La Spada di Folgore*
Come le parole, anche i simboli tangibili hanno il loro etimo: in questo senso, la derivazione della spada, come pure della scure, da una "radice" o un archetipo che è la folgore è universale e diffusa in tutto il mondo.
Nello Satapatha Brahmana, I, 2, 4, troviamo descritta l'origine della spada sacrificale, del palo sacrificale, del carro (di cui l'asse è manifestamente il principio) e della freccia dal vajra di Indra (saetta, folgore, lancia adamantina e stauros).
"Quando Indra scagliò la folgore contro Vrtra, così scagliata quella divenne quadruplice. Di essa la spada di legno (sphya) rappresenta circa un terzo, e il carro (cioè il suo asse) circa un terzo. Inoltre il (quarto e più corto pezzo), con cui egli lo colpì, si spezzò, e volando via (patitva)1 divenne una freccia; da cui il nome "freccia" (sara), perché si era spezzata (asiryata). In tal modo la folgore divenne quadruplice. I sacerdoti fanno uso di due di questi frammenti nel sacrificio, mentre gli uomini di sangue reale fano uso degli (altri) due in battaglia…
Ebbene, quando egli [il sacerdote] impugna la spada di legno, è la folgore (vajra) che egli alza contro il malvagio perfido nemico, così come Indra quel giorno alzò la folgore contro il Drago (Vrtra)… Egli l'afferra con l'incantesimo: "Su istigazione del divino Savitr (il Sole), io ti afferro con le braccia degli Asvin, con le mani di Pusan (il Sole)"… Quindi egli l'afferra con le Sue mani, non con le proprie; perché è la folgore e nessun uomo la può brandire… Egli mormora, rendendola in tal modo affilata: "Tu sei il braccio destro di Indra". "Dalle mille punte, dai cento tagli", soggiunge, perché mille punte e cento tagli aveva la folgore che Indra scagliò contro Vrtra; in tal modo egli fa sì che la spada di legno sia quella folgore. "Tu sei il Vento (Vayu) tagliente",2 egli aggiunge; infatti colui che soffia quaggiù è il taglio più affilato, perché penetra attraverso questi mondi; in tal modo egli la rende tagliente. Quando poi egli dice "l' uccisore del nemico", secondo che egli desideri farne uso o meno dica: "L' uccisore del tal dei tali".3 Quando sia stata affilata, egli con essa non deve toccare se stesso né la terra: "Affinchè io non ferisca, ecc". In seguito egli brandisce la spada tre volte, scacciando via gli Asura dai tre mondi, e poi la quarta volta per respingere gli Asura da un "quarto mondo che potrebbe esserci come non esserci al di là di questi tre"; i primi tre colpi vengono sferrati cantando delle formule, il quarto colpo invece in silenzio. Quel che in sostanza afferma il terzo versetto del testo dello Satapatha Brahmana, è in hoc signo vinces. La spada di legno è descritta come diritta, è chiamata con il nome solitamente usato per significare spada, Khadga, e poiché doveva avere una guardia è evidente che questa doveva essere cruciforme. Il suo parallelo in Europa è abbastanza ovvio; nell'uso cavalleresco cristiano la spada e la croce sono virtualmente identiche; o per lo meno è possibile usare la spada in sostituzione della croce di legno, ed essa funge anche da arma consacrata e apotropaica, per scacciare gli spiriti maligni.
In Giappone la spada è parimenti fatta
"derivare" dalla folgore archetipica. La spada giappponese, sia essa
scintoista, regale, o da samurai, è infatti la discendente o ipostasi
(tsugi, nel senso che questa parola ha nel titolo imperiale Hitsugi, "Discendente del Sole", sansr. aditya-bandhu) della spada di folgore trovata da Susa-no-Wo-no-Mikoto,
che potremmo chiamare l'Indra scintoista, nella coda del Drago delle
Nuvole che egli uccide e squarta, ricevendo quale compenso l'ultima
delle figlie della Terra; le sette che l'avevano preceduta erano state
divorate dal Drago.4 L'eroe solare, in altre parole, si impadronisce
dell'aculeo del Drago (Padre), "spada" che egli certo restituisce agli
dei, ma che riprodotta manualmente e dotata di potere mediante riti
appropriati diviene un vero e proprio palladio, un talismano "caduto dal
cielo" (divo-patita), ed è sia oggetto di culto nel santuario
scintoista sia "simbolo dell'anima del samurai, e come tale oggetto
della sua venerazione". Il termine usato da Holtom, "venerazione", non è però certo la parola giusta qui. La spada di un samurai è considerata il suo sé o anima (tamashii)
o alter ego, nonché l'incarnazione di un principio custode (mamori), e
quindi protettore, sia fisicamente che spiritualmente. La prima
concezione, quella della spada come estensione della propria essenza,
somiglia moltissimo alla dottrina di Brhaddevata, I, 74, dove l'arma di un Deva " è la sua sessa energia ignea", e IV, 143, dove per converso il Deva
"è la sua in-spirazione". La spada del Templare è allo stesso modo un
"potere" e un' estensione del suo essere, e non un "semplce strumento";
soltanto un outsider (pro-fanus) direbbe che il crociato "venera" la sua
spada. Holtom è certo un buon antropologo, e si ritiene
soddisfatto delle spiegazioni nauraliste e sociologiche dell'arma in
quanto palladium, di origine celeste; noi, che nell'arte tradizionale
ravvisiamo un'incarnazione di idee piuttosto che un'idealizzazione di
fatti, preferiremmo dire che si tratta di un simbolismo adeguato e di un
adattamento alle necessità umane di princìpi superiori.
È possibile ravvisare la stessa idea nella notizia secondo cui nei misteri dei Dattili Idei
Pitagora sarebbe stato purificato da una "pietra del fulmine" che come
dice la Harrison, "con ogni probabilità non era che… un'ascia di pietra
nera, la forma più semplice di scure dell'età della pietra"; e anche nel
fatto che l'attribuzione alle scuri di pietra e alle punte delle frecce
del nome di "fulmini" e di un'energia magica è attestata "in quasi
tutto il mondo". Conveniamo con la Harrison che questa idea non sia di
origine popolare, ma non che per questo debba essere di origine tarda,
perché ci appare poco sensata e poco persuasiva la sua opiniome secondo
cui "il diffusissimo errore che queste asce fossero dei fulmini non può
aver fatto presa sulle menti degli uomini che in un'epoca in cui il loro
uso reale come banali asce era stato dimenticato … non può quindi
essere molto antico". L'"errore … non può" - questa è una deduzione
infondata da ogni punto di vista, perché se l'indù e il giapponese
potevano chiamare fulmine una spada di legno o di metallo in un'epoca in
cui tali armi avevano un "uso reale", è difficile capire per quale
motivo l'uomo primitivo, che in un certo senso era anche sciamanista,
non debba essersi comportato allo stesso modo. In primo luogo è
difficile dubitare che l'uomo primitivo infondesse lo spirito nelle sue
armi mediante incantesimi appropriati (così come facevano gli indù e i
giapponesi, e come la Chiesa cristiana ancora oggi fa consacrando una
varietà di manufatti, e in particolare nel caso della
"transustanziazione"), dotandole in tal modo di un'efficacia più che
umana; e in secondo luogo, se in base alla diffusione universale e
"superstiziosa" (come "sopravvivenza") di tale nozione, e anche su basi
più generali, ammettiamo che egli già chiamasse le sue armi fulmini,
benchè perfettamente consapevole della loro reale artificialità, come
possiamo supporre che egli intendesse tale denominazione in un senso più
letterale (o meno reale) del brahmano che parimenti chiama la sua spada vajra
- fulmine, folgore, o diamante?5 L'uomo primitivo, come ogni scolaro
ben sa, ravvisava una volontà in tutte le cose - "il ferro da se stesso
spinge l'uomo" -, e pertanto è stato chiamato "animista". Il termine è
del tutto improprio perché egli non vedeva in ogni cosa un'anima
indipendente, ma il mana, una potenza spirituale ancor più che psichica,
in se stessa indifferenziata, ma di cui tutte le cose partecipavano
secondo la loro natura. In altre parole egli spiegava l'attualità o
efficacia di ogni cosa contingente immaginandola informata da un Essere
fonte di ogni potenza e onnipresente, inesauribile, senza forma, e non
particolarizzato: dottrina che coincide esattamente con quella cristiana
e indù.6 Noi quindi sosteniamo che già l'uomo primitivo chiamava
"fulmini" le sue armi, e non solo questo, ma che egli sapeva quel che
intendeva chiamandole così; inoltre, che ciò è altrettanto vero per gli
indù e i giapponesi, più sofisticati, con l'unica differenza che essi
possono dimostrare citando capitolo e versetto di chiamare le loro armi
fulmini con la piena consapevolezza della loro artificialità e del loro
uso pratico; che anche il cristiano "adora idoli fatti dalla mano
dell'uomo" (come potrebbero dire l'iconoclasta o l'antropologo), pur
essendo in grado di dimostrare che non è come feticcio che egli "adora"
l'icona; e infine, che soltanto quando trovassimo dei contadini
ignoranti che che chiamano fulmini delle scuri senza sapere che sono
armi, avremmo a che fare con una vera superstizione o "sopravvivenza" -
superstizione che avrebbe dovuto essere compito dell'antropologo
elucidare invece che registrare soltanto.
* Tratto da: Il grande brivido, Adelphi, Milano, 1987.
* Tratto da: Il grande brivido, Adelphi, Milano, 1987.