi e la barca a
san Pietro, ciò avviene perché il Papato, fin dalla sua origine, era
predestinato a essere «romano» a causa della posizione di Roma, capitale
dell’Occidente.
[22] A
essa Dante fa precisamente allusione in un punto della Divina Commedia tra i più caratteristici per l’uso di questo
simbolismo (Par., II, 1-18), e non senza
motivo ricorda questa allusione nell’ultimo canto del poema (Par., XXXIII, 96); il significato
ermetico del «Vello d’oro» era d’altronde conosciuto nel medioevo.
[23] Âtma-Bodha; si veda L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta, cap. XXIII, e Il Re del Mondo.
[24]
Questa conquista è rappresentata talvolta anche sotto le apparenze di una
guerra; già in precedenza abbiamo segnalato l’uso che di questo simbolismo
viene fatto nella Bhagavad Gîtâ, così
come presso i musulmani; un simbolismo dello stesso genere si ritrova nei
romanzi cavallereschi del medioevo.
[25] Sono
questi, precisamente, i differenti significati della parola ebraica Shekinah; d’altronde, i due aspetti che
ricordiamo ora sono contenuti nei termini Gloria
e Pax della formula: «Gloria in excelsis Deo, et in terra Pax
hominibus bonae voluntatis», come abbiamo spiegato nel nostro studio Il Re del Mondo.
[26] È un
riferimento al simbolismo dei due oceani, quello delle «acque superiori» e
quello delle «acque inferiori», simbolismo che è comune a tutte le dottrine
tradizionali.
[27] Su
questo punto si potrebbe altresì fare un paragone con l’insegnamento di san
Tommaso d’Aquino, da noi riferito più innanzi, così come con il testo di
Confucio da noi citato.
[28] In
un altro studio abbiamo detto che la «pace» è uno degli attributi fondamentali
del «Re del mondo», di cui l’Imperatore riflette uno degli aspetti; un secondo
aspetto trova la sua corrispondenza nel Papa; ma ve n’è un terzo, principio dei
due precedenti, che non ha rappresentazione visibile in questa organizzazione
della «cristianità» (cfr., su questi tre aspetti, Il Re del Mondo). Tenendo conto di tutte le considerazioni fin qui
esposte, è facile comprendere che Roma è, per l’Occidente, un’immagine del vero
«Centro del mondo», della misteriosa Salem
di Melchisedek.
[29]
Questo campo è quello dell’esoterismo cattolico del medioevo, inteso più
specialmente nei suoi rapporti con l’ermetismo; senza le conoscenze di
quest’ordine, i poteri del Papa e dell’imperatore, così come sono stati da noi
definiti, non possono avere una realizzazione pienamente effettiva; e sono
precisamente queste le conoscenze che sembrano perdute completamente per i
moderni. Abbiamo lasciato da parte alcuni punti secondari, perché non erano di
grande importanza ai fini di questo studio; ad esempio, l’allusione che Dante
fa alle tre virtù teologali – Fede, Speranza e Carità – dovrebbe essere posta
in relazione con la funzione che è loro attribuita nella Divina Commedia (cfr. L’Esoterismo
di Dante). Inoltre, si potrebbe stabilire un paragone tra le funzioni
rispettive delle tre guide di Dante – Virgilio, Beatrice e san Bernardo – e
quelle del potere temporale, dell’autorità spirituale e del loro principio
comune; per quanto riguarda san Bernardo, bisogna riferirsi a quel che abbiamo
detto in precedenza al suo proposito.
[30] Cfr.
La crisi del mondo moderno, cap. I.
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