"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

mercoledì 6 dicembre 2017

'Abd Al-Qâdir al-Jazâ'irî, La vera appartenenza dell’atto umano (Mawqîf 240)

'Abd Al-Qâdir al-Jazâ'irî 
La vera appartenenza dell’atto umano

Mawqîf 240

Dio ha detto:
“In nome di Dio”[1] [Si tratta della formula rituale «Bismillâh» n.d.r.].
Sappi che colui che dice: “In nome di Dio” prima di agire, è un vero sunnita.

In effetti, l’espressione “in” significa, in sé, la domanda di aiuto. Egli la può pronunciare in questo senso, ma anche in un senso diverso, a causa della sua ignoranza della realtà delle cose e della radice dei significati. Egli pensa che l’atto è creato da Dio, ma se è ash’arita, gli appartiene anche per acquisizione e, per libera scelta, se è mâturîdita.

Dunque, egli partecipa necessariamente all’atto, pur chiedendo l’aiuto di Dio per questo atto, perché Dio l’ha ordinato così, dicendo:

“Chiedete l’aiuto di Dio”[2]; “È a Te che noi chiediamo aiuto”[3]. E nella Raccolta della tradizione autentica, si trova questo: “Non vi è potere né forza se non in Dio”.[4]
E se si tratta di un conoscitore di Dio, allora, l’espressione “in” è da prendere nel senso della provenienza.[5] In effetti, egli non pensa che un atto qualunque possa appartenergli. Al contrario, constata che gli atti non provengono che da Dio, l’Esistenza reale che fa sussistere ogni forma a partire dalla quale, a prima vista, gli atti si manifestano; di conseguenza, egli vede che lui stesso e ogni creatura sono degli strumenti dei quali Dio si serve per agire al grado della Sua volontà e per mezzo dei calami che Egli mette in movimento per ciò che Vuole e decreta e che riguarda ciò che[6] conviene all’atto la cui formula “In nome di Dio” ne costituisce l’inizio. Quando uno straniero ci interroga, rispondiamo che questo significa che la creazione di quella cosa procede da Dio. E quando ne vogliamo rendere conto alle persone che percorrono la nostra via, diciamo, per esempio, che la lettura (del Corano) proviene da Dio, proprio come la pratica dell’evocazione divina, la pratica della preghiera, ecc… In effetti, la nostra lettura fa parte dei nostri atti; ora i nostri atti sono creati da Dio; e ciascuno dei nostri atti ha un nome che lo identifica e che è uno dei nomi del Reale, i quali sono infiniti. La ragione di prescrivere la formula “In nome di Dio” all’inizio di ogni atto permesso o legittimo, è di mostrare verbalmente che si prendono le distanze nei confronti della pretesa che l’uomo ha di agire come se fosse lui stesso a farlo, come si verifica generalmente. Quando l’azione non è legittima, né permessa, questa formula non è prescritta, in segno di buona educazione spirituale nei confronti dell’emanazione di quel che è contrario al Legislatore.[7] Ecco in cosa consiste la parte del conoscitore di Dio. Ma, se si tratta di qualcuno di spiritualmente perfetto, si trova dunque al di sopra del conoscitore di Dio e a maggior ragione osserverà le buone maniere spirituali. Di conseguenza, quando l’atto incontra una qualunque opposizione da parte del Legislatore, anche se solo da un punto di vista esteriore, se lo attribuirà, come fa il mu’tazilita, e sarà costui che esteriormente ne avrà il potere. Ma, ciò che egli dichiara differisce da quel che porta in sé e da ciò che crede, quando dice: “Ho voluto danneggiarla”[8], ossia, la barca; o ancora: “E quando sono malato, è Lui che mi guarisce”[9]. Questo genere di comportamento mu’tazilita è assolutamente perfetto. Se colui che dice “In nome di Dio” è mu’tazilita, l’espressione “in” ha in questo caso un senso d’associazione.[10] Tale è l’opinione dell’autore de L’Esploratore[11], ma, anche se dice che non è questo il senso, è presuntuoso da parte sua, perché pensa di essere lui il creatore degli atti liberi. Ecco perché, secondo lui, la ricompensa è legata all’obbedienza e la punizione alla disobbedienza. In effetti, sempre secondo lui, l’espressione “in” nel “In nome di Dio” ha un senso di accompagnamento e d’associazione, come quando si dice: “Sono entrato da lui con[12] una tenuta da viaggio”. Effettivamente, il mu’tazilita crede che Dio gli doni la capacità di compiere i suoi atti liberi e che in seguito Egli lo renda responsabile; tanto che, se agisce bene, è in suo favore e, se agisce male, è a suo danno. È dunque in uno stato di perdizione. E lo è maggiormente chi pretende che la capacità e l’atto, ad un tempo, gli appartengano; come, per esempio, coloro che, per la loro perdizione, aspirano allo stato della signoria.

[1] Corano 1, 1
[2] Corano 7, 128
[3] Corano 1, 5
[4] Al-Bukhârî, Adhân, 7.
[5] Bi- ha allora il senso di min.
[6] In luogo di mimmâ, preferiamo leggere bi-mâ, contrariamente a MBA e all’edizione del 1967.
[7] Ciò che vuol dire, come l’autore ripete sovente, che anche se gli atti cattivi appartengono realmente a Dio che crea tutti gli atti senza eccezione, è meglio non dirlo, perché questo porterebbe a credere che Dio è cattivo e ingiusto. È in questo che consiste la buona educazione.
[8] Corano 18, 79
[9] Corano 26, 80
[10] Ossia, il senso di ‘con’.
[11] Si tratta di al-Zamakhsharî (468/1075-539/1144), autore del Kashshâf, commentario mu’tazilita del Corano.
[12] In arabo, bi- (con, in) è la stessa preposizione che è utilizzata per dire: “In nome di Dio” (bi-smi Allâh).

1 commento:

  1. Spesso tra i credenti questa formula viene usata a sproposito anche in procinto di eseguire atti gravi come l'uccidere un essere umano. La descizione riportata mi sembra che dimentichi che l'uso della formula puo' essere illegittima

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