Autorità spirituale e Potere temporale
VI - La rivolta degli Ksatriya
Presso quasi tutti i popoli, in epoche diverse, e sempre più frequentemente via via che ci approssimiamo alla nostra epoca, i detentori del potere temporale hanno tentato, come abbiamo visto, di rendersi indipendenti da ogni autorità superiore, sostenendo di aver innato in sé il loro potere, e hanno cercato di separare completamente lo spirituale dal temporale, quando non addirittura di sottomettere il primo al secondo.
Questa «insubordinazione», nel senso etimologico della parola, presenta gradi differenti, di cui i più accentuati sono anche i più recenti, come abbiamo indicato. Mai come nell’epoca moderna le cose si sono spinte tanto oltre; ma soprattutto non sembra che le corrispondenti concezioni siano mai tanto entrate nella mentalità generale quanto negli ultimi secoli. Potremmo, a questo proposito, ripetere quanto già dicemmo in altra occasione trattando dell’«individualismo» quale caratteristica del mondo moderno[1]: la funzione dell’autorità spirituale è la sola che si riferisce a un campo sovraindividuale; quando questa autorità sia disconosciuta, è logico che l’individualismo faccia la sua apparizione, per lo meno come tendenza, anche se non come affermazione avente caratteristiche ben determinate[2]; infatti tutte le altre funzioni sociali, a cominciare da quella «governativa», che è propria del potere temporale, sono di ordine puramente umano, e l’individualismo è precisamente la riduzione della intera civiltà ai soli elementi umani.
Come facevamo osservare in precedenza, lo stesso discorso vale per il «naturalismo»: l’autorità spirituale, connessa alla conoscenza metafisica e trascendente, è la sola ad avere un carattere veramente «sovrannaturale»; tutto il resto è d’ordine naturale o «fisico», come notammo parlando del genere di conoscenza che, in una civiltà tradizionale, è principalmente prerogativa degli Ksatriya. Del resto, l’individualismo e il naturalismo sono strettamente solidali, poiché sono, in fondo, i due aspetti che assume una sola e stessa cosa, secondo che la si consideri rispetto all’uomo o al mondo; e si può constatare che la comparsa di dottrine «individualistiche» o antimetafisiche si verifica quando, in una civiltà, l’elemento che rappresenta il potere temporale ha il sopravvento su quello che rappresenta l’autorità spirituale [3].
È ciò che successe nella stessa India, quando gli Ksatriya, non accontentandosi più di occupare il secondo rango nella gerarchia delle funzioni sociali, benché questo rango comportasse l’esercizio di tutta la potenza esteriore e visibile, si rivoltarono contro l’autorità dei Brâhmani e vollero affrancarsi da ogni dipendenza nei loro confronti. La storia ci fornisce così una chiara conferma di quanto già dicemmo: che il potere temporale conduce se stesso alla rovina quando disconosce la sua subordinazione nei confronti dell’autorità spirituale; infatti, come tutto ciò che appartiene al mondo del cambiamento, non può essere autosufficiente. Il cambiamento è inconcepibile e contraddittorio senza un principio immutabile. Ogni concezione che neghi l’immutabile, ponendo l’essere completamente nel «divenire», racchiude in se stessa un elemento di contraddizione. Una simile concezione è eminentemente antimetafisica, poiché il campo metafisico è precisamente quello dell’immutabile, di ciò che si trova al di là della natura o del «divenire»; essa potrebbe anche essere chiamata «temporale», per indicare che in tale concezione il punto di vista è esclusivamente quello della successione.
D’altronde, bisogna osservare che l’applicazione dell’aggettivo «temporale» al sostantivo «potere» vuol significare che questo potere non si estende di là da ciò che è vincolato alla successione, di là da quel che è sottoposto al mutamento. Le moderne teorie «evoluzionistiche», nelle loro diverse forme, non sono i soli esempi di questo errore, che consiste nell’identificare tutta la realtà col «divenire». Esse vi hanno apportato una sfumatura speciale con la recente idea di «progresso»; ma simili teorie esistettero anche nell’antichità, soprattutto presso i Greci, e persino in certe forme di buddhismo[4], che riteniamo d’altronde degenerate o deviate, sebbene in Occidente sia invalsa l’abitudine di considerarle come rappresentanti il «buddhismo originario». In realtà, più si studia ciò che possiamo conoscere del buddhismo originario, più esso appare diverso dall’idea che se ne fanno in genere certi orientalisti; in particolare, sembra accertato che esso non comportasse affatto la negazione dell’Âtma o del «Sé», ossia del principio permanente e immutabile dell’essere, che è precisamente quel che ci interessa soprattutto in questa sede. Che la negazione sia stata introdotta successivamente in certe scuole del buddhismo indiano dagli Ksatriya ribelli o per loro ispirazione, o che essi abbiano solamente voluto utilizzarla per i loro propri fini, è qualcosa che non cercheremo di stabilire, perché ha in fondo poca importanza, e le conseguenze sono le stesse in ogni ca so[5].
Quanto abbiamo esposto ci ha permesso, in effetti, di cogliere la diretta connessione che esiste tra la negazione di ogni principio immutabile e quella dell’autorità spirituale, tra il ridurre tutta la realtà al «divenire» e l’affermazione della supremazia degli Ksatriya; e bisogna aggiungere che, sottoponendo l’intero essere al mutamento, esso si riduce con ciò stesso all’individuo, ché soltanto il principio immutabile dell’essere permette di superare l’individualità, di trascenderla; si vede così assai chiaramente quella solidarietà tra naturalismo e individualismo da noi innanzi indicat a[6].
Ma la ribellione andò oltre il suo obiettivo, e gli Ksatriya non furono capaci di arrestare il movimento, che avevano così scatenato, nel punto preciso in cui avrebbero potuto trarne vantaggio; ad approfittarne furono in realtà le caste inferiori, e questo si comprende facilmente perché, quando ci si immette su una tale china, è impossibile non percorrerla fino in fondo. La negazione dell’Âtma non fu la sola a essere introdotta nel buddhismo deviato; vi fu anche quella della distinzione delle caste, fondamento dell’intero ordine sociale tradizionale: diretta in un primo tempo contro i Brâhmani, non doveva tardare a ritorcersi contro gli stessi Ksatriya[7]. Infatti, quando venga negato il principio stesso della gerarchia, non si vede come una qualunque casta possa conservare la supremazia sulle altre, né a quale titolo possa pretendere di imporla; chiunque, in queste condizioni, può pensare di avere gli stessi diritti al potere di chiunque altro, basta che disponga materialmente della forza necessaria per impadronirsene e per esercitarlo di fatto; e, se si tratta di una semplice questione di forza materiale, non è evidente che questa debba trovarsi in sommo grado presso gli elementi che sono nello stesso tempo i più numerosi e, per le loro funzioni, i più lontani da ogni preoccupazione d’ordine spirituale?
La negazione delle caste apriva dunque la porta a tutte le usurpazioni, e ne potevano approfittare anche gli appartenenti all’ultima casta, gli stessi Shûdra; in effetti, si videro alcuni di essi impadronirsi del trono e, per una sorta di «nemesi» che era nella logica degli avvenimenti, deporre gli Ksatriya dal potere che era loro appartenuto legittimamente, ma di cui essi stessi avevano per così dire distrutto la legittimità[8].
Presso quasi tutti i popoli, in epoche diverse, e sempre più frequentemente via via che ci approssimiamo alla nostra epoca, i detentori del potere temporale hanno tentato, come abbiamo visto, di rendersi indipendenti da ogni autorità superiore, sostenendo di aver innato in sé il loro potere, e hanno cercato di separare completamente lo spirituale dal temporale, quando non addirittura di sottomettere il primo al secondo.
Questa «insubordinazione», nel senso etimologico della parola, presenta gradi differenti, di cui i più accentuati sono anche i più recenti, come abbiamo indicato. Mai come nell’epoca moderna le cose si sono spinte tanto oltre; ma soprattutto non sembra che le corrispondenti concezioni siano mai tanto entrate nella mentalità generale quanto negli ultimi secoli. Potremmo, a questo proposito, ripetere quanto già dicemmo in altra occasione trattando dell’«individualismo» quale caratteristica del mondo moderno[1]: la funzione dell’autorità spirituale è la sola che si riferisce a un campo sovraindividuale; quando questa autorità sia disconosciuta, è logico che l’individualismo faccia la sua apparizione, per lo meno come tendenza, anche se non come affermazione avente caratteristiche ben determinate[2]; infatti tutte le altre funzioni sociali, a cominciare da quella «governativa», che è propria del potere temporale, sono di ordine puramente umano, e l’individualismo è precisamente la riduzione della intera civiltà ai soli elementi umani.
Come facevamo osservare in precedenza, lo stesso discorso vale per il «naturalismo»: l’autorità spirituale, connessa alla conoscenza metafisica e trascendente, è la sola ad avere un carattere veramente «sovrannaturale»; tutto il resto è d’ordine naturale o «fisico», come notammo parlando del genere di conoscenza che, in una civiltà tradizionale, è principalmente prerogativa degli Ksatriya. Del resto, l’individualismo e il naturalismo sono strettamente solidali, poiché sono, in fondo, i due aspetti che assume una sola e stessa cosa, secondo che la si consideri rispetto all’uomo o al mondo; e si può constatare che la comparsa di dottrine «individualistiche» o antimetafisiche si verifica quando, in una civiltà, l’elemento che rappresenta il potere temporale ha il sopravvento su quello che rappresenta l’autorità spirituale
È ciò che successe nella stessa India, quando gli Ksatriya, non accontentandosi più di occupare il secondo rango nella gerarchia delle funzioni sociali, benché questo rango comportasse l’esercizio di tutta la potenza esteriore e visibile, si rivoltarono contro l’autorità dei Brâhmani e vollero affrancarsi da ogni dipendenza nei loro confronti. La storia ci fornisce così una chiara conferma di quanto già dicemmo: che il potere temporale conduce se stesso alla rovina quando disconosce la sua subordinazione nei confronti dell’autorità spirituale; infatti, come tutto ciò che appartiene al mondo del cambiamento, non può essere autosufficiente. Il cambiamento è inconcepibile e contraddittorio senza un principio immutabile. Ogni concezione che neghi l’immutabile, ponendo l’essere completamente nel «divenire», racchiude in se stessa un elemento di contraddizione. Una simile concezione è eminentemente antimetafisica, poiché il campo metafisico è precisamente quello dell’immutabile, di ciò che si trova al di là della natura o del «divenire»; essa potrebbe anche essere chiamata «temporale», per indicare che in tale concezione il punto di vista è esclusivamente quello della successione.
D’altronde, bisogna osservare che l’applicazione dell’aggettivo «temporale» al sostantivo «potere» vuol significare che questo potere non si estende di là da ciò che è vincolato alla successione, di là da quel che è sottoposto al mutamento. Le moderne teorie «evoluzionistiche», nelle loro diverse forme, non sono i soli esempi di questo errore, che consiste nell’identificare tutta la realtà col «divenire». Esse vi hanno apportato una sfumatura speciale con la recente idea di «progresso»; ma simili teorie esistettero anche nell’antichità, soprattutto presso i Greci, e persino in certe forme di buddhismo[4], che riteniamo d’altronde degenerate o deviate, sebbene in Occidente sia invalsa l’abitudine di considerarle come rappresentanti il «buddhismo originario». In realtà, più si studia ciò che possiamo conoscere del buddhismo originario, più esso appare diverso dall’idea che se ne fanno in genere certi orientalisti; in particolare, sembra accertato che esso non comportasse affatto la negazione dell’Âtma o del «Sé», ossia del principio permanente e immutabile dell’essere, che è precisamente quel che ci interessa soprattutto in questa sede. Che la negazione sia stata introdotta successivamente in certe scuole del buddhismo indiano dagli Ksatriya ribelli o per loro ispirazione, o che essi abbiano solamente voluto utilizzarla per i loro propri fini, è qualcosa che non cercheremo di stabilire, perché ha in fondo poca importanza, e le conseguenze sono le stesse in ogni ca
Quanto abbiamo esposto ci ha permesso, in effetti, di cogliere la diretta connessione che esiste tra la negazione di ogni principio immutabile e quella dell’autorità spirituale, tra il ridurre tutta la realtà al «divenire» e l’affermazione della supremazia degli Ksatriya; e bisogna aggiungere che, sottoponendo l’intero essere al mutamento, esso si riduce con ciò stesso all’individuo, ché soltanto il principio immutabile dell’essere permette di superare l’individualità, di trascenderla; si vede così assai chiaramente quella solidarietà tra naturalismo e individualismo da noi innanzi indicat
Ma la ribellione andò oltre il suo obiettivo, e gli Ksatriya non furono capaci di arrestare il movimento, che avevano così scatenato, nel punto preciso in cui avrebbero potuto trarne vantaggio; ad approfittarne furono in realtà le caste inferiori, e questo si comprende facilmente perché, quando ci si immette su una tale china, è impossibile non percorrerla fino in fondo. La negazione dell’Âtma non fu la sola a essere introdotta nel buddhismo deviato; vi fu anche quella della distinzione delle caste, fondamento dell’intero ordine sociale tradizionale: diretta in un primo tempo contro i Brâhmani, non doveva tardare a ritorcersi contro gli stessi Ksatriya[7]. Infatti, quando venga negato il principio stesso della gerarchia, non si vede come una qualunque casta possa conservare la supremazia sulle altre, né a quale titolo possa pretendere di imporla; chiunque, in queste condizioni, può pensare di avere gli stessi diritti al potere di chiunque altro, basta che disponga materialmente della forza necessaria per impadronirsene e per esercitarlo di fatto; e, se si tratta di una semplice questione di forza materiale, non è evidente che questa debba trovarsi in sommo grado presso gli elementi che sono nello stesso tempo i più numerosi e, per le loro funzioni, i più lontani da ogni preoccupazione d’ordine spirituale?
La negazione delle caste apriva dunque la porta a tutte le usurpazioni, e ne potevano approfittare anche gli appartenenti all’ultima casta, gli stessi Shûdra; in effetti, si videro alcuni di essi impadronirsi del trono e, per una sorta di «nemesi» che era nella logica degli avvenimenti, deporre gli Ksatriya dal potere che era loro appartenuto legittimamente, ma di cui essi stessi avevano per così dire distrutto la legittimità[8].
[1] Cfr. La crisi del mondo moderno, cap. V.
[2]
Questa affermazione, d’altronde, qualunque sia la forma da essa assunta, è in
realtà soltanto una negazione più o meno dissimulata; la negazione di ogni
principio superiore all’individualità.
[3] Un
altro fatto curioso, che segnaliamo di sfuggita, è la parte importante che
nelle dottrine degli Ksatriya ha
molto spesso un elemento femminile o rappresentato simbolicamente come tale,
sia che si tratti di dottrine regolarmente destinate al loro uso, sia di
concezioni eterodosse fatte da essi stessi prevalere; v’è pure da notare, a
questo proposito, che l’esistenza di un sacerdozio femminile, presso certi
popoli, appare connessa alla dominazione della casta guerriera. Questo fatto
può spiegarsi sia con la preponderanza dell’elemento «rajasico» ed emotivo
presso gli Ksatriya, e sia,
soprattutto, con la corrispondenza, nell’ordine cosmico, dell’aspetto femminile
con Prakriti o la «Natura
primordiale», principio del «divenire» e della mutazione temporale.
[4] È
questo il motivo per cui i buddhisti di certe scuole ricevettero l’epiteto di sarva-vainâshika, cioè di «coloro che
sostengono il dissolvimento di tutte le cose»; questo dissolvimento è, insomma, un equivalente del «flusso
universale» insegnato da certi «filosofi fisici» della Grecia.
[5] Non
si può invocare, contro quel che diciamo del buddhismo originario e di una sua
ulteriore deviazione, il fatto che Sâkyamuni apparteneva per nascita alla casta
degli Ksatriya, perché ciò può
senz’altro legittimamente spiegarsi con le speciali condizioni di una certa
epoca, condizioni risultanti dalle leggi cicliche. Si può del resto notare, a
questo proposito, che anche Cristo discendeva non dalla tribù sacerdotale di
Levi, ma dalla tribù regale di Giuda.
[6] Si
potrebbe ancora notare che le teorie del «divenire» tendono molto naturalmente
a un certo «fenomenismo», anche se il «fenomenismo» in senso stretto è, a dire
il vero, cosa del tutto moderna.
[7] Non
si può dire che il Buddha stesso avesse negato la distinzione delle caste: egli
non doveva semplicemente tenerne conto, perché quel che aveva realmente in
vista era la costituzione di un ordine monastico, nel cui interno questa
distinzione non si applicava; fu solo quando si pretese di estendere questa
assenza di distinzione alla società che essa si trasformò in una negazione vera
e propria.
[8] Un
governo in cui uomini di casta inferiore si attribuiscono il titolo e le
funzioni della regalità è ciò che gli antichi Greci chiamavano «tirannide»; il
significato primitivo di questo termine, come si vede, è molto diverso da
quello che ha assunto presso i moderni, per i quali esso è piuttosto sinonimo
di «dispotismo».
René Guénon si fece pubblicare scritti da Julius Evola, un fascista tra i primi firmatari delle leggi razziali promulgate dal Duce nel 1938, e così facendo consentì l'acceso di una persona malvagia, che promulgava il sacro romano impero e la preminenza della casta reale su quella sacerdotale, consentendole di esprimere una falsa conoscenza all'interno della dottrina tradizionale metafisica. Guénon commise un grave errore che non ha cessato di avere nefaste ripercussioni anche oggi, promuovendo l'entrata della destra in questioni che non dovrebbero riguardare la politica delle stragi.
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