Ibn ‘Arabi
La conoscenza della volontà (irâdah)
(Al-Futûhâtu-l-Makkiyyah cap. 226)
La volontà (irâdah)[1] per gli iniziati (qawm) è
un tormento (law’ah) che prova l’aspirante (murîd) in questa via (tarîqah)
e che si frappone tra lui e ciò che gli vela il suo obiettivo[2].
Secondo Abû Yazid al-Bistâmî la vera volontà è l’abbandono della propria volontà[3] ed a questo riguardo, allorché era in uno stato (hâl) in cui sussisteva ancora la volontà propria, disse: «Voglio non volere!», esprimendo cosi l’intenzione di cancellare la volontà dalla sua anima (nafs); poi, rivolgendosi ad Allâh, completò la frase dicendo: «poiché io sono colui che è voluto (murâd) e Tu sei Colui che vuole (murîd)!»[4]. Egli in effetti sapeva che la Volontà (irâdah) è connessa con il non-manifestato (‘udum), poiché ciò che è voluto non può che essere non ancora esistente, e vedeva che il possibile è in se stesso non-manifestato, anche se viene qualificato dall’esistenza, e per questo disse: «...io sono colui che è voluto...» cioè «...io sono colui che non esiste...», «...e Tu sei Colui che vuole!», in quanto colui che vuole non può che essere esistente[5].
Secondo Abû Yazid al-Bistâmî la vera volontà è l’abbandono della propria volontà[3] ed a questo riguardo, allorché era in uno stato (hâl) in cui sussisteva ancora la volontà propria, disse: «Voglio non volere!», esprimendo cosi l’intenzione di cancellare la volontà dalla sua anima (nafs); poi, rivolgendosi ad Allâh, completò la frase dicendo: «poiché io sono colui che è voluto (murâd) e Tu sei Colui che vuole (murîd)!»[4]. Egli in effetti sapeva che la Volontà (irâdah) è connessa con il non-manifestato (‘udum), poiché ciò che è voluto non può che essere non ancora esistente, e vedeva che il possibile è in se stesso non-manifestato, anche se viene qualificato dall’esistenza, e per questo disse: «...io sono colui che è voluto...» cioè «...io sono colui che non esiste...», «...e Tu sei Colui che vuole!», in quanto colui che vuole non può che essere esistente[5].
Quanto a noi, la volontà è la tensione (qasd)
verso la
conoscenza (ma’rifah) di Allâh e corrisponde al fatto che nell’aspirante vi
sia il desiderio (irâdah) della scienza di Allâh che si può ottenere per mezzo
dell’apertura (futuh) e dello svelamento (mukashafah) e non per mezzo delle prove
tratte dalle argomentazioni razionali; alla conoscenza di Allâh si arriva infatti per gusto spirituale (dhawq)
o, quando
questo non è possibile, per insegnamento divino, conformemente alla Sua parola:
«abbiate timore di Allâh ed Allâh
vi istruirà!»[6]
(Cor. II-282).
I Maestri (mashaykh)
dicono
anche che la volontà è l’abbandono delle proprie abitudini (‘âdah)[7]: può succedere che l’abitudine
di Zayd sia diversa dall’abitudine di ‘Amr e che quindi ‘Amr lasci la propria
abitudine per prendere quella di Zayd, in quanto essa non è una abitudine per
lui.
Per
quanto concerne il nostro punto di vista (madhhab), poiché la Volontà è connessa con il non-manifestato e che ciò che il
servitore (‘abd) vuole è la
scienza di Allâh, cioè quella con cui Allâh conosce Se stesso e che non può
essere realizzata da nessuna creatura[8], anche
se ne ha realmente il desiderio (irâdah), ne consegue che fintanto che il servitore resta in questo stato la
volontà è inseparabile da lui, in quanto ciò che la caratterizza è proprio la
sua connessione con ciò che non è manifestato. D’altronde se la scienza di Allâh
non può essere realizzata dalla creatura (in quanto
tale), il modo d’essere (hukm) della volontà è piu perfetto nel
servitore, il quale non può
percepire l’oggetto del suo desiderio, che non in colui che può percepirlo.
Quindi la vera volontà (al-irâdah al-haqîqiyyah) (o la vera aspirazione
iniziatica) è quella che è connessa con ciò che non si percepisce e che
continua ad esistere fintanto che ciò con cui è connessa non viene realizzato; quando poi
l’oggetto di questa volontà viene realizzato (wujida) o accertato allora viene meno la sua ragion d’essere (hukm) e con essa anche la sua essenza (‘ayn): è bene quindi che
l’aspirazione iniziatica non venga mai meno in noi, perché ciò a cui essa mira
non è
di questo mondo[9].
Quanto a Colui che quando
vuole una cosa essa si produce, la volontà non Gli associa un’esistenza
(diversa dalla Sua)[10]; invero la Sua Volontà
permane, in quanto ciò con cui essa è connessa è una
delle possibilità e queste sono indefinite: quindi l’esistenza della volontà in
questo caso non cessa, ma cambia solo la sua connessione, perché le cose volute
sono differenti.
Per la gente di Allâh la parola «volontà» (irâdah) indica propriamente un’idea
persistente[11] che impone all’uomo il risveglio
del cuore alla ricerca di Allâh[12], affinché sia Lui a
prescrivergli cosa fare in modo da ottenere la Sua soddisfazione (ridâ) ed essere quindi di coloro «...di cui Allâh è soddisfatto ed essi sono
soddisfatti di Lui». (Cor. V-122): colui che ha la «volontà» si sforza di arrivare a questa
condizione (mathâbah). Quanto agli altri stati (ahwâl) che la gente di Allâh ottiene, quali l’apertura spirituale (futûh), lo svelamento (kashf) e la contemplazione
essenziale (shuhûd), essi vengono da Allâh e non sono quindi quello che
ricerca chi ha la «volontà» che esige la via di Allâh.
La loro aspirazione (irâdah) è di trovarsi al cospetto di Allâh in una condizione in cui Egli sia soddisfatto delle loro parole, dei loro atti e dei loro stati, scegliendo cosi la Sua Signoria, senza peraltro desiderare le grazie (na’îm) che per questo ricevono e senza rifuggire dal loro contrario, né in questo né nell’altro mondo.
Essi si comportano conformemente a ciò che viene loro prescritto ed è ad Allâh che spetta di ordinare loro ciò che Egli vuole. Il desiderio di soddisfare le loro passioni (huzhûzh nufûsi-him) non si presenta neanche come un pensiero fuggevole (khâtir)[13] e questa è la cosa piu difficile e nello stesso tempo più perfetta che la «volontà» esige dall’aspirante: se poi si presenta loro uno di questi desideri, non per questo essi cessano di essere degli aspiranti. Chi ha un «suo» desiderio ha un «maqâm» difettoso rispetto a chi non ne ha, ma continua ad avere la «volontà», similmente a quanto ha detto l’Altissimo riguardo ai Profeti: «...invero abbiamo reso superiori alcuni Profeti rispetto ad altri» (Cor. XVII-55), pur essendo tutti ugualmente Profeti e senza che gli uni decadino dalla Profezia per la superiorità degli altri.
La loro aspirazione (irâdah) è di trovarsi al cospetto di Allâh in una condizione in cui Egli sia soddisfatto delle loro parole, dei loro atti e dei loro stati, scegliendo cosi la Sua Signoria, senza peraltro desiderare le grazie (na’îm) che per questo ricevono e senza rifuggire dal loro contrario, né in questo né nell’altro mondo.
Essi si comportano conformemente a ciò che viene loro prescritto ed è ad Allâh che spetta di ordinare loro ciò che Egli vuole. Il desiderio di soddisfare le loro passioni (huzhûzh nufûsi-him) non si presenta neanche come un pensiero fuggevole (khâtir)[13] e questa è la cosa piu difficile e nello stesso tempo più perfetta che la «volontà» esige dall’aspirante: se poi si presenta loro uno di questi desideri, non per questo essi cessano di essere degli aspiranti. Chi ha un «suo» desiderio ha un «maqâm» difettoso rispetto a chi non ne ha, ma continua ad avere la «volontà», similmente a quanto ha detto l’Altissimo riguardo ai Profeti: «...invero abbiamo reso superiori alcuni Profeti rispetto ad altri» (Cor. XVII-55), pur essendo tutti ugualmente Profeti e senza che gli uni decadino dalla Profezia per la superiorità degli altri.
Quanto all’affermazione secondo cui la volontà è
un tormento che
prova l’aspirante e che si frappone tra lui e ciò che in quel momento gli vela
il suo obiettivo, essa è vera: senonché, poi, un
ordine (amr)[14] conferisce all’aspirante la conoscenza
(ma’rifah) di Allâh, facendogli ottenere la scienza di Allâh per mezzo
dello svelamento e dell’insegnamento divino, e non resta nulla di ciò che
caratterizza il servo che lo veli dal suo obiettivo, poiché il suo obiettivo è
Allâh ed egli
Lo vede in ogni essenza ed in ogni stato.
Solo colui di cui Allâh è soddisfatto ottiene questo «maqâm»: tra i segni distintivi di
colui che lo possiede è quello di accollarsi (mu’ânaqah) le regole della buona
creanza (adab)[15], a meno che per questa
contemplazione (mushâhadah) non venga privato della ragione (‘aql),
nel qual
caso, come per i giullari (bahâl’il) e per coloro che sono folli
solo in apparenza (‘uqalâ’ul-majânîn)[16] non gli è richiesto di
rispettare queste regole.
Nel loro caso sopravviene improvvisamente un ordine (amr)
divino che
essi sono troppo deboli per sostenere e che fa quindi
perdere loro la ragione; al cospetto di Allâh è come se essi fossero morti
in una condizione di contemplazione essenziale (shuhûd),
caratterizzati
dalla rettitudine (istiqâmah), e tuttavia continuassero ad
esistere.
Il loro modo d’essere è simile a quello
dell’animale, che ottiene tutto ciò che la sua natura esige, quanto a bere e
mangiare, all’accoppiamento ed ai modi di espressione (kalâm), senza alcuna restrizione e
senza alcuna rivendicazione (mutâlabah) da parte di Allâh e nello
stesso tempo è caratterizzato da uno svelamento (kashf).
Agli
animali in effetti viene svelata la vita del morto,
che posto sul feretro emette un forte grido e dice, se è tra coloro che sono
destinati al Paradiso: «Fatemi avanzare! Fatemi avanzare! (qaddimûnî)», mentre se è
tra coloro che sono destinati all’Inferno dice: «Dove mi
portano?»[17]; essi
sono quindi testimoni del castigo della tomba e vedono ciò che «gli uomini ed i
jinn» (ath-thaqalân)
non vedono[18]. Per questo diciamo che colui
a cui Allâh ha portato via la ragione nel corso della
contemplazione è simile all’animale (hayawân); come quest’ultimo si può
dire morto in base a ciò che per lui è morto, cosi quest’uomo folle
solo in apparenza (bahlûl) si può dire morto per il fatto di essere stato privato
della ragione: egli viene quindi annoverato tra i morti per aver perduto la
ragione e tra i vivi per il persistere della sua natura (tab’).
Si tratta di esseri, questi, che fanno parte dei beati di cui Allâh è soddisfatto,
come Mas’ûd al-Habashî ed ‘Alî al-Kurdî e tanti altri
che abbiamo visto in questa condizione sia in Oriente che in Occidente: essi
fanno parte dei servi di Allâh ed Allâh ci sia di aiuto per mezzo di loro in
uno stato (hâI) simile. Se a colui che si
trova in questo stato viene restituita la ragione, mentre vive in questo mondo,
all’istante egli si mette ad osservare le regole tradizionali e se le accolla.
Ma per gli iniziati colui che conserva la ragione è
piu perfetto e piu elevato: fu chiesto al Maestro Abu-s-Su‘ûd ibnu-l-Shibli[19] che cosa pensasse di
quelli che, tra la gente di Allâh, manifestano una apparente follia ed egli, Allâh
sia soddisfatto di lui, rispose: «Essi sono belli (mulâh), ma colui che è dotato di ragione è piu bello (amlahu)!» volendo
cosi indicare che nei riguardi di colui che conserva la ragione la Provvidenza (‘Inayah) è stata piu completa.
Quanto precede è
il fondamento (asl)
a cui si
possono ricondurre tutte le affermazioni della gente di Allâh riguardo alla
volontà (irâdah), come generalmente viene
intesa da loro, e se i loro modi di esprimersi sono diversi ciò dipende dal
fatto che essi talvolta si riferiscono ad una realtà universale, talvolta ad
una realtà particolare, in conformità al loro gusto spirituale (dhawq) ed a ciò che prevale nel
loro stato spirituale (hal).
In effetti nel loro modo di esprimersi
su una cosa essi non vanno mai oltre a ciò che il gusto spirituale conferisce
loro, evitando ogni simulazione ed affettazione: essi non prendono mai per vera
una cosa che provenga solo dal loro pensiero (fikr) e quindi le loro parole non oltrepassano mai il loro
gusto spirituale e la loro realizzazione (wujûd). Essi sono uomini veridici, possessori di una scienza
realizzata in cui non si insinua alcun dubbio, mentre
colui che si limita a pensare non fa parte di loro, qualche volta coglie nel
segno, qualche volta sbaglia: l’uomo di pensiero non è uomo di stati o di gusti
spirituali![20]
Quanto a «coloro che considerano ciò
che è evidente come un simbolo di ciò che è nascosto» (ahlu-l-i’tibâr)[21], di essi fanno parte gli
uomini che hanno dei gusti spirituali e che arrivano a questa «considerazione» proprio per
il loro gusto e non con il pensiero; talvolta però questo modo di vedere le
cose nasce dal pensiero e chi è estraneo viene ingannato dalla forma. In
entrambi i casi costui afferma che si tratta di «gente della considerazione» (ahlu-l-i’tibâr), non sapendo che questo modo
di vedere le cose può dipendere o dal pensiero o dal gusto spirituale; la
differenza è che per la gente dei gusti si tratta di un punto di partenza (asl), mentre per gli uomini di
pensiero è un punto di arrivo. L’uomo di pensiero non fa parte neppure
di coloro che hanno la volontà, salvo nel caso in cui
gli sia permesso di pensare, trattandosi di arrivare a qualcosa che non sia
possibile ottenere altrimenti che con il pensiero.
Ma esiste veramente qualcosa di questo genere che
non si possa ottenere mediante lo svelamento (kashf) e la realizzazione (wujûd)? Secondo noi no e
pertanto proscriviamo il pensiero in toto, poiché esso conferisce a colui
che vi si dedica l’inganno (talbîs) e la mancanza di veridicità (sidq):
non c’è
dunque nulla che non sia possibile conoscere mediante lo svelamento e la
realizzazione e quindi dedicarsi al pensiero costituisce un velo.
Alcuni non accettano ciò che abbiamo detto ma
costoro non fanno parte della gente della Via di Allâh, poiché sono coloro che
si dedicano alla speculazione (nazhar)
ed al ragionamento deduttivo
(istidlâl) e che non hanno gusto negli stati spirituali;
se però essi gustano degli stati spirituali (ahwâl), come
Platone[22], il
divino (ilahî) tra i saggi,
allora troverai, come nel suo caso, che essi hanno le stesse uscite (makhraj) della gente dello svelamento e della
realizzazione. Per quanto riguarda Platone, l’avversione che alcuni hanno per
lui nell’Islâm è dovuta al fatto che
costoro lo collegano con la filosofia e nello stesso tempo ignorano ciò che
indica questa parola. I saggi (hukamâ’) invero sono coloro che
hanno la scienza di Allâh e delle cose e che conoscono il rango occupato da ogni cosa: «...ed Allâh è il Saggio ed il Sapiente» (Cor. XLIII-74), «...e chi riceve la saggezza invero riceve un bene immenso» (Cor. II-269)[23]. La
saggezza (hikmah) è la scienza che
caratterizza la Profezia (nubuwwah), come risulta dal caso di Davide, su di lui la
Pace, a cui Allâh aveva dato il regno
(mulk)
e la saggezza, conformemente
alle Sue parole: «...ed Allâh gli conferì
il regno e la saggezza e gli insegnò ciò che Egli voleva» (Cor. II-251).
Il significato letterale del termine «filosofo» è «amante della saggezza», poiché «sofia» nella lingua greca vuol dire
saggezza e, secondo alcuni, corrisponde all’amore (mahabbah): quindi la filosofia è l’amore della saggezza ed
ogni uomo dotato d’intendimento (‘âqil) ama la saggezza[24].
Il fatto è che gli uomini di
pensiero sbagliano nelle cose metafisiche (al-ilahiyyât) più spesso di quanto colgano nel giusto, sia che si tratti dei filosofi che dei Mu’taziliti o degli
Ash’ariti[25] o di una delle diverse categorie della gente della speculazione (ahlu-n-nazhar), ma non per questo è da biasimare la filosofia, nel senso proprio
del termine, bensì sono da biasimare i filosofi per gli errori che commettono
riguardo alla scienza divina.
Se essi cercassero la saggezza, dal momento che
la amano, direttamente presso Allâh e non per mezzo del pensiero, non
commetterebbero questi errori e sarebbero nel giusto in ogni cosa!
Come dicevamo, oltre ai filosofi, vi sono tra i musulmani altre
categorie di gente della speculazione, come i Mu’taziliti e gli Ash’ariti, per
i quali l’Islam ha la precedenza (sul loro pensiero), oltre ad avere l’autorità
su di loro; costoro però si mettono a difendere
l’Islâm in conformità a ciò che ne hanno compreso e, pur essendo giusto il loro punto di partenza, essi sbagliano in
alcune delle conseguenze che ne traggono. La ragione dei loro errori sta nel
fatto che secondo loro è miscredenza
(kufr)
prendere alla lettera certe
affermazioni del Legislatore riguardo ad Allâh, che alla luce delle
argomentazioni razionali appaiono assurde, e pertanto le interpretano basandosi
su ciò che fornisce loro il pensiero[26]: ma
essi non sanno che Allâh ha posto in alcuni dei Suoi servitori una facoltà (quwwah) che su alcune questioni (umûr) fornisce un giudizio (hukm) differente da quello fornito dalla facoltà
razionale, mentre su altre questioni si accorda nel giudizio con essa[27].
Si tratta del «maqâm» che è al di
là del limite (tawr) della ragione, la quale è incapace di
percepirlo e non crede in esso se non quando questa facoltà sovrarazionale si
associa ad essa nella stessa persona; allora essa riconosce la sua
insufficienza e capisce che ciò che le sembrava assurdo è vero[28]. In effetti le diverse facoltà, rivaleggiando tra di
loro per la supremazia, danno all’uomo conformemente alle loro realtà
essenziali (haqâ’iq), in base alle quali Allâh
ha dato loro l’esistenza; se alla facoltà dell’udito venisse sottoposto il giudizio fornito dalla vista essa lo
troverebbe assurdo e così sarebbe per la vista nei riguardi del giudizio
fornito da un’altra delle facoltà: la ragione appartiene all’insieme di queste
facoltà, ma se da un lato essa trae profitto da tutte le altre, dall’altro essa
non comunica nulla a loro [e pertanto non viene sottoposta alloro giudizio].
Colui che realizza perfettamente lo statuto (hukm) della volontà (irâdah), così come essa viene intesa presso la gente di Allâh,
conosce tutte queste stazioni (maqâmat) e queste categorie (marâtib) per svelamento, e riconosce la forma dell’errore (ghalat) concernente le cose, errore che riguarda le relazioni (nisab) e gli aspetti (wujûh). Invero tutti coloro che
commettono questo tipo di errori sbagliano nello stabilire le relazioni,
correlando le cose con un aspetto che non è il loro.
La gente di Allâh coglie quella relazione e la ricollega con ciò a cui è riferita (mansûb), mettendo così ogni cosa
al suo posto: questo è il senso profondo della parola
«saggezza».
I veri saggi sono dunque gli Inviati ed i Santi
che fanno parte della gente di Allâh ed essi sono coloro che hanno ricevuto il «bene immenso » (Cor. II-269). Che Allâh ci annoveri tra coloro che hanno la «volontà» e che riuniscono l’abitudine con l’abbandono
dell’abitudine, conformemente a ciò che la testimonianza diretta (shahâdah) fornisce loro. Ed Allâh dice il vero
e guida sul retto sentiero (Cor. XXXIII-4).
(traduzione dall’arabo di Placido Fontanesi)
Da: Rivista di Studi Tradizionali n° 64
Da: Rivista di Studi Tradizionali n° 64
[1] L’«irâdah»
corrisponde alla volontà intesa non come «facoltà», e quindi considerata
astratta da un suo effettivo esercizio, ma come «atto» e quindi determinata ad un particolare scopo od oggetto; oltre che come
«volontà», il termine «irâdah» può anche essere tradotto
correttamente come «desiderio (di)» o come «amore (per)», ma abbiamo dato la
preferenza al primo significato poiché meglio si addice all’«irâdah» considerata
come attributo di Allâh. Dalla stessa radice verbale «arâda» derivano
anche i termini «murîd», letteralmente «colui
che vuole», e «murâd», letteralmente «ciò che è voluto»,
spesso ricorrenti nel testo di cui presentiamo la traduzione.
[2] Nei versi
che, come di consueto, precedono il testo Muhyiddîn
definisce l’aspirazione iniziatica (irâdah) come un
tormento che brucia (law’ah muharriqah) e che ha sede nel cuore (qalb): la «volontà»
dell’iniziato viene quindi figurata come un «fuoco interiore» che cerca di
«bruciare» ciò che più immediatamente fa da ostacolo alla realizzazione del suo
«obiettivo» obiettivo che, come viene precisato nel seguito del testo, non è «percepito»
dall’aspirante. A questo riguardo è interessante notare la stretta somiglianza
tra questa interpretazione della «irâdah» e la
spiegazione data da René Guénon in merito al significato del termine sanscrito «tapas»:
«... il primo significato di tapas è in
effetti quello di “calore”; nel caso in questione, il calore è
evidentemente quello di un fuoco interiore che deve bruciare ciò che i
Kabbalisti chiamerebbero le “scorze”, o, in altre parole, distruggere tutto ciò
che nell’essere fa da ostacolo ad una realizzazione spirituale...» (Iniziazione e realizzazione
spirituale, cap.
XIX); in nota a questo passo René
Guénon sottolineava l’evidente rapporto tra questo fuoco interiore e lo «zolfo»
degli ermetisti, il quale, a livello microcosmico, «viene spesso identificato con la potenza
della volontà» (cfr. «La Grande Triade», cap. XII).
[3] Nella
celebre «Risâlah» di al-Qushayrî, nel capitolo dedicato all’aspirazione
iniziatica (irâdah), viene precisato
che: «... dal punto di vista etimologico il «murîd» (colui che
vuole) è colui che ha una volontà, così come il sapiente è colui che ha una
scienza, poiché si tratta di nomi derivati; ma dal punto di vista della
terminologia iniziatica il «murîd» è colui che
non ha più una sua volontà e chi non si è spogliato della sua volontà non può
essere chiamato “murîd” ...». Come avevamo precisato in una
precedente nota, l’«irâdah» non è qui intesa come facoltà, ma
come atto; il «murîd» pertanto non è colui che
rinuncia alla facoltà di volere, bensl colui che rinuncia a ciò che «lui» vuole
per volere ciò che vuole Allâh, come risulta chiaramente dal seguente «hadîth qudsî»: «O Mio servitore, tu vuoi ed Io voglio; se tu lasci a Me
ciò che tu vuoi ti darò ciò che voglio Io; se tu ti opponi a Me in ciò che
voglio, ti darò della pena in ciò che tu vuoi e non ci sarà altro che ciò che
voglio Io!».
[4] Nei «Mahâsin
al-majâlis» di ibn al-‘Arif,
nel capitolo dedicato all’«irâdah», si possono trovare ulteriori
particolari sull’occasione in cui Abû Yazîd profferì questa frase: «... Abû Yazîd, Allâh sia soddisfatto di lui, ha detto: “Sono
salito sul veicolo della veridicità (sidq) finché ho
raggiunto la sfera dell’aria; poi sono salito sul veicolo del desiderio ardente
(shawq)
finché
ho raggiunto il cielo; quindi sono salito sul
veicolo dell’amore (mahabbah) finché sono arrivato al Loto del
Limite, ove una voce mi chiamò: “O Abû Yazîd,
che cosa vuoi?” ed io risposi: “Voglio non volere, poiché io sono colui che è
voluto e Tu sei Colui che vuole!”».
[5] Per quanto concerne i
rapporti tra «esistenza» e «possibilità», secondo gli insegnamenti di Muhyiddîn ibn ‘Arabî, rimandiamo il lettore ad un estratto delle «Al-Futûhâtu-l-Makkiyyah»,
pubblicato nel n. 60 della Rivista di Studi Tradizionali, pag. 11, nota 5.
[6] Per Muhyiddîn ibn ‘Arabî l’aspirazione iniziatica implica quindi anche la
coscienza che solo Allâh può aprire le porte della conoscenza; a questo
riguardo nella Prefazione delle «Al-Futûhtât-l-Makkiyyah» viene
precisato: «...Invero quando colui che si prepara (muta’ahhib) è assiduo
nel ritiro spirituale (khalwah) e nel “dhikr”, fa piazza pulita
del pensiero e si siede povero, senza nulla possedere, presso la porta del suo
Signore, allora Allâh, l’Altissimo, gli concede quella scienza di Lui, quei segreti
divini e quelle conoscenze dominicali con le quali lodò il Suo servo Khidr, riguardo a cui disse: “...uno dei
nostri servitori a cui abbiamo concesso misericordia da parte nostra ed a cui
abbiamo insegnato una scienza da presso di Noi”. (Cor.
XVIII-65). L’Altissimo ha anche detto: “…abbiate
timore di Allâh ed Allâh vi istruirà!” (Cor. II-282)
e: “…se avrete timore di Allâh Egli vi darà una
discriminazione!" (Cor. VIII-29). Fu chiesto ad
al-Junayd: “Come hai fatto a realizzare?” ed egli rispose: “Stando seduto sotto
a quel gradino per trent’anni”; da parte sua Abû Yazîd
ha detto: “Voi prendete la vostra scienza come morto da morto, noi prendiamo la
nostra scienza dal Vivificante che non muore!”». Quanto precede è d’altronde
in perfetto accordo con ciò che scrisse in proposito René Guénon: «...Ogni
conoscenza che può veramente essere chiamata iniziatica risulta da una
comunicazione stabilita coscientemente con gli stati superiori; ed è a questa
comunicazione che fanno riferimento ...dei termini come “ispirazione” e “rivelazione”»
(Aperçus sur l’initiation, cap.
XXXII).
[7] «La maggior parte dei Maestri
afferma che la volontà è l’abbandono delle proprie abitudini: invero le
abitudini degli uomini implicano generalmente il fare tappa nei luoghi
dell’oblio (di Allâh), il fare affidamento in coloro che
seguono le loro passioni ed il dedicarsi a ciò verso cui spinge il
proprio
desiderio. Il “murîd” si è spogliato di tutto ciò e questo
suo distacco è un segno della fermezza della sua volontà...»
(«Risâlah» di al-Qushayri, cap. sulla «irâdah»).
[8] A questo riguardo si possono
citare due note massime dell’esoterismo islamico: «Il servitore resta il
servitore (al-‘abdu yabqa-l-‘abd)» e
«Il Sûfî non è creato (as-sûfî lam yukhlaq)». Rimandiamo il
lettore, per una
piu ampia esposizione dell’insegnamento di Muhyiddîn ibn ‘Arabî
su questo aspetto della dottrina, alla traduzione del «Trattato dell’Unità»
pubblicata nei nn. 7 e 8
della Rivista di Studi Tradizionali.
[9] La necessità che
l’aspirazione persista nella «creatura» o nel «servitore» è una diretta
conseguenza di ciò che viene affermato nelle due
massime citate nella nota precedente; ma da un punto di vista più contingente
vanno ricordate anche le seguenti precisazioni dello Shaykh at-Tadîlî sulla
opportunità per l’iniziato (faqîr) di mantenere sempre viva in lui l’aspirazione: «Sappiate ancora, miei
fratelli, che quando il “faqîr” nel fare il “dhikr” non è sorretto dalla volontà (irâdah), l’appellativo di Sûfî nel suo
caso è solo più una metafora ed il suo “dhikr” diventa pericoloso ... Tra
coloro che praticano il “dhikr” colui
che possiede la
volontà percorre in un mese più cammino nella Via di quanto possa
percorrerne in molti anni colui che l’ha perduta» (cfr. «La vita tradizionale è
la sincerità» dello Shaykh at-Tadîlî, parte II, pagg. 146 e 147 del n. 28 della
Rivista di Studi Tradizionali).
[10] Nel Corano
(XXXVI-82) viene detto, in riferimento ad Allâh:
«Invero il Suo ordine, quando vuole una
cosa, è di dirle: sii! ed essa è»; ma l’esistenza
contingente (kawn) della cosa è solo illusoriamente distinta
dall’esistenza (wujûd) di Allâh, come viene precisato nel cap. 371 delle «Al-Futûhâtu-l-Makkiyyah»: «Sappi che
Allâh è qualificato dall’esistenza e nessuna cosa, appartenente alle possibilità,
è qualifìcata oltre a Lui dall’esistenza; anzi, affermo che Allâh è l’esistenza
stessa ...».
[11] Nel «Kitâb al-istilâh as-sûfiyyah»
di ibn
‘Arabî si trovano le seguenti precisazioni terminologiche: «L’idea (hâjis) corrisponde al primo pensiero
che si presenta alla coscienza (al-khâtir al-awwal), cioè al pensiero di origine
dominicale (rabbanî),
che non
sbaglia mai...; se essa si conferma nell’anima (nafs) si chiama volontà (irâdah), se ricorre una terza volta si
chiama aspirazione (himmah) e se ricorre una quarta volta si chiama ferma risoluzione (‘azm). Quanto all’intraprendere un’azione,
se si tratta di un pensiero inerente ad una azione
generica esso viene chiamato proposito (qasd), mentre se riguarda un comportamento legale
tradizionale viene chiamato intenzione (niyyah)».
[12] Analogamente lo Shaykh
Abdu-l-Qâdir al-Guilânî in «Al-ghunya» afferma: «La volontà è l’abbandono di ciò che è diventato un’abitudine; il vero significato di questo termine è però il risveglio (nuhûd) del cuore alla ricerca del
Vero, Gloria a Lui, e l’abbandono di ciò che è diverso da Lui...» (vol. II, pag. 137).
[13] Cfr. «Al-Futûhâtu-l-Makkiyyah»,
cap. 55, la cui traduzione è stata
pubblicata nel n. 58-59
della Rivista di
Studi Tradizionali.
[14] Riguardo a questo «ordine» o
«comando», che spesso ricorre nei testi di Muhyiddîn ibn ‘Arabî
allorquando si parla di realizzazione, è interessante ricordare la seguente
annotazione di René Guénon, fatta in margine ad un punto del suo articolo su
«Kundalini-Yoga» in cui spiegava che 1’«âjnâ chakra» è così chiamato
perché in esso viene ricevuto dall’alto (cioè dal dominio sopraindividuale) il
comando (âjnâ) del Guru interiore: «... Tale comando corrisponde al “mandato
celeste” della tradizione estremo-orientale; in arabo la denominazione “âjnâ
chakra” si potrebbe rendere perfettamente con “maqâm el-amr”, per
indicare che ivi si trova il riflesso diretto, nell’essere umano, del mondo
chiamato “‘âlam el-amr”...; da
quanto precede si potrebbero dedurre considerazioni precise sulla modalità
delle manifestazioni “angeliche” in rapporto all’uomo ...» (cfr. Rivista di
Studi Tradizionali, n. 20-21, pago
129).
[15] In uno dei suoi innumerevoli
trattati brevi, «Al-amr al-muhkam...», Muhyiddîn
ibn ‘Arabî precisa che l’uomo perfettamente realizzato «si comporta, nei
confronti degli altri, sempre in conformità alle norme correnti, senza
permettersi di fare nulla che anche solo in apparenza sia biasimevole,
contrario alle leggi tradizionali e fuori dal comune ...».
[16] «Allâh, l’Altissimo ha detto:
“...e vedrai gli uomini ubriachi, mentre essi non
sono’ubriachi" (Cor. XXII-2);
questo si riferisce ad una gente (qawm) di Allâh
la cui ragione (‘aql), per lo stato in cui si trovano, non partecipa più
ai loro atti... Nessuno di loro sapeva che Allâh, l’Altissimo, fa delle visite
improvvise (fajât) a chi si ritira in segreto con Lui, obbedisce al Suo
comando e prepara il suo cuore a ricevere la Sua luce; ed Allâh li ha visitati
improvvisamente, senza che essi se ne accorgessero o lo sapessero, non essendo
predisposti per una realtà (amr) cosi straordinaria, ed ha portato via così
la loro ragione. Ma Egli ha fatto sì che essi non cessassero di contemplare quella realtà che li ha colti di
sorpresa, e quindi sono perdutamente innamorati in essa e vi scompaiono: nel
mondo delle apparenze essi restano solo con il loro spirito animale,
mangiando, bevendo e disponendo liberamente nelle loro necessità, con
l’arbitrio dell’animale che riconosce istintivamente ciò che è vantaggioso per
lui e ciò che non lo è, senza riflettervi ... Costoro sono chiamati i folli
dotati di ragione (‘uqalâ’ al-majânîn), perché il motivo della loro
follia non è una alterazione di temperamento dovuta ad
una causa di ordine cosmico, come un cibo o la fame, bensl una manifestazione (tajallî)
divina nei loro cuori, una visita improvvisa di Allâh che li
ha colti di
sorpresa ed ha fatto perdere loro la ragione. Quest’ultima invero resta
segregata presso di Lui, beneficiando della Sua contemplazione ritirata nella
Sua Presenza: essi quindi sono dotati di ragione, ma essendone privi in
apparenza sono conosciuti esteriormente come dei folli, cioè come coloro che sono sottratti alla direzione della loro ragione
...» («Al-Futûhâtu-l-Makkiyyah», cap. 44). Per ciò che
concerne la «follia apparente» rimandiamo il lettore al cap.
XVII di «Iniziazione e realizzazione spirituale» di René Guénon.
[17] Secondo un «hadîth» riportato
da Abu Sa’îd al-Khudrî, l’Inviato di Allâh, su di lui il
Saluto e la
Pace, ha detto: «Quando la salma è stata posta sul feretro e gli uomini lo
portano sulle spalle, il morto, se è stato giusto dice
“Fatemi avanzare! Fatemi avanzare!”, mentre se non è stato
giusto dire “Ahimé, dove mi portano?”; tutti sentono la sua voce, salvo l’uomo,
poiché, se la sentisse, cadrebbe svenuto!» (cfr. «Sahîh al-Bukhârî», XXIII-9I).
[18] Cfr. «Sahîh
al-Bukhârî», XXIII-68.
[19] Celebre Sûfî persiano, spesso
citato nelle opere di ibn ‘Arabi; originario di
Baghdâd, fu discepolo di Abdel Qadîr al-Guilânî e come il
suo Maestro fu
uno degli «Afrâd» (cfr. «Al-Futûhâtu-lMakkiyyah», cap. XXX): morì
nell’anno 540 dopo l’Egira (1145 d.C).
[20] Questa affermazione della «rinuncia
al mentale» da parte della gente di Allâh può sembrare in contraddizione con
quella precedente secondo cui il fatto di «non perdere la ragione» rappresenta
per l’iniziato un grado di maggior perfezione rispetto a colui che la perde; ma
rinunciare al mentale come strumento di conoscenza non significa rinunciarvi
anche come strumento di espressione o di traduzione per ciò che è possibile,
delle conoscenze acquisite in modo diretto o per «gusto», come direbbe Muhyiddîn
ibn ‘Arabî (cfr. «Metafisica e dialettica», cap. II di «Iniziazione e realizzazione spirituale» di René Guénon.
D’altra parte i due termini Arabî «fikr» (pensiero) ed
«‘aql» (ragione) non sono per nulla sinonimi: mentre il
primo indica la
facoltà pensante (al-quwwah al-mufakkirah) caratteristica dell’essere
umano, il secondo indica la facoltà intellettiva (al-quwwah al-’aqliyyah),
la quale, come vedremo in seguito, può essere «informata» non solo dal
pensiero, ma anche da realtà di ordine sopraindividuale.
[21] Non esiste in italiano un
termine che da solo renda perfettamente il significato della parola araba «i’tibar»,
comunemente tradotta come «considerazione»; siamo quindi ricorsi ad una perifrasi tenendo conto di quanto è detto nel
capitolo 279 delle «Al-Futûhâtu-I-Makkiyyah», dedicato all’«i’tibar»,
ove, parlando di ciò che viene «considerato» in questo modo (al-mu’tabirât),
Muhyiddîn ibn ‘Arabî precisa: «...sia che si tratti delle forme di ciò che
si è compreso con la ragione (al-ma’ qûlât), sia che si tratti delle
forme di ciò in cui si crede fermamente (al-mu’taqidât), questi supporti
di manifestazione (mazhâhir) sono dei ponti da attraversare con la
scienza, sapendo cioè che dietro a quelle forme c’è una realtà che non è
possibile né vedere, né conoscere ...».
[22] Ricordiamo a
questo riguardo che uno degli appellativi di Muhyiddîn ibn ‘Arabî
era «ibn Aflatun», cioè «il figlio di
Platone».
[23] Al-Qaysarî, nel suo commento
ai «Fusûs
al-hikam» di
Muhyiddîn ibn ‘Arabî, definisce la saggezza come «la
conoscenza della realtà delle cose, cosi come esse sono in se stesse, e l’agire
in conformità a questa conoscenza», sottolineando cosi la connessione della
saggezza con il manifestato; d’altra parte, nel seguito del testo che stiamo traducendo,
è detto che la saggezza è la scienza che caratterizza i Profeti, cioè coloro
che «ridiscendono» verso la manifestazione dopo aver realizzato il
non-manifestato.
[24] Sul senso originario ed
etimologico del termine «filosofia» rimandiamo il
lettore all’articolo di René Guénon intitolato «Conosci te stesso», la cui
traduzione è apparsa nel n. 23 della Rivista di Studi Tradizionali.
[25] Questi due ultimi termini
designano i seguaci delle due più importanti scuole di teologia (kalâm) islamica; cfr. Henri Corbin «Histoire de la philosophie islamique» I parte, cap. III, Parigi 1964.
[26] «Coloro che sono dotati di intendimento sano e che conoscono
la Maestà divina sono sconcertati, mentre coloro che si dedicano
all’interpretazione (ta‘wîl) non lo sono affatto e sbagliano, per il
fatto stesso di
mettersi ad interpretare. Anche quando fossero d’accordo con la Scienza essi fanno qualcosa che è stato loro proibito e di cui
dovranno rispondere nel Giorno della Resurrezione, insieme a coloro che
dissertano sull’Essenza di Allâh, l’Altissimo, e che sostengono la Sua
trascendenza nei confronti di ciò che Egli stesso si è attribuito. Costoro sono
coloro che danno la preminenza alla loro ragione piuttosto
che alla loro fede, e che sottopongono la Scienza del loro Signore al giudizio
della loro speculazione, il che è stato loro proibito, conformemente al Suo
detto: “Il figlio di Adamo Mi smentisce, ma ciò non deve farlo!”...» («Al-Futûhâtu-l-Makkiyyah», cap. 198).
[27] «Le verità metafisiche non
possono essere concepite che da una facoltà che non è più dell’ordine
individuale, e che per il carattere immediato della sua operazione può essere
chiamata intuitiva... la facoltà di cui parliamo è l’intuizione intellettuale...» (René Guénon «Introduzione generale allo studio delle
dottrine indti»,
parte II, cap.
V).
[28] Riportiamo qui di seguito
alcuni brani delle «Al-Futûhâtu-l-Makkiyyah» riguardanti i rapporti tra la ragione e le realtà di
ordine sovra-razionale: «... quanto al “maqâm” che è al di là del limite
della ragione, esso è tale perché non è comprensibile dalla ragione per mezzo
del pensiero, ma ciò non esclude che essa possa apprenderne la conoscenza da Allâh
...» (cap. 58)
«... per ciò che
concerne le scienze della Profezia e della Santità, esse sono al di là del
limite della ragione, che non ha alcun accesso ad esse mediante il
pensiero; ma ciò
non toglie che la ragione possa accettarle ...» (cap. 47) «…non è possibile
che la ragione comprenda Allâh. Essa invero accetta solo ciò che conosce per intuizione o ciò che le fornisce il pensiero:
ora, la comprensione che ha di Allâh il pensiero è errata e quindi
anche la comprensione che ha di Lui la ragione per mezzo del pensiero è errata.
Ma poiché la ragione è intelligenza, il suo statuto è che comprenda ed afferri ciò che le si presenta, e talvolta Allàh le fa
dono della Sua conoscenza ed essa la comprende, in quanto è intelligenza e non
per mezzo del pensiero (fikr). In effetti
questa conoscenza che Allâh dona a chi Lui vuole dei Suoi servitori, la ragione
da sola non è in grado di coglierla, è pero in grado di riceverla...» (cap. 3). È interessante a questo
riguardo ricordare anche quanto scriveva in proposito
René Guénon: «... la ragione non può funzionare validamente, nell’ordine di
realtà che costituisce il suo dominio, che con la garanzia di principi che la
illuminano e la dirigono e che essa riceve dall’intelletto superiore ...» («Simboli della Scienza sacra», cap. LXX).
Nessun commento:
Posta un commento