Maitreyī
Conoscenze
empiriche e Conoscenza vedāntica (1/2)
In epoca
primordiale è stato comunicato al Vedānta
il supremo segreto. Questo segreto non deve
essere
trasmesso
se non a chi è interiormente pacificato e
abbia figli
spirituali e discepoli a cui trasmetterlo
(Śvetāśvatara
Upaniṣad, VI. 22).
Questo
articolo s’ispira agli insegnamenti trasmessi da
Svāmī Satcidānandendra
Sarasvatī Mahārājajī e dalla sua scuola.
Jaya
Gurudeva, Oṃ Guru Devaya Namaḥ!
Le
affermazioni upaniṣadiche “Brahmai vedam viśvam, Questo universo è solo
Brahman” (Muṇḍaka Upaniṣad, II.2.11) e “Ātmai vedam sarvam, Tutto
questo è solo Ātman” (Nṛsiṃhottaratapaniya Upaniṣad, VII)
dichiarano che il mondo che percepiamo con i sensi è solo il Brahman, Paramātman.
Il mondo che vediamo[1], che si presenta
ai nostri occhi, è invece basato sulla dualità tra colui che vede e l’oggetto
visto, tra colui che compie l’azione e l’oggetto che riceve l’azione, tra colui
che fruisce e la cosa fruita. Noi uomini, in quanto esseri trasmigranti, ci
troviamo in questo mondo che impariamo a conoscere fin dal momento della
nascita, e con cui, crescendo, un po’ alla volta familiarizziamo. Nel mondo
vediamo oggetti senzienti e insenzienti, mobili e immobili, tutti in continuo
cambiamento. Questo cambiamento è dovuto alle loro modificazioni: nascita,
crescita, deperimento e distruzione. Tutto il mondo è trasformazione, divenire.
In questo mondo distinguiamo due cose: il soggetto (viṣayin), cioè noi
stessi, e l’oggetto (viṣaya). Poiché usiamo come esempio la percezione della
vista, il soggetto è qui definito dṛṣṭṛ, “colui che vede” e l’oggetto dṛśya,
“ciò che è visto”. Questo è lo stato di veglia (jagrat avasthā), in cui
ci identifichiamo con la persona individuale, con il corpo, e in cui gli
oggetti appaiono per separato, uno per uno, con le loro forme e colori.
Tutte
le cose ci appaiono con il supporto del tempo e dello spazio. Nel tempo mutano
e nello spazio si collocano. In base allo spazio, le cose sono “qui e lì” e in
base al tempo “ora, prima e dopo”. Il tempo quindi ci appare diviso in passato,
presente e futuro. In realtà, però, solo il presente “è”, solo nel presente c’è
vera esistenza e coscienza. Il passato è una modificazione della mente, una
memoria che sta soltanto nel nostro pensiero. Così pure il futuro è solo
immaginazione, un pensiero ipotetico della mente: quindi, in realtà passato e
futuro non esistono. Questo vale anche per lo spazio: sono io che, esistendo in
questo corpo, mi pongo “qui”, e tutto ciò che vedo è “lì”, davanti a me. Nello
spazio e nel tempo sono collocati gli oggetti. Essi ci appaiono come sostanza (dravya),
qualità (guṇa), e azione (kriyā). Per esempio, un vaso, un
piatto, un cavallo, una sedia, sono tutte sostanze e le loro qualità, cioè
essere grandi o piccoli, rossi o neri ecc., sono guṇa; il fatto di crescere,
spostarsi, rompersi o morire indica un’azione (kriyā), che è in
relazione con tali sostanze.
Quando
guardiamo il mondo, ne valutiamo gli oggetti, distinguendoli in “buoni” e
“cattivi”. Dalle cose buone traiamo benefici desiderabili, mentre dalle
cattive, frutti indesiderati. In questo modo conosciamo il mondo e lo
relazioniamo ai nostri interessi. Quindi, noi esistiamo non solo come dṛṣṭṛ,
osservatori, ma anche come bhoktṛ, fruitori. I fruitori, ovviamente,
hanno bisogno di mezzi di fruizione (bhoga) e di oggetti di fruizione (bhogya).
Da ciò deriva che in questo mondo vi sono molte cose o idee che sono desiderate
da alcuni, ma non da altri; come pure cose che molti desiderano allo stesso
modo e allo stesso momento, per cui nascono conflitti dovuti alla competitività
usata per ottenerli. Si trova questa relazione tra fruitore e fruito (bhoktṛ
bhogya saṃbandha) anche fra gli animali; perciò, tutti, esseri umani e
animali, fruiscono gli uni degli altri, allargando sempre più il senso del
“mio” (mamakāra), dal proprio individuo alla propria famiglia, gruppo,
paese, a seconda di ciò a cui maggiormente s’identificano. Non solamente si
desidera godimento e fruizione in questo mondo, ma anche in altri loka e
altre vite, per cui si sono elaborate dottrine e azioni (kriyā) atte a
ottenere benefici anche nell’aldilà. Per procurarsi i vantaggi e respingere gli
svantaggi è necessario agire, quindi la fruizione ha bisogno di essere
preceduta da una azione. Sono perciò preliminarmente indispensabili l’agente
dell’azione (kartṛ), l’azione (karma) e il frutto dell’azione (phala).
Sempre
rimanendo nell’ambito dell’azione, gli oggetti sono in relazione tra loro in
quanto kārya-kāraṇa bhava, cioè nel rapporto di causa ed effetto;
infatti l’agente (kartṛ) agisce per provocare necessariamente delle
conseguenze, i frutti dell’azione, ossia gli auspicati oggetti di fruizione.
Come si può osservare, anche causa ed effetto in sanscrito sono espressi da
derivati della radice verbale kṛ, agire, fare, da cui proviene anche la
parola karma. Affinché possa svilupparsi l’azione c’è bisogno di vibhakti,
dei casi del nome, e di kāraka, gli “ingredienti” del karma, che
nella grammatica rappresentano la relazione tra nome e verbo. Sei casi della
grammatica sanscrita sono connessi all’azione, eccezion fatta per un ulteriore
caso, il genitivo. Perciò le relazioni tra il nome e il verbo sono chiamate kāraka,
cioè “che fanno l’azione (kriyā)”. Il grammatico Pāṇini espone i casi
del sostantivo dal punto di vista conoscitivo (jñāna dṛṣṭi). Perciò kartṛ
è il soggetto e senza kartṛ non c’è azione. Ogni azione comincia da kartṛ.
Il kartṛ è autonomo, perché ha libertà di scelta e ha lo scopo di
ottenere un risultato. Il kartṛ usa gli strumenti: la cosa usata
nell’azione è l’oggetto (karman). Per esempio: chi mangia è il kartṛ,
la cosa che egli mangia è l’oggetto; mangiare con le mani è lo strumento (kāraṇa).
Per questa azione sono però necessari due strumenti: il primo sono i sensi, il
secondo gli organi corrispondenti. Entrambi sono il terzo caso, lo strumentale
(karaṇa). Il quarto caso è di fine o scopo (sampradāna). Per
esempio: “Vado a Delhi per un incontro”. Il quinto è l’ablativo (apādāna),
che esprime da dove parte l’azione. Per esempio: “Io mangio dal piatto”. Il
settimo è la base, il luogo dove si svolge l’azione (adhikaraṇa):
“Cammino sulla terra, mangio sul tavolo, siedo sulla sedia”. Il sesto caso è il
genitivo (saṃbandha), che, come si diceva, non è relativo all’azione, ma
è la relazione tra due cose o due nomi. Il genitivo, quindi, non essendo
relazionato a una azione, corrisponde a una apposizione o un attributo.
In
questo modo si conoscono l’azione, gli strumenti dell’azione e i frutti
dell’azione (kriyā kāraka phala vyavahāra). Nalla relazione con
l’azione, lo strumento e il frutto, l’uomo si determina in qualità d’agente (kartṛ).
È evidente che tutte queste relazioni sono finalizzate alla fruizione, per cui
esse comportano una analisi in vista di discernere ciò che è favorevole da ciò
che è avverso. In questo il comportamento dell’uomo è paragonabile a quello
degli animali e, parzialmente, anche delle piante, essendo tutti esseri
senzienti (cit), sebbene in misure e modalità diverse. Gli animali agiscono
per cercare cibo o riparo dalle intemperie, sono attratti da atteggiamenti
benevoli e rifuggono da quelli minacciosi.
Come
gli animali, dopo che il loro udito ha percepito, rifuggono dai suoni ecc. che
a loro appaiono sgradevoli, e invece s’avvicinano a quelli che sono loro
gradevoli; e quando vedono un uomo avvicinarsi con un bastone alzato fuggono
via pensando che li voglia bastonare, mentre s’avvicinano a quello che porta
dell’erba in mano, così il saggio evita la presenza di malintenzionati violenti
e brutali che brandiscono spade, mentre è attratto da persone di natura
opposta. Perciò il comportamento degli uomini per quanto riguarda pramāṇa e
prameya è simile a quello degli animali. È noto che gli animali usano i loro
sensi senza discriminazione (viveka). Da questo accostamento si
può trarre che, per quanto riguarda il comportamento empirico, l’uso dei sensi
d’un saggio è paragonabile a quello degli animali inferiori (Brahma
Sūtra Śaṃkara Bhāṣya, Upodghāta).
Persino
le piante sembrano godere delle piogge e soffrire dell’arsura, pur non potendo
reagire in quanto radicate in un luogo. Invece le cose insenzienti (acit)
come metalli, pietre ecc., sono del tutto prive di questi comportamenti. Se
l’acqua piovana cadendo su una pietra scivola via oppure imbeve la sabbia, non
si può notare alcun godimento o sofferenza da parte loro.
La
differenza tra l’essere umano e gli animali consiste nel fatto che questi
ultimi non sono in grado di pianificare intellettualmente soluzioni per
garantirsi l’esperienza del godimento e per evitare la sofferenza. Perciò,
mentre gli animali hanno solo una naturale propensione all’azione, gli uomini
hanno anche una capacità analitica basata sulla discriminazione. Le macchine,
invece, sono del tutto prive d’ogni autonomia e agiscono solo seguendo gli
ordini e i desideri dell’uomo.
Gli
uomini, a loro volta, sembrano catalogabili in due tipologie diverse; la prima
corrisponde a quelli che per loro natura sono capaci di una conoscenza limitata
basata sull’osservazione di fenomeni ripetuti nel campo dell’agricoltura,
dell’allevamento, dell’ordine sociale, politico ecc.; la seconda a coloro che
sono dotati di un’intelligenza più acuta e che elaborano teorie sulla cui base
ottengono dei risultati fruibili da tutti. Entrambe queste categorie, pur
partendo da conoscenze tra loro diverse, agiscono tuttavia per ottenere dei
risultati fruibili per sè e per gli altri, guidati da attrazione (rāga)
e repulsione (dveśa). Se l’azione degli uomini di conoscenza limitata
produce risultati per il benessere materiale della società, quelli di
intelligenza più acuta hanno maggiormante contribuito alla produzione di
oggetti che, pur avendo migliorato il tenore di vita generale, sono diventati
oggetti di godimento e quindi desiderati da tutti tanto da scatenare
competitività e aggressività pur di ottenerli. Questi uomini di intelligenza
più acuta hanno anche prodotto oggetti distruttivi per assecondare queste
competitività e aggressività. Ciò vale sia a livello del singolo sia per gruppi
sociali o nazioni intere.
Riassumendo,
gli uomini osservano e conoscono il mondo esterno e i suoi oggetti per mezzo
dei sensi. I sensi, riportando l’informazione alla mente, provocano
l’improvvisa sensazione che l’oggetto percepito è piacevole o sgradevole. A sua
volta la mente riferisce all’intelletto, il quale, discriminando ciò che di
piacevole potrebbe essere fruito, formula una decisione ad agire di
conseguenza. Perciò, come in precedenza siamo risaliti dalla fruizione
all’azione, è ora arrivato il momento di dedicare la nostra attenzione alla
discriminazione ossia al processo conoscitivo.
L’individuo
non è il Signore, perciò è limitato alla sua condizione di fruitore: ma, quando
raggiunge la conoscenza del Signore, si libera da ogni limitazione. (ŚU I. 8).
Perciò
la conoscenza che abbiamo del mondo esterno e degli oggetti che osserviamo,
siano essi persone, animali, piante o cose insenzienti, è una conoscenza di una
realtà comprovata (pramāṇa siddha) oppure è una conoscenza basata su
un’idea corrente (pratīti siddha)? Questa domanda si pone perché ognuno
ha esperienza diretta soltanto di se stesso. Per esempio, quando una persona a
noi vicina si lamenta per improvvise ripetute coliche acute, noi non siamo in
grado di capire e partecipare a questa situazione dolorosa, in quanto si tratta
di una esperienza che non è nostra.
La
conoscenza che denota una cosa “come è” è chiamata saṃyaj jñāna,
conoscenza corretta, e gli strumenti per ottenerla sono i pramāṇa ossia
i mezzi di conoscenza riconosciuti validi. Quindi l’uomo è anche un pramātṛ,
cioè un conoscitore (jñātṛ)[2] che usa
i pramāṇa[3].
Il pramāṇa ci fa conoscere l’oggetto “così com’è” e soltanto in quel
caso può essere definito mezzo valido di conoscenza. Ma qui ci si può chiedere:
si deve considerare che l’oggetto esiste realmente in quel modo perché il
valido mezzo di conoscenza lo ha descritto così oppure è il pramāṇa che
deve essere considerato valido mezzo di conoscenza perché descrive l’oggetto
com’è? Quando nel pramāṇa ci sono dei difetti l’oggetto descritto può
essere conosciuto erroneamente. In questo caso, a sostegno del pramāṇa,
si deve usare l’analogia o una prova corrispondente: un oggetto non può solo
apparire, ma deve anche corrispondere alla sua funzione. Per esempio un mango
di plastica può essere considerato erroneamente reale. Ma, poiché non lo si può
mangiare, si ha la prova che non assolve alla funzione del vero mango, perciò
il pramāṇa era stato difettoso nella sua funzione. Se a distanza si vede
dell’acqua, per sincerarsi che non si tratti d’un miraggio, ci si dovrà
avvicinare, comprovare che è bagnata e che può essere bevuta. Perciò si ha la
prova che il pramāṇa, in questo caso, non aveva fallito. Invece se diamo
credito al pramāṇa in modo acritico senza verificarne la veridicità,
possiamo confondere il luccichio della madreperla e prenderlo per argento.
L’errore, comunque, non sta nella percezione (pratyakṣa), perché il
luccichio è vero; perciò l’errore sta nella nostra mente che lo interpreta come
fosse argento. Qualcuno può anche credere che un’opinione condivisa da molti
debba essere considerata vera. Ma se, per esempio, in una corsia d’ospedale
tutti i malati sono febbricitanti, essi potrebbero credere che il riscaldamento
sia eccessivo. Questa opinione condivisa è erronea, in quanto è dovuta alla
generalizzazione della percezione dei malati; se una persona sana entrasse
nella sala, potrebbe verificare che, invece, la temperatura è fresca.
Abbiamo
già discusso se gli oggetti si definiscono in base ai pramāṇa siddha o
su correnti credenze (pratiti siddha). Ma cosa succede quando i pramāṇa
stessi non ci indicano la cosa in maniera esatta? A questo non possiamo
obiettare che “Ciò che è visto dagli occhi non può essere ritenuto falso”. Il
problema è se gli occhi ci mostrano la cosa com’è oppure no. In questo caso ci
sono due possibili difetti: il primo consiste nel difetto dell’organo: per
esempio il daltonico e l’astigmatico hanno una visione alterata dovuta a una
malformazione dell’occhio. Il secondo, invece, consiste nell’errore di
valutazione della mente. Per esempio chi vede una nube alzarsi su una montagna
può pensare che sia fumo provocato da un fuoco oppure che sia nebbia che si
solleva oppure che sia il vento ad alzare polvere. Supponendo che solo una di
queste interpretazioni sia vera, le altre due sono imputabili a un errore
interpretativo della mente. Ma questi sono errori che si limitano
all’esperienza empirica.
Quello
che a noi interessa a questo punto è stabilire se i pramāṇa consentono o
no di avere una conoscenza della vera natura dell’oggetto. La scienza afferma
che un oggetto è una sostanza che occupa uno spazio. Ma cosa intende quando
afferma che l’oggetto esiste? Come nel sogno noi vediamo con gli occhi della
mente un oggetto che occupa uno spazio nel mondo onirico, così nella veglia gli
oggetti ci appaiono collocati in un certo spazio. Tuttavia riconosciamo che gli
oggetti che abbiamo visto nel sogno sono falsi. Questa convinzione sulla loro
falsità è dovuta anche alla constatazione che in veglia noi non possiamo agire
nei confronti di quegli oggetti né possiamo fruire di essi. Il fruitore,
dunque, necessita di essere preliminarmente agente dell’azione e, allo stesso
modo, l’agente ha prima bisogno di essere un conoscitore (jñātṛ). Se
pensiamo che la fruizione è la nostra natura essenziale, ben più essenziale è
la facoltà di agire; e ancor di più lo sarà la capacità di conoscere, perché
senza conoscenza non è possibile decidere di compiere l’azione corrispondente
né senza azione è possibile ottenere dei risultati fruibili.
Per
quanto riguarda l’indagine sul mondo empirico, la funzione di soggetto
conoscitore (pramātṛ) e l’uso dei pramāṇa può considerarsi
sufficiente, anche perché se negassimo ciò non potremmo compiere alcuna azione
e non saremmo capaci di fruire di alcunché. Tutte le scienze portano a
risultati in accordo con i pramāṇa. Ma questa conoscenza è
inconfutabile? Quello che è stabilito sulla base della percezione, può essere
una verità assoluta? Se due gruppi di persone discutono sostenendo idee
opposte, entrambi si baseranno sui pramāṇa a sostegno delle proprie
idee. Allora, questo vuol dire che i pramāṇa possono aiutare a sostenere
due posizioni tra loro incompatibili. Se l’uso dei pramāṇa da parte dei
due gruppi contendenti conduce a risultati opposti, è lecito imputarne la
responsabilità ai pramāṇa stessi? Dato che una parte sostiene che certi
oggetti sono reali e la parte opposta sostiene che essi sono irreali, non è
corretto mettere in dubbio l’efficacia dei mezzi di conoscenza prima ancora di
ampliare la discussione (vicāra), non sulla realtà o irrealtà degli
oggetti, ma sulla discriminazione tra la Realtà e la non realtà.
Infatti
la conoscenza empirica si basa in primis esclusivamente sul pramāṇa della
percezione sensoriale. Vale a dire che tutti, scienziati compresi, iniziano la
loro indagine conoscitiva del mondo esterno per mezzo dei cinque sensi.
Solamente in seguito si passerà all’uso degli altri pramāṇa per poter procedere
nell’indagine. Ciò significa che preliminarmente tutti s’identificano con il
proprio corpo. Facciamo un esempio: supponiamo che a una certa distanza ci
appaia alla vista un serpente. A questo punto la mente può sollevare un dubbio:
“Si tratta di un serpente o di una corda?” Per verificare, ci avviciniamo, lo
esaminiamo, lo tocchiamo e stabiliamo quello che è. Ciò che è stato visto come
un serpente era dovuto all’erronea valutazione della mente (manas) di
quanto riportato dalla vista, mentre il dubbio è provenuto dall’intelletto (buddhi).
La vista, la mente e l’intelletto sono comunque funzioni dipendenti dal corpo;
il nostro avvicinarci, esaminarlo e toccarlo sono state azioni possibili solo
con l’aiuto del corpo. Perciò nessuno potrebbe affermare di aver verificato per
mezzo dei pramāṇa che si trattava di una corda senza fare intervenire i
sensi, la mente, l’intelletto e il corpo che è il supporto di tutti loro:
dunque, il presupposto per qualsiasi indagine sul mondo esterno, compresa la
ricerca scientifica, si basa sulla convinzione che il corpo è il nostro “io” e
la mente e i sensi (antaḥkāraṇa) il nostro “mio”. Il corpo è l’“io”
perché io sono direttamente il conoscitore (pramātṛ) in quanto corpo.
E
“io” corpo utilizzo i sensi e la mente come miei strumenti ausiliari, perciò li
considero “mio” (mama). Qualcuno potrebbe obiettare: “Non è vero, è la
mia ragione a essere il pramātṛ”. Ma allora perché l’obiettore la
definisce “mia” ragione e non semplicemente “io”?
Śaṃkara
all’obiezione “Com’è che i pramāṇa, come la percezione, la deduzione e
perfino gli śastra, sono cose che appartengono agli ignoranti?”;
risponde: “Perché per i jñāni, che non si identificano al corpo e ai
sensi come all’“io” e al “mio”, non sono affatto rilevanti né la capacità di
conoscere (pramātṛtva) né le relazioni dei pramāṇa.”
“Questo
corpo, o figlio di Kunti, è chiamato campo; i sapienti chiamano il suo
conoscitore il Conoscitore del campo.” (BhG XIII. I).
Con la
parola “corpo” il Signore specifica l’oggetto a cui si riferisce il pronome
“questo”. Il “campo”, il corpo, la prakṛti inferiore, viene chiamato così o
perché è protetto da ciò che gli può nuocere, o perché è soggetto alla
distruzione o perché tende al declino o perché in esso i frutti delle azioni
vengono raccolti come in un “campo.”(BhGŚBh XIII. I).
“Sappi
che io sono il Conoscitore del campo in tutti i campi [il Testimone], o
Bharata, per me la conoscenza del campo e la conoscenza del conoscitore del
campo è la Conoscenza.” (BhG XIII. 2).
[...] Vediamo
poi che l’ignorante considera il corpo come il Sé; che è mosso
dall’attaccamento, dall’odio e da altre passioni, che compie azioni rette o
disarmoniche, che nasce e muore. Con nessuna argomentazione, invece, si può
negare che i liberati, sapendo che il Sé è distinto dal corpo, rinuncino
all’attaccamento e all’odio e non si impegnino più in azioni rette o
disarmoniche sulla spinta di quelle passioni. In tal caso, il Conoscitore del
campo, che metafisicamente è Īśvara stesso, appare come un trasmigrante a causa
delle differenziazioni causate dalle sovrapposizioni dell’ignoranza, al punto
tale che il Sé è identificato con il corpo ecc. Questa è una verità comprovata:
la rappresentazione mentale che induce a confondere il Sé con il non-sé [il
corpo ecc.], comune a tutte le creature, è determinata dall’ignoranza, proprio
come [al buio] si scambia un tronco d’albero con un uomo, sebbene nessuna
qualità essenziale dell’uomo appartenga realmente al tronco e viceversa. Allo
stesso modo, la coscienza non appartiene mai realmente al corpo, né le
proprietà del corpo, come piacere, dolore e tristezza, appartengono alla
Coscienza, al Sé, poiché, come il declino e la morte, queste proprietà sono
attribuite al Sé per ignoranza [...] (BhGŚBh XIII. 2).
I
conoscitori (jñāni), di cui parla Śaṃkara, non sono affatto i conoscitori-pramātṛ:
solo la gente comune, scienziati compresi, fanno parte di quest’ultima
categoria quando affermano di essere dei conoscitori identificando il proprio
“io” al corpo e i sensi e la mente al “mio”.
Immersi
nell’ignoranza, gli intelligenti che si reputano dotti vagano confusi come
ciechi guidati da un cieco. (Kaṭha Upaniṣad, I. 1. 5).
Queste
due identificazioni non sono stabilite in base ad alcun pramāṇa e questa
convinzione si appoggia solo sulla consuetudine (pratīti). Tutto ciò
dimostra che rientrano nel domino dell’ignoranza (avidyā). Anche quando
i pramātṛ affermano che in base ai pramāṇa essi distinguono fra
conoscenza e ignoranza, questi ragionamenti sono solo conoscenza e ignoranza in
rapporto a oggetti conoscibili (prameya). Ciò che si deve stabilire è se
quelle conoscenze empiriche siano Conoscenza in senso assoluto oppure solo una
corretta conoscenza. Se le relazioni empiriche non sono Conoscenza in senso
assoluto, allora sorge il dubbio che pramāṇa e prameya siano solo
effetti di avidyā. Ovviamente per i testi scientifici pramāṇa e prameya
sono necessari. Ma soltando su questa base, e senza allargare l’orizzonte
dell’indagine conoscitiva, non si può affermare che siano assolutamente veri.
Scienze come la matematica e l’astronomia hanno spiegato i loro teoremi
seguendo la logica al fine di dimostrare la verità relativa al loro campo
d’azione. Ma in questi casi non ci si pone il problema se esiste o no una
capacità di conoscenza (pramātṛtva), che è data per scontata. Al livello
del loro dominio empirico, questi pramāṇa portano a una corretta
informazione (samyaj vidyā). Ciò nonostante essendo il pramātṛ e
il mondo, che egli indaga (prameya), sottoposti a continuo cambiamento,
questa conoscenza è corretta relativamente, in quanto anch’essa mutevole, come
si può vedere dalla continua elaborazione di teorie in cui l’ultima smentisce
le precedenti. Inoltre, poiché non affrontano dal punto di vista assoluto la
questione che concerne pramātṛtva, è lecito affermare che ciò che
riguarda i pramāṇa è un prodotto di avidyā. Come s’è detto sopra,
senza l’identificazione dell’“io” con il corpo e del “mio” con i sensi e la
mente ecc. non è possibile pramātṛtva, ossia non si può essere
conoscitori (pramātṛ) degli oggetti esterni. Quando la mente e i sensi
non sono in contatto con il mondo esterno tramite il corpo, la conoscenza degli
oggetti esterni non è possibile, come avviene nello stato di sogno.
[Quando la
vista] s’identifica [con il corpo sottile], la gente dice: “Egli non
vede”. [Quando l’olfatto] s’identifica [con il corpo sottile], la
gente dice: “Egli non odora”. [Quando il gusto] s’identifica [con il
corpo sottile], la gente dice: “Egli non gusta”. [Quando la parola] s’identifica
[con il corpo sottile], la gente dice: “Egli non parla”. [Quando
l’udito] s’identifica [con il corpo sottile], la gente dice: “Egli
non ode”. [Quando il manas] s’identifica [con il corpo
sottile], la gente dice: “Egli non pensa”. [Quando il tatto] s’identifica
[con il corpo sottile], la gente dice: “Egli non tocca”. [Quando
l’intelletto] s’identifica [con il corpo sottile], la gente dice:
“Egli non capisce” (BU IV. 4. 2).
Gli
scienziati, come d’altronde tutti gli uomini ordinari, partono nella loro
indagine degli oggetti del mondo dando per scontato di essere dei conoscitori,
pur identificandosi di fatto al corpo. Ora, se vogliamo stabilire che il corpo
e i sensi ecc. esistono, dobbiamo essere forzatamente dei (pramātṛ).
Tuttavia, prima di prendere in considerazione d’essere il conoscitore, è
necessario accettare che corpo, sensi ecc. esistono. Si crea dunque l’errore
logico della mutua dipendenza (anyonyāśraya). Perciò la certezza di
avere corpo e sensi è stabilita come un assioma generalmente accettato senza
alcuna dimostrazione.
(Fine prima parte)
Per gentile concessione del Comitato Redazionale Tridaṇḍa del sito Veda Vyāsa Maṇḍala e dell'Autore
Testo e PDF al link:
[1] Tradizionalmente le percezioni sensorie sono rappresentate sinteticamente del senso della vista.
[2] È qui necessario
precisare alcuni termini del lessico vedāntico: l’uomo come soggetto (viṣayin)
che si rivolge agli oggetti (viṣaya) del mondo per conoscerli è dunque
un jñātṛ. Per conoscerli usa i validi mezzi di conoscenza (pramāṇa)
e perciò oltre a essere jñātṛ è anche un pramātṛ. Non si confonda
jñātṛ con il jñāni, che è l’illuminato, il conoscitore
dell’Assoluto.
[3] Strumenti riconosciuti
validi in quanto mezzi di conoscenza, cioè: pratyakṣa, la percezione, e anupalabdhi,
la constatazione dell’assenza d’un oggetto, sono attuate tramite le facoltà di
sensazione; anumāna, la deduzione o inferenza, upamāna, la
comparazione, arthāpatti, la supposizione o l’ipotesi vengono compiute
per mezzo della mente (manas) e dell’intelletto (buddhi).
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