René Guénon
Autorità spirituale e Potere temporale
IX - La legge immutabile
Come si è visto, gli insegnamenti di tutte le dottrine
tradizionali sono unanimi nell’affermare la supremazia dello spirituale nei
confronti del temporale, e nel considerare normale e legittima soltanto
l’organizzazione sociale in cui tale supremazia sia riconosciuta e si rifletta
nei rapporti dei due poteri corrispondenti alle due sfere rispettive.
D’altra parte, la storia mostra chiaramente come il disconoscimento di quest’ordine gerarchico porti con sé, sempre e dappertutto, le medesime conseguenze: squilibrio sociale, confusione delle funzioni, egemonia di elementi man mano inferiori, insieme a degradazione intellettuale, oblio dei principi trascendenti agli inizi, poi, scendendo sempre più, negazione di ogni vera conoscenza.
D’altra parte, la storia mostra chiaramente come il disconoscimento di quest’ordine gerarchico porti con sé, sempre e dappertutto, le medesime conseguenze: squilibrio sociale, confusione delle funzioni, egemonia di elementi man mano inferiori, insieme a degradazione intellettuale, oblio dei principi trascendenti agli inizi, poi, scendendo sempre più, negazione di ogni vera conoscenza.
È il caso di osservare che la dottrina, la quale permette di
prevedere che le cose devono inevitabilmente seguire questo corso, non ha
nessun bisogno, in quanto tale, di una simile conferma a posteriori; tuttavia,
se abbiamo creduto opportuno insistere su tali conseguenze storiche, la ragione
è che questi argomenti possono invogliare i nostri contemporanei a riflettere
seriamente: a causa delle loro tendenze e abitudini mentali essi sono sensibili
soprattutto ai fatti, e questo è forse l’unico modo per spingerli a riconoscere
la verità della dottrina. Se tale verità fosse riconosciuta pur solo da un
ristretto numero di individui, si tratterebbe tuttavia di un risultato di
considerevole importanza, perché soltanto così potrebbe cominciare un
cambiamento di orientamento che conduca alla restaurazione dell’ordine normale;
una simile restaurazione, quali ne siano i mezzi e le modalità, non potrà fare
a meno di realizzarsi presto o tardi. Ma su quest’ultimo punto dobbiamo dare
ancora qualche spiegazione.
Abbiamo affermato che il potere temporale riguarda il mondo
dell’azione e del mutamento; ora, il cambiamento, non possedendo in sé la
propria ragione sufficiente[1], deve
ricevere da un principio superiore la sua legge, in virtù della quale si
integra nell’ordine universale; quando invece si pretenda indipendente da ogni
principio superiore, è soltanto disordine puro. Il disordine, in fondo, si
confonde con lo squilibrio, e nel mondo dell’uomo si manifesta sotto le specie
di quella che viene chiamata ingiustizia, poiché esiste identità tra le nozioni
di giustizia, ordine, equilibrio, armonia o, meglio, esse sono soltanto aspetti
differenti di un’unica cosa, vista da angoli diversi e molteplici secondo i
campi ai quali si applica[2]. Ora,
secondo la dottrina estremo-orientale, la giustizia è costituita dalla somma di
tutte le ingiustizie, e nell’ordine totale, ogni disordine è compensato da un
altro disordine; per questa ragione la rivoluzione che abbatte la regalità è
allo stesso tempo la conseguenza logica e il castigo, cioè la compensazione,
della precedente rivolta della regalità contro l’autorità spirituale. La legge
è negata nel momento stesso in cui è negato il principio dal quale emana; ma in
realtà i suoi negatori non hanno potuto sopprimerla di fatto, ed essa si
rivolge contro di loro; così il disordine deve alla fine rientrare nell’ordine,
al quale nulla può opporsi se non in apparenza e in modo affatto illusorio.
Certo, si potrà obiettare che la rivoluzione, sostituendo il
potere delle caste inferiori a quello degli Ksatriya,
è semplicemente un aggravamento del disordine: ciò è vero se si considerano
soltanto i suoi risultati immediati; ma in realtà è questo stesso aggravamento
a impedire che il disordine si perpetui indefinitamente. Se il potere temporale
non perdesse la sua stabilità disconoscendo la propria subordinazione nel
confronti dell’autorità spirituale, non vi sarebbe alcuna ragione perché cessi
il disordine, una volta che questo si sia introdotto nell’organizzazione
sociale; parlare di stabilità del disordine è una contraddizione in termini,
poiché esso non è che il mutamento ridotto a se stesso, se così si potesse
dire: sarebbe come cercare l’immobilità nel movimento. Ogni volta che il
disordine si accentua, il movimento subisce un’accelerazione, giacché viene
fatto un passo ulteriore nel senso del cambiamento puro e dell’«istantaneità»; per
questa ragione, come stavamo dicendo prima, quanto più gli elementi sociali
sono di qualità inferiore, tanto meno dura la loro egemonia.
Come tutto quel che ha un’esistenza solo negativa, il
disordine distrugge se stesso; il suo stesso eccesso può essere rimedio ai casi
più disperati, perché la crescente rapidità del mutamento troverà
necessariamente la sua fine; del resto, non sono già in molti, oggi, coloro che
incominciano ad accorgersi, chi più, chi meno confusamente, che le cose non
possono continuare a procedere indefinitamente così? E, anche se al punto in
cui si trova il mondo, non fosse più possibile un «raddrizzamento» senza una
catastrofe, sarebbe forse questa una ragione sufficiente per non prenderlo in
considerazione? E rifiutarsi di farlo non equivarrebbe forse a dare un’altra
forma al disconoscimento di quei principi immutabili che sono di là da tutte le
vicissitudini del «temporale» e, di conseguenza, non possono essere inficiati
da nessuna catastrofe?
Dicevamo in precedenza che mai come oggi l’umanità è stata
tanto lontana dal «Paradiso terrestre»; tuttavia non bisogna dimenticare che la
fine di un ciclo coincide con l’inizio di un altro ciclo; ci si ricordi
dell’Apocalisse e si vedrà che all’estremo limite del disordine, compreso
l’apparente annientamento del «mondo esteriore», si produrrà l’avvento della
«Gerusalemme celeste», la quale sarà, nei confronti di un nuovo periodo della
storia dell’umanità, l’analogo del «Paradiso terrestre» nei confronti del
periodo che troverà il suo termine nello stesso istante[3]. L’identità dei caratteri dell’epoca moderna con quelli che le dottrine
tradizionali attribuiscono alla fase finale del Kali-Yuga fa pensare, senza troppa inverosimiglianza, che una tale
eventualità potrebbe anche non essere molto lontana; e si può aggiungere che si
tratterebbe in tal caso, dopo l’oscuramento presente, del trionfo completo
dello spiritua le[4].
Simili previsioni sembrano forse azzardate, e tali possono
effettivamente apparire a chi non abbia dati tradizionali sufficienti per
giustificarle; ma si possono almeno ricordare gli esempi del passato, i quali
dimostrano come ciò che si basa soltanto sul contingente e sul transitorio sia
fatalmente destinato a passare, come sempre il disordine svanisca, sostituito
infine dall’ordine; concludendo, anche quando il disordine sembra talvolta
trionfare, tale trionfo è soltanto passeggero, e tanto più effimero quanto più
il disordine sarà stato grande.
Senza dubbio la stessa cosa accadrà, presto o tardi, e forse
più presto di quanto si sarebbe tentati di supporre, nel mondo occidentale, in
cui il disordine si è spinto, in ogni campo, di là da quanto non sia mai
accaduto da nessun’altra parte; anche qui è facile prevederne la fine, e
attenderla. E anche se il disordine dovesse estendersi per un tempo limitato a
tutta la terra, come si ha qualche motivo di temere, ciò non significherebbe
che le nostre conclusioni siano da modificare, giacché si tratterebbe solo
della conferma delle previsioni a cui accennavamo poco fa parlando della fine
di un ciclo storico: in tal caso la restaurazione dell’ordine dovrebbe soltanto
operarsi su una scala molto più vasta, mai finora conosciuta, ma sarebbe anche
incomparabilmente più profonda e più integrale, dovendo comportare il ritorno a
quello «stato primordiale» di cui parlano tutte le tradizio ni[5].
Del resto, quando ci si pone, come noi, dal punto di vista
delle realtà spirituali, si può attendere senza patemi, e per il tempo che
occorre, perché si tratta, come abbiamo detto, della sfera di ciò che è
immutabile ed eterno. La fretta febbrile, che è così caratteristica della
nostra epoca, prova, in fondo, che i nostri contemporanei si limitano sempre
alla prospettiva temporale anche quando credono di esserne andati oltre, e
dimostra pure che, nonostante le pretese di qualcuno a tale proposito, non
sanno assolutamente che cosa sia la spiritualità pura.
D’altronde, fra coloro che cercano di reagire contro il
«materialismo» moderno, quanti sono capaci di concepire la spiritualità al di
fuori di ogni forma specifica, più in particolare al di fuori di una forma
religiosa, e di svincolare i principi da ogni applicazione a circostanze
contingenti? Quanti, fra coloro che si presentano come difensori dell’autorità
spirituale, sospettano che cosa sia questa autorità allo stato puro, come
dicevamo più sopra? Quanti si rendono conto di quali sono le sue funzioni
essenziali e non si fermano ad apparenze esteriori, riducendo tutto a una
semplice questione di riti (le cui ragioni profonde rimangono loro, per di più,
totalmente sconosciute e incomprese) o addirittura di «giurisprudenza», la
quale è qualcosa di puramente temporale? Quanti fra coloro che vorrebbero
tentare una restaurazione dell’intellettualità non la riducono al livello di
una semplice «filosofia», intesa questa volta nel senso comune e «profano»
della parola? E quanti capiscono che intellettualità e spiritualità sono, nella
loro essenza e realtà profonda, assolutamente la stessa cosa, pur sotto due
nomi diversi? Fra coloro che nonostante tutto hanno conservato qualcosa dello
spirito tradizionale, e noi parliamo esclusivamente di questi perché sono i
soli il cui pensiero possa avere qualche valore per noi, quanti prendono in
considerazione la verità per se stessa, in modo completamente disinteressato,
svincolato da ogni preoccupazione sentimentale, da ogni passione di scuola o di
partito, e da ogni aspirazione al dominio o cura di proselitismo? Fra coloro
che, per sfuggire al caos sociale in cui si dibatte il mondo occidentale,
capiscono che occorre innanzi tutto denunciare l’inanità delle illusioni
«democratiche» e «ugualitarie», quanti posseggono la nozione di una vera
gerarchia, fondata essenzialmente sulle differenze insite nella natura propria
degli esseri umani e sui gradi di conoscenza ai quali questi ultimi sono giunti
in modo effettivo? Fra coloro che si proclamano avversari
dell’«individualismo», quanti hanno coscienza di una realtà trascendente nei
confronti degli individui?
La ragione per cui facciamo tutte queste domande, è che esse
permetteranno a coloro che vorranno rifletterci di trovare una spiegazione
all’inutilità di certi sforzi, nonostante le intenzioni eccellenti da cui sono
senza dubbio animati coloro che li intraprendono, e con essa anche una
spiegazione a tutte le confusioni e i malintesi che nascono nelle discussioni a
cui alludevamo nelle pagine iniziali di questo libro.
Tuttavia, finché si manterrà un’autorità spirituale regolarmente
costituita, foss’anche disconosciuta da quasi tutti, inclusi i suoi stessi
rappresentanti, e pur ridotta all’ombra di se stessa, tale autorità avrà sempre
la prevalenza, né questa potrà mai esserle tolta[6], poiché vi è in essa qualcosa di più elevato delle possibilità meramente umane:
l’autorità spirituale, per quanto indebolita o assopita, incarna ancora «la
sola cosa necessaria», l’unica che non sia transeunte. «Patiens quia aeterna», è detto talvolta dell’autorità spirituale, e
giustamente: ciò non significa che le forme esteriori che essa può rivestire,
siano eterne, giacché qualsiasi forma è contingente e transitoria; ma significa
che in se stessa, nella sua vera essenza, l’autorità spirituale partecipa
dell’eternità e dell’immutabilità dei principi; per questo motivo si può essere
certi che in tutti i conflitti con il potere temporale, l’autorità spirituale,
nonostante le apparenze, avrà sempre l’ultima parola.
[1] È questa la definizione vera e propria della contingenza.
[2] Tutti
questi significati, insieme con quello di «legge», sono contenuti in ciò che la
dottrina indù denomina con la parola dharma;
l’adempimento da parte di ciascun essere della funzione che conviene alla sua
propria natura, nozione sulla quale si fonda la distinzione delle caste, è
chiamato sva-dharma; sarebbe
possibile far qui un accostamento con quello che Dante, nel testo da noi citato
e commentato nel capitolo precedente, chiama «l’esercizio della virtù propria».
Rimandiamo inoltre, a tal proposito, a quanto abbiamo detto in altra sede sulla
«giustizia», intesa come uno degli attributi fondamentali del «Re del mondo», e
sui suoi rapporti con la «pace».
[3] Sui
legami del «Paradiso terrestre» con la «Gerusalemme celeste», cfr. L’Esoterismo di Dante.
[4] Si
tratterebbe altresì, secondo certe tradizioni di esoterismo occidentale
collegate alla corrente a cui appartenne Dante, della realizzazione effettiva
del «Sacro Romano Impero»; di fatto, l’umanità ritroverebbe allora il «Paradiso
terrestre»: il che comporterebbe la riunione dei due poteri, spirituale e
temporale, nel loro principio, il quale sarebbe in tal modo nuovamente visibile
come si manifesta all’origine.
[5] Deve
essere reso chiaro che la restaurazione dello «stato primordiale» è sempre
possibile per certi uomini, i quali però rappresentano allora casi di
eccezione; qui si tratta invece di tale restaurazione intesa come coinvolgente
l’umanità presa collettivamente e nel suo insieme.
[6]
Pensiamo qui al noto racconto evangelico in cui Maria e Marta possono essere
effettivamente intese come simboli dello spirituale e del temporale, in quanto
corrispondono rispettivamente alla vita contemplativa e alla vita attiva.
Secondo sant’Agostino (Contra Faustum,
XX, 52-58), si ritrova lo stesso
simbolismo nelle due spose di Giacobbe: Lia (laborans) rappresenta la vita attiva, e Rachele (visum principium) la vita contemplativa.
Inoltre, nella «Giustizia» sono riassunte tutte le virtù della vita attiva,
mentre nella «Pace» si realizza la perfezione della vita contemplativa; si
ritrovano qui i due attributi fondamentali di Melchisedek, del principio
comune, cioè, dei due poteri spirituale e temporale, i quali governano
rispettivamente la sfera della vita attiva e della vita contemplativa. D’altra
parte, sempre secondo sant’Agostino (Sermo
XLIII de verbis Isaiae, cap. II) la ragione è sita alla sommità della parte
inferiore dell’anima (sensi, memoria e facoltà cogitativa), mentre l’intelletto
è sito alla sommità della sua parte superiore (la quale conosce le idee eterne,
ragioni immutabili delle cose); alla prima appartiene la scienza (delle cose
terrestri e transitorie), alla seconda la saggezza (conoscenza dell’assoluto e
dell’immutabile); la prima è legata alla vita attiva, la seconda alla vita
contemplativa. Questa distinzione equivale a quella delle facoltà individuali e
sovraindividuali e dei due ordini di conoscenza che rispettivamente vi corrispondono;
a questo proposito possiamo citare anche il seguente testo di san Tommaso
d’Aquino: «Dicendum quod sicut rationabiliter
procedere attribuitur naturali
philosophiae, quia in ipsa observatur
maxime modus rationis, ita intellectualiter procedere attribuitur divinae scientiae, eo quod in ipsa oservatur maxime modus intellectus» (In Boetium de Trinitate, q. 6, art. 1,
ad 3). Si è visto in precedenza che secondo Dante il potere temporale si
esercita secondo la «filosofia» o la «scienza» razionale, e il potere
spirituale secondo la «Rivelazione» o la «Saggezza» sovrarazionale, ciò che
corrisponde esattamente a questa distinzione delle due parti inferiore e superiore
dell’anima.
Nessun commento:
Posta un commento