'Abd Al-Qâdir al-Jazâ'irî
Della doppia natura del servitore
Mawqîf 309
Il nostro Maestro [Muhyî al-Dîn] ci ha lasciato questo versi:
Mawqîf 309
Il nostro Maestro [Muhyî al-Dîn] ci ha lasciato questo versi:
Il Signore è Dio (letteralmente: Verità, Haqq); così il servitore.Posso dunque sapere a chi incombono queste prescrizioni?Al servitore? Questi non è che un morto.Al Signore? Come potrebbe esserGli assoggettato?
Sappi che se il Signore è per Se stesso la Realtà dell’Essere necessario poiché Egli ne è l’Essenza (‘ayn), il servitore è ugualmente la Realtà dell’Essere necessario [non per se stesso], ma per un Altro che lui, poiché ne costituisce la forma (sûra).
Il legame che unisce il servitore al Signore è simile a quello che unisce la materia alla forma, ed è questo insieme composito che riceve il nome di servitore. Dio – sia Egli esaltato – ci ha fatto sapere [attraverso delle tradizioni signoriali autentiche] che la Sua Ipseità (Huwiyyatuhu) è Essa stessa la vista, l’udito e l’insieme delle facoltà interne ed esterne del servitore. Il servitore non è dunque tale con le sue proprie forze, ma unicamente tramite Dio. Il suo aspetto esteriore è quello di una forma creaturale e limitata, ma il suo interno non è altro che l’Ipseità divina senza limiti. Egli non esiste dunque che grazie al suo Signore, ma senza la sua esistenza, Dio non potrebbe essere le forze del servitore. Senza l’Essere reale, non ci sarebbe servitore; ma “spogliato” della Sua creatura, Dio non Si sarebbe mai manifestato.
Il legame che unisce il servitore al Signore è simile a quello che unisce la materia alla forma, ed è questo insieme composito che riceve il nome di servitore. Dio – sia Egli esaltato – ci ha fatto sapere [attraverso delle tradizioni signoriali autentiche] che la Sua Ipseità (Huwiyyatuhu) è Essa stessa la vista, l’udito e l’insieme delle facoltà interne ed esterne del servitore. Il servitore non è dunque tale con le sue proprie forze, ma unicamente tramite Dio. Il suo aspetto esteriore è quello di una forma creaturale e limitata, ma il suo interno non è altro che l’Ipseità divina senza limiti. Egli non esiste dunque che grazie al suo Signore, ma senza la sua esistenza, Dio non potrebbe essere le forze del servitore. Senza l’Essere reale, non ci sarebbe servitore; ma “spogliato” della Sua creatura, Dio non Si sarebbe mai manifestato.
Se tu realizzi ciò, saprai al tempo stesso che quel che si chiama uomo e servitore è un composto simbolico (murakkab tarkîban ma‘nawiyyan), riunendo ad un tempo la presenza di un Signore divino e una forma che [esteriorizza] gli statuti dei prototipi immutabili in seno all’Essere reale. La Sua esistenza non differisce in niente dalla sua essenza, non essendo che un insieme di accidenti che non sussistono che per l’Essere reale, ed è sotto questo rapporto che essa è Dio (Haqq). Ah, se la mia intelligenza potesse cogliere a chi, in seno a questa forma composita, si rivolgono le ingiunzioni divine! Chi è dunque [colui che si sottomette così al comandamento divino]? Se tu mi dici: è l’aspetto creaturale, questo insieme di accidenti che non sussistono che grazie all’Essere reale – ti risponderei che ciò è impossibile poiché queste prescrizioni sono destinate a colui che ha la capacità di sottomettersi al Comandamento divino, o di astenersi dalle interdizioni. Ora [stiamo vedendo che] l’aspetto creaturale di ciò che riceve il nome di servitore è incapace di adempiere [da se stesso]. Quanto all’aspetto signoriale, è evidentemente impossibile costringerlo a obbedire a delle prescrizioni, o a non trasgredire a delle interdizioni.
La soluzione a questo problema non è razionale, essa è intuitiva (kashfan, lâ ‘aqlan). Il servitore, composto come abbiamo visto di una forma [creaturale] e di una Ipseità [divina], ha ricevuto delle facoltà (ma‘nâ) che nessuna delle due realtà che la compongono possiede, considerate isolatamente. È dunque Dio (al-Haqq), il quale può prendere il nome di Signore e di servitore, a far parte dell’insieme degli adoratori, se si considera la forma [del servitore], benché la realtà interiore di quest’ultimo sia tutt’altra. Dio è dunque allo stesso tempo l’adoratore e l’Adorato; Egli ubbidisce a Se stesso, se Lo desidera, per mezzo delle Sue creature e rende giustizia a Se stesso in tutta equità, così come l’autorizza il Suo proprio diritto inalterabile (wâjib). Ogni prescrizione divina è dunque imposta a un Nome divino da un altro Nome divino. Molti hanno voluto stabilire una distinzione radicale tra il Signore e il servitore, tenuto conto dell’origine (nash’a) di quest’ultimo, facendo una distinzione netta tra Questo e quello e attribuendo l’atto prescritto al Signore o al servitore esclusivamente: è il punto di vista della maggior parte dei teologi, che essi siano sunniti, mu‘taziliti o filosofi. Ma non hanno alcun argomento da offrire che sia al riparo da qualsiasi critica.
L’imâm dei conoscitori, Muhyî al-Dîn [b. ‘Arabî] ha evocato il problema dell’attribuzione degli atti nelle sue Illuminations Mecquoises e in altre opere. Avanzando di volta in volta degli argomenti razionali, scritturali, o intuitivi, egli sostiene qui che gli atti non appartengono che a Dio, e poi, che essi appartengono in modo parziale al servitore. Ma di tutti gli sviluppi che ha consacrato a questa questione nelle differenti opere, quella che riassume meglio il suo pensiero, e che è la più finemente intuitiva, si colloca al duecentonovantaseiesimo [296°] capitolo delle Illuminations Mecquoises. Questo capitolo tratta della “scienza delle modalità” (kayfiyât):
“Questa scienza presenta due aspetti: uno non può essere conosciuto che per esperienza spirituale (dhawq); l’altro può esserlo tramite la speculazione, a condizione di prendere questa parola in senso esteso, perché l’acquisizione effettiva (tahaqquq) della scienza delle modalità non può essere che il frutto di una esperienza. [A questo proposito], il mio caro figlio Shams al-Dîn Ismâ‘îl b. Sawdakîn al-Nûrî ha attratto la mia attenzione su un punto che era per me un fatto acquisito. Avevo già trattato questo soggetto in un capitolo consacrato alle lettere [dell’alfabeto arabo], ma sotto un’angolazione assai diversa da quella che mi fece intravedere; si trattava di sapere se la Teofania che prende per supporto gli atti [del servitore] è una possibilità effettiva o no. Ho subito negato, da un certo punto di vista, che ciò fosse possibile e immediatamente affermato, da un altro punto di vista, la necessità di questa Teofania poiché essa è conforme alla natura stessa delle prescrizioni divine (taklîf). È inconcepibile in effetti che il Sapiente, il saggio, prescriva a qualcuno un’opera che è incapace di compiere. Ora, Dio ordina ai Suoi servitori di operare in diversi versetti tali quali: Compite la preghiera; assolvete alla zakât; fate mostra di costanza; rivaleggiate in pazienza e in fermezza; combattete per la causa di Dio e così di seguito…
Bisogna dunque ammettere che tra l’autore dell’atto e colui che lo subisce (al-munfa‘il ‘anhu) esiste un rapporto nell’azione che permette di distinguere quello che è l’agente, quello che opera. Questo fissato, si potrà considerare che la Teofania [negli atti] è funzione della parte [più o meno grande] dell’atto che è attribuito alla creatura. Così dimostravo la validità di una attribuzione [parziale] degli atti alle creature. Questo metodo mi sembrava soddisfacente e assai chiaro, permettendo di attribuire [almeno in parte] l’esercizio (ta‘alluq) dell’opera prescritta alla potenza delle creature (letteralmente: alla potenza creata); e giudicavo gli argomenti dei miei contraddittori estremamente deboli. Ora, avvenne che un giorno mio figlio Ismâ‘îl b. Sawdakîn – colui di cui ho parlato sopra – venne a consultarmi ponendomi questa questione: “Il fatto che Dio abbia creato l’uomo secondo la Sua Forma non è la prova più eclatante che l’attribuzione degli atti alle creature non contraddice in niente la Teofania? Perché se l’uomo fosse privato dell’atto nella totalità, non si sarebbe potuto dire “creato secondo la Sua Forma”, né rivestito del carattere divino. Ora, è precisamente ciò che voi affermate, in accordo con tutte le genti della Via senza eccezione!”.
“Nessuno potrebbe figurarsi la gioia che questa nota provocò in me. Succede così che il Maestro trae profitto dai favori che Dio dispensa al suo discepolo, e che non potrebbero essergli accordati altrimenti. Un uomo di grande valore può perfettamente vedersi accordare delle illuminazioni tramite un uomo comune che viene a sottomettergli un problema; e noi sappiamo ciò in modo perentorio. Il sapiente è allora gratificato sul campo da una conoscenza che non deve che alla sincerità di colui che lo ha interrogato, e alla Sollecitudine che Dio testimonia a quest’ultimo. Chi si mostra attento ai movimenti del suo cuore, comprende ciò che dico. Lode a Dio che ci permette di trarre giovamento dai nostri figli [spirituali], come Egli ha permesso ai nostri Maestri di trarre giovamento anche da noi!”.
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