René Guénon
Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi
33. L’intuizionismo contemporaneo
33. L’intuizionismo contemporaneo
Nel campo della filosofia e della psicologia, le tendenze
corrispondenti alla seconda fase dell’azione antitradizionale si traducono
naturalmente nell’appello al «subconscio» in tutte le sue forme, vale a dire
agli elementi psichici più bassi dell’essere umano; ciò appare evidente
soprattutto per quanto riguarda la filosofia, nelle teorie di William James e
nell’«intuizionismo» bergsoniano.
Abbiamo già avuto occasione di parlare di Bergson accennando alle critiche che egli giustamente formula, anche se in modo poco chiaro ed in termini equivoci, contro il razionalismo e le sue conseguenze; ma quel che caratterizza la parte «positiva» (tanto per dire) della sua filosofia è che, invece di cercare al di sopra della ragione il rimedio alle sue insufficienze, egli lo ricerca, al contrario, al di sotto di essa; e così, invece di rivolgersi alla vera intuizione intellettuale, che egli, come i razionalisti, ignora completamente, invoca una pretesa «intuizione» di ordine unicamente sensitivo e «vitale», nella cui nozione, estremamente confusa, l’intuizione sensibile propriamente detta si mescola alle forze più oscure dell’istinto e del sentimento.
Abbiamo già avuto occasione di parlare di Bergson accennando alle critiche che egli giustamente formula, anche se in modo poco chiaro ed in termini equivoci, contro il razionalismo e le sue conseguenze; ma quel che caratterizza la parte «positiva» (tanto per dire) della sua filosofia è che, invece di cercare al di sopra della ragione il rimedio alle sue insufficienze, egli lo ricerca, al contrario, al di sotto di essa; e così, invece di rivolgersi alla vera intuizione intellettuale, che egli, come i razionalisti, ignora completamente, invoca una pretesa «intuizione» di ordine unicamente sensitivo e «vitale», nella cui nozione, estremamente confusa, l’intuizione sensibile propriamente detta si mescola alle forze più oscure dell’istinto e del sentimento.
Questo «intuizionismo»,
soprattutto in quello che si potrebbe chiamare il suo «ultimo stadio» (così
com’è per la filosofia di William James), presenta dunque evidenti affinità con
il «neospiritualismo», non a motivo di un incontro più o meno «fortuito», ma perché non si tratta
in fondo che di due diverse espressioni di una stessa tendenza. L’atteggiamento
dell’«intuizionismo» nei confronti del
razionalismo è in un certo modo parallelo a quello del «neospiritualismo»
rispetto al materialismo: l’uno tende all’«infrarazionale» e l’altro tende
all’«infracorporeo» (ed anch’esso senza dubbio inconsapevolmente), di modo che,
in entrambi i casi, si tratta sempre in definitiva di una direzione nel senso
dell’«infraumano».
Pur non intendendo qui esaminare in modo particolareggiato
queste teorie, dobbiamo tuttavia segnalarne quei punti che sono in più diretta
relazione con l’argomento che trattiamo: anzitutto il loro carattere
estremamente «evoluzionistico», per cui esse, collocando ogni realtà
esclusivamente nel «divenire», sono la formale negazione di un principio
immutabile e, di conseguenza, d’ogni concezione metafisica. Da questa negazione
deriva il loro andamento «sfuggevole» ed inconsistente, il quale, in contrasto
con la «solidificazione» razionalistica e materialistica, offre veramente una
sorta di immagine anticipata della dissoluzione di tutte le cose nel «caos»
finale. Ne è un esempio significativo il modo in cui viene considerata la
religione, proprio in una delle opere di Bergson che meglio rappresentano
quell’«ultimo stadio» al quale abbiamo già accennato;[1] non è
qualcosa di completamente nuovo, giacché le origini della tesi quivi sostenuta
sono in fondo ben semplici: si sa che tutte le teorie moderne su questo
argomento presentano la caratteristica comune di voler ridurre la religione ad
un fatto meramente umano, e ciò equivale a negarla, coscientemente o no, perché
in tal modo ci si rifiuta di tener conto di quel che ne costituisce l’essenza
stessa; e, sotto questo aspetto, la concezione bergsoniana non rappresenta per
nulla un’eccezione. Queste teorie sulla religione, nel loro insieme, possono
ridursi a due tipi principali: quello «psicologico», che pretende di darne una
spiegazione basandosi sulla natura dell’individuo umano, e quello
«sociologico», che vuole vedervi un fatto d’ordine esclusivamente sociale, il
prodotto di una specie di «coscienza collettiva» che determinerebbe la condotta
degli individui. L’originalità di Bergson consiste semplicemente nell’aver
cercato di mettere insieme questi due tipi di spiegazione, ed in un modo molto
singolare: invece di ritenerli reciprocamente più o meno esclusivi, come fanno
quasi sempre i loro rispettivi fautori, egli li accetta entrambi, ma
applicandoli a cose diverse designate nondimeno con la stessa parola
«religione»: le «due fonti» che egli prospetta non sono, in realtà,[2]
nient’altro che ciò. Secondo Bergson esistono dunque due specie di religione,
l’una «statica» e l’altra «dinamica», che egli denomina pure, in modo piuttosto
inconsueto, «religione chiusa» e «religione aperta»: la prima è di natura
sociale, la seconda di natura psicologica. È a quest’ultima, naturalmente, che
vanno le sue preferenze, ritenendola egli la forma superiore della religione:
infatti è evidente che, in una «filosofia del divenire» come la sua, non
potrebbe accadere altrimenti, giacché, per essa, tutto ciò che è immutabile non
corrisponde a niente di reale, e per di più impedisce all’uomo di cogliere il
reale così come egli lo concepisce. Ma, si obietterà, una simile filosofia, per
la quale non esistono «verità eterne»,[3]
dovrebbe negare ogni valore non solo alla metafisica ma anche alla religione;
ed è proprio quel che succede in effetti, poiché la religione nel vero senso
della parola è esattamente quella che Bergson chiama «religione statica», in
cui egli non vede che una «fabulazione» del tutto immaginaria; e, quanto alla
«religione dinamica», in verità essa è tutt’altro che religione.
Questa sedicente «religione dinamica» non possiede nessuno
degli elementi caratteristici che entrano nella definizione stessa di
religione: né dogmi, perché questi sono qualcosa di immutabile e, come dice
Bergson, di «congelato», e neppure riti, beninteso, per la stessa ragione ed
anche a motivo del loro carattere sociale: entrambi devono essere lasciati alla
«religione statica»;
quanto alla morale, Bergson ha cominciato a metterla da parte come qualcosa di
estraneo alla religione quale egli l’intende. Quel che ne rimane è solo una
vaga «religiosità», una sorta d’aspirazione confusa verso un «ideale»
qualsiasi, molto vicina insomma a quella dei modernisti e dei protestanti
liberali, e che ricorda anche, per certi lati, l’«esperienza religiosa» di
William James. È questa «religiosità» che Bergson confonde con la religione
superiore, poiché, come tutti coloro che hanno le sue stesse tendenze, egli
crede in tal modo di «sublimare» la religione, mentre non fa che svuotarla
completamente del suo contenuto positivo, contenuto in cui non si trova nulla
di compatibile con le sue concezioni; e, del resto, ciò è tutto quel che si
poteva trarre da una teoria psicologica: non abbiamo infatti mai visto che una
simile teoria si sia mostrata capace di andare oltre il «sentimento religioso»,
il quale, ridiciamolo ancora, non è affatto la religione. Questa «religione
dinamica», secondo Bergson, trova la sua più alta espressione nel «misticismo»,
del resto assai malcompreso e colto nel suo peggiore aspetto, poiché egli lo
esalta solo per quanto vi trova di «individuale», vale a dire di vago, di
inconsistente, ed in qualche modo di «anarchico», e di cui i migliori esempi,
anche se egli non li cita, si troverebbero in certi «insegnamenti» di
ispirazione occultistica e teosofistica; in fondo, quel che gli piace dei
mistici, bisogna dirlo chiaramente, è quella tendenza alla «divagazione», nel
senso etimologico della parola, che costoro manifestano fin troppo facilmente
quando sono lasciati a se stessi. Quanto a ciò che costituisce la base stessa
del misticismo propriamente detto – lasciando da parte le sue deviazioni
più o meno anormali o «eccentriche» –, cioè, che lo si voglia o no, al
suo ricollegamento a una «religione statica», egli lo ritiene senz’altro
trascurabile; si ha del resto la sensazione che ciò lo metta a disagio, poiché
le spiegazioni riguardanti questo punto denotano un certo imbarazzo; ma è
questo un argomento che, se volessimo esaminarlo più da vicino, ci
allontanerebbe troppo dall’essenziale della questione.
Ritornando alla «religione statica», vediamo che Bergson,
per risolvere il problema delle sue pretese origini, accetta come buone le
ipotesi della troppo famosa «scuola sociologica», comprese quelle più soggette
a cautela: «magia», «totemismo»,
«tabù», «mana», «culto
degli animali», «culto degli spiriti», «mentalità primitiva», cioè un completo
repertorio del gergo convenzionale e di altre «cianfrusaglie» abituali, se ci è
permesso di esprimerci così (e lo è certamente quando si tratta di cose che
presentano un carattere così grottesco). Quel che forse gli appartiene in
proprio è la parte che in tutto ciò egli attribuisce alla cosiddetta «funzione
fabulatrice» che ci sembra veramente assai più «favolosa» delle cose che
vorrebbe spiegare; ma si doveva pure immaginare una teoria che permettesse di
negare in blocco ogni reale fondamento a tutte quelle che si era convenuto di
ritenere «superstizioni»; un filosofo «civilizzato», e per di più «del secolo
XX», ritiene evidentemente che ogni altro atteggiamento sarebbe indegno di lui!
In tutto ciò, secondo noi, di veramente interessante, non c’è che un punto,
quello concernente la «magia»: quest’ultima è una grande risorsa per certi
teorici che ne ignorano senza dubbio la vera natura, ma che vogliono farne la
fonte della religione e della scienza. Pur tuttavia questa non è la posizione
di Bergson: attribuendo alla magia una «origine psicologica», egli la riduce
all’«esteriorizzazione di un desiderio di cui il cuore è ricolmo», e pretende
che, «se si ricostituisse con uno sforzo di introspezione la reazione naturale
dell’uomo di fronte alla percezione delle cose, si scoprirebbe che magia e
religione sono strettamente connesse e che non c’è nulla in comune tra la magia
e la scienza». Vero è che in seguito egli ha qualche esitazione: da un certo
punto di vista «la magia fa evidentemente parte della religione», ma da un
altro «la religione si oppone alla magia»; più netta ancora è l’affermazione che «la magia è
l’inverso della scienza», e «ben lungi dal preparare il sorgere della scienza
come si è preteso, essa ha costituito il grande ostacolo contro il quale il
sapere metodico ha dovuto lottare». Tutto ciò è quasi esattamente il contrario
della verità, poiché la magia non ha nulla a che vedere con la religione e non
si trova all’origine di tutte le scienze, ma è semplicemente una scienza
particolare fra le altre; sennonché Bergson è senza dubbio convinto che non
possono esistere altre scienze oltre quelle che figurano nelle
«classificazioni» moderne, concepite secondo il punto di vista più strettamente
profano. Parlando delle «operazioni magiche» con l’imperturbabile sicurezza di
chi non ne ha mai visto nessuna,[4] egli
ha scritto la seguente sorprendente frase: «Se l’intelligenza primitiva avesse
in tal modo cominciato a formulare dei principi, essa si sarebbe ben presto
arresa all’esperienza che gliene avrebbe dimostrato la falsità». Come è
intrepido questo filosofo che, rinchiuso nel suo studio – e naturalmente
al riparo dagli attacchi di certe influenze che certo si guarderebbero bene dal
prendersela con un collaboratore tanto prezioso quanto incosciente – nega
a priori tutto ciò che non rientra
nel quadro delle sue teorie! Come può egli ritenere gli uomini così sciocchi da
ripetere indefinitamente, ignorandone i «principi», «operazioni» che non
sarebbero mai riuscite; e cosa direbbe egli mai se scoprisse che, al contrario,
è proprio l’«esperienza a dimostrare la falsità» delle sue asserzioni?
Evidentemente egli non concepisce nemmeno una simile possibilità. Tanta è la
forza delle idee preconcette, in lui e in quelli come lui, da non farli
dubitare un solo istante che il mondo non sia strettamente limitato alla misura
delle loro concezioni (ed è questo che, d’altronde, permette loro di costruire
dei «sistemi»). Ma come può un filosofo comprendere che anch’egli, come
qualsiasi mortale, dovrebbe astenersi dal parlare di ciò che non conosce?
Ritornando alla connessione effettiva tra l’«intuizionismo»
bergsoniano e la seconda fase dell’azione antitradizionale, arriviamo infine
alla seguente significativa constatazione: che la magia, per una specie di
ironica nemesi, si vendica crudelmente delle negazioni del nostro filosofo.
Ricomparendo ai nostri giorni attraverso le recenti «fenditure» di questo
mondo, nella sua forma più bassa e nello stesso tempo più rudimentale, cioè
sotto il travestimento della «scienza psicologica» (quella stessa che altri
preferiscono, ben poco felicemente del resto, chiamare «metapsichica»), la
magia riesce a farsi accettare da Bergson senza che egli la riconosca, non solo
come ben reale, ma come elemento capitale della sua «religione dinamica»! Non
esageriamo affatto: egli parla di «sopravvivenza» né più né meno d’un volgare
spiritista e crede in un «approfondimento sperimentale» che autorizza «ad ammettere
la possibilità e anche la probabilità di una sopravvivenza dell’anima» (ma cosa
si deve intendere esattamente con ciò? non si tratta piuttosto della
fantasmagoria dei «cadaveri psichici»?), senza tuttavia che si possa dire «se
sia per un certo tempo o per sempre». Sennonché questa spiacevole restrizione
non gli impedisce di proclamare con tono ditirambico: «Niente di più occorre
per trasformare in una realtà vivente ed agente quella fede nell’aldilà che si
riscontra nella maggior parte degli uomini, ma che nella maggior parte dei casi
è solo verbale, astratta, inefficace... In verità, se noi fossimo certi,
assolutamente certi di sopravvivere, non potremmo più pensare ad altro». La
magia antica era più «scientifica» nel vero senso della parola, anche se non in
senso profano, e non avanzava certamente pretese del genere; perché alcuni di
questi fenomeni, e fra i più elementari, potessero dar luogo a simili
interpretazioni, si è dovuto attendere l’invenzione dello spiritismo, il quale
poté manifestarsi solo in una fase già molto avanzata della deviazione moderna.
In effetti, è proprio la pura e semplice teoria spiritistica concernente questi
fenomeni che Bergson, come William James prima di lui, accetta infine con una
«gioia» che fa «impallidire tutti i piaceri» (citiamo testualmente le
incredibili parole con le quali conclude il suo libro), e che ci dà una chiara
idea del grado di discernimento di cui questo filosofo è capace, perché, quanto
alla sua buona fede, essa è certamente fuori discussione: in casi di questo
genere, infatti, i filosofi profani sono generalmente atti a far la parte dei
gabbati, e a servire così da «intermediari» inconsapevoli per abbindolarne
molti altri. Comunque sia, in fatto di «superstizione» sarebbe molto difficile
trovare un esempio migliore di questo; e ciò dà l’idea più giusta di quanto
valga realmente tutta questa «nuova filosofia», come si compiacciono di
denominarla i suoi fautori!
[1] H.-L. Bergson, Les deux sources de la morale et de la religion, Paris, 1932.
[2]
Quanto alla morale, che qui non ci interessa particolarmente, la spiegazione
che egli ne dà va naturalmente di pari passo con quella della religione.
[3] È
importante notare come Bergson sembri addirittura evitare l’impiego della
parola «verità»; egli la sostituisce quasi sempre con la parola «realtà», la
quale, per lui, non designa nient’altro che ciò che è sottomesso a un continuo
cambiamento.
[4] È un
vero peccato che Bergson non sia stato in buoni termini con sua sorella,
signora Mac-Gregor (alias «Soror
Vestigia Nulla Retrorsum»), la quale, a questo riguardo, avrebbe potuto
istruirlo un pochino!
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