"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

venerdì 2 febbraio 2018

Ibn ‘Arabi, La conoscenza della volontà (irâdah) - (Al-Futûhâtu-l-Makkiyyah cap. 226)

IbnArabi
La conoscenza della volontà (irâdah)

(Al-Futûhâtu-l-Makkiyyah cap. 226)

La volontà (irâdah)[1] per gli iniziati (qawm) è un tormento (law’ah) che prova l’aspirante (murîd) in questa via (tarîqah) e che si frappone tra lui e ciò che gli vela il suo obiettivo[2].
Secondo Abû Yazid al-Bistâmî la vera volontà è l’abbandono della propria volontà[3] ed a questo riguardo, allorché era in uno stato (hâl) in cui sussisteva ancora la volontà propria, disse: «Voglio non volere!», esprimendo cosi l’intenzione di cancellare la volontà dalla sua anima (nafs); poi, rivolgendosi ad Allâh, completò la frase dicendo: «poiché io sono colui che è voluto (murâd) e Tu sei Colui che vuole (murîd)!»[4]. Egli in effetti sapeva che la Volontà (irâdah) è connessa con il non-manifestato (‘udum), poiché ciò che è voluto non può che essere non ancora esistente, e vedeva che il possibile è in se stesso non-manifestato, anche se viene qualificato dall’esistenza, e per questo disse: «...io sono colui che è voluto...» cioè «...io sono colui che non esiste...», «...e Tu sei Colui che vuole!», in quanto colui che vuole non può che essere esistente[5].
Quanto a noi, la volontà è la tensione (qasd) verso la conoscenza (ma’rifah) di Allâh e corrisponde al fatto che nell’aspirante vi sia il desiderio (irâdah) della scienza di Allâh che si può ottenere per mezzo dell’apertura (futuh) e dello svelamento (mukashafah) e non per mezzo delle prove tratte dalle argomentazioni razionali; alla conoscenza di Allâh si arriva infatti per gusto spirituale (dhawq) o, quando questo non è possibile, per insegnamento divino, conformemente alla Sua parola: «abbiate timore di Allâh ed Allâh vi istruirà!»[6] (Cor. II-282).
I Maestri (mashaykh) dicono anche che la volontà è l’abbandono delle proprie abitudini (‘âdah)[7]: può succedere che l’abitudine di Zayd sia diversa dall’abitudine di ‘Amr e che quindi ‘Amr lasci la propria abitudine per prendere quella di Zayd, in quanto essa non è una abitudine per lui.
Per quanto concerne il nostro punto di vista (madhhab), poiché la Volontà è connessa con il non-manifestato e che ciò che il servitore (‘abd) vuole è la scienza di Allâh, cioè quella con cui Allâh conosce Se stesso e che non può essere realizzata da nessuna creatura[8], anche se ne ha realmente il desiderio (irâdah), ne consegue che fintanto che il servitore resta in questo stato la volontà è inseparabile da lui, in quanto ciò che la caratterizza è proprio la sua connessione con ciò che non è manifestato. D’altronde se la scienza di Allâh non può essere realizzata dalla creatura (in quanto tale), il modo d’essere (hukm) della volontà è piu perfetto nel servitore, il quale non può percepire l’oggetto del suo desiderio, che non in colui che può percepirlo. Quindi la vera volontà (al-irâdah al-haqîqiyyah) (o la vera aspirazione iniziatica) è quella che è connessa con ciò che non si percepisce e che continua ad esistere fintanto che ciò con cui è connessa non viene realizzato; quando poi l’oggetto di questa volontà viene realizzato (wujida) o accertato allora viene meno la sua ragion d’essere (hukm) e con essa anche la sua essenza (‘ayn): è bene quindi che l’aspirazione iniziatica non venga mai meno in noi, perché ciò a cui essa mira non è di questo mondo[9].
Quanto a Colui che quando vuole una cosa essa si produce, la volontà non Gli associa un’esistenza (diversa dalla Sua)[10]; invero la Sua Volontà permane, in quanto ciò con cui essa è connessa è una delle possibilità e queste sono indefinite: quindi l’esistenza della volontà in questo caso non cessa, ma cambia solo la sua connessione, perché le cose volute sono differenti.
Per la gente di Allâh la parola «volontà» (irâdah) indica propriamente un’idea persistente[11] che impone all’uomo il risveglio del cuore alla ricerca di Allâh[12], affinché sia Lui a prescrivergli cosa fare in modo da ottenere la Sua soddisfazione (ridâ) ed essere quindi di coloro «...di cui Allâh è soddisfatto ed essi sono soddisfatti di Lui». (Cor. V-122): colui che ha la «volontà» si sforza di arrivare a questa condizione (mathâbah). Quanto agli altri stati (ahwâl) che la gente di Allâh ottiene, quali l’apertura spirituale (futûh), lo svelamento (kashf) e la contemplazione essenziale (shuhûd), essi vengono da Allâh e non sono quindi quello che ricerca chi ha la «volontà» che esige la via di Allâh.
La loro aspirazione (irâdah) è di trovarsi al cospetto di Allâh in una condizione in cui Egli sia soddisfatto delle loro parole, dei loro atti e dei loro stati, scegliendo cosi la Sua Signoria, senza peraltro desiderare le grazie (na’îm) che per questo ricevono e senza rifuggire dal loro contrario, né in questo né nell’altro mondo.
Essi si comportano conformemente a ciò che viene loro prescritto ed è ad Allâh che spetta di ordinare loro ciò che Egli vuole. Il desiderio di soddisfare le loro passioni (huzhûzh nufûsi-him) non si presenta neanche come un pensiero fuggevole (khâtir)[13] e questa è la cosa piu difficile e nello stesso tempo più perfetta che la «volontà» esige dall’aspirante: se poi si presenta loro uno di questi desideri, non per questo essi cessano di essere degli aspiranti. Chi ha un «suo» desiderio ha un «maqâm» difettoso rispetto a chi non ne ha, ma continua ad avere la «volontà», similmente a quanto ha detto l’Altissimo riguardo ai Profeti: «...invero abbiamo reso superiori alcuni Profeti rispetto ad altri» (Cor. XVII-55), pur essendo tutti ugualmente Profeti e senza che gli uni decadino dalla Profezia per la superiorità degli altri.
Quanto all’affermazione secondo cui la volontà è un tormento che prova l’aspirante e che si frappone tra lui e ciò che in quel momento gli vela il suo obiettivo, essa è vera: senonché, poi, un ordine (amr)[14] conferisce all’aspirante la conoscenza (ma’rifah) di Allâh, facendogli ottenere la scienza di Allâh per mezzo dello svelamento e dell’insegnamento divino, e non resta nulla di ciò che caratterizza il servo che lo veli dal suo obiettivo, poiché il suo obiettivo è Allâh ed egli Lo vede in ogni essenza ed in ogni stato.
Solo colui di cui Allâh è soddisfatto ottiene questo «maqâm»: tra i segni distintivi di colui che lo possiede è quello di accollarsi (mu’ânaqah) le regole della buona creanza (adab)[15], a meno che per questa contemplazione (mushâhadah) non venga privato della ragione (‘aql), nel qual caso, come per i giullari (bahâl’il) e per coloro che sono folli solo in apparenza (‘uqalâ’ul-majânîn)[16] non gli è richiesto di rispettare queste regole.
Nel loro caso sopravviene improvvisamente un ordine (amr) divino che essi sono troppo deboli per sostenere e che fa quindi perdere loro la ragione; al cospetto di Allâh è come se essi fossero morti in una condizione di contemplazione essenziale (shuhûd), caratterizzati dalla rettitudine (istiqâmah), e tuttavia continuassero ad esistere.
Il loro modo d’essere è simile a quello dell’animale, che ottiene tutto ciò che la sua natura esige, quanto a bere e mangiare, all’accoppiamento ed ai modi di espressione (kalâm), senza alcuna restrizione e senza alcuna rivendicazione (mutâlabah) da parte di Allâh e nello stesso tempo è caratterizzato da uno svelamento (kashf). Agli animali in effetti viene svelata la vita del morto, che posto sul feretro emette un forte grido e dice, se è tra coloro che sono destinati al Paradiso: «Fatemi avanzare! Fatemi avanzare! (qaddimûnî)», mentre se è tra coloro che sono destinati all’Inferno dice: «Dove mi portano?»[17]; essi sono quindi testimoni del castigo della tomba e vedono ciò che «gli uomini ed i jinn» (ath-thaqalân) non vedono[18]. Per questo diciamo che colui a cui Allâh ha portato via la ragione nel corso della contemplazione è simile all’animale (hayawân); come quest’ultimo si può dire morto in base a ciò che per lui è morto, cosi quest’uomo folle solo in apparenza (bahlûl) si può dire morto per il fatto di essere stato privato della ragione: egli viene quindi annoverato tra i morti per aver perduto la ragione e tra i vivi per il persistere della sua natura (tab’).
Si tratta di esseri, questi, che fanno parte dei beati di cui Allâh è soddisfatto, come Mas’ûd al-Habashî ed ‘Alî al-Kurdî e tanti altri che abbiamo visto in questa condizione sia in Oriente che in Occidente: essi fanno parte dei servi di Allâh ed Allâh ci sia di aiuto per mezzo di loro in uno stato (hâI) simile. Se a colui che si trova in questo stato viene restituita la ragione, mentre vive in questo mondo, all’istante egli si mette ad osservare le regole tradizionali e se le accolla. Ma per gli iniziati colui che conserva la ragione è piu perfetto e piu elevato: fu chiesto al Maestro Abu-s-Su‘ûd ibnu-l-Shibli[19] che cosa pensasse di quelli che, tra la gente di Allâh, manifestano una apparente follia ed egli, Allâh sia soddisfatto di lui, rispose: «Essi sono belli (mulâh), ma colui che è dotato di ragione è piu bello (amlahu)!» volendo cosi indicare che nei riguardi di colui che conserva la ragione la Provvidenza (‘Inayah) è stata piu completa.
Quanto precede è il fondamento (asl) a cui si possono ricondurre tutte le affermazioni della gente di Allâh riguardo alla volontà (irâdah), come generalmente viene intesa da loro, e se i loro modi di esprimersi sono diversi ciò dipende dal fatto che essi talvolta si riferiscono ad una realtà universale, talvolta ad una realtà particolare, in conformità al loro gusto spirituale (dhawq) ed a ciò che prevale nel loro stato spirituale (hal).
In effetti nel loro modo di esprimersi su una cosa essi non vanno mai oltre a ciò che il gusto spirituale conferisce loro, evitando ogni simulazione ed affettazione: essi non prendono mai per vera una cosa che provenga solo dal loro pensiero (fikr) e quindi le loro parole non oltrepassano mai il loro gusto spirituale e la loro realizzazione (wujûd). Essi sono uomini veridici, possessori di una scienza realizzata in cui non si insinua alcun dubbio, mentre colui che si limita a pensare non fa parte di loro, qualche volta coglie nel segno, qualche volta sbaglia: l’uomo di pensiero non è uomo di stati o di gusti spirituali![20]
Quanto a «coloro che considerano ciò che è evidente come un simbolo di ciò che è nascosto» (ahlu-l-i’tibâr)[21], di essi fanno parte gli uomini che hanno dei gusti spirituali e che arrivano a questa «considerazione» proprio per il loro gusto e non con il pensiero; talvolta però questo modo di vedere le cose nasce dal pensiero e chi è estraneo viene ingannato dalla forma. In entrambi i casi costui afferma che si tratta di «gente della considerazione» (ahlu-l-i’tibâr), non sapendo che questo modo di vedere le cose può dipendere o dal pensiero o dal gusto spirituale; la differenza è che per la gente dei gusti si tratta di un punto di partenza (asl), mentre per gli uomini di pensiero è un punto di arrivo. L’uomo di pensiero non fa parte neppure di coloro che hanno la volontà, salvo nel caso in cui gli sia permesso di pensare, trattandosi di arrivare a qualcosa che non sia possibile ottenere altrimenti che con il pensiero.
Ma esiste veramente qualcosa di questo genere che non si possa ottenere mediante lo svelamento (kashf) e la realizzazione (wujûd)? Secondo noi no e pertanto proscriviamo il pensiero in toto, poiché esso conferisce a colui che vi si dedica l’inganno (talbîs) e la mancanza di veridicità (sidq): non c’è dunque nulla che non sia possibile conoscere mediante lo svelamento e la realizzazione e quindi dedicarsi al pensiero costituisce un velo.
Alcuni non accettano ciò che abbiamo detto ma costoro non fanno parte della gente della Via di Allâh, poiché sono coloro che si dedicano alla speculazione (nazhar) ed al ragionamento deduttivo (istidlâl) e che non hanno gusto negli stati spirituali; se però essi gustano degli stati spirituali (ahwâl), come Platone[22], il divino (ilahî) tra i saggi, allora troverai, come nel suo caso, che essi hanno le stesse uscite (makhraj) della gente dello svelamento e della realizzazione. Per quanto riguarda Platone, l’avversione che alcuni hanno per lui nell’Islâm è dovuta al fatto che costoro lo collegano con la filosofia e nello stesso tempo ignorano ciò che indica questa parola. I saggi (hukamâ’) invero sono coloro che hanno la scienza di Allâh e delle cose e che conoscono il rango occupato da ogni cosa: «...ed Allâh è il Saggio ed il Sapiente» (Cor. XLIII-74), «...e chi riceve la saggezza invero riceve un bene immenso» (Cor. II-269)[23]. La saggezza (hikmah) è la scienza che caratterizza la Profezia (nubuwwah), come risulta dal caso di Davide, su di lui la Pace, a cui Allâh aveva dato il regno (mulk) e la saggezza, conformemente alle Sue parole: «...ed Allâh gli conferì il regno e la saggezza e gli insegnò ciò che Egli voleva» (Cor. II-251).
Il significato letterale del termine «filosofo» è «amante della saggezza», poiché «sofia» nella lingua greca vuol dire saggezza e, secondo alcuni, corrisponde all’amore (mahabbah): quindi la filosofia è l’amore della saggezza ed ogni uomo dotato d’intendimento (‘âqil) ama la saggezza[24].
Il fatto è che gli uomini di pensiero sbagliano nelle cose metafisiche (al-ilahiyyât) più spesso di quanto colgano nel giusto, sia che si tratti dei filosofi che dei Mu’taziliti o degli Ash’ariti[25] o di una delle diverse categorie della gente della speculazione (ahlu-n-nazhar), ma non per questo è da biasimare la filosofia, nel senso proprio del termine, bensì sono da biasimare i filosofi per gli errori che commettono riguardo alla scienza divina.
Se essi cercassero la saggezza, dal momento che la amano, direttamente presso Allâh e non per mezzo del pensiero, non commetterebbero questi errori e sarebbero nel giusto in ogni cosa!
Come dicevamo, oltre ai filosofi, vi sono tra i musulmani altre categorie di gente della speculazione, come i Mu’taziliti e gli Ash’ariti, per i quali l’Islam ha la precedenza (sul loro pensiero), oltre ad avere l’autorità su di loro; costoro però si mettono a difendere l’Islâm in conformità a ciò che ne hanno compreso e, pur essendo giusto il loro punto di partenza, essi sbagliano in alcune delle conseguenze che ne traggono. La ragione dei loro errori sta nel fatto che secondo loro è miscredenza (kufr) prendere alla lettera certe affermazioni del Legislatore riguardo ad Allâh, che alla luce delle argomentazioni razionali appaiono assurde, e pertanto le interpretano basandosi su ciò che fornisce loro il pensiero[26]: ma essi non sanno che Allâh ha posto in alcuni dei Suoi servitori una facoltà (quwwah) che su alcune questioni (umûr) fornisce un giudizio (hukm) differente da quello fornito dalla facoltà razionale, mentre su altre questioni si accorda nel giudizio con essa[27].
Si tratta del «maqâm» che è al di là del limite (tawr) della ragione, la quale è incapace di percepirlo e non crede in esso se non quando questa facoltà sovrarazionale si associa ad essa nella stessa persona; allora essa riconosce la sua insufficienza e capisce che ciò che le sembrava assurdo è vero[28]. In effetti le diverse facoltà, rivaleggiando tra di loro per la supremazia, danno all’uomo conformemente alle loro realtà essenziali (haqâ’iq), in base alle quali Allâh ha dato loro l’esistenza; se alla facoltà dell’udito venisse sottoposto il giudizio fornito dalla vista essa lo troverebbe assurdo e così sarebbe per la vista nei riguardi del giudizio fornito da un’altra delle facoltà: la ragione appartiene all’insieme di queste facoltà, ma se da un lato essa trae profitto da tutte le altre, dall’altro essa non comunica nulla a loro [e pertanto non viene sottoposta alloro giudizio].
Colui che realizza perfettamente lo statuto (hukm) della volontà (irâdah), così come essa viene intesa presso la gente di Allâh, conosce tutte queste stazioni (maqâmat) e queste categorie (marâtib) per svelamento, e riconosce la forma dell’errore (ghalat) concernente le cose, errore che riguarda le relazioni (nisab) e gli aspetti (wujûh). Invero tutti coloro che commettono questo tipo di errori sbagliano nello stabilire le relazioni, correlando le cose con un aspetto che non è il loro. La gente di Allâh coglie quella relazione e la ricollega con ciò a cui è riferita (mansûb), mettendo così ogni cosa al suo posto: questo è il senso profondo della parola «saggezza».
I veri saggi sono dunque gli Inviati ed i Santi che fanno parte della gente di Allâh ed essi sono coloro che hanno ricevuto il «bene immenso » (Cor. II-269). Che Allâh ci annoveri tra coloro che hanno la «volontà» e che riuniscono l’abitudine con l’abbandono dell’abitudine, conformemente a ciò che la testimonianza diretta (shahâdah) fornisce loro. Ed Allâh dice il vero e guida sul retto sentiero (Cor. XXXIII-4).

(traduzione dall’arabo di Placido Fontanesi)
Da: Rivista di Studi Tradizionali n° 64


[1] L’«irâdah» corrisponde alla volontà intesa non come «facoltà», e quindi considerata astratta da un suo effettivo esercizio, ma come «atto» e quindi determinata ad un particolare scopo od oggetto; oltre che come «volontà», il termine «irâdah» può anche essere tradotto correttamente come «desiderio (di)» o come «amore (per)», ma abbiamo dato la preferenza al primo significato poiché meglio si addice all’«irâdah» considerata come attributo di Allâh. Dalla stessa radice verbale «arâda» derivano anche i termini «murîd», letteralmente «colui che vuole», e «murâd», letteralmente «ciò che è voluto», spesso ricorrenti nel testo di cui presentiamo la traduzione. 
[2] Nei versi che, come di consueto, precedono il testo Muhyiddîn definisce l’aspirazione iniziatica (irâdah) come un tormento che brucia (law’ah muharriqah) e che ha sede nel cuore (qalb): la «volontà» dell’iniziato viene quindi figurata come un «fuoco interiore» che cerca di «bruciare» ciò che più immediatamente fa da ostacolo alla realizzazione del suo «obiettivo» obiettivo che, come viene precisato nel seguito del testo, non è «percepito» dall’aspirante. A questo riguardo è interessante notare la stretta somiglianza tra questa interpretazione della «irâdah» e la spiegazione data da René Guénon in merito al significato del termine sanscrito «tapas»:
«... il primo significato di tapas è in effetti quello di “calore”; nel caso in questione, il calore è evidentemente quello di un fuoco interiore che deve bruciare ciò che i Kabbalisti chiamerebbero le “scorze”, o, in altre parole, distruggere tutto ciò che nell’essere fa da ostacolo ad una realizzazione spirituale...» (Iniziazione e realizzazione spirituale, cap. XIX); in nota a questo passo René Guénon sottolineava l’evidente rapporto tra questo fuoco interiore e lo «zolfo» degli ermetisti, il quale, a livello microcosmico, «viene spesso identificato con la potenza della volontà» (cfr. «La Grande Triade», cap. XII). 
[3] Nella celebre «Risâlah» di al-Qushayrî, nel capitolo dedicato all’aspirazione iniziatica (irâdah), viene precisato che: «... dal punto di vista etimologico il «murîd» (colui che vuole) è colui che ha una volontà, così come il sapiente è colui che ha una scienza, poiché si tratta di nomi derivati; ma dal punto di vista della terminologia iniziatica il «murîd» è colui che non ha più una sua volontà e chi non si è spogliato della sua volontà non può essere chiamato “murîd” ...». Come avevamo precisato in una precedente nota, l’«irâdah» non è qui intesa come facoltà, ma come atto; il «murîd» pertanto non è colui che rinuncia alla facoltà di volere, bensl colui che rinuncia a ciò che «lui» vuole per volere ciò che vuole Allâh, come risulta chiaramente dal seguente «hadîth qudsî»: «O Mio servitore, tu vuoi ed Io voglio; se tu lasci a Me ciò che tu vuoi ti darò ciò che voglio Io; se tu ti opponi a Me in ciò che voglio, ti darò della pena in ciò che tu vuoi e non ci sarà altro che ciò che voglio Io!». 
[4] Nei «Mahâsin al-majâlis» di ibn al-‘Arif, nel capitolo dedicato all’«irâdah», si possono trovare ulteriori particolari sull’occasione in cui Abû Yazîd profferì questa frase: «... Abû Yazîd, Allâh sia soddisfatto di lui, ha detto: “Sono salito sul veicolo della veridicità (sidq) finché ho raggiunto la sfera dell’aria; poi sono salito sul veicolo del desiderio ardente (shawq) finché ho raggiunto il cielo; quindi sono salito sul veicolo dell’amore (mahabbah) finché sono arrivato al Loto del Limite, ove una voce mi chiamò: “O Abû Yazîd, che cosa vuoi?” ed io risposi: “Voglio non volere, poiché io sono colui che è voluto e Tu sei Colui che vuole!”». 
[5] Per quanto concerne i rapporti tra «esistenza» e «possibilità», secondo gli insegnamenti di Muhyiddîn ibnArabî, rimandiamo il lettore ad un estratto delle «Al-Futûhâtu-l-Makkiyyah», pubblicato nel n. 60 della Rivista di Studi Tradizionali, pag. 11, nota 5. 
[6] Per Muhyiddîn ibnArabî l’aspirazione iniziatica implica quindi anche la coscienza che solo Allâh può aprire le porte della conoscenza; a questo riguardo nella Prefazione delle «Al-Futûhtât-l-Makkiyyah» viene precisato: «...Invero quando colui che si prepara (muta’ahhib) è assiduo nel ritiro spirituale (khalwah) e nel “dhikr”, fa piazza pulita del pensiero e si siede povero, senza nulla possedere, presso la porta del suo Signore, allora Allâh, l’Altissimo, gli concede quella scienza di Lui, quei segreti divini e quelle conoscenze dominicali con le quali lodò il Suo servo Khidr, riguardo a cui disse: “...uno dei nostri servitori a cui abbiamo concesso misericordia da parte nostra ed a cui abbiamo insegnato una scienza da presso di Noi”. (Cor. XVIII-65). L’Altissimo ha anche detto: “…abbiate timore di Allâh ed Allâh vi istruirà!” (Cor. II-282) e: “…se avrete timore di Allâh Egli vi darà una discriminazione!" (Cor. VIII-29). Fu chiesto ad al-Junayd: “Come hai fatto a realizzare?” ed egli rispose: “Stando seduto sotto a quel gradino per trent’anni”; da parte sua Abû Yazîd ha detto: “Voi prendete la vostra scienza come morto da morto, noi prendiamo la nostra scienza dal Vivificante che non muore!”». Quanto precede è d’altronde in perfetto accordo con ciò che scrisse in proposito René Guénon: «...Ogni conoscenza che può veramente essere chiamata iniziatica risulta da una comunicazione stabilita coscientemente con gli stati superiori; ed è a questa comunicazione che fanno riferimento ...dei termini come “ispirazione” e “rivelazione”» (Aperçus sur l’initiation, cap. XXXII).  
[7] «La maggior parte dei Maestri afferma che la volontà è l’abbandono delle proprie abitudini: invero le abitudini degli uomini implicano generalmente il fare tappa nei luoghi dell’oblio (di Allâh), il fare affidamento in coloro che seguono le loro passioni ed il dedicarsi a ciò verso cui spinge il proprio desiderio. Il “murîd” si è spogliato di tutto ciò e questo suo distacco è un segno della fermezza della sua volontà...» («Risâlah» di al-Qushayri, cap. sulla «irâdah»).  
[8] A questo riguardo si possono citare due note massime dell’esoterismo islamico: «Il servitore resta il servitore (al-‘abdu yabqa-l-‘abd)» e «Il Sûfî non è creato (as-sûfî lam yukhlaq)». Rimandiamo il lettore, per una piu ampia esposizione dell’insegnamento di Muhyiddîn ibnArabî su questo aspetto della dottrina, alla traduzione del «Trattato dell’Unità» pubblicata nei nn. 7 e 8 della Rivista di Studi Tradizionali. 
[9] La necessità che l’aspirazione persista nella «creatura» o nel «servitore» è una diretta conseguenza di ciò che viene affermato nelle due massime citate nella nota precedente; ma da un punto di vista più contingente vanno ricordate anche le seguenti precisazioni dello Shaykh at-Tadîlî sulla opportunità per l’iniziato (faqîr) di mantenere sempre viva in lui l’aspirazione: «Sappiate ancora, miei fratelli, che quando il “faqîr” nel fare il “dhikr” non è sorretto dalla volontà (irâdah), l’appellativo di Sûfî nel suo caso è solo più una metafora ed il suo “dhikr” diventa pericoloso ... Tra coloro che praticano il “dhikr” colui che possiede la volontà percorre in un mese più cammino nella Via di quanto possa percorrerne in molti anni colui che l’ha perduta» (cfr. «La vita tradizionale è la sincerità» dello Shaykh at-Tadîlî, parte II, pagg. 146 e 147 del n. 28 della Rivista di Studi Tradizionali). 
[10] Nel Corano (XXXVI-82) viene detto, in riferimento ad Allâh: «Invero il Suo ordine, quando vuole una cosa, è di dirle: sii! ed essa è»; ma l’esistenza contingente (kawn) della cosa è solo illusoriamente distinta dall’esistenza (wujûd) di Allâh, come viene precisato nel cap. 371 delle «Al-Futûhâtu-l-Makkiyyah»: «Sappi che Allâh è qualificato dall’esistenza e nessuna cosa, appartenente alle possibilità, è qualifìcata oltre a Lui dall’esistenza; anzi, affermo che Allâh è l’esistenza stessa ...». 
[11] Nel «Kitâb al-istilâh as-sûfiyyah» di ibn ‘Arabî si trovano le seguenti precisazioni terminologiche: «L’idea (hâjis) corrisponde al primo pensiero che si presenta alla coscienza (al-khâtir al-awwal), cioè al pensiero di origine dominicale (rabbanî), che non sbaglia mai...; se essa si conferma nell’anima (nafs) si chiama volontà (irâdah), se ricorre una terza volta si chiama aspirazione (himmah) e se ricorre una quarta volta si chiama ferma risoluzione (‘azm). Quanto all’intraprendere un’azione, se si tratta di un pensiero inerente ad una azione generica esso viene chiamato proposito (qasd), mentre se riguarda un comportamento legale tradizionale viene chiamato intenzione (niyyah)». 
[12] Analogamente lo Shaykh Abdu-l-Qâdir al-Guilânî in «Al-ghunya» afferma: «La volontà è l’abbandono di ciò che è diventato un’abitudine; il vero significato di questo termine è però il risveglio (nuhûd) del cuore alla ricerca del Vero, Gloria a Lui, e l’abbandono di ciò che è diverso da Lui...» (vol. II, pag. 137). 
[13] Cfr. «Al-Futûhâtu-l-Makkiyyah», cap. 55, la cui traduzione è stata pubblicata nel n. 58-59 della Rivista di Studi Tradizionali. 
[14] Riguardo a questo «ordine» o «comando», che spesso ricorre nei testi di Muhyiddîn ibnArabî allorquando si parla di realizzazione, è interessante ricordare la seguente annotazione di René Guénon, fatta in margine ad un punto del suo articolo su «Kundalini-Yoga» in cui spiegava che 1’«âjnâ chakra» è così chiamato perché in esso viene ricevuto dall’alto (cioè dal dominio sopraindividuale) il comando (âjnâ) del Guru interiore: «... Tale comando corrisponde al “mandato celeste” della tradizione estremo-orientale; in arabo la denominazione “âjnâ chakra” si potrebbe rendere perfettamente con “maqâm el-amr”, per indicare che ivi si trova il riflesso diretto, nell’essere umano, del mondo chiamato “‘âlam el-amr”...; da quanto precede si potrebbero dedurre considerazioni precise sulla modalità delle manifestazioni “angeliche” in rapporto all’uomo ...» (cfr. Rivista di Studi Tradizionali, n. 20-21, pago 129). 
[15] In uno dei suoi innumerevoli trattati brevi, «Al-amr al-muhkam...», Muhyiddîn ibn ‘Arabî precisa che l’uomo perfettamente realizzato «si comporta, nei confronti degli altri, sempre in conformità alle norme correnti, senza permettersi di fare nulla che anche solo in apparenza sia biasimevole, contrario alle leggi tradizionali e fuori dal comune ...». 
[16] «Allâh, l’Altissimo ha detto: “...e vedrai gli uomini ubriachi, mentre essi non sono’ubriachi" (Cor. XXII-2); questo si riferisce ad una gente (qawm) di Allâh la cui ragione (‘aql), per lo stato in cui si trovano, non partecipa più ai loro atti... Nessuno di loro sapeva che Allâh, l’Altissimo, fa delle visite improvvise (fajât) a chi si ritira in segreto con Lui, obbedisce al Suo comando e prepara il suo cuore a ricevere la Sua luce; ed Allâh li ha visitati improvvisamente, senza che essi se ne accorgessero o lo sapessero, non essendo predisposti per una realtà (amr) cosi straordinaria, ed ha portato via così la loro ragione. Ma Egli ha fatto sì che essi non cessassero di contemplare quella realtà che li ha colti di sorpresa, e quindi sono perdutamente innamorati in essa e vi scompaiono: nel mondo delle apparenze essi restano solo con il loro spirito animale, mangiando, bevendo e disponendo liberamente nelle loro necessità, con l’arbitrio dell’animale che riconosce istintivamente ciò che è vantaggioso per lui e ciò che non lo è, senza riflettervi ... Costoro sono chiamati i folli dotati di ragione (‘uqalâ’ al-majânîn), perché il motivo della loro follia non è una alterazione di temperamento dovuta ad una causa di ordine cosmico, come un cibo o la fame, bensl una manifestazione (tajallî) divina nei loro cuori, una visita improvvisa di Allâh che li ha colti di sorpresa ed ha fatto perdere loro la ragione. Quest’ultima invero resta segregata presso di Lui, beneficiando della Sua contemplazione ritirata nella Sua Presenza: essi quindi sono dotati di ragione, ma essendone privi in apparenza sono conosciuti esteriormente come dei folli, cioè come coloro che sono sottratti alla direzione della loro ragione ...» («Al-Futûhâtu-l-Makkiyyah», cap. 44). Per ciò che concerne la «follia apparente» rimandiamo il lettore al cap. XVII di «Iniziazione e realizzazione spirituale» di René Guénon. 
[17] Secondo un «hadîth» riportato da Abu Sa’îd al-Khudrî, l’Inviato di Allâh, su di lui il Saluto e la Pace, ha detto: «Quando la salma è stata posta sul feretro e gli uomini lo portano sulle spalle, il morto, se è stato giusto dice “Fatemi avanzare! Fatemi avanzare!”, mentre se non è stato giusto dire “Ahimé, dove mi portano?”; tutti sentono la sua voce, salvo l’uomo, poiché, se la sentisse, cadrebbe svenuto!» (cfr. «Sahîh al-Bukhârî», XXIII-9I). 
[18] Cfr. «Sahîh al-Bukhârî», XXIII-68. 
[19] Celebre Sûfî persiano, spesso citato nelle opere di ibn ‘Arabi; originario di Baghdâd, fu discepolo di Abdel Qadîr al-Guilânî e come il suo Maestro fu uno degli «Afrâd» (cfr. «Al-Futûhâtu-lMakkiyyah», cap. XXX): morì nell’anno 540 dopo l’Egira (1145 d.C). 
[20] Questa affermazione della «rinuncia al mentale» da parte della gente di Allâh può sembrare in contraddizione con quella precedente secondo cui il fatto di «non perdere la ragione» rappresenta per l’iniziato un grado di maggior perfezione rispetto a colui che la perde; ma rinunciare al mentale come strumento di conoscenza non significa rinunciarvi anche come strumento di espressione  o di traduzione per ciò che è possibile, delle conoscenze acquisite in modo diretto o per «gusto», come direbbe Muhyiddîn ibn ‘Arabî (cfr. «Metafisica e dialettica», cap. II di «Iniziazione e realizzazione spirituale» di René Guénon. D’altra parte i due termini Arabî «fikr» (pensiero) ed «‘aql» (ragione) non sono per nulla sinonimi: mentre il primo indica la facoltà pensante (al-quwwah al-mufakkirah) caratteristica dell’essere umano, il secondo indica la facoltà intellettiva (al-quwwah al-’aqliyyah), la quale, come vedremo in seguito, può essere «informata» non solo dal pensiero, ma anche da realtà di ordine sopraindividuale. 
[21] Non esiste in italiano un termine che da solo renda perfettamente il significato della parola araba «i’tibar», comunemente tradotta come «considerazione»; siamo quindi ricorsi ad una perifrasi tenendo conto di quanto è detto nel capitolo 279 delle «Al-Futûhâtu-I-Makkiyyah», dedicato all’«i’tibar», ove, parlando di ciò che viene «considerato» in questo modo (al-mu’tabirât), Muhyiddîn ibn ‘Arabî precisa: «...sia che si tratti delle forme di ciò che si è compreso con la ragione (al-ma’ qûlât), sia che si tratti delle forme di ciò in cui si crede fermamente (al-mu’taqidât), questi supporti di manifestazione (mazhâhir) sono dei ponti da attraversare con la scienza, sapendo cioè che dietro a quelle forme c’è una realtà che non è possibile né vedere, né conoscere ...». 
[22] Ricordiamo a questo riguardo che uno degli appellativi di Muhyiddîn ibnArabî era «ibn Aflatun», cioè «il figlio di Platone». 
[23] Al-Qaysarî, nel suo commento ai «Fusûs al-hikam» di Muhyiddîn ibnArabî, definisce la saggezza come «la conoscenza della realtà delle cose, cosi come esse sono in se stesse, e l’agire in conformità a questa conoscenza», sottolineando cosi la connessione della saggezza con il manifestato; d’altra parte, nel seguito del testo che stiamo traducendo, è detto che la saggezza è la scienza che caratterizza i Profeti, cioè coloro che «ridiscendono» verso la manifestazione dopo aver realizzato il non-manifestato. 
[24] Sul senso originario ed etimologico del termine «filosofia» rimandiamo il lettore all’articolo di René Guénon intitolato «Conosci te stesso», la cui traduzione è apparsa nel n. 23 della Rivista di Studi Tradizionali. 
[25] Questi due ultimi termini designano i seguaci delle due più importanti scuole di teologia (kalâm) islamica; cfr. Henri Corbin «Histoire de la philosophie islamique» I parte, cap. III, Parigi 1964. 
[26] «Coloro che sono dotati di intendimento sano e che conoscono la Maestà divina sono sconcertati, mentre coloro che si dedicano all’interpretazione (ta‘wîl) non lo sono affatto e sbagliano, per il fatto stesso di mettersi ad interpretare. Anche quando fossero d’accordo con la Scienza essi fanno qualcosa che è stato loro proibito e di cui dovranno rispondere nel Giorno della Resurrezione, insieme a coloro che dissertano sull’Essenza di Allâh, l’Altissimo, e che sostengono la Sua trascendenza nei confronti di ciò che Egli stesso si è attribuito. Costoro sono coloro che danno la preminenza alla loro ragione piuttosto che alla loro fede, e che sottopongono la Scienza del loro Signore al giudizio della loro speculazione, il che è stato loro proibito, conformemente al Suo detto: “Il figlio di Adamo Mi smentisce, ma ciò non deve farlo!”...» («Al-Futûhâtu-l-Makkiyyah», cap. 198). 
[27] «Le verità metafisiche non possono essere concepite che da una facoltà che non è più dell’ordine individuale, e che per il carattere immediato della sua operazione può essere chiamata intuitiva... la facoltà di cui parliamo è l’intuizione intellettuale...» (René Guénon «Introduzione generale allo studio delle dottrine indti», parte II, cap. V). 
[28] Riportiamo qui di seguito alcuni brani delle «Al-Futûhâtu-l-Makkiyyah» riguardanti i rapporti tra la ragione e le realtà di ordine sovra-razionale: «... quanto al “maqâm” che è al di là del limite della ragione, esso è tale perché non è comprensibile dalla ragione per mezzo del pensiero, ma ciò non esclude che essa possa apprenderne la conoscenza da Allâh ...» (cap. 58) «... per ciò che concerne le scienze della Profezia e della Santità, esse sono al di là del limite della ragione, che non ha alcun accesso ad esse mediante il pensiero; ma ciò non toglie che la ragione possa accettarle ...» (cap. 47) «…non è possibile che la ragione comprenda Allâh. Essa invero accetta solo ciò che conosce per intuizione o ciò che le fornisce il pensiero: ora, la comprensione che ha di Allâh il pensiero è errata e quindi anche la comprensione che ha di Lui la ragione per mezzo del pensiero è errata. Ma poiché la ragione è intelligenza, il suo statuto è che comprenda ed afferri ciò che le si presenta, e talvolta Allàh le fa dono della Sua conoscenza ed essa la comprende, in quanto è intelligenza e non per mezzo del pensiero (fikr). In effetti questa conoscenza che Allâh dona a chi Lui vuole dei Suoi servitori, la ragione da sola non è in grado di coglierla, è pero in grado di riceverla...» (cap. 3). È interessante a questo riguardo ricordare anche quanto scriveva in proposito René Guénon: «... la ragione non può funzionare validamente, nell’ordine di realtà che costituisce il suo dominio, che con la garanzia di principi che la illuminano e la dirigono e che essa riceve dall’intelletto superiore ...» («Simboli della Scienza sacra», cap. LXX).

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