"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

sabato 23 dicembre 2017

Maitreyī, Conoscenze empiriche e Conoscenza vedāntica (1/2)

Maitreyī
Conoscenze empiriche e Conoscenza vedāntica (1/2)

In epoca primordiale è stato comunicato al Vedānta
 il supremo segreto. Questo segreto non deve essere
trasmesso se non a chi è interiormente pacificato e
abbia figli spirituali e discepoli a cui trasmetterlo
(Śvetāśvatara Upaniṣad, VI. 22).


Questo articolo s’ispira agli insegnamenti trasmessi da
Svāmī Satcidānandendra Sarasvatī Mahārājajī e dalla sua scuola.
Jaya Gurudeva, Oṃ Guru Devaya Namaḥ!

Le affermazioni upaniṣadiche “Brahmai vedam viśvam, Questo universo è solo Brahman” (Muṇḍaka Upaniṣad, II.2.11) e “Ātmai vedam sarvam, Tutto questo è solo Ātman” (Nṛsiṃhottaratapaniya Upaniṣad, VII) dichiarano che il mondo che percepiamo con i sensi è solo il Brahman, Paramātman. Il mondo che vediamo[1], che si presenta ai nostri occhi, è invece basato sulla dualità tra colui che vede e l’oggetto visto, tra colui che compie l’azione e l’oggetto che riceve l’azione, tra colui che fruisce e la cosa fruita. Noi uomini, in quanto esseri trasmigranti, ci troviamo in questo mondo che impariamo a conoscere fin dal momento della nascita, e con cui, crescendo, un po’ alla volta familiarizziamo. Nel mondo vediamo oggetti senzienti e insenzienti, mobili e immobili, tutti in continuo cambiamento. Questo cambiamento è dovuto alle loro modificazioni: nascita, crescita, deperimento e distruzione. Tutto il mondo è trasformazione, divenire. In questo mondo distinguiamo due cose: il soggetto (viṣayin), cioè noi stessi, e l’oggetto (viṣaya). Poiché usiamo come esempio la percezione della vista, il soggetto è qui definito dṛṣṭṛ, “colui che vede” e l’oggetto dṛśya, “ciò che è visto”. Questo è lo stato di veglia (jagrat avasthā), in cui ci identifichiamo con la persona individuale, con il corpo, e in cui gli oggetti appaiono per separato, uno per uno, con le loro forme e colori.
Tutte le cose ci appaiono con il supporto del tempo e dello spazio. Nel tempo mutano e nello spazio si collocano. In base allo spazio, le cose sono “qui e lì” e in base al tempo “ora, prima e dopo”. Il tempo quindi ci appare diviso in passato, presente e futuro. In realtà, però, solo il presente “è”, solo nel presente c’è vera esistenza e coscienza. Il passato è una modificazione della mente, una memoria che sta soltanto nel nostro pensiero. Così pure il futuro è solo immaginazione, un pensiero ipotetico della mente: quindi, in realtà passato e futuro non esistono. Questo vale anche per lo spazio: sono io che, esistendo in questo corpo, mi pongo “qui”, e tutto ciò che vedo è “lì”, davanti a me. Nello spazio e nel tempo sono collocati gli oggetti. Essi ci appaiono come sostanza (dravya), qualità (guṇa), e azione (kriyā). Per esempio, un vaso, un piatto, un cavallo, una sedia, sono tutte sostanze e le loro qualità, cioè essere grandi o piccoli, rossi o neri ecc., sono guṇa; il fatto di crescere, spostarsi, rompersi o morire indica un’azione (kriyā), che è in relazione con tali sostanze.
Quando guardiamo il mondo, ne valutiamo gli oggetti, distinguendoli in “buoni” e “cattivi”. Dalle cose buone traiamo benefici desiderabili, mentre dalle cattive, frutti indesiderati. In questo modo conosciamo il mondo e lo relazioniamo ai nostri interessi. Quindi, noi esistiamo non solo come dṛṣṭṛ, osservatori, ma anche come bhoktṛ, fruitori. I fruitori, ovviamente, hanno bisogno di mezzi di fruizione (bhoga) e di oggetti di fruizione (bhogya). Da ciò deriva che in questo mondo vi sono molte cose o idee che sono desiderate da alcuni, ma non da altri; come pure cose che molti desiderano allo stesso modo e allo stesso momento, per cui nascono conflitti dovuti alla competitività usata per ottenerli. Si trova questa relazione tra fruitore e fruito (bhoktṛ bhogya saṃbandha) anche fra gli animali; perciò, tutti, esseri umani e animali, fruiscono gli uni degli altri, allargando sempre più il senso del “mio” (mamakāra), dal proprio individuo alla propria famiglia, gruppo, paese, a seconda di ciò a cui maggiormente s’identificano. Non solamente si desidera godimento e fruizione in questo mondo, ma anche in altri loka e altre vite, per cui si sono elaborate dottrine e azioni (kriyā) atte a ottenere benefici anche nell’aldilà. Per procurarsi i vantaggi e respingere gli svantaggi è necessario agire, quindi la fruizione ha bisogno di essere preceduta da una azione. Sono perciò preliminarmente indispensabili l’agente dell’azione (kartṛ), l’azione (karma) e il frutto dell’azione (phala).
Sempre rimanendo nell’ambito dell’azione, gli oggetti sono in relazione tra loro in quanto kārya-kāraṇa bhava, cioè nel rapporto di causa ed effetto; infatti l’agente (kartṛ) agisce per provocare necessariamente delle conseguenze, i frutti dell’azione, ossia gli auspicati oggetti di fruizione. Come si può osservare, anche causa ed effetto in sanscrito sono espressi da derivati della radice verbale kṛ, agire, fare, da cui proviene anche la parola karma. Affinché possa svilupparsi l’azione c’è bisogno di vibhakti, dei casi del nome, e di kāraka, gli “ingredienti” del karma, che nella grammatica rappresentano la relazione tra nome e verbo. Sei casi della grammatica sanscrita sono connessi all’azione, eccezion fatta per un ulteriore caso, il genitivo. Perciò le relazioni tra il nome e il verbo sono chiamate kāraka, cioè “che fanno l’azione (kriyā)”. Il grammatico Pāṇini espone i casi del sostantivo dal punto di vista conoscitivo (jñāna dṛṣṭi). Perciò kartṛ è il soggetto e senza kartṛ non c’è azione. Ogni azione comincia da kartṛ. Il kartṛ è autonomo, perché ha libertà di scelta e ha lo scopo di ottenere un risultato. Il kartṛ usa gli strumenti: la cosa usata nell’azione è l’oggetto (karman). Per esempio: chi mangia è il kartṛ, la cosa che egli mangia è l’oggetto; mangiare con le mani è lo strumento (kāraṇa). Per questa azione sono però necessari due strumenti: il primo sono i sensi, il secondo gli organi corrispondenti. Entrambi sono il terzo caso, lo strumentale (karaṇa). Il quarto caso è di fine o scopo (sampradāna). Per esempio: “Vado a Delhi per un incontro”. Il quinto è l’ablativo (apādāna), che esprime da dove parte l’azione. Per esempio: “Io mangio dal piatto”. Il settimo è la base, il luogo dove si svolge l’azione (adhikaraṇa): “Cammino sulla terra, mangio sul tavolo, siedo sulla sedia”. Il sesto caso è il genitivo (saṃbandha), che, come si diceva, non è relativo all’azione, ma è la relazione tra due cose o due nomi. Il genitivo, quindi, non essendo relazionato a una azione, corrisponde a una apposizione o un attributo.
In questo modo si conoscono l’azione, gli strumenti dell’azione e i frutti dell’azione (kriyā kāraka phala vyavahāra). Nalla relazione con l’azione, lo strumento e il frutto, l’uomo si determina in qualità d’agente (kartṛ). È evidente che tutte queste relazioni sono finalizzate alla fruizione, per cui esse comportano una analisi in vista di discernere ciò che è favorevole da ciò che è avverso. In questo il comportamento dell’uomo è paragonabile a quello degli animali e, parzialmente, anche delle piante, essendo tutti esseri senzienti (cit), sebbene in misure e modalità diverse. Gli animali agiscono per cercare cibo o riparo dalle intemperie, sono attratti da atteggiamenti benevoli e rifuggono da quelli minacciosi.

Come gli animali, dopo che il loro udito ha percepito, rifuggono dai suoni ecc. che a loro appaiono sgradevoli, e invece s’avvicinano a quelli che sono loro gradevoli; e quando vedono un uomo avvicinarsi con un bastone alzato fuggono via pensando che li voglia bastonare, mentre s’avvicinano a quello che porta dell’erba in mano, così il saggio evita la presenza di malintenzionati violenti e brutali che brandiscono spade, mentre è attratto da persone di natura opposta. Perciò il comportamento degli uomini per quanto riguarda pramāṇa e prameya è simile a quello degli animali. È noto che gli animali usano i loro sensi senza discriminazione (viveka). Da questo accostamento si può trarre che, per quanto riguarda il comportamento empirico, l’uso dei sensi d’un saggio è paragonabile a quello degli animali inferiori (Brahma Sūtra Śaṃkara Bhāṣya, Upodghāta).

Persino le piante sembrano godere delle piogge e soffrire dell’arsura, pur non potendo reagire in quanto radicate in un luogo. Invece le cose insenzienti (acit) come metalli, pietre ecc., sono del tutto prive di questi comportamenti. Se l’acqua piovana cadendo su una pietra scivola via oppure imbeve la sabbia, non si può notare alcun godimento o sofferenza da parte loro.
La differenza tra l’essere umano e gli animali consiste nel fatto che questi ultimi non sono in grado di pianificare intellettualmente soluzioni per garantirsi l’esperienza del godimento e per evitare la sofferenza. Perciò, mentre gli animali hanno solo una naturale propensione all’azione, gli uomini hanno anche una capacità analitica basata sulla discriminazione. Le macchine, invece, sono del tutto prive d’ogni autonomia e agiscono solo seguendo gli ordini e i desideri dell’uomo.
Gli uomini, a loro volta, sembrano catalogabili in due tipologie diverse; la prima corrisponde a quelli che per loro natura sono capaci di una conoscenza limitata basata sull’osservazione di fenomeni ripetuti nel campo dell’agricoltura, dell’allevamento, dell’ordine sociale, politico ecc.; la seconda a coloro che sono dotati di un’intelligenza più acuta e che elaborano teorie sulla cui base ottengono dei risultati fruibili da tutti. Entrambe queste categorie, pur partendo da conoscenze tra loro diverse, agiscono tuttavia per ottenere dei risultati fruibili per sè e per gli altri, guidati da attrazione (rāga) e repulsione (dveśa). Se l’azione degli uomini di conoscenza limitata produce risultati per il benessere materiale della società, quelli di intelligenza più acuta hanno maggiormante contribuito alla produzione di oggetti che, pur avendo migliorato il tenore di vita generale, sono diventati oggetti di godimento e quindi desiderati da tutti tanto da scatenare competitività e aggressività pur di ottenerli. Questi uomini di intelligenza più acuta hanno anche prodotto oggetti distruttivi per assecondare queste competitività e aggressività. Ciò vale sia a livello del singolo sia per gruppi sociali o nazioni intere.
Riassumendo, gli uomini osservano e conoscono il mondo esterno e i suoi oggetti per mezzo dei sensi. I sensi, riportando l’informazione alla mente, provocano l’improvvisa sensazione che l’oggetto percepito è piacevole o sgradevole. A sua volta la mente riferisce all’intelletto, il quale, discriminando ciò che di piacevole potrebbe essere fruito, formula una decisione ad agire di conseguenza. Perciò, come in precedenza siamo risaliti dalla fruizione all’azione, è ora arrivato il momento di dedicare la nostra attenzione alla discriminazione ossia al processo conoscitivo.

L’individuo non è il Signore, perciò è limitato alla sua condizione di fruitore: ma, quando raggiunge la conoscenza del Signore, si libera da ogni limitazione. (ŚU I. 8).

Perciò la conoscenza che abbiamo del mondo esterno e degli oggetti che osserviamo, siano essi persone, animali, piante o cose insenzienti, è una conoscenza di una realtà comprovata (pramāṇa siddha) oppure è una conoscenza basata su un’idea corrente (pratīti siddha)? Questa domanda si pone perché ognuno ha esperienza diretta soltanto di se stesso. Per esempio, quando una persona a noi vicina si lamenta per improvvise ripetute coliche acute, noi non siamo in grado di capire e partecipare a questa situazione dolorosa, in quanto si tratta di una esperienza che non è nostra.
La conoscenza che denota una cosa “come è” è chiamata saṃyaj jñāna, conoscenza corretta, e gli strumenti per ottenerla sono i pramāṇa ossia i mezzi di conoscenza riconosciuti validi. Quindi l’uomo è anche un pramātṛ, cioè un conoscitore (jñātṛ)[2] che usa i pramāṇa[3]. Il pramāṇa ci fa conoscere l’oggetto “così com’è” e soltanto in quel caso può essere definito mezzo valido di conoscenza. Ma qui ci si può chiedere: si deve considerare che l’oggetto esiste realmente in quel modo perché il valido mezzo di conoscenza lo ha descritto così oppure è il pramāṇa che deve essere considerato valido mezzo di conoscenza perché descrive l’oggetto com’è? Quando nel pramāṇa ci sono dei difetti l’oggetto descritto può essere conosciuto erroneamente. In questo caso, a sostegno del pramāṇa, si deve usare l’analogia o una prova corrispondente: un oggetto non può solo apparire, ma deve anche corrispondere alla sua funzione. Per esempio un mango di plastica può essere considerato erroneamente reale. Ma, poiché non lo si può mangiare, si ha la prova che non assolve alla funzione del vero mango, perciò il pramāṇa era stato difettoso nella sua funzione. Se a distanza si vede dell’acqua, per sincerarsi che non si tratti d’un miraggio, ci si dovrà avvicinare, comprovare che è bagnata e che può essere bevuta. Perciò si ha la prova che il pramāṇa, in questo caso, non aveva fallito. Invece se diamo credito al pramāṇa in modo acritico senza verificarne la veridicità, possiamo confondere il luccichio della madreperla e prenderlo per argento. L’errore, comunque, non sta nella percezione (pratyakṣa), perché il luccichio è vero; perciò l’errore sta nella nostra mente che lo interpreta come fosse argento. Qualcuno può anche credere che un’opinione condivisa da molti debba essere considerata vera. Ma se, per esempio, in una corsia d’ospedale tutti i malati sono febbricitanti, essi potrebbero credere che il riscaldamento sia eccessivo. Questa opinione condivisa è erronea, in quanto è dovuta alla generalizzazione della percezione dei malati; se una persona sana entrasse nella sala, potrebbe verificare che, invece, la temperatura è fresca.
Abbiamo già discusso se gli oggetti si definiscono in base ai pramāṇa siddha o su correnti credenze (pratiti siddha). Ma cosa succede quando i pramāṇa stessi non ci indicano la cosa in maniera esatta? A questo non possiamo obiettare che “Ciò che è visto dagli occhi non può essere ritenuto falso”. Il problema è se gli occhi ci mostrano la cosa com’è oppure no. In questo caso ci sono due possibili difetti: il primo consiste nel difetto dell’organo: per esempio il daltonico e l’astigmatico hanno una visione alterata dovuta a una malformazione dell’occhio. Il secondo, invece, consiste nell’errore di valutazione della mente. Per esempio chi vede una nube alzarsi su una montagna può pensare che sia fumo provocato da un fuoco oppure che sia nebbia che si solleva oppure che sia il vento ad alzare polvere. Supponendo che solo una di queste interpretazioni sia vera, le altre due sono imputabili a un errore interpretativo della mente. Ma questi sono errori che si limitano all’esperienza empirica.
Quello che a noi interessa a questo punto è stabilire se i pramāṇa consentono o no di avere una conoscenza della vera natura dell’oggetto. La scienza afferma che un oggetto è una sostanza che occupa uno spazio. Ma cosa intende quando afferma che l’oggetto esiste? Come nel sogno noi vediamo con gli occhi della mente un oggetto che occupa uno spazio nel mondo onirico, così nella veglia gli oggetti ci appaiono collocati in un certo spazio. Tuttavia riconosciamo che gli oggetti che abbiamo visto nel sogno sono falsi. Questa convinzione sulla loro falsità è dovuta anche alla constatazione che in veglia noi non possiamo agire nei confronti di quegli oggetti né possiamo fruire di essi. Il fruitore, dunque, necessita di essere preliminarmente agente dell’azione e, allo stesso modo, l’agente ha prima bisogno di essere un conoscitore (jñātṛ). Se pensiamo che la fruizione è la nostra natura essenziale, ben più essenziale è la facoltà di agire; e ancor di più lo sarà la capacità di conoscere, perché senza conoscenza non è possibile decidere di compiere l’azione corrispondente né senza azione è possibile ottenere dei risultati fruibili.
Per quanto riguarda l’indagine sul mondo empirico, la funzione di soggetto conoscitore (pramātṛ) e l’uso dei pramāṇa può considerarsi sufficiente, anche perché se negassimo ciò non potremmo compiere alcuna azione e non saremmo capaci di fruire di alcunché. Tutte le scienze portano a risultati in accordo con i pramāṇa. Ma questa conoscenza è inconfutabile? Quello che è stabilito sulla base della percezione, può essere una verità assoluta? Se due gruppi di persone discutono sostenendo idee opposte, entrambi si baseranno sui pramāṇa a sostegno delle proprie idee. Allora, questo vuol dire che i pramāṇa possono aiutare a sostenere due posizioni tra loro incompatibili. Se l’uso dei pramāṇa da parte dei due gruppi contendenti conduce a risultati opposti, è lecito imputarne la responsabilità ai pramāṇa stessi? Dato che una parte sostiene che certi oggetti sono reali e la parte opposta sostiene che essi sono irreali, non è corretto mettere in dubbio l’efficacia dei mezzi di conoscenza prima ancora di ampliare la discussione (vicāra), non sulla realtà o irrealtà degli oggetti, ma sulla discriminazione tra la Realtà e la non realtà.
Infatti la conoscenza empirica si basa in primis esclusivamente sul pramāṇa della percezione sensoriale. Vale a dire che tutti, scienziati compresi, iniziano la loro indagine conoscitiva del mondo esterno per mezzo dei cinque sensi. Solamente in seguito si passerà all’uso degli altri pramāṇa per poter procedere nell’indagine. Ciò significa che preliminarmente tutti s’identificano con il proprio corpo. Facciamo un esempio: supponiamo che a una certa distanza ci appaia alla vista un serpente. A questo punto la mente può sollevare un dubbio: “Si tratta di un serpente o di una corda?” Per verificare, ci avviciniamo, lo esaminiamo, lo tocchiamo e stabiliamo quello che è. Ciò che è stato visto come un serpente era dovuto all’erronea valutazione della mente (manas) di quanto riportato dalla vista, mentre il dubbio è provenuto dall’intelletto (buddhi). La vista, la mente e l’intelletto sono comunque funzioni dipendenti dal corpo; il nostro avvicinarci, esaminarlo e toccarlo sono state azioni possibili solo con l’aiuto del corpo. Perciò nessuno potrebbe affermare di aver verificato per mezzo dei pramāṇa che si trattava di una corda senza fare intervenire i sensi, la mente, l’intelletto e il corpo che è il supporto di tutti loro: dunque, il presupposto per qualsiasi indagine sul mondo esterno, compresa la ricerca scientifica, si basa sulla convinzione che il corpo è il nostro “io” e la mente e i sensi (antaḥkāraṇa) il nostro “mio”. Il corpo è l’“io” perché io sono direttamente il conoscitore (pramātṛ) in quanto corpo.
E “io” corpo utilizzo i sensi e la mente come miei strumenti ausiliari, perciò li considero “mio” (mama). Qualcuno potrebbe obiettare: “Non è vero, è la mia ragione a essere il pramātṛ”. Ma allora perché l’obiettore la definisce “mia” ragione e non semplicemente “io”?
Śaṃkara all’obiezione “Com’è che i pramāṇa, come la percezione, la deduzione e perfino gli śastra, sono cose che appartengono agli ignoranti?”; risponde: “Perché per i jñāni, che non si identificano al corpo e ai sensi come all’“io” e al “mio”, non sono affatto rilevanti né la capacità di conoscere (pramātṛtva) né le relazioni dei pramāṇa.”

“Questo corpo, o figlio di Kunti, è chiamato campo; i sapienti chiamano il suo conoscitore il Conoscitore del campo.” (BhG XIII. I).

Con la parola “corpo” il Signore specifica l’oggetto a cui si riferisce il pronome “questo”. Il “campo”, il corpo, la prakṛti inferiore, viene chiamato così o perché è protetto da ciò che gli può nuocere, o perché è soggetto alla distruzione o perché tende al declino o perché in esso i frutti delle azioni vengono raccolti come in un “campo.”(BhGŚBh XIII. I).

“Sappi che io sono il Conoscitore del campo in tutti i campi [il Testimone], o Bharata, per me la conoscenza del campo e la conoscenza del conoscitore del campo è la Conoscenza.” (BhG XIII. 2).

[...] Vediamo poi che l’ignorante considera il corpo come il Sé; che è mosso dall’attaccamento, dall’odio e da altre passioni, che compie azioni rette o disarmoniche, che nasce e muore. Con nessuna argomentazione, invece, si può negare che i liberati, sapendo che il Sé è distinto dal corpo, rinuncino all’attaccamento e all’odio e non si impegnino più in azioni rette o disarmoniche sulla spinta di quelle passioni. In tal caso, il Conoscitore del campo, che metafisicamente è Īśvara stesso, appare come un trasmigrante a causa delle differenziazioni causate dalle sovrapposizioni dell’ignoranza, al punto tale che il Sé è identificato con il corpo ecc. Questa è una verità comprovata: la rappresentazione mentale che induce a confondere il Sé con il non-sé [il corpo ecc.], comune a tutte le creature, è determinata dall’ignoranza, proprio come [al buio] si scambia un tronco d’albero con un uomo, sebbene nessuna qualità essenziale dell’uomo appartenga realmente al tronco e viceversa. Allo stesso modo, la coscienza non appartiene mai realmente al corpo, né le proprietà del corpo, come piacere, dolore e tristezza, appartengono alla Coscienza, al Sé, poiché, come il declino e la morte, queste proprietà sono attribuite al Sé per ignoranza [...] (BhGŚBh XIII. 2).

I conoscitori (jñāni), di cui parla Śaṃkara, non sono affatto i conoscitori-pramātṛ: solo la gente comune, scienziati compresi, fanno parte di quest’ultima categoria quando affermano di essere dei conoscitori identificando il proprio “io” al corpo e i sensi e la mente al “mio”.

Immersi nell’ignoranza, gli intelligenti che si reputano dotti vagano confusi come ciechi guidati da un cieco. (Kaṭha Upaniṣad, I. 1. 5).

Queste due identificazioni non sono stabilite in base ad alcun pramāṇa e questa convinzione si appoggia solo sulla consuetudine (pratīti). Tutto ciò dimostra che rientrano nel domino dell’ignoranza (avidyā). Anche quando i pramātṛ affermano che in base ai pramāṇa essi distinguono fra conoscenza e ignoranza, questi ragionamenti sono solo conoscenza e ignoranza in rapporto a oggetti conoscibili (prameya). Ciò che si deve stabilire è se quelle conoscenze empiriche siano Conoscenza in senso assoluto oppure solo una corretta conoscenza. Se le relazioni empiriche non sono Conoscenza in senso assoluto, allora sorge il dubbio che pramāṇa e prameya siano solo effetti di avidyā. Ovviamente per i testi scientifici pramāṇa e prameya sono necessari. Ma soltando su questa base, e senza allargare l’orizzonte dell’indagine conoscitiva, non si può affermare che siano assolutamente veri. Scienze come la matematica e l’astronomia hanno spiegato i loro teoremi seguendo la logica al fine di dimostrare la verità relativa al loro campo d’azione. Ma in questi casi non ci si pone il problema se esiste o no una capacità di conoscenza (pramātṛtva), che è data per scontata. Al livello del loro dominio empirico, questi pramāṇa portano a una corretta informazione (samyaj vidyā). Ciò nonostante essendo il pramātṛ e il mondo, che egli indaga (prameya), sottoposti a continuo cambiamento, questa conoscenza è corretta relativamente, in quanto anch’essa mutevole, come si può vedere dalla continua elaborazione di teorie in cui l’ultima smentisce le precedenti. Inoltre, poiché non affrontano dal punto di vista assoluto la questione che concerne pramātṛtva, è lecito affermare che ciò che riguarda i pramāṇa è un prodotto di avidyā. Come s’è detto sopra, senza l’identificazione dell’“io” con il corpo e del “mio” con i sensi e la mente ecc. non è possibile pramātṛtva, ossia non si può essere conoscitori (pramātṛ) degli oggetti esterni. Quando la mente e i sensi non sono in contatto con il mondo esterno tramite il corpo, la conoscenza degli oggetti esterni non è possibile, come avviene nello stato di sogno.

[Quando la vista] s’identifica [con il corpo sottile], la gente dice: “Egli non vede”. [Quando l’olfatto] s’identifica [con il corpo sottile], la gente dice: “Egli non odora”. [Quando il gusto] s’identifica [con il corpo sottile], la gente dice: “Egli non gusta”. [Quando la parola] s’identifica [con il corpo sottile], la gente dice: “Egli non parla”. [Quando l’udito] s’identifica [con il corpo sottile], la gente dice: “Egli non ode”. [Quando il manas] s’identifica [con il corpo sottile], la gente dice: “Egli non pensa”. [Quando il tatto] s’identifica [con il corpo sottile], la gente dice: “Egli non tocca”. [Quando l’intelletto] s’identifica [con il corpo sottile], la gente dice: “Egli non capisce” (BU IV. 4. 2).

Gli scienziati, come d’altronde tutti gli uomini ordinari, partono nella loro indagine degli oggetti del mondo dando per scontato di essere dei conoscitori, pur identificandosi di fatto al corpo. Ora, se vogliamo stabilire che il corpo e i sensi ecc. esistono, dobbiamo essere forzatamente dei (pramātṛ). Tuttavia, prima di prendere in considerazione d’essere il conoscitore, è necessario accettare che corpo, sensi ecc. esistono. Si crea dunque l’errore logico della mutua dipendenza (anyonyāśraya). Perciò la certezza di avere corpo e sensi è stabilita come un assioma generalmente accettato senza alcuna dimostrazione.
(Fine prima parte)

Per gentile concessione del Comitato Redazionale Tridaṇḍa del sito Veda Vyāsa Maṇḍala e dell'Autore
Testo e PDF al link:


[1] Tradizionalmente le percezioni sensorie sono rappresentate sinteticamente del senso della vista.
[2] È qui necessario precisare alcuni termini del lessico vedāntico: l’uomo come soggetto (viṣayin) che si rivolge agli oggetti (viṣaya) del mondo per conoscerli è dunque un jñātṛ. Per conoscerli usa i validi mezzi di conoscenza (pramāṇa) e perciò oltre a essere jñātṛ è anche un pramātṛ. Non si confonda jñātṛ con il jñāni, che è l’illuminato, il conoscitore dell’Assoluto.
[3] Strumenti riconosciuti validi in quanto mezzi di conoscenza, cioè: pratyakṣa, la percezione, e anupalabdhi, la constatazione dell’assenza d’un oggetto, sono attuate tramite le facoltà di sensazione; anumāna, la deduzione o inferenza, upamāna, la comparazione, arthāpatti, la supposizione o l’ipotesi vengono compiute per mezzo della mente (manas) e dell’intelletto (buddhi).

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