"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

mercoledì 13 dicembre 2017

Porfirio, L’antro delle Ninfe

Porfirio
L’antro delle Ninfe

Parliamo infine di quanto Omero vuole in modo oscuro significare con l’antro di Itaca, che egli descrive con questi versi, dicendo:


In capo al porto un ulivo dalla lunga chioma,
vicino a lui l’antro amabile, tenebroso,
sacro alle Ninfe che Naiadi si chiamano.
Dentro (vi) sono crateri ed anfore
di pietra, dove le api serbano il miele.
Lì alti telai di pietra, sui quali le Ninfe
tessono stoffe color porpora, meravigliose a vedersi;
lì ancora acque che sempre scorrono. Due sono le porte,
l’una che scende verso Borea è per gli uomini,
l’altra verso Noto ha (un carattere) più divino;
per di là non entrano gli uomini, ché è la via degli immortali.

Che (il poeta) ha fatto menzione delle cose riferite, non avendole assunte quale risultato di una ricerca (personale sul luogo), lo dimostrano coloro che hanno dato per iscritto una minuta descrizione dell’isola, non ricordando alcun antro siffatto nell’isola come afferma Cronio. D’altra parte è cosa evidente, sarebbe assurdo che uno inventando un antro per licenza poetica, speri di far credere il fortuito e l’inventato col simulare nel paese di Itaca vie per gli uomini e per gli dèi.
Del resto, se non l’uomo, la natura di per sé avrebbe manifestato (una via) per la discesa a tutti gli uomini e un’altra complementare per tutti gli dèi. Poiché il mondo universo è pieno d’uomini e di dèi, l’antro di Itaca è ben lontano dal persuadere che comporti in sé (la via) di discesa per gli dèi e per gli uomini.
Pertanto, fatta questa premessa, Cronio dice che è evidente, non solo ai saggi ma anche agli ignoranti, che il poeta si esprime in questi (versi) con un linguaggio allegorico e allusivo, che induce a ricercare qual è la porta per gli uomini e quale quella per gli dèi, e cosa significa questo antro dalle due porte, che si dice sacro alle Ninfe, ad un tempo amabile e tenebroso, non essendo l’oscurità affatto amabile ma piuttosto temibile.
Perché poi non è semplicemente detto sacro alle Ninfe, ma è con tutto rigore attribuito a quelle che Naiadi si chiamano? E ancora a quale scopo l’impiego di crateri e anfore, non contenenti alcun liquido, nei quali le api serbano il loro miele come in arnie? E quegli alti telai posti (qui) quale dono alle Ninfe, (fatti) non di legno o d’altra materia ma della medesima pietra delle anfore e dei crateri? Ma questo è certo meno difficile (da comprendere): su questi telai di pietra le Ninfe tessono stoffe color porpora, cosa meravigliosa non solo a vedersi ma anche a sentirsi. Chi infatti crederà che le dee tessano panni color porpora in un oscuro antro su telai di pietra, quando s’intende (poi) che i tessuti medesimi delle dee e le vesti di porpora sono visibili? Oltre a ciò è altresì strano che l’antro abbia due porte, delle quali l’una è preparata per la discesa degli uomini, l’altra invece per gli dèi. E si dice che quella accessibile agli uomini sia volta nella direzione del vento di Borea, quella per gli dèi verso Noto.
Né poco è il dubbio sulla causa per cui attribuì le parti di Settentrione agli uomini, e agli dèi invece quelle di Meridione, e per quale motivo non ha usato piuttosto il Levante e l’Occidente, giacché quasi tutti i templi hanno le statue e gli ingressi volti a Levante, in più, coloro che entrano, guardano ad Occidente, allorché stando dinanzi alle statue tributano agli dèi preghiere e riti.
Benché il racconto abbondi di siffatte oscurità, non è una favola inventata per diletto, e nemmeno (del resto) contiene la descrizione di un luogo reale; tuttavia il poeta, che pone per mistica ragione una pianta d’ulivo vicino (all’antro), vuole attraverso esso altro significare. Certo, anche gli antichi stimarono difficile investigare e spiegare tutto ciò, e noi, che tentiamo ora di svelare le cose del loro tempo, siamo d’accordo con loro. Sembrano pertanto più leggeri quanti, scrivendo la storia di (quel) paese, considerano intera finzione del poeta e l’antro e le cose narrate su quello.
Eccellenti al contrario e accuratissimi quanti descrissero la conformazione di quella terra; e (tra questi) Artemidoro d’Efeso scrive nel quinto libro della sua opera divisa in undici libri: "Allontanandosi verso Levante da Panormo, porto di Cefalonia, alla (distanza) di dodici stadi si trova l’isola di Itaca, (che misura) ottantacinque stadi, stretta ed elevata, il cui porto è chiamato Forcino; vi è in esso un lido nel quale si trova un antro sacro alle Ninfe, dove si dice che i Feaci sbarcarono Ulisse".
Non sarebbe dunque cosa interamente inventata (quella) di Omero; ma sia che egli abbia semplicemente narrato, sia che v’abbia aggiunto anche del suo, nondimeno restano le questioni per chi ricerca l’intenzione, e di coloro che (lo) consacrarono, e dell’aggiunta del poeta, giacché gli antichi non consacrarono alcun tempio senza simboli mistici, né Omero a questo riguardo ci riferisce alcunché a caso. Quanto più uno si sforzi di dimostrare che le cose riguardanti l’antro non sono invenzione di Omero, e che questo prima di Omero fosse già dedicato agli dèi, tanto più (questo) monumento si scoprirà pieno dell’antica saggezza; e per questo vale la pena investigare, anzi è necessario esporre in sé la simbolica (sua) consacrazione.
Dunque, gli antichi consacravano convenientemente gli antri e le caverne al mondo, considerato sia nella sua sia nelle sue parti, attribuendo alla terra il simbolo della materia di cui il mondo è composto; perciò taluni ne inferivano pure che la terra fosse materia, e che gli antri significassero che il mondo viene dalla materia. Poiché generalmente gli antri (hanno) formazione spontanea e sono congeniti alla terra; racchiusi in una roccia uniforme, concavi all’interno, si spingono all’esterno verso l’indefinito spazio della terra. Il mondo generatosi e cresciutosi da sé è affine alla materia, che sasso e pietra chiamavano metaforicamente, perché grezza e resistente (all’impronta) della forma, e ritenevano (inoltre) per la sua mancanza di forma infinita. Ed essendo fluida e priva in sé della (determinazione) formale, per la quale si plasma e si manifesta, prendevano come cosa conveniente l’umido stillante degli antri e l’oscuro e, come dice il poeta, tenebroso, a simbolo di ciò che è nel mondo per la materia.
Da una parte dunque, il mondo a causa della materia, è tenebroso ed oscuro, dall’altra, per il congiungimento della forma (alla materia) e l’ordinamento dal quale trae anche il nome di ornamento, è bello e amabile. Donde con proprietà si poté chiamarlo antro: ameno, per colui che lo consegue rettamente per partecipazione delle forme; tenebroso per colui che cerchi di scrutarne e penetrarne con la mente l’infimo fondamento. Cosicché le cose che si trovano fuori, alla superficie, sono amabili, mentre quelle che sono all’interno, in profondità, tenebrose.
Così i Persiani iniziano il miste istruendolo sulla discesa delle anime sottoterra e sulla nuova uscita, dando il nome di caverna al luogo. Da principio, come dice Eubulo, quando Zoroastro consacrò una caverna naturale sui monti vicino alla Persia, florida e ricca di sorgenti, in onore di Mitra, fattore e padre di tutte le cose, la caverna costituiva per lui una immagine del mondo, che Mitra creò, giacché le cose che vi erano disposte a intervalli appropriati, portavano i simboli degli elementi e delle regioni del mondo.
Dopo questo Zoroastro, invalse l’uso anche presso gli altri di compiere i riti iniziatici in antri e caverne, sia naturali, sia costruiti da mano umana. Infatti, come agli dèi celesti si innalzavano santuari, templi ed altari, ai terrestri ed agli eroi are, ai sotterranei buche e sacrari, così al mondo antri e caverne; parimenti poi alle Ninfe: a causa delle acque che stillano o scaturiscono negli antri, ed alle quali presiedono le ninfe Naiadi, come esporremo tra poco.
Non solo, come dicemmo, facevano dell’antro un simbolo del mondo sensibile, ma lo assumevano anche a simbolo di tutte le invisibili potenze, per il fatto che gli antri sono oscuri: così non appare la sostanzialità delle potenze. Dunque, anche Kronos si prepara un antro nell’oceano e vi nasconde i suoi figli, parimenti Demeter alleva Kore in un antro tra le Ninfe, e molte altre cose di questo genere si ritroverebbero scorrendo le opere di coloro che parlano delle cose divine.
Del resto, (si sa) che gli antri erano consacrati alle Ninfe, e tra queste soprattutto alle Naiadi che si trovavano presso le sorgenti, e traggono il loro nome dalle acque dalle quali sorgono fluenti; e lo attesta anche l’inno ad Apollo, nel quale si legge:

Per te aprirono le sorgenti delle acquee dell’intelletto
che dimorano negli antri
alimentate dall’alito della terra
per l’ispirato oracolo della Musa;
esse sgorgando sulla terra...
senza posa porgono ai mortali brocche (colme) delle dolci correnti.

Da qui, credo, presero le mosse anche i Pitagorici; e, dopo questi, Platone rappresentò il mondo come un antro o una caverna. Perciò in Empedocle le potenze conduttrici delle anime dicono:

Ecco, siamo giunte nell’antro coperto.

In Platone, nel settimo libro della Repubblica, si legge: "Ecco infatti gli uomini in un antro sotterraneo, in una dimora simile a una caverna, che abbia l’ingresso aperto alla luce esteso quanto tutta la caverna. E rispondendo l’interlocutore: "Strana figura tu esponi", soggiunse: "È necessario dunque, mio caro Glaucone, adattare questa figura a quanto dicevamo prima: paragonando la sede che si rivela attraverso gli occhi, ad una prigione, la luce del fuoco in sé, alla potenza del Sole"".
Da ciò è dunque provato che coloro che si occuparono delle cose divine, consideravano gli antri quali simboli del mondo e delle potenze universali, ma anche come già si disse, dell’essenza intelligibile, spinti (a ciò), certamente, da diverse e differenti ragioni.
In effetti gli antri erano considerati (come simbolo) del mondo sensibile, per il fatto che sono oscuri, petrosi, umidi; e tale è il mondo, a causa della materia di cui è costituito, che è resistente (alla determinazione) e fluida.
Ma anche dell’intelligibile, perché non cade sotto il dominio del senso, e per la solidità dell’essenza; così anche le potenze particolari non sono percepibili, soprattutto quelle che si trovano nella materia. Difatti, gli antri erano ritenuti simboli in conformità (alle modalità): naturale, notturna, oscura, petrosa; ma niente affatto rispetto alla forma, come taluni pensavano, perché non tutti gli antri sono sferici come quello che in Omero ha due entrate.
Poiché l’antro ha (per definizione) duplice aspetto, non solo lo prendevano come sostanza dell’intelligibile ma anche come essenza del sensibile; così quello ora considerato, per il fatto di avere acque sempre scorrenti, non potrebbe affatto essere simbolo della realtà intelligibile (in sé) poiché supporta quello della forma congiunta alla materia. Perciò non è sacro alle Ninfe dei monti né (a quelle) delle cime o ad altre del medesimo genere, ma alle Naiadi, che traggono il loro nome dalle fonti.
Ora, noi chiamiamo ninfe Naiadi in modo particolare quelle potenze che sono preposte alle acque, mentre (loro) chiamavano anche insieme le anime cadute nella generazione. Si riteneva infatti che le anime seguissero l’acqua; la quale è (esistenziata) dallo spirito divino, come dice Numenio; per questo afferma, anche, che il Profeta disse: "Lo spirito di Dio aleggiava sulle acque".
Per questa ragione gli Egizî non collocavano su (una base) solida tutti i demoni, ma li collocavano su di un naviglio; e anche il sole e, in breve, si deve sapere, tutte quelle anime che, cadute nella generazione, vengono avvolte dall’umido. Donde Eraclito: "Alle anime sembra diletto, non morte, il divenire umide: la caduta nel divenire è per loro diletto". E altrove: "La nostra vita sembra la loro morte, e la loro vita la nostra morte". Perciò il poeta chiama umidi" coloro che si trovano nel divenire, dato che le (loro) anime sono pervase dall’umido. Perché a queste riesce caro il sangue e l’umido seme, mentre a quelle "delle piante l’acqua è di nutrimento.
Del resto, taluni sostengono che gli esseri dell’aria e del cielo si nutrono dei vapori umidi, (che si liberano) dalle fonti e dai fiumi, e delle altre esalazioni. Parve poi agli Stoici che il sole si nutrisse delle esalazioni del mare, la luna di quelle delle acque delle sorgenti e dei fiumi, gli astri dell’esalazione della terra. E per questo il sole trova la sua esistenza quale massa di intelletto accesa dal mare, la luna dalle acque dei fiumi, e le stelle dall’esalazione della terra. Ne consegue di necessità che le anime sono o corporee o incorporee: così, quando attirano un corpo, soprattutto quelle che devono essere imprigionate nel sangue e in umidi corpi, volgono verso ciò che è umido e prendono corpo inumidendosi. Perciò quelle di coloro che sono morti vengono evocate con l’effusione e di bile e di sangue, e quelle che amano il corpo, attirando l’umido spirito, lo condensano in guisa di nube: perché l’umidità condensata in aria forma la nube; ed essendosi condensato in esse lo spirito per eccesso d’umidità, diventano visibili. Tra queste sono quelle che, per aver contaminato lo spirito, si danno nella fantasia di taluni con l’aspetto di fantasmi; tuttavia, quelle pure sfuggono alla generazione. E lo stesso Eraclito disse: "L’anima secca è molto saggia". Perciò anche qui lo spirito diviene umido e più molle per il desiderio d’intima unione, quando l’anima attira il vapore umido per l’inclinazione alla generazione.
Di conseguenza, le ninfe Naiadi sono (in figura) quelle anime che vanno verso la generazione. Donde il costume di chiamare ninfe coloro che per sposarsi, quasi si unissero in vista della generazione, e di effondere con le acque lustrali prese dalle sorgenti o dalle fonti o dalle fontane perenni.
Peraltro, per le anime che avanzano secondo natura nella perfezione e per i demoni tutelari la nascita il mondo è sacro e amabile, pur essendo per natura oscuro e tenebroso. Da ciò si congetturava che le stesse fossero aeriformi e traessero dall’aria la (loro) sostanza. Per questo motivo sarebbe consacrato sulla terra un antro loro conveniente, amabile e tenebroso ad immagine del mondo, nel quale come in un grande tempio indugiano (tali) anime. Mentre è conveniente alle Ninfe preposte alle acque quell’antro in cui sono acque che sempre scorrono.
Sia dunque il presente antro attribuito alle anime e tra le potenze più particolari alle Ninfe, che essendo preposte alle fonti e alle sorgenti, vengono perciò chiamate Pegee e Naiadi. Quali differenti simboli abbiamo dunque, riferentisi gli uni alle anime e gli altri alle potenze delle acque, per ritenere che l’antro è stato consacrato in comune ad ambedue (le specie)? Siano dunque i crateri di pietra e le anfore simboli delle Ninfe delle acque.
Difatti questi sono simboli di Dioniso in quanto che d’argilla, vale a dire di terra cotta: per essere questi graditi quale dono al dio della vite, perché il suo frutto è cotto dal fuoco del cielo.
Crateri di pietra e anfore convengono altresì molto bene alle Ninfe che sono preposte all’acqua che sgorga dalle rocce, e quale simbolo sarebbe più conveniente di questi alle anime cadute nel divenire e nell’individuazione? Perciò il poeta osò dire che su questi

tessono stoffe color porpora, meravigliose a vedersi

È infatti nelle ossa e attorno alle ossa che si forma la carne e negli animali queste tengono
della pietra, (di là) l’assimilazione con la pietra. E perciò i telai sono fatti di pietra e non di altra materia. Le stoffe color porpora sono apertamente la carne intessuta di sangue: difatti le tele (assumono) il colore purpureo dal sangue, e anche la lana è tinta con (quello) degli animali, e la formazione della carne si dà per il sangue e dal sangue.
Il corpo è la veste dell’anima che lo indossi; cosa meravigliosa a vedersi, sia che tu consideri la struttura (di questo), sia l’unione dell’anima con questo.
Così anche in Orfeo, Kore, che guarda a tutto quanto nasce da seme, è tramandata quale tessitrice, giacché gli antichi chiamavano velo il cielo, quasi fosse veste degli dèi celesti.
Per quale ragione dunque, le anfore sono piene non di acqua ma di favi? Perché in esse, dice (il poeta),

le api serbano il loro miele.

sta a significare, e miele è per le api nutrimento e vita.
Del resto, coloro che parlano delle cose divine si sono serviti del miele per molti e diversi simboli, per il fatto che raccoglie in sé svariate potenze;’ ed è perciò che ha la capacità di purificare e conservare: infatti molte cose si mantengono incorrotte col miele e le vecchie ferite si purgano col miele. È dolce al gusto, e raccolto nei fiori dalle api, le quali avviene nascano dai buoi.
Perciò dunque, a coloro che vengono iniziati ai misteri Leontici viene versato sulle mani miele in luogo dell’acqua per lavarsi, ordinando di mantenere le mani monde di ogni cosa dolorosa, dannosa, impura; e impongono cosi al miste, data la capacità purificatrice del fuoco, convenienti lavacri, avversando l’acqua come contraria al fuoco. Così pure purificano la lingua da ogni cosa falsa.
Quando invece offrono miele a Persa, come al custode dei frutti, fissano (così) nel simbolo (la capacità) del conservare. Onde taluni sostenevano che il nettare e l’ambrosia, che il poeta fa stillare dalle narici affinché non si corrompano coloro che sono morti, sono presi per miele, giacché il miele è nutrimento agli dèi. Perciò dice anche in qualche luogo: "nettare rosso"; in effetti tale è il miele per il colore. Ma noi esamineremo altrove con più accuratezza se per nettare si debba intendere miele.
In Orfeo poi, Kronos è insidiato col miele da Zeus: (questi) infatti, pieno di miele diventa ebbro e, come ottenebrato da vino, s’addormenta.
Così pure in Platone, Poros s’empie di nettare: e non si trattava certo di vino. Perché dice, in Orfeo, la Notte a Zeus suggerendo l’insidia col miele:
Quando tu lo vedrai sotto le querce dall’alte chiome, ebbro per l’opere delle api dai sonori ronzii, legalo.

Ciò subisce Kronos: legato, è evirato come Urano; volendo intendere colui che parla delle cose divine, che a causa del piacere sono incatenate e s’abbassano alla generazione le divinità, disseminando (così) le potenze liberate per il piacere. Onde Kronos evira Urano, (allorché questi) per desiderio di copula scende verso Rea, ma una medesima cosa significa per loro il piacere che viene dalla copula e quello che viene dal miele, ingannato dal quale Kronos è evirato. In effetti Kronos e la sua sfera è il primo di quelli che hanno moto contrario ad Urano; e le potenze discendono dal cielo e (dagli astri) vaganti. Ma Kronos raccoglie quelle che vengono dal cielo, e Zeus quelle che vengono da Kronos.
Donde, essendo il miele preso e per la purificazione, e per la corruzione naturale,’ e per il piacere che conduce alla generazione, è attribuito quale simbolo conveniente alle Ninfe delle acque, data l’incorruttibilità delle acque cui sono preposte, la loro purezza, il concorso (che hanno) alla generazione.
L’acqua infatti concorre alla generazione; e la ragione per cui le api serbano il loro miele nei crateri e nelle anfore, sta nel fatto che i crateri costituiscono il simbolo delle sorgenti: come pure il cratere è stato posto accanto a Mitra in luogo della fonte; mentre le anfore di ciò con cui attingiamo dalle sorgenti.
Sorgenti e fonti convengono allo stesso tempo alle Ninfe delle acque, e ancora più, alle Ninfeanime che gli antichi chiamavano con nome specifico api, quali operatrici di piacere. Onde Sofocle poté senza sconvenienza dire delle anime:

Lo sciame dei morti ronza e ascende.

Gli antichi erano soliti chiamare api anche le sacerdotesse di Demeter, preposte come dee terrene alle iniziazioni, e la stessa Kore, Mellita. E ape chiamavano la Luna, quale protettrice della generazione, anche perché per altro aspetto la Luna è Toro, e l’esaltazione della Luna avviene (nel) Toro, e, in più, le api nascono dai buoi. E nate da buoi (chiamavano) le anime giunte nella generazione, e ladro di buoi il dio che ode nel secreto il divenire.
Già (in passato) è stato fatto del miele un simbolo della morte, e perciò sacrificavano alle divinità sotterranee libagioni di miele, e del fiele quello della vita.’ Volendo certo dire che la vita (razionale) dell’anima viene a morte per il piacere, mentre rivive per l’amarezza: donde i sacrifici di fiele agli dèi; oppure che la morte libera dalle cure, mentre la vita in questo luogo è faticosa e amara.
Né tuttavia dicevano indistintamente api tutte le anime che vanno verso la generazione, ma solo quelle che dovevano condurre una vita secondo giustizia e, compiute le opere grate agli dèi, nuovamente tornare. Perché questo vivente ama il ritorno, ed è giusto al massimo grado e sobrio: donde sobrie (si dicevano) anche quelle libagioni fatte col miele. Né posavano (,Sulla mensa) le fave, che avevano assunto quale simbolo della generazione continua e dell’irrigidimento, giacché sono pressoché le sole, tra ciò che si semina, ad essere interamente forate, non essendo segmentate dalle ostruzioni dei nodi. Pertanto i favi e le api costituirebbero simboli convenienti e comuni sia alle Ninfe delle acque, sia alle anime che vanno verso la generazione quasi promesse spose.
Del resto, poiché gli antichissimi, prima ancora che si concepissero i templi, consacravano caverne e antri agli dèi: in Creta i Cureti a Zeus, in Arcadia a Selene e a Pan Liceo, ed in Nasso a Dioniso, e inoltre in ogni luogo dove, propiziandosi la divinità con la caverna, riconobbero Mitra, per questo Omero non si accontenta di dire che la caverna di Itaca ha due porte, ma dice (anche) che l’una porta è volta verso Borea, e l’altra, che ha (un carattere) più divino, verso Noto; e che quella settentrionale scende: non indica invece se quella verso Noto scende, ma solo che:

… per di là non entrano gli uomini, che è la via degli immortali.

Resta pertanto da indagare quale sia il divisamento sia delle consacrazioni, qualora il poeta esponga il vero, sia del suo oscuro detto, qualora sia un racconto di sua invenzione.
Dato che l’antro costituisce l’immagine e il simbolo del mondo, Numenio e Cronio suo compagno dicono che due sono nel cielo le estremità, delle quali una non è più meridionale del tropico invernale, e l’altra non è più settentrionale di quello estivo. Quello estivo poi è nel Cancro, mentre quello invernale è nel Capricorno. Ed essendo per noi vicinissimo alla terra il Cancro, a buona ragione (il suo segno) è attribuito alla Luna che è prossima alla terra. Mentre il Capricorno, essendo invisibile più del polo meridionale, è attribuito a quello che di gran lunga è il più lontano e alto di tutti (gli astri) vaganti, cioè a Kronos.
In vero le posizioni dei segni dello zodiaco sono in (questo) ordine dal Cancro al Capricorno: dapprima il Leone, sede di Helios; poi la Vergine, di Hermes; la Bilancia, di Afrodite; lo Scorpione, di Ares; il Sagittario, di Zeus; il Capricorno, di Kronos.
In senso inverso poi dal Capricorno: l’Acquario, di Kronos; i Pesci, di Zeus; l’Ariete, di Ares; il Toro, di Afrodite; i Gemelli di Hermes; e infine il Cancro, di Selene.
Coloro dunque che parlano delle cose divine ponevano essere due (il numero) di questi ingressi: Cancro e Capricorno; e Platone parla di due bocche. Di queste, il Cancro è quella per cui le anime discendono, ed il Capricorno quella per cui ascendono. Ma il Cancro è settentrionale e atto alla discesa, mentre il Capricorno è meridionale e atto all’ascesa. E le parti di Settentrione sono proprie alle anime che discendono verso la generazione.
E rettamente gli ingressi dell’antro volti a Borea discendono per gli uomini, mentre le parti di Meridione non sono proprie agli dèi, ma a coloro che ascendono agli dèi. Per questa ragione (il poeta) dice via non propria agli dèi, ma agli immortali, comune anche alle anime che sono per sé o per essenza immortali.
Dicono che anche Parmenide facesse menzione di questi due ingressi nella (sua opera) Sulla natura delle cose, e che se ne serbi memoria (presso) Romani ed Egizî. Infatti i Romani celebrano, le feste di Kronos quando il sole entra nel Capricorno; e festeggiano facendo indossare agli schiavi le vesti dei liberi, e mettendo tutto in comune. (Con ciò) il legislatore volle dire che in conformità a questo ingresso del cielo, coloro che per la nascita si trovano ora nella condizione di schiavi, durante le feste di Kronos e nella casa consacrata a Kronos, vengono liberati, e vivificati tornano alla generazione. Quindi (a partire) dal Capricorno la via è per loro atta alla discesa; perciò chiamavano janua la porta, dicendo anche januarius, cioè portiere, il mese nel quale il sole ritorna dal Capricorno verso Oriente, volgendosi alle parti di Settentrione.
Mentre per gli Egizî il principio dell’anno non è nell’Acquario, come per i Romani, ma nel Cancro . Difatti Sothis, che i Greci dicono stella del Cane, si trova presso il Cancro.
Il loro novilunio poi è costituito dal sorgere di Sothis, che dà principio alla generazione nel mondo. Né in verità attribuivano porte al Levante e al Ponente, né agli equinozi quali l’Ariete e la Bilancia, ma a Noto e a Borea, [e agli ingressi verso Noto, massimamente meridionali, o verso Borea, massimamente settentrionale]; che l’antro era consacrato alle anime e alle Ninfe delle acque, e sono quelli i luoghi convenienti alle anime (sottoposte) alla generazione e alla morte.
Quanto a Mitra gli era subordinata una sede particolare in Prossimità degli equinozî; perciò porta il brando dell’Ariete, segno di Ares, ed è portato dal Toro, (segno) di Afrodite: che Mitra, come il Toro, è demiurgo e signore della generazione. Inoltre è posto in prossimità del circolo equinoziale, avendo alla destra le parti di Settentrione, a sinistra quelle di Meridione; ed avendo ordinato a sé, nella sua conformità,’ l’emisfero meridionale per essere caldo, e quello settentrionale per la freddezza del vento.
Del resto, è con ragione che si associano i venti alle anime che vanno verso la generazione, e a quelle che si separano dalla generazione, per il fatto che anche loro attirano lo spirito, come pensano taluni, e ritengono tale sostanza. Tuttavia, il vento di Borea è conveniente a quelle che vanno verso la generazione: perciò il soffio di Borea "rianima" coloro che sono sul punto di morire e "respirando male rendono l’anima" mentre quello di Noto dissolve. Infatti l’uno essendo più freddo, congela e trattiene nella freddezza della generazione terrestre, mentre l’altro, essendo più caldo, dissolve e rimette al calore del divino. Ma essendo il luogo della nostra dimora più conforme a Borea, è inevitabile che (le anime) informate convengano a questo vento di Borea, e quelle che da qui si partono a Noto. E questa è anche la causa per cui Borea è veemente allorché si alza, e Noto allorché cessa. Difatti, quello incombe direttamente su coloro che abitano sotto il polo, questo invece viene da molto più lontano: il (suo) flusso (venendo) da lontano è più tardo (nel colpire), ma quando si sia accumulato allora cresce.
Inoltre, entrando le anime nella generazione dall’ingresso settentrionale, per questo presupposero proclive all’amore il vento; e infatti:

Simile ad un cavallo dalla nera criniera si giacque (con esse)
che ingravidate partorirono dodici puledri.

E dicono ancora che rapì Orithya, e generò Zetes e Kalais. Al contrario, coloro che assegnano agli dèi il Meridione, quando s’oppressa il mezzogiorno, stendono veli nelle celle degli dèi. Osservando cosi il precetto omerico che non (rende) lecita agli uomini l’entrata nei santuari al tempo dell’inclinazione del dio verso Noto:

... ma è la via degli immortali.

Poiché il dio sta nel punto culminante sopra la porta, fissano pertanto (con essa) anche un simbolo del mezzogiorno e di Noto. Quindi non era assolutamente permesso parlare presso le porte a qualsiasi ora, quasi che sacre fossero le porte. E per questo i Pitagorici e i saggi dell’Egitto, che onorano col silenzio il dio che è principio dell’universo, proibivano di parlare varcando gl’ingressi e le porte.
Così Omero sa che le porte sono sacre, come dimostra presso di lui Oincus, che scuote (la porta) in luogo della supplica:

Scuotendo le salde imposte supplica il figlio

Così pure sa che gli ingressi del cielo, affidati alle Ore, traggono principio dai luoghi nebulosi, e che la loro apertura e chiusura avviene mediante le nubi:

Sia disperdendo sia interpongano una densa nube.
E per questo mugghiano, che anche i tuoni si danno dalle nubi:
Da sé mugghiano gli ingressi del cielo, che le Ore ministrano.

E altrove parla degli ingressi del sole, volendo significare Cancro e Capricorno. (Il sole) in effetti procede fino a questi, discendendo da Borea verso le parti di Meridione è di là ascendendo verso le parti di Settentrione. Orbene, il Capricorno e il Cancro si trovano nella Via Lattea, della quale vengono ad occupare le estremità: il Cancro, quella settentrionale, il Capricorno, invece, quella meridionale.
Secondo Pitagora poi, la turba, (che si percepisce) nei sogni, è costituita da quelle anime che, afferma, si riuniscono nella Via Lattea, così chiamata dal latte di cui si nutrono (le anime) allorché cadono nella generazione. Perciò coloro che evocavano le anime sono soliti fare libagioni a queste con miele mischiato a latte: perché (queste) per il piacere si sono date cura di muovere alla generazione, ed il latte si forma per natura insieme ad esse.
Inoltre le parti di Meridione suscitano persone di piccola statura: difatti il calore le dimagrisce al massimo grado, ed è per questo stesso che diminuiscono e disseccano. Mentre in quelle di Settentrione (le persone) sono tutte alte; come provano Celti, Trací, Sciti, e la loro terra che porta innumeri pascoli. Talché il suo stesso nome viene da pascolo: ma il nome pascolo vale nutrimento, e di conseguenza (il vento) che spira dalla terra del nutrimento, essendo nutriente, è chiamato Borea.
Per queste cose, dunque, le parti boreali convengono alla stirpe mortale, cadente sotto la generazione; mentre le parti australi a quella (che ha un carattere) più divino; parimenti le parti di Oriente agli dèi e quelle di Occidente ai demoni.
Poiché la natura ha principio dalla differenziazione, stimarono ovunque ciò che ha due porte come suo simbolo. Infatti, il viaggio si compie attraverso l’intelligibile e il sensibile; e nel sensibile, o attraverso ciò che non erra o ciò che erra; e di nuovo, o per cammino immortale o per mortale cammino. E v’ha un centro sopra la terra e uno sotterraneo; e l’Oriente di contro all’Occidente; e la sinistra e la destra; la notte e il giorno: per questo l’armonia (ha un andamento) a doppia curva e saetta attraverso gli opposti.
Pure Platone parla di due bocche: attraverso l’una (passando) coloro che salgono in cielo, attraverso l’altra coloro che scendono in terra. E quanti parlano delle cose divine fissano il Sole e la Luna quali ingressi delle anime; e per il Sole si sale, mentre per la Luna si scende. E due piti sono in Omero:

Dei quali, l’uno dà doni di male, e l’altro di bene

Anche presso Platone, nel Gorgia, l’anima è tenuta per un pito: ed è benefica per un verso, malefica per l’altro; razionale e irrazionale. Che i piti, come le anime, costituiscono il ricettacolo di energie e qualità siffatte. E in Esiodo si vede un pito chiuso, e un altro che il piacere apre e per tutto disperde, rimanendo la sola speranza. Infatti, in coloro nei quali l’anima è frivola, dispersa intorno alla materia, viene meno all’ordine; in tutti questi, è solita pascersi di buone speranze.
Pertanto, essendo ovunque ciò che ha due porte simbolo della natura, è con ragione che anche l’antro ha non una ma due porte, parimenti diverse per, modo d’operazione: l’una spetta agli dèi e ai valenti (tra gli uomini), l’altra ai mortali e più frivoli.
Anche Platone, che muove da ciò, conosce (il senso) dei crateri. e prende (quindi) piti in luogo delle anfore, e due bocche, come dicemmo, in luogo dei due ingressi.
E Ferecide di Siria, parlando di recessi, di buche, di antri, di porte e di ingressi, vuole con ciò significare le nascite e le morti delle anime. Ma per non estendere il discorso, introducendo i punti di vista degli antichi filosofi e di coloro che parlano di cose divine, noi riteniamo con ciò di avere spiegato tutto il disegno della narrazione.
Resta dunque da esporre il simbolo dell’ulivo piantato (in capo al porto); cosa che infine (il poeta) palesa. Esso significa certo qualcosa d’ancora più singolare, (poiché) non è detto semplicemente piantato, ma in capo (al porto):

In capo al porto un ulivo dalla lunga chioma vicino a lui l’antro...

Non è però per un caso, come si potrebbe opinare, che germoglia in questo modo, ma esso contiene l’oscuro significato dell’antro. Poiché, infatti, il mondo non si trova ad essere né per caso né per ventura, ma è compimento’ della sapienza di dio e della intelligente natura; (così) l’ulivo è piantato accanto all’antro, immagine del mondo, quale simbolo della sapienza di dio. In effetti è l’albero di Atena, ed Atena è sapienza. Poiché (Atena) è nata dalla testa’ del dio, colui che parla delle cose divine ha trovato un luogo conveniente, allorché lo consacrò in capo al porto; volendo con ciò significare che questo universo non è opera nata da sé, né da caso privo di ragione, ma è compimento di natura intelligente e di saggezza; che è per un verso separata da lui, per l’altro vicina, posta alla testa di ogni porto.
L’ulivo poi, che è sempre verde, supporta una qualità molto conveniente alle conversioni delle anime nel mondo, alle quali è consacrato l’antro.
Infatti durante l’estate le foglie candide volgono in su, mentre durante l’inverno sono (solo) quelle più candide che si rigirano; onde anche coloro che invocano nelle preghiere e nelle suppliche tendono ramoscelli d’ulivo, presagendo (così) di mutare per sé in lucore l’oscurità dei pericoli.
L’ulivo, che è dunque per natura sempre verde, porta un frutto che è lenimento alle pene, ma è pure offerto ad Atena, e la corona per gli atleti vittoriosi si trae da lui, e da lui il supplice ramo per coloro che pregano.
Così anche il mondo è retto da intelligente natura, mosso da eterna e sempre verde sapienza, dalla quale è concesso il premio della vittoria agli atleti della vita e il rimedio alle molte pene, e colui che rinfranca i miseri ed i supplici: il demiurgo che mantiene il mondo.
In questo antro dunque, dice Omero, bisogna deporre i beni di fuori, e spogli cingere l’abito del mendico, e affliggere il corpo, e avversare tutto quanto è superfluo, e piegare i sensi consigliandosi con Atena, con lei assiso alle radici dell’ulivo, sul come recidere tutte le insidiose passioni della propria anima.
Difatti non senza uno scopo, credo anche per queste cose Numenio stimava che, per Omero, Ulisse costituisse nell’Odissea immagine di colui che attraversa per gradi la generazione e che per tal modo è ristabilito presso coloro che sono oltre ogni tempesta e non hanno esperienza del mare:

Affinché giunga presso coloro che non conoscono il mare
e mangiano un cibo non condito col sale.

Del resto anche in Platone e il mare, e l’acqua del mare, e l’onda, sono la sostanza materiale. E per questo, credo, chiamò Forcino il porto:


V’è poi un porto proprio a Forcino, l’anziano del mare.


Dal quale fa discendere, all’inizio dell’Odisseaanche una figlia di nome Toosa, da cui nacque il Ciclope che Ulisse privò dell’occhio, affinché (cioè) sino in patria ci fosse ricordo degli errori. Onde conviene anche a lui lo stare assiso sotto l’ulivo, come chi supplichi il dio e plachi il demone natale col supplice ramo.
Non era infatti possibile liberarsi facilmente di questa vita sensibile a colui che l’aveva orbata, e s’era adoprato per annullarla d’un sol colpo. Ma sempre tiene dietro a colui che osa tali cose l’ira delle divinità marine e materiali. Che è necessario prima placare con sacrifici, e ancora con fatiche da poveri mendicanti e atti di perseveranza, ora combattendo le passioni, ora incantando e ingannando, passando per ciò stesso attraverso ogni modalità, acciocché, spogliato dei propri cenci, possa di tutto impadronirsi.
E neppure così sarà libero dalle fatiche, ma solo quando sia completamente fuori dal mare, e ignaro delle cose del mare e della materia, a tal punto da ritenere che il remo sia un ventilabro per la completa ignoranza degli arnesi e dei lavori del mare.
Né è da ritenere che tali spiegazioni siano state forzate, e siano congetture di quanti inventano ragioni. Ma considerata l’antica saggezza, e quanta fosse la sapienza di Omero e la perfezione (che aveva) in ogni virtù, non è possibile non riconoscere come nella forma del mito egli esprimesse per immagini ciò che più ha (carattere) divino.
Non poteva infatti fingere per intero un argomento che dà nel segno, se non rifacendosi per la finzione ad alcunché di vero.
Ma differiamo la trattazione di ciò ad altra opera, mentre ha qui fine l’ermeneutica del principio che informa l’antro.

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