Maitreyī
Conoscenze empiriche e Conoscenza vedāntica (2/2)
Nella
prospettiva di Vedānta vicāra non è più possibile identificarsi al
corpo, perché corpo, sensi, mente ecc. devono essere considerati oggetti.
Il
corpo allora diventa un oggetto di conoscenza (prameya) da parte dei
sensi: ognuno può toccare il proprio corpo, vederlo, ascoltarlo ecc. I sensi, a
loro volta, diventano l’oggetto di valutazione da parte della mente: “Quello
che ho visto mi è piaciuto; ho toccato e ne sono disgustato ecc.”. Anche la
mente diventa oggetto d’indagine da parte dell’intelletto (buddhi): “Ho
capito e ne sono soddisfatto; non ho capito e mi sento a disagio.”
Quando
prendiamo in esame l’intera serie di pramāṇa basati su sensi, mente e
intelletto, non abbiamo a nostra disposizione alcun altro pramāṇa. Su
quale altra entità dobbiamo allora appoggiarci se non sull’Intuizione, vale a
dire sull’anubhava? L’anubhava è distinto dall’esperienza
percettiva (pratyaya anubhava) e dalle esperienze psichiche (vedana
anubhava) mentali o intellettuali che siano; è ciò che illumina tutte
queste esperienze empiriche o corporee sulla base della sua natura essenziale
che è Conoscenza-Coscienza.
Chi
risiede nell’intelletto ed è diverso dall’intelletto, che l’intelletto non
conosce, che ha l’intelletto come corpo, che dirige l’intelletto dall’interno,
quello è il tuo il reggitore interno, l’Ātman immortale. (BU III. 7. 22).
Solo
questa è la nostra vera natura che il Vedānta chiama Ātman.
Quando si afferma che l’Ātman della natura dell’anubhava è
autostabilito (svayam siddha), non si intende paragonarlo a un assioma o
a un postulato scientifico. Questi ultimi sono stabiliti solo perché,
accettandoli, si può sviluppare una teoria scientifica per mezzo della logica e
del ragionamento, pur non essendo affatto dimostrati né sperimentati. Si tratta
comunque di verità empiriche. L’Ātman, invece, è una Intuizione
universalmente sperimentata che non può essere né ottenuta né rifiutata, in
quanto ogni essere cosciente sa di esistere. La sua esistenza non può essere
affermata né negata per mezzo dei pramāṇa, perché la sua esistenza o non
esistenza deve essere stabilita da quella stessa esperienza intuitiva.
Nessun
valido mezzo di conoscenza (pramāṇa) può considereare come oggetto il Sé e
neanche il sé individuale così ben noto a tutti; ed è così per la semplice
ragione che è l’Ātman a usare i mezzi di conoscenza quando indaga la natura di
tutto ciò che è oggettivo. [1]
Questa
Intuizione non equivale all’affermazione di un postulato che dichiara:
“Supponiamo che questa esperienza intuitiva esista.”, perché non si tratta di
supposizione, ma della certezza di esistere che ognuno ha. A questo proposito
Śaṃkara ci insegna che se si considera erroneamente e si confondono tra loro l’Ātman
autoesistente e l’anātman, come il corpo, i sensi ecc., accettati dalla
credenza corrente, si considera erroneamente la natura essenziale dell’uno come
se fosse quella dell’altro. Ora, anche se entrambi sono di natura estremamente
diversa, la gente che non è in grado di distinguerli tra loro, e come risultato
di questa conoscenza erronea, compie le sue azioni empiriche nell’ottica
dell’“io” (aham) e del “mio” (mama).
Spinto
dall’impulso dei guṇa, il Sé giunge a credersi identificato [abhimāna] a un
particolare individuo. Concependo pensieri come “io”, “quello” o “questo è
mio”, ecc. egli s’imbroglia da solo come un uccello preso al laccio che si
dibatte. Perciò il Sé preso da desiderio, identificato a pensiero, volizione e
senso dell’“io”, è limitato. (MU VI. 30).
Quando
si dice “prendendo erroneamente l’uno per l’altro”, non si vuole intendere come
quando si confondono una moneta di rame e una di bronzo. È piuttosto come la
mescolanza di latte e acqua che è considerata come se fosse solo latte. Così
gli ignoranti considerano la mescolanza dell’Ātman e dell’anātman
come “io”. La mancanza di discriminazione porta a definire l’“io” come fosse
corpo, sensi e mente, e a compiere le azioni affinché l’“io” si estenda nel
“mio”.
Ora
passiamo ad analizzare questa entità chiamata “io”. L’“io” non possiede alcun
organo, è un’esperienza unitaria e non composta da parti. Infatti dell’“io” non
abbiamo la concezione del plurale, in nessuna lingua esiste un pronome “ii”.
Quello che vediamo separato dall’“io” lo definiamo “tu” “egli”, “voi”. “Noi”
non è il plurale di “io”, ma vuole dire “io e tu”, oppure “io e voi”. L’“io” si
pone come soggetto e considera tutti gli altri, tu, egli, voi ed essi come
oggetti e perciò separati da lui. Tra gli oggetti, l’“io” agirà in modo da
appropriarsi di ciò che lo attrae, cercando di farlo diventare “mio”. In questo
modo il “mio” diventa una estensione dell’“io”. Non per nulla, capita di dire
“Io ho organizzato una festa per gli ospiti”, intendendo “Mia moglie e la mia
servitù hanno organizzato una festa per gli ospiti”, in quanto si considera
moglie e servitù come una estensione del proprio “io”. È perciò evidente che
c’è una reciproca sovrapposizione (adhyasa) tra l’“io” e l’Ātman.
Il
fatto che in questa entità chiamata “io” sia implicito l’adhyāsa di due cose
non appare chiaro a nessuno. Se i vedāntin dicono che l’Ātman e l’anātman,
confusi tra loro, hanno dato origine a questo errore dell’ “io”, tutti
rimangono sorpresi e s’arrabbiano. Che questo “io” sia una unica e sola entità,
a loro sembra così ovvio! Così il senso dell’“io” (aham mati),
come un passerotto, vola da un posto all’altro e su qualsiasi cosa si posi la
rende come se fosse “io”. Perciò la scrittura afferma: “Io penso, conosco,
respiro, vedo, odo, salto, parlo, tocco, odoro ecc.” (BU IV.4.5).
Tutto questo è solo “io”! Nella nostra sfera empirica vediamo che un dirigente
affida agli impiegati suoi sottoposti, vari lavori. È sempre l’io il soggetto
che svolge tutti questi compiti. “Io sentii il frutto cadere, io andai lì, io
presi il frutto in mano, io lo annusai, io lo tagliai con un coltello e io lo
misi in bocca; io lo masticai, io lo gustai, io lo inghiottii e io mi sentii
soddisfatto!” In questo modo, se queste conoscenze dell’“io” che riferisce
tutto a se stesso non è avidyā, che cos’altro potrebbe essere? [2]
Qui
abbiamo tutto il processo con cui l’“io”, attraverso i sensi, porta alla mente
le sensazioni che provengono dal mondo esterno; la mente ne informa la buddhi,
la quale decide di agire in modo da impadronirsi dell’oggetto (mamakāra)
e di fruirne. Dunque abbiamo due tipi di facoltà (indriya): attraverso i
sensi e la mente (antaḥkāraṇa), io sono un conoscitore e conosco. La mia
natura è essere conoscitore (jñātṛ). Però si usano anche volontà e i karmendriya:
infatti i karmendriya agiscono perché c’è una volontà della mente,
perché l’azione ha bisogno della volontà.
L’uomo
è permeato di volontà; per questo quando finisce di vivere diventa ciò che ha
voluto fare in questo mondo.
Perciò
è obbligato a esercitare la sua volontà. (Chāndogya Upaniṣad, III. 14. 2)
La
volontà agisce a due livelli, quello della mente e quello dei karmendriya.
La volontà spinge ad agire e l’azione della mente è l’immaginazione. I jñānendriya
sono indipendenti dalla volontà, perciò si attivano senza sforzo, in quanto
nella Coscienza non c’è volontà. Quindi neppure nella conoscenza c’è volontà.
Il suono arriva all’udito senza sforzo da parte dell’udito. Questa è la
differenza tra conoscenza e azione. È il soggetto (pramātṛ, viṣayin)
che vuole agire e di conseguenza diventa kartṛ. Jīva è kartṛ:
ciò significa che quando vuole, agisce con i karmendriya nel mondo
esterno e quando agisce con la mente usa l’immaginazione e il ricordo. Ma nella
mente non c’è solo l’immaginazione, c’è anche la comprensione. La
conoscenza-comprensione accade, non si può volerla, perché nella volontà la
mente immagina o ricorda, ma nel jñana la mente deve solo capire. Quando
arriva un suono prende posto la conoscenza. La parola è un suono e, quando ti
colpisce, capisci. Nella conoscenza la cosa accade. Conoscere non è volontà.
Come abbiamo visto, il jīva quando conosce attraverso i sensi (jñānendriya)
è jñātṛ, quando invece agisce attraverso i karmendriya o a livello
della mente è kartṛ. Infine il jīva è bhoktṛ, il fruitore.
Questi tre sono connaturati e coesistenti al jīvātman. Attraverso i
sensi prova esperienze a livello corporeo, cioè in annamāyākośa. Le
esperienze di piacere e dolore sono provate a livello dei prāṇa, come
per esempio la fame e la sete, che sono sofferenze interne. Fame, sazietà, ecc.
avvengono nel prāṇamāyākośa. Se l’informazione ricevuta dai sensi piace
o disgusta, ciò avviene in manomāyākośa. Questo è il livello emotivo, in
cui si prova l’amore e l’odio. La medesima informazione appare favorevole o
sfavorevole a livello intellettuale, cioè in vijñānamāyākośa. Tutto
questo è felicità o infelicità: questo è il saṃsāra.
Perciò
l’Amarakoṣa afferma: “Avidyā hammatihi”, cioè “Il senso dell’“io” è ignoranza”.
Dunque ora dobbiamo capire la relazione che intercorre tra conoscenza e
ignoranza. Come si è dimostrato in precedenza, che il corpo e i sensi esistano
è il punto di partenza indiscusso per qualsiasi indagine conoscitiva rivolta al
mondo esterno. Si tratta quindi di una credenza inveterata, cioè un fatto
indimostrabile per mezzo dei pramāṇa. Di fatto, la conoscenza che si
appoggia su tale credenza è effetto di avidyā. Questa conoscenza pare
svilupparsi per gradi come effetto di una azione conoscitiva. Secondo i logici,
quando la mente, rivolgendosi verso gli oggetti esterni, entra in contatto con
i sensi, questa conoscenza si sviluppa dalla relazione tra mente, sensi e
oggetti esterni. Ma in realtà, noi vediamo l’oggetto non appena apriamo gli occhi;
e la mente e i sensi non possono funzionare, ossia brillare, senza la luce
della Coscienza. Come uno specchio non brilla di per sé, ma solo se colpito
dalla luce, così la mente e i sensi brillano solo con la luce della pura
Coscienza (śuddha Caitanya). I sensi, indagando un oggetto, ne
percepiscono solo la forma; poi la mente, riunendo i dati di questa forma che i
cinque sensi le riferiscono, elabora una cognizione coerente dell’oggetto;
infine l’intelletto lo determina. Perciò tutte queste sono conoscenze con
distinzione (savikalpa). Invece la Coscienza del Sé è senza distinzione
(nirvikalpa). Essa è paragonabile al sole che, senza alcun movimento o
azione, illumina tutto. In questa conoscenza non c’è alcuna distinzione tra
conoscente, conoscenza e oggetto di conoscenza, in quanto per sua natura è non
duale, infinita e immutabile. Perciò la vera conoscenza è la Coscienza del Sé,
è l’esperienza intuitiva (anubhava), che rimuove le sovrapposizioni
dovute all’ignoranza.
L’ignoranza
è transitoria, la Conoscenza è eterna. Completamente differente da esse è colui
che, immortale, infinito e identico al Brahman che le contiene entrambe, domina
sia la Conoscenza sia l’ignoranza. (ŚU V. 1).
Quando
la nuvola si sposta, gli occhi possono vedere il sole. In questo caso non si
può affermare che il sole sia nato. Quando invece diciamo che una conoscenza
sorge, si sviluppa e si conclude, dobbiamo chiederci se essa davvero nasce dal
nulla. I pensieri nascono nell’antaḥkāraṇa e per questa ragione si suole
sostenere che la conoscenza nasce. Questa conoscenza, prodotta dalla mente e
dai sensi, applicata alla realtà empirica (vyāvahārika sattā), come pure
l’ignoranza, che la conoscenza empirica si sforza di rimuovere, avvengono
comunque nell’ambito dell’avidyā, perciò bisogna ricorrere a una
Conoscenza che trascenda queste relazioni duali. Essa è la Conoscenza che sorge
dallo studio delle Upaniṣad (śāstrajanyajñāna). Le scritture ci
mostrano la realtà com’è, prendendo come supporto solo l’anubhava.
Infatti le Upaniṣad riportano le esperienze realizzate intuitivamente
dai jñani del passato, e tali esperienze non possono essere conosciute
per mezzo di alcun valido strumento di conoscenza mondana (pramāṇa);
anzi, al contrario, sono la base stessa per provare la validità di quegli
strumenti.
In
apertura è stata chiarita la natura essenziale dei gradi dell’intuizione,
paragonata al processo di indagine basato sui validi mezzi di conoscenza.
Abbiamo dimostrato che i pramāṇa sono tutti dipendenti dal corpo e
applicabili soltanto a una conoscenza empirica. Ora abbiamo considerato un
ulteriore mezzo di Conoscenza fornito dalla śruti, in accordo con la
propria esperienza intuitiva. Solo questo è l’ultimo valido mezzo (antyapramāṇa).
Quando si afferma che le Upaniṣad sono antyapramāṇa, ciò non
significa che devono essere credute come articoli di fede. Le scritture
indicano l’ultima realtà in accordo con l’esperienza intuitiva di ognuno; dopo
aver mostrato la realtà, non è più possibile dubitare della loro veridicità:
questo è il vero significato di antyapramāṇa. Le Upaniṣad ricordano
a ognuno la propria esperienza intuitiva che sempre esiste, affermando che non
siamo dotati di corpo, sensi e mente.
“Non
c’è nessuno che vede se non Lui.”[3] Il Signore supremo è conosciuto come Sé conoscente (vijñānātman)
differente
da colui che agisce nel corpo, sperimentatore, sovrapposto dall’ignoranza (avidyā) [4]
Quindi
la nozione che siamo dei pramātṛ è una proiezione di avidyā. Per
questa ragione tutti i pramāṇa, che il pramātṛ usa per conoscere
gli oggetti che lo circondano, sono suggeriti da avidyā. Questi pramāṇa
sono reali nel dominio di avidyā; ma osservati dal punto di vista
dell’esperienza intuitiva non duale, si capirà che le relazioni dei pramātṛ e
dei prameya sono false ed erronee. Perciò non siamo veramente pramātṛ,
non siamo anime trasmigranti, ma quel Supremo Sé che è l’ultima e assoluta
realtà.
Quando
i vedāntin s’affidano alla śruti perché in accordo con la loro
esperienza intuitiva, sulla base dell’antyapramāṇa essi affermano che i pramāṇa
sono suggeriti solo da avidyā. Questo porta a dire che anche le Upaniṣad
non sono affatto validi mezzi di conoscenza. Tuttavia questo riguarda una
visione particolare della śruti per cui essa diventa mezzo non valido
solo dopo che si è riconosciuta la verità che l’Ātman è il Brahman non
duale. In questo senso la śruti è chiamata antyapramāṇa, ultimo
mezzo valido di conoscenza; cioè dopo che gli insegnamenti delle scritture sono
riconosciuti intuitivamente, allora il fatto di usarli come pramāṇa diventa
inutile. Dravidācārya afferma a questo riguardo:
La
śruti diventa un valido mezzo per conoscere la verità solo perché ci esorta a
rimuovere dall’ultima Realtà tutte le caratteristiche che non le appartengono. [5]
In
realtà la vera Conoscenza non ha né nascita né sviluppo né distruzione. Infatti
la conoscenza che è permessa dai sensi, mente e intelletto non riguarda la
Conoscenza assoluta, perché corpo, sensi e mente sono strumenti mutevoli, come
anche gli oggetti che essi indagano. Perciò le Upaniṣad affermano che l’Ātman
non possiede corpo, sensi e mente: esso è aśarīra, privo di corpo, acakṣuśka,
privo della vista, aprāṇohiamanāḥa śuddhaḥa, privo di prāṇa,
privo di mente, puro. Nel sonno profondo l’Ātman non vede nulla, perciò
è evidente che la facoltà di conoscere (pramātṛtva) non è la natura
essenziale dell’Ātman. L’Ātman è solo della natura di Caitanya.
La Conoscenza assoluta non ha oggetto perché non duale, perciò è la Coscienza,
la quale non ha alcun oggetto.
Tutti
noi in sonno profondo ci immergiamo e diventiamo uno con la nostra natura
essenziale di Essere: quest’ultima è solo Brahman, pura Esistenza. (ChU VI. 8. 1).
L’Ātman,
in realtà, è la Coscienza in tutti e tre gli stati:
Colui
che conosce sia il sogno sia la veglia con la sua esperienza intuitiva, solo
lui è Ātman che è il Signore supremo; se uno Lo conosce non prova dolore. (Kaṭha Upaniṣad,
II. 1. 14).
In
questo testo troviamo la logica dello śāstra, che è in consonanza con
l’esperienza intuitiva, indipendente da pramātṛtva e che, perciò, non è
la dialettica dei logici, che si esprime per mezzo di frasi che appartengono
alle cinque parti del Nyāya. Colui che vede il sogno non è il pramātṛ
della veglia, perché corpo, sensi e mente, che sono gli accessori di pramātṛtva,
non esistono affatto nel sogno.
Lì [in sogno] non ci
sono né carri né animali a cui aggiogarli né strade, ma Egli [l’Ātman]
crea i carri gli animali e le strade. (BU IV. 3.10).
Allo
stesso modo il corpo, i sensi e la mente del sogno non esistono affatto nella
veglia; tuttavia noi affermiamo d’aver visto un sogno. Questi due stati non
hanno alcuna mutua relazione né alcuna continuità. È allora del tutto ovvio
affermare che, se qualcuno conosce, quello è solo l’Ātman non duale,
autoesistente, che pervade con la sua Coscienza entrambi quegli stati; allora
le vicissitudini e sofferenze del saṃsāra non lo colpiscono.
Proprio
come accade a chi si sveglia dal sonno profondo, nel sogno gli appaiono il prāṇa
e la mente, sebbene sia privo di prāṇa e di mente; ora, [anche] nella veglia,
a causa dell’ajñāna sembra che abbia prāṇa e mente ecc. (Muṇḍaka Upaniṣad,
II. 1. 2-3).
Perciò
colui che vede attraverso i sensi è solo Ātman e, dunque, è evidente che
la capacità di vedere, udire ecc. avviene solo per la sua innata natura d’Ātman:
Senza mani e gambe, afferra, cammina veloce, senza occhi
vede, senza orecchi sente, conosce tutti gli oggetti che possono essere
conosciuti; nessuno Lo può conoscere. I saggi Lo chiamano Mahāpuruṣa. (ŚU III. 19).
La
mente come strumento interno composito (antaḥkāraṇa), pervasa dalla pura
Coscienza e formando solo forme apparenti, esce attraverso i sensi e illumina
gli oggetti esterni. Alla fine di ogni cognizione (pratyaya) proprio la
conoscenza (jñāna) che appare è la pura Coscienza. Ora, bisogna determinare
se è conoscenza corretta (samyaj jñāna), oppure falsa conoscenza (mithyā
jñāna). Ciò che appare dopo la rimozione della falsa conoscenza, in realtà
è solo quella pura Coscienza. Infatti ponendosi dal punto di vista
dell’esperienza intuitiva (anubhava), la coscienza riflessa
nell’intelletto, nella mente e nei sensi è lo stesso Caitanya. La
coscienza riflessa appare più limitata del puro Caitanya, ma in realtà
quella limitazione è dovuta alle limitazioni del suo piano di riflessione, cioè
della buddhi, del manas e degli indriya. La luce solare si
disperde nell’oscurità della notte, ma se s’imbatte in un ostacolo, per esempio
la luna, allora essa la rende visibile. La luce riflessa dalla luna, appare
limitata: ma tale limitazione non sta nella luce del sole, sta nella luna.
L’ignorante, invece, pensa che la conoscenza sia prodotta dall’intelletto,
dalla mente e dai sensi e perciò sostiene che la conoscenza nasce e poi passa.
In realtà per la natura essenziale della Conoscenza-Coscienza non c’è né
nascita né distruzione.
*
*
*
In
conclusione è necessario evidenziare alcuni passaggi essenziali di quanto
abbiamo sviluppato in precedenza. L’adhyasa è l’identificazione erronea
o sovrapposizione. Il Sé è pura Coscienza, ma è considerato un individuo, cioè
una mente (antaḥkāraṇa) e questo individuo è l’ego. Questa
modificazione della mente dà forma all’aham. Al contrario la Coscienza,
cioè il Sākṣin, nel sonno profondo non ha questo concetto mentale di ego.
Non essendoci l’ego non c’è nemmeno il mondo, perché il soggetto (viṣayin)
necessita d’un oggetto (viṣaya). In sonno profondo c’è soltanto
esistenza. Nella veglia si conosce il mondo esterno, ma, come s’è visto, è la
Coscienza che vede il mondo.
Colui
che conosce il campo, cioè colui che lo comprende integralmente, percependolo
con la conoscenza innata o trasmessa da altri come distinto da sé, costui è
chiamato “conoscitore del campo” o “conoscitore di prakṛti” dai sapienti che
già conoscono il campo e il conoscitore del campo. (BhGŚBh XIII. 1).
Quando
il Testimone conosce integralmente l’intero stato, includendo in esso anche l’ego,
allora è la Coscienza di tutto lo stato, come anche degli altri stati. Ma nella
veglia quello, che è cosciente all’interno dello stato, è l’ego, quindi
il Testimone è preso come se fosse l’ego.
[...] Perciò
s’applica all’aham il seguente pensiero: “Io sono sotto, io sono sopra, io sono
dietro, io sono davanti, io sono a Sud, io sono a Nord. Io, in verità sono
tutto questo”.
In
seguito, si attribuisce all’Ātman il seguente pensiero: “Il Sé è sotto, il Sé è
sopra, il Sé è dietro, il Sé è davanti, il Sé è a Sud, il Sé è a Nord. Il Sé,
in verità è tutto questo [...] (ChU VII. 25. 1-2).
Perciò
gli ingnoranti che non usano discriminazione possono credere erroneamente che
con “Io” si voglia indicare l’aham riferito al corpo, ai sensi ecc. Questo
insegnamento riguarda solo il Sé, che è della pura natura dell’Esistenza.
(ChUŚBh
VII. 25. 1-2).
L’uomo
comune pensa che questo senso dell’ego sia la Coscienza, perché la
Coscienza è riferita solo al soggetto e non all’oggetto. Prendendo l’ego
come Coscienza, pare che il soggetto conosca, anche se in verità anch’esso è
parte dello stato. La pura Coscienza non ha né soggetto né oggetto. Questo è il
duplice adhyasa che consiste nel confondere e sovrapporre l’ego alla
Coscienza e la Coscienza all’ego. Questa è la condizione che noi
sperimentiamo. In veglia nessuno sa dire quanto e come si mescolino. Quindi,
pensiero è Coscienza e Coscienza è pensiero. Questa situazione è svabhavika,
naturale, e si trova in tutti gli uomini fin dalla nascita. È difficile dire
quando iniza, perché questo inizio dovrebbe essere percepito dalla mente; ma
quando la mente non ha contatto con l’oggetto, ha un vuoto come nel sonno
profondo. Infatti, chi afferma che in sonno profondo non c’è niente? È la mente
della veglia, perché il soggetto della veglia non va nel sonno profondo: il pramātṛ
della veglia, vede solo gli oggetti della veglia. Nel sonno profondo non ci
sono oggetti, e allora lo si descrive come vuoto, śūnya. Invece,
[...] ascolta
da me, o diletto, la verità sul sonno profondo: quando si dice che un uomo
dorme allora egli è identico all’essere [sat]. Costui è rientrato nel
Sé: quando è rientrato nel suo Sé allora si dice che dorme. (ChU VI.
8. 1).
Il
pensiero non può andare dove non c’è pensiero, perciò il soggetto della veglia
non può andare al di là dell’inizio della veglia. Il pensiero dell’aham
è senza inizio. Tutto il tempo è sperimentato solo dal soggetto e “prima del
pensiero” vuol dire “prima del tempo”.
Né la
Coscienza conoscente né [l’aham] ignorante, né il Signore né il suddito, sono
mai nati. (ŚU I. 9).
Questo
adhyasa, questa identificazione della Coscienza con il pensiero dell’ego
è senza inizio. Bene e male, dharma e adharma sono tutti
sperimentati nella veglia dal senso dell’ego. Il pensatore s’interroga
sul pensiero senza sospettare che ci sia sovrapposizione, cioè che la
limitazione stia nello stesso soggetto, come un daltonico che non sa d’essere
tale, a meno che non sia corretto da altri. Perciò tutti dicono “Io, io, io”,
senza sospettare che ci sia un errore. Questo aham è il saṃsāra.
(Fine)
Per gentile concessione del Comitato Redazionale Tridaṇḍa del sito Veda Vyāsa Maṇḍala e dell'Autore
Il testo si trova al link:
[1] Svāmī Satchidānandendra
Sarasvatī, Dottrina e Metodo dell’Advaita Vedānta, Aprilia, NovaLogos,
2015, p. 132.
[2] Swami Satchidaanandendra Saraswati, The Reality beyond all empirical dealings, Bangalore, APK, 1989, p. 22.
[3] BU III. 7. 23.
[4] BSŚBh I. 1. 17.
[5] Swami Satchidaanandendra, cit. p. 36.
[2] Swami Satchidaanandendra Saraswati, The Reality beyond all empirical dealings, Bangalore, APK, 1989, p. 22.
[3] BU III. 7. 23.
[4] BSŚBh I. 1. 17.
[5] Swami Satchidaanandendra, cit. p. 36.
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