"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

lunedì 6 novembre 2017

René Guénon, Autorità spirituale e Potere temporale - VII - Le usurpazioni della regalità e le loro conseguenze

René Guénon
Autorità spirituale e Potere temporale

VII - Le usurpazioni della regalità e le loro conseguenze

Si dice talvolta che la storia si ripete, il che è falso, perché non vi possono essere nell’universo due esseri o due avvenimenti che siano rigorosamente simili sotto tutti gli aspetti; se lo fossero, non sarebbero più due ma, coincidendo in tutto, si confonderebbero in modo puro e semplice, così che non sarebbero se non un solo e medesimo essere o avvenimento[1].

La ripetizione di possibilità identiche indica inoltre una supposizione contraddittoria, quella di una limitazione della possibilità universale e totale; ed è proprio ciò, come abbiamo spiegato altrove con tutti gli sviluppi necessari[2], che permette di confutare teorie come quelle della «reincarnazione» e dell’«eterno ritorno».
Ma non meno falsa è l’altra opinione, diametralmente opposta alla precedente, la quale sostiene che i fatti storici siano completamente dissimili e che tra essi non vi sia nulla in comune; la verità è che esistono sempre differenze sotto certi aspetti e rassomiglianze sotto certi altri, e che, come vi sono nella natura diversi generi di esseri, così vi sono ugualmente, in questo campo come in ogni altro, vari generi di fatti; in altri termini, esistono fatti che, in circostanze diverse, sono manifestazioni o espressioni di una medesima legge. Per questo motivo si incontrano talvolta situazioni paragonabili che, se si trascurano le differenze per rilevare solo i punti di rassomiglianza, possono dare l’illusione di una ripetizione; in realtà non vi è mai identità tra differenti periodi della storia, bensì corrispondenze e analogie come tra i cicli cosmici o gli stati molteplici di un essere; esseri differenti possono passare attraverso fasi comparabili nei limiti delle modalità proprie alla natura di ciascuno di essi: lo stesso accade dei popoli e delle civiltà.
È così che, come già abbiamo segnalato, esiste, nonostante le differenze notevoli, un’analogia incontestabile, forse mai sufficientemente rilevata, tra l’organizzazione sociale dell’India e quella del medioevo occidentale; anche se tra le caste dell’una e le classi dell’altro vi è soltanto corrispondenza e non identità, tuttavia questa corrispondenza è assai importante, perché dimostra con una chiarezza particolare che tutte le istituzioni aventi carattere veramente tradizionale poggiano sugli stessi fondamenti naturali e differiscono soltanto per gli adattamenti resi necessari dai luoghi e dalle epoche. Va però notato che con ciò non intendiamo suggerire l’idea che l’Europa si sia ispirata in quell’epoca all’India, ipotesi assai poco verosimile; vogliamo soltanto dire che ci troviamo di fronte a due applicazioni di uno stesso principio; e, in fondo, questa è la sola cosa importante, almeno dal punto di vista in cui ci poniamo ora. Lasciamo dunque da parte la questione di una origine comune, che in ogni caso si potrebbe rintracciare soltanto risalendo molto indietro nel passato. Il problema si ricollegherebbe a quello della filiazione delle diverse forme tradizionali dalla grande tradizione primordiale, questione, com’è facile comprendere, molto complessa.
Se abbiamo tuttavia segnalato questa possibilità, è perché non pensiamo che similitudini molto precise possano spiegarsi in modo del tutto soddisfacente senza una trasmissione regolare ed effettiva; e anche perché incontriamo nel medioevo molti altri indizi concordanti, che dimostrano abbastanza chiaramente come a quell’epoca esistesse ancora in Occidente, almeno per qualcuno, un legame cosciente con il vero «Centro del mondo», origine unica di tutte le tradizioni ortodosse, mentre, al contrario, nell’epoca moderna, non vediamo più nulla di simile.
In Europa troviamo anche, sin dal medioevo, qualcosa di analogo alla rivolta degli Ksatriya; lo troviamo specialmente in Francia con Filippo il Bello, il quale deve essere considerato come uno dei principali artefici della deviazione caratteristica dell’epoca moderna: a partire da Filippo il Bello la regalità fu quasi costantemente impegnata a rendersi indipendente dall’autorità spirituale, pur conservando, per una sorta di curiosa illogicità, il segno esteriore della sua dipendenza originaria, poiché, come abbiamo spiegato, la consacrazione dei re altra cosa non era. I «legisti» di Filippo il Bello sono già, molto prima degli «umanisti» del Rinascimento, i precursori dell’attuale «laicismo»; ed è a quell’epoca, cioè all’inizio del secolo XIV, che bisogna far risalire la frattura del mondo occidentale con la sua propria tradizione. Per motivi che sarebbe troppo lungo esporre qui e che abbiamo del resto indicato in altri studi[3] riteniamo che il punto di partenza di questa frattura fu caratterizzato in modo nettissimo dalla distruzione dell’Ordine del Tempio; ricorderemo solamente che quest’ultimo costituiva in qualche modo un legame tra l’Oriente e l’Occidente, e che nello stesso Occidente era, per il suo duplice carattere religioso e guerriero, una sorta di mediatore tra lo spirituale e il temporale; anzi, tale duplice carattere si potrebbe addirittura interpretare come il segno di un rapporto più diretto con la fonte comune dei due poteri[4].
Si potrebbe forse essere tentati di obiettare che questa distruzione, anche se fu voluta dal re di Francia, fu nondimeno attuata d’accordo con il Papato. La verità è che essa fu imposta al Papato, il che è ben diverso; in tal modo, capovolgendo i rapporti normali, il potere temporale cominciò da allora a servirsi dell’autorità spirituale per i suoi fini di dominio politico. Si dirà anche che se l’autorità spirituale si lasciava soggiogare a tal punto, non era più quella che avrebbe dovuto essere e i suoi rappresentanti non avevano più la piena coscienza del suo carattere trascendente; ciò è vero, e del resto spiega e giustifica, già a quell’epoca, le invettive talvolta violente di Dante; ma rimane il fatto che, nei confronti del potere temporale, la Chiesa era nonostante tutto l’autorità spirituale, e il potere temporale riceveva la sua legittimità proprio da essa.
I rappresentanti del potere temporale non sono qualificati, in quanto tali, a riconoscere se l’autorità spirituale della forma tradizionale da cui dipendono possieda o no la pienezza della sua realtà effettiva; anzi, ne sono incapaci per definizione, poiché la loro competenza si limita a una sfera inferiore; qualunque sia questa autorità, se essi disconoscono la loro subordinazione nei suoi confronti, compromettono con ciò la loro legittimità.
Occorre dunque distinguere accuratamente quel che può essere una autorità spirituale in se stessa, in tale o talaltro momento della sua esistenza, e i suoi rapporti con il potere temporale; il secondo problema è indipendente dal primo, che riguarda soltanto coloro i quali esercitano funzioni d’ordine sacerdotale o sarebbero normalmente qualificati per svolgerle; e anche se l’autorità spirituale, per colpa dei suoi rappresentanti, avesse perduto interamente lo «spirito» della sua dottrina, il solo fatto di conservare il «deposito» della «lettera» e delle forme esteriori, nelle quali tale dottrina è in qualche modo contenuta, continuerebbe ad assicurarle la potenza necessaria e sufficiente per esercitare validamente la supremazia sul temporale[5]; tale supremazia infatti è insita nell’essenza stessa dell’autorità spirituale e le appartiene finché essa sussiste regolarmente, per quanto sminuita possa essere: la minima particella di spirituale sarà ancora incomparabilmente superiore a tutto ciò che appartiene all’ordine temporale.
Ne risulta che l’autorità spirituale, mentre può e deve sempre controllare il potere temporale, non può, almeno esteriormente[6], essere controllata da nessuno; per quanto una simile affermazione possa apparire sorprendente alla maggior parte dei nostri contemporanei, non abbiamo nessuna esitazione a dichiarare che essa non è se non una verità incontestabile[7].
Ma ritorniamo a Filippo il Bello, il quale costituisce un esempio tipico di quanto ci proponiamo di spiegare qui: dobbiamo anzitutto notare che Dante gli attribuisce, quale movente delle sue azioni, la «cupidigia»[8], la quale è un vizio, non degli Ksatriya, ma dei Vaishya; si potrebbe dire che gli Ksatriya, quando si ribellano, in qualche modo si degradano e perdono il proprio carattere per assumere quello di una casta inferiore. Si potrebbe anche aggiungere che la degradazione deve essere inevitabilmente accompagnata dalla perdita della legittimità: se gli Ksatriya, per loro colpa, sono decaduti dal diritto normale all’esercizio del potere temporale, è perché essi non sono veri Ksatriya: intendiamo dire che la loro natura non è più tale da renderli adatti a svolgere quella che era la loro funzione propria. Se il re non si accontenta più di essere il primo fra gli Ksatriya, cioè il capo della nobiltà, e di svolgere la funzione di «regolatore» che a tale titolo gli appartiene, perde quel che costituisce la sua ragion d’essere essenziale e, nello stesso tempo, si oppone alla nobiltà, di cui non era che l’emanazione e l’espressione più completa.
Vediamo così la regalità, nell’intento di «centralizzare» e assorbire i poteri appartenenti alla nobiltà nel suo insieme, entrare in lotta contro quest’ultima e dedicarsi con accanimento alla distruzione del feudalesimo, dal quale era tuttavia nata; ma una tale lotta le sarebbe stata impossibile se non si fosse appoggiata al «terzo stato», che corrisponde appunto ai Vaishya; per questa ragione vediamo pure, precisamente a partire da Filippo il Bello, i re di Francia circondarsi quasi costantemente di borghesi, soprattutto quelli che, come Luigi XI e Luigi XIV, più svilupparono quell’opera di «centralizzazione», di cui la borghesia doveva poi cogliere il frutto quando, con la rivoluzione, si impadronì del potere.
La «centralizzazione» del potere temporale è inoltre il segno di un’opposizione all’autorità spirituale, di cui i governi si sforzano di neutralizzare l’influenza per sostituirvi la loro; per questo motivo la forma di governo feudale, che è quella in cui gli Ksatriya possono svolgere più completamente le loro funzioni normali, sembra la migliore per un’organizzazione regolare delle civiltà tradizionali, come fu appunto quella del medioevo.
Si potrebbe dire che l’epoca moderna, la quale coincide con la frattura nei confronti della tradizione, è caratterizzata dalla sostituzione dell’ordinamento feudale con quello nazionale: nel secolo XIV infatti le «nazionalità» cominciarono a costituirsi mediante quell’opera di «centralizzazione» di cui abbiamo parlato. È giusto dire che la formazione della «nazione francese», in particolare, fu opera dei re; ma costoro, in tal modo, prepararono senza saperlo la propria rovina[9]; e se la Francia fu il primo paese d’Europa in cui la monarchia fu abolita, ciò avvenne perché proprio in Francia la «nazionalizzazione» aveva avuto il suo punto di partenza. Inoltre, sarà sufficiente ricordare quanto la rivoluzione sia stata accanitamente «nazionalistica» e «centralizzatrice», e rammentare altresì l’uso propriamente rivoluzionario che fu fatto, durante tutto il secolo XIX, del cosiddetto «principio di nazionalità»[10]; vi è dunque una contraddizione piuttosto curiosa nel «nazionalismo» che sbandierano oggi certi avversari dichiarati della rivoluzione e della sua opera. Ma a noi preme soprattutto far rilevare che la formazione delle «nazionalità» è essenzialmente uno degli episodi della lotta del temporale contro lo spirituale; se si vuol toccare il nocciolo della questione, si può dire che per questo motivo essa fu fatale alla regalità la quale, proprio quando sembrò realizzare tutte le sue ambizioni, si avviò verso la propria rovina[11].
Esiste una specie di unificazione politica, quindi del tutto esteriore, che implica il disconoscimento, se non la negazione, dei principi spirituali i quali soli possono dare un’unità vera e profonda a una civiltà; di questa unificazione politica le «nazionalità» sono un esempio. Nel medioevo, vi fu in tutto l’Occidente una unità reale, fondata su basi propriamente tradizionali, e fu la «cristianità»; quando si formarono quelle unità secondarie, di natura esclusivamente politica, cioè temporale e non spirituale, che sono le nazioni, tale grande unità dell’Occidente fu irrimediabilmente spezzata, ed ebbe fine l’esistenza effettiva della «cristianità».
Le nazioni, frammenti dispersi dell’antica «cristianità», false unità sostituitesi alla vera unità per la sete di dominio del potere temporale, non potevano vivere, a causa delle condizioni stesse da cui erano sorte, se non opponendosi le une alle altre, lottando senza tregua tra di loro in tutti i campi[12]: lo spirito è unità, la materia è molteplicità e divisione, e quanto più ci si allontana dalla spiritualità, tanto più gli antagonismi si accentuano e si amplificano. Nessuno potrà contestare che le guerre feudali, nettamente localizzate, e per di più sottoposte a una regolamentazione restrittiva emanante dall’autorità spirituale, furono un’inezia a confronto delle guerre nazionali che, con la Rivoluzione e l’Impero, ci hanno portati alle «nazioni armate»[13] fino ad assumere nella nostra epoca sviluppi nuovi e poco rassicuranti per il futuro.
D’altra parte, il costituirsi delle «nazionalità» rese possibili veri e propri tentativi di asservimento dello spirituale al temporale, implicanti un capovolgimento totale dei rapporti gerarchici tra i due poteri; questo asservimento trova la sua espressione più netta nell’idea di una «Chiesa nazionale», subordinata cioè allo Stato e rinchiusa nel limiti di quest’ultimo; lo stesso termine «religione di Stato», sotto la sua apparenza volutamente equivoca, in fondo non vuole significare altro: è la religione di cui il governo temporale si serve come mezzo per rendere completo il suo dominio; è la religione ridotta a essere ormai soltanto un fattore dell’ordine sociale[14].
L’idea di Chiesa «nazionale» ebbe le sue origini nei paesi protestanti, o, per meglio dire, il protestantesimo fu suscitato forse per realizzarla, giacché sembra che Lutero fosse, per lo meno politicamente, soltanto uno strumento delle ambizioni di alcuni principi tedeschi; d’altronde, è molto probabile che, se egli si fosse ribellato a Roma senza aver l’appoggio diretto o indiretto di alcuni principi, le conseguenze sarebbero state trascurabili, come trascurabili furono quelle di molti altri dissidi individuali che restarono nella storia come incidenti senza seguito. La Riforma è il sintomo più appariscente dello sgretolarsi dell’unità spirituale della «cristianità», ma non fu essa che cominciò, per usare un’espressione di Joseph de Maistre, a «lacerare la veste inconsutile»; questo sgretolamento era, a quell’epoca, un fatto compiuto già da molto tempo perché, come abbiamo detto, il suo inizio risale in realtà a due secoli prima; un’analoga osservazione si potrebbe fare a proposito del Rinascimento che, per una coincidenza non certo casuale, fiorì quasi contemporaneamente alla Riforma e solo quando le conoscenze tradizionali del medioevo erano ormai pressoché interamente perdute. Il protestantesimo fu dunque, sotto questo aspetto, più un risultato che non un punto di partenza; ma, anche se esso fu in realtà soprattutto opera dei principi e dei sovrani che lo utilizzarono inizialmente a scopi politici, le sue tendenze individualistiche non tardarono a ritorcersi contro di loro, spianando direttamente la via alle concezioni democratiche e ugualitaristiche tipiche dell’epoca attuale[15].
Per tornare all’asservimento della religione allo Stato, nella forma che abbiamo testé indicato, sarebbe un errore credere che non se ne trovino esempi all’infuori di quello fornito dal protestantesimo[16]: se lo scisma anglicano di Enrico VIII rappresenta il successo più completo nella costituzione di una Chiesa «nazionale», lo stesso gallicanesimo, quale poté essere concepito da Luigi XIV, non era in fondo altra cosa; se questo tentativo fosse riuscito, il legame con Roma si sarebbe indubbiamente conservato in teoria, ma gli effetti ne sarebbero stati totalmente annullati per l’interporsi del potere politico, e la situazione non sarebbe stata, in Francia, molto diversa da quel che potrebbe essere in Inghilterra se le tendenze del ramo ritualistico della Chiesa anglicana giungessero a prevalere in modo definitivo[17].
Il protestantesimo, nelle sue diverse forme, ha certo spinto le cose agli estremi; tuttavia, non è solo nei paesi dove esso si affermò che la regalità distrusse il suo proprio «diritto divino», cioè l’unico fondamento reale della sua legittimità, e, contemporaneamente, l’unica garanzia della sua stabilità; secondo quanto abbiamo esposto, la monarchia francese, senza arrivare a una rottura così netta con l’autorità spirituale, ha agito con mezzi più ambigui e meno diretti nello stesso senso, e sembra anzi che essa sia stata la prima a incamminarsi per questa strada; quelli fra i suoi sostenitori che considerano ciò come una specie di gloria, sembrano non accorgersi delle conseguenze che l’atteggiamento dei re di Francia provocò e che non poteva non provocare.
La verità è che la monarchia aprì in tal modo inconsciamente il cammino alla rivoluzione, e quest’ultima, distruggendola, non fece che inoltrarsi in quella via di disordine che la prima aveva imboccato. In effetti, dappertutto nel mondo occidentale la borghesia è giunta a impadronirsi di quel potere al quale la monarchia l’aveva fatta partecipare in un primo tempo illegittimamente; poco importa che essa abbia abolito la monarchia come in Francia o l’abbia lasciata nominalmente in vita come in Inghilterra o altrove; in tutti i casi il risultato è identico e rappresenta il trionfo dei valori «economici», l’aperta proclamazione della loro supremazia. Ma, a mano a mano che si sprofonda nella materialità, l’instabilità aumenta e i cambiamenti si producono sempre più rapidamente; perciò il regno della borghesia potrà soltanto avere una durata relativamente breve in confronto a quella del regime a cui è succeduto; e, poiché usurpazione chiama usurpazione, dopo i Vaishya sono ora gli Shûdra ad aspirare al potere: è questo, esattamente, il significato del bolscevismo.
Non intendiamo, a questo proposito, formulare previsioni, ma non sarebbe molto difficile trarre da quel che precede certe conseguenze per l’avvenire: se in qualche modo gli elementi sociali inferiori avranno accesso al potere, il loro regno sarà verosimilmente il più breve di tutti, e contraddistinguerà l’ultima fase di un determinato ciclo storico, poiché non sarà possibile scendere più in basso; e anche se un tale avvenimento non avrà una rilevanza più generale, v’è da supporre che esso costituirà, per l’Occidente almeno, la fine del periodo moderno.
Lo storico che si avvalesse dei dati indicati potrebbe senza dubbio sviluppare queste considerazioni quasi indefinitamente, ricercando fatti più particolari che farebbero risaltare in modo molto preciso quanto abbiamo voluto rilevare soprattutto in questa occasione[18]: cioè la troppo poco conosciuta responsabilità che ebbe il potere regale all’origine di tutto il disordine moderno, con quella prima deviazione nei rapporti tra lo spirituale e il temporale che doveva provocare inevitabilmente tutte le altre. Quanto a noi, non può essere questo il nostro compito; ci siamo limitati semplicemente a offrire alcuni esempi adatti a chiarire un’esposizione sintetica; dobbiamo perciò attenerci alle grandi linee della storia, e limitarci alle indicazioni essenziali che ci provengono dal susseguirsi degli avvenimenti.





[1] Si tratta di ciò che fu chiamato da Leibnitz il «principio degli indiscernibili»; come abbiamo già avuto occasione di indicare, Leibnitz, a differenza degli altri filosofi moderni, era in possesso di alcuni dati tradizionali, frammentari però e insufficienti per permettergli di liberarsi da certe limitazioni.
[2] Errore dello spiritismo, Milano, Rusconi, 1974; parte II, cap. VI.
[3] Cfr., in particolare, L’Esoterismo di Dante.
[4] Cfr. a questo riguardo il nostro studio su Saint Bernard (Marsiglia, Éditions Publiroc, 1929). Segnalammo allora che le due nature del monaco e del cavaliere si trovavano riunite in san Bernardo, autore della regola dell’Ordine del Tempio, da lui qualificato «milizia di Dio»; ciò spiega la funzione, che svolse costantemente, di conciliatore e di arbitro tra il potere religioso e quello politico.
[5] Questo caso è paragonabile a quello di un uomo che abbia ricevuto in eredità un cofano chiuso a chiave contenente un tesoro, e che, non potendo aprirlo, ignori la vera natura dei suo contenuto; quest’uomo è nonostante tutto l’autentico possessore del tesoro; né la perdita della chiave gliene toglie la proprietà; e, se certe prerogative esteriori dipendessero da questa proprietà, egli conserverebbe sempre il diritto di esercitarle; è d’altra parte evidente che egli non potrebbe, in queste condizioni, avere effettivamente il pieno godimento del suo tesoro.
[6] Questa riserva riguarda il principio supremo dello spirituale e del temporale, il quale è di là da tutte le forme particolari, e i cui rappresentanti diretti hanno evidentemente il diritto di controllo su entrambe le sfere; ma l’azione di questo principio supremo, nello stato attuale del mondo, non si esercita visibilmente, per cui si può dire che ogni autorità spirituale appare esteriormente come suprema, anche se essa è solamente, come l’abbiamo denominata prima, un’autorità spirituale relativa, e anche se, in un caso come questo, essa ha perduto la chiave della forma tradizionale di cui ha il compito di assicurare la conservazione.
[7] Lo stesso vale per l’«infallibilità pontificale», la cui proclamazione ha suscitato tante proteste, dovute semplicemente all’incomprensione dei moderni, incomprensione che, d’altronde, rendeva ancor più indispensabile la sua proclamazione esplicita e solenne: un rappresentante autentico di una dottrina tradizionale è necessariamente infallibile quando parla in nome di questa dottrina; bisogna però che sia molto chiaro che questa infallibilità è legata non all’individualità, ma alla funzione. Per questo motivo, nell’Islâm, ogni muftî è infallibile in quanto interprete autorizzato della sharî‘a, cioè della legislazione, basata essenzialmente sulla religione, sebbene la sua competenza non si estenda a una sfera più interiore; gli Orientali potrebbero dunque stupirsi, non del fatto che il Papa sia infallibile nella sua sfera, cosa che non dovrebbe per essi suscitare la minima difficoltà, ma piuttosto che egli sia il solo a essere tale in tutto l’Occidente.
[8] Vi è in ciò la spiegazione, non solo della distruzione dell’Ordine del Tempio, ma, più visibilmente ancora, di quella che fu chiamata l’alterazione della moneta, e questi due fatti sono forse più strettamente connessi di quanto si possa supporre a prima vista; in ogni caso, se i contemporanei di Filippo il Bello considerarono un crimine questa alterazione, bisogna concludere che, cambiando di propria iniziativa il titolo della moneta, egli andò oltre i limiti riconosciuti al potere regale. È questa un’indicazione da non trascurare, poiché, nell’antichità e nel medioevo, la questione della moneta era vista sotto aspetti del tutto ignorati dai moderni, i quali si limitano al semplice punto di vista «economico»; è stato notato per esempio che presso i Celti i simboli raffigurati sulle monete non possono spiegarsi se non ricollegandoli a conoscenze dottrinali possedute dai Druidi, ciò che implica un intervento diretto di questi ultimi in tale campo; simile controllo dell’autorità spirituale ha dovuto perpetuarsi fin verso la fine del medioevo.
[9] Alla lotta della monarchia contro la nobiltà feudale può essere applicata in tutto il suo rigore l’espressione evangelica: Ogni casa divisa contro se stessa perirà.
[10] Occorre sottolineare che il «principio di nazionalità» fu utilizzato soprattutto contro il Papato e contro l’Austria, che rappresentavano gli ultimi resti dell’eredità del Sacro Romano Impero.
[11] Laddove la monarchia ha potuto sopravvivere diventando «costituzionale», non è più che l’ombra di se stessa ed ha ormai un’esistenza solo nominale e «rappresentativa»: il che si esprime nella nota formula «il re regna, ma non governa»; che cos’è questa se non una caricatura dell’antica regalità?
[12] È questa la ragione per cui l’idea di una «società delle nazioni» non può essere che un’utopia senza alcuna portata reale; alla forma nazionale di governo ripugna essenzialmente il riconoscimento di qualsiasi unità superiore alla propria; d’altronde, nelle concezioni che attualmente si fanno strada, si parla di un’unità di ordine esclusivamente temporale, perciò ancora più inefficace, e che non potrà mai essere se non una parodia della vera unità.
[13] Come abbiamo fatto notare altrove (La crisi del mondo moderno), obbligando tutti gli uomini indistintamente a partecipare alle guerre moderne, si disconosce completamente la distinzione essenziale tra le funzioni sociali; è questa, del resto, una conseguenza logica dell’«ugualitarismo».
[14] Questa concezione può d’altronde attuarsi sotto altre forme oltre a quella di una Chiesa «nazionale» in senso proprio; un esempio di ciò che diciamo è offerto da un regime come quello del «Concordato» napoleonico che, trasformando i preti in funzionari di Stato, diede origine a una vera mostruosità.
[15] È il caso di notare come il protestantesimo sopprima il clero e, benché abbia la pretesa di conservare l’autorità della Bibbia, la demolisca in pratica con il «libero esame».
[16] Non prendiamo qui in considerazione il caso della Russia, che è un po’ speciale e comporterebbe che si facessero talune distinzioni che complicherebbero la nostra esposizione; si può tuttavia dire che anche qui si ritrova la «religione di Stato» nel senso da noi ora definito; ma gli ordini monastici hanno potuto sfuggire in una certa misura alla subordinazione dello spirituale al temporale, mentre nei paesi protestanti la loro soppressione ha reso questa subordinazione affatto completa.
[17] Del resto si osserverà l’evidente similitudine che esiste tra le due denominazioni «anglicanesimo» e «gallicanesimo», similitudine che corrisponde perfettamente alla realtà.
[18] Sarebbe, ad esempio, interessante studiare sotto questo particolare punto di vista la funzione di Richelieu, il quale si accanì a distruggere le ultime vestigia del feudalesimo e, pur combattendo i protestanti all’interno della Francia, si alleò a essi in politica estera contro quel che ancora sopravviveva del Sacro Romano Impero, contro le sopravvivenze, cioè, dell’antica «cristianità».

1 commento:

  1. Quello che si dovrebbe dire è che due avvenimenti, considerati tra loro sotto certi rapporti, sono analoghi ad altri avvenimenti considerati sotto i medesimi rapporti.

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