Guénon René
Considerazioni sull'Iniziazione
XXIV - La preghiera e l’incantazione
Abbiamo appena visto che vi sono casi in cui la distinzione fra le due sfere exoterica ed esoterica non appare in maniera molto netta a causa del modo particolare in cui sono costituite certe forme tradizionali, modo che mantiene una sorta di continuità fra l’una e l’altra; ci sono invece altri casi nel quali tale distinzione è perfettamente netta, e così è in particolare quando l’exoterismo rivesta la forma specificamente religiosa.
Per dare di questi ultimi casi un esempio preciso e ben definito, considereremo la differenza che esiste tra la preghiera – nella sfera exoterica – e, nella sfera esoterica, quella che chiameremo l’«incantazione», servendoci di questo termine in mancanza di uno più chiaro nelle lingue occidentali e riservandoci di definirlo esattamente più avanti. Per quanto concerne la preghiera, dobbiamo prima di tutto far rilevare che, quantunque nel linguaggio corrente si intenda quasi sempre questa parola in un senso molto vago e talvolta ci si spinga fino a farne un sinonimo del termine «orazione» in tutta la sua generalità, noi pensiamo che convenga conservarla o restituirle il significato molto più specifico e limitato che le deriva dalla sua etimologia, giacché la parola «preghiera» significa propriamente ed esclusivamente «domanda», e solo abusivamente può essere impiegata per designare qualcos’altro; nel corso delle considerazioni che seguono noi la intenderemo dunque in questo solo senso.
Per dare di questi ultimi casi un esempio preciso e ben definito, considereremo la differenza che esiste tra la preghiera – nella sfera exoterica – e, nella sfera esoterica, quella che chiameremo l’«incantazione», servendoci di questo termine in mancanza di uno più chiaro nelle lingue occidentali e riservandoci di definirlo esattamente più avanti. Per quanto concerne la preghiera, dobbiamo prima di tutto far rilevare che, quantunque nel linguaggio corrente si intenda quasi sempre questa parola in un senso molto vago e talvolta ci si spinga fino a farne un sinonimo del termine «orazione» in tutta la sua generalità, noi pensiamo che convenga conservarla o restituirle il significato molto più specifico e limitato che le deriva dalla sua etimologia, giacché la parola «preghiera» significa propriamente ed esclusivamente «domanda», e solo abusivamente può essere impiegata per designare qualcos’altro; nel corso delle considerazioni che seguono noi la intenderemo dunque in questo solo senso.
Prima di tutto, per mostrare in qual modo si possa comprendere la preghiera, consideriamo una qualsiasi collettività, sia essa religiosa o sia semplicemente «sociale» nel senso più esteriore o addirittura totalmente profano in cui la parola è intesa abitualmente nella nostra epoca[1]: ogni membro di questa collettività è legato a essa in una certa misura, determinata dall’estensione della sfera d’azione della collettività in questione, e nella stessa misura deve logicamente partecipare – come contropartita – a certi vantaggi, soltanto materiali in alcuni casi (come quello delle nazioni attuali, per esempio, o come quello dei diversi generi di associazioni fondate su una pura e semplice solidarietà di interessi, ed è evidente che tali casi sono propriamente quelli in cui ci si trova in presenza di organizzazioni del tutto profane), ma che possono altresì, in altri casi, riferirsi a modalità extracorporee dell’individuo, vale a dire a quella che nel suo insieme può essere chiamata la sfera psichica (consolazioni o altri favori d’ordine sentimentale e qualche volta anche di un ordine più elevato), o anche – quantunque materiali – essere ottenibili con mezzi in apparenza immateriali, diciamo, con più precisione, con l’intervento di elementi che pur non appartenendo alla sfera corporea tuttavia agiscono direttamente su di essa (l’ottenimento di una guarigione per mezzo della preghiera è un esempio particolarmente chiaro di quest’ultimo caso). Tutto ciò che precede si riferisce solamente alle modalità dell’individuo, giacché tali vantaggi non possono mai uscire dalla sfera individuale, la sola che di fatto toccano le collettività – di qualunque carattere siano – che non costituiscano organizzazioni iniziatiche (queste ultime essendo le sole che abbiano esplicitamente come scopo di andare al di là di tale dominio) e che si preoccupano delle contingenze e delle applicazioni che presentino un interesse d’ordine pratico, da un qualsiasi punto di vista, e non soltanto – naturalmente – nel senso più grossolanamente «utilitaristico», al quale si confinano esclusivamente le organizzazioni puramente profane, il cui campo d’azione non può estendersi più in là della sfera corporea.
Si può perciò dire che ogni collettività disponga, oltre i mezzi d’azione esclusivamente materiali nel senso comune della parola – vale a dire situati unicamente nella sfera corporea – di una forza di carattere sottile costituita in qualche modo dagli apporti di tutti i suoi membri passati e presenti, la quale è di conseguenza tanto più considerevole e tale da produrre effetti più intensi, quanto più la collettività sia antica e composta da un maggior numero di membri[2]; del resto, è evidente che tale considerazione «quantitativa» sta essenzialmente a indicare che ciò di cui si tratta è la sfera individuale, al di là della quale essa non potrebbe più assolutamente essere pertinente. Ciascuno dei membri potrà, occorrendo, utilizzare a proprio profitto una parte di questa forza e, a tale scopo, gli basterà mettere la sua individualità in armonia con l’insieme della collettività di cui fa parte, risultato che otterrà conformandosi alle regole stabilite da quest’ultima e appropriate per le diverse circostanze che possono presentarsi; se l’individuo formula a questo punto una domanda, tutto sommato, coscientemente o no, la formulerà – per lo meno nel modo più immediato – a quello che si potrebbe chiamare lo spirito della collettività (sebbene la parola «spirito» sia certamente impropria in un caso del genere, poiché in fondo si tratta soltanto di un’entità psichica). Conviene tuttavia aggiungere che le cose non si riducono soltanto a questo in tutti i casi: nel caso delle collettività che appartengono a una forma tradizionale autentica e regolare, caso che è quello delle collettività religiose, e in cui l’osservanza delle regole di cui abbiamo parlato consiste nel compimento di determinati riti, si ha inoltre l’intervento di quella che propriamente abbiamo chiamato un’influenza spirituale, la quale deve però essere qui concepita in quanto «discendente» nella sfera individuale ed esercitantevi la sua azione per il tramite della forza collettiva in cui prende il suo punto di appoggio[3].
Qualche volta, la forza di cui parliamo, o più esattamente la sintesi dell’influenza spirituale con la forza collettiva a cui per così dire si «incorpora», può concentrarsi su di un «supporto» di carattere corporeo, come un luogo o un oggetto determinato che adempie al ruolo di vero e proprio «condensatore»[4] ‑ e produrvi delle manifestazioni sensibili, come quelle riferite nella Bibbia a proposito dell’Arca dell’Alleanza e del Tempio di Salomone; in proposito. potremmo inoltre citare, a titolo di esempio – e a gradi variabili – i luoghi di pellegrinaggio, le tombe e le reliquie dei santi o di altri personaggi venerati dagli aderenti di questa o quella forma tradizionale. Risiede in ciò la causa principale dei «miracoli» che si producono nelle diverse religioni, fatti la cui esistenza è incontestabile e non si limita a una determinata religione; è implicito poi, che nonostante l’idea che se ne ha comunemente, questi fatti non devono venire considerati contrari alle leggi naturali, così come – da un altro punto di vista – il «sovra-razionale» non deve essere confuso con l’«irrazionale». In realtà, qui è opportuno ripeterlo, le influenze spirituali hanno anch’esse le loro leggi, e tali leggi, anche se di ordine diverso da quello delle forze naturali (sia psichiche che corporee), non possono non presentare certe analogie con queste ultime; ed è inoltre possibile determinare circostanze particolarmente favorevoli alla loro azione, circostanze che potranno provocare e dirigere – se possiedono le conoscenze necessarie a questo fine – coloro che ne sono i dispensatori in ragione delle funzioni di cui sono investiti in un’organizzazione tradizionale.
È opportuno notare che i «miracoli» sono, in se stessi e indipendentemente dalla loro causa, che è la sola ad avere un carattere trascendente, fenomeni puramente fisici, e come tali percepibili da uno o più dei cinque sensi esterni; d’altronde tali fenomeni sono i soli che possono essere constatati generalmente e indistintamente da tutta la massa del popolo o dei «credenti» ordinari, la cui comprensione effettiva non si estende oltre i limiti della modalità corporea dell’individualità.
I vantaggi che possono ottenersi con la preghiera e con la pratica dei riti di una collettività sociale o religiosa (riti comuni a tutti i suoi membri senza eccezione – perciò di ordine puramente exoterico ed evidentemente privi di qualsiasi carattere iniziatico – e in quanto non assunti, sotto un altro profilo, come capaci di fornire la base di una «realizzazione» spirituale) sono essenzialmente relativi e contingenti, ma per l’individuo non sono affatto trascurabili, poiché è egli stesso, in quanto tale, relativo e contingente; egli avrebbe quindi torto se se ne privasse volontariamente quando sia ricollegato a qualche organizzazione in grado di procurarglieli. Di conseguenza. dal momento che non è possibile non tener conto della natura dell’essere umano quale di fatto è, nell’ordine di realtà al quale esso appartiene, non è assolutamente biasimevole, anche per chi sia qualcosa di diverso da un semplice «credente» (operando in questa occasione, tra «credenza» e «conoscenza» una distinzione che in fondo corrisponde a quella esistente fra l’exoterismo e l’esoterismo), conformarsi. per uno scopo interessato in quanto individuale, e al di fuori di ogni considerazione propriamente dottrinale, alle prescrizioni esteriori di una religione o di una legislazione tradizionale, a patto che non attribuisca a quel che attende da esse se non la sua giusta importanza e il posto che legittimamente le compete, e purché inoltre la collettività non imponga a ciò condizioni che – quand’anche comunemente ammissibili – costituirebbero una vera impossibilità di fatto in questo caso particolare; con queste sole riserve, la preghiera, sia essa rivolta all’entità collettiva o, per il suo tramite, all’influenza spirituale che agisce attraverso di essa, è perfettamente lecita, anche secondo l’ortodossia più rigorosa nel campo della dottrina pura[5].
Queste considerazioni faranno capire meglio, con il confronto che permettono di operare, quanto diremo ora a proposito dell’«incantazione»; ed è essenziale rilevare che ciò che chiamiamo in questo modo non ha assolutamente niente in comune con le pratiche magiche alle quali si dà talvolta lo stesso nome[6]; del resto ci siamo già sufficientemente spiegati a riguardo della magia perché sia impossibile che nasca qualche confusione e sia necessario insistere ancora sull’argomento. L’incantazione di cui parliamo, contrariamente alla preghiera, non è per nulla una domanda, e anzi non presuppone neppure l’esistenza di qualcosa d’esteriore (ciò che invece presuppone qualsiasi domanda), in quanto l’esteriorità non si può concepire se non in rapporto all’individuo, che qui si tratta appunto di superare; l’incantazione è un’aspirazione dell’essere verso l’Universale, con lo scopo di ottenere quella che potremmo chiamare, in un linguaggio dall’apparenza un po’ «teologica», una grazia spirituale, vale a dire una illuminazione interiore, che naturalmente potrà essere più o meno completa secondo i casi. L’azione dell’influenza spirituale deve essere qui intesa allo stato puro, se così ci si può esprimere; invece di cercare di farla discendere su di lui, come nel caso della preghiera, l’essere tende al contrario a elevarsi a essa. L’incantazione, la quale resta in tal modo definita come un’operazione in linea di principio del tutto interiore, può tuttavia, in un grande numero di casi, trovare un’espressione e un «supporto» esteriore in parole o gesti che costituiscono determinati riti iniziatici, come il mantra nella tradizione indù o il dhikr in quella islamica, e devono essere considerati capaci di determinare delle vibrazioni ritmiche che hanno una ripercussione attraverso un campo più o meno esteso nella serie indefinita degli stati dell’essere. Per quanto il risultato effettivamente ottenuto possa essere più o meno completo, come già abbiamo detto, lo scopo finale da raggiungere è sempre la realizzazione in sé dell’«Uomo Universale», mediante la comunione perfetta della totalità degli stati, armonicamente e conformemente gerarchizzata, in sviluppo integrale nei due sensi dell’«ampiezza» e dell’«esaltazione», vale a dire tanto nell’espansione orizzontale delle modalità di ciascun stato quanto nella sovrapposizione verticale dei diversi stati, secondo la raffigurazione geometrica da noi esposta particolareggiatamente in un altro studio[7].
Questo ci porta a fare un’altra distinzione che tiene conto dei differenti gradi a cui si può pervenire a seconda dell’estensione del risultato ottenuto tendendo verso tale scopo; e per incominciare, in basso e al di fuori della gerarchia in tal modo definita, c’è da mettere la folla dei «profani», vale a dire, nel senso in cui la parola deve essere intesa in questo contesto, di tutti coloro che, come i semplici credenti delle religioni, possono ottenere risultati attuali soltanto in relazione con la loro individualità corporea ed entro i limiti di questa porzione o modalità speciale dell’individualità, poiché la loro coscienza effettiva non va né più lontano né più in alto del campo racchiuso in tali confini ristretti. Tuttavia fra questi credenti, ce ne sono alcuni, per quanto in numero limitato, che acquisiscono qualcosa di più (ed è il caso di quei mistici, che in certo qual senso si potrebbero considerare più «intellettuali» degli altri): senza uscire dalla loro individualità, ma in «prolungamenti» di quest’ultima, essi percepiscono indirettamente certe realtà di ordine superiore, non come esse sono in se stesse, ma tradotte simbolicamente e rivestite da forme psichiche o mentali. Si tratta ancora di fenomeni (vale a dire – in senso etimologico – di apparenze sempre relative e illusorie in quanto formali), ma di fenomeni sovrasensibili, che non sono constatabili da tutti e possono comportare per coloro che li percepiscono qualche certezza, sempre incompleta, frammentaria e dispersa, ma tuttavia superiore alla credenza pura e semplice alla quale si sostituisce; tale risultato si ottiene d’altronde passivamente, cioè senza l’intervento della volontà, e con i mezzi ordinari indicati dalle religioni, in particolare con la preghiera e con il compimento delle opere prescritte, giacché anche queste cose non escono ancora dalla sfera dell’exoterismo.
A un grado molto più elevato, e in qualche modo già profondamente separato dal precedente, si situano coloro che, avendo esteso la loro coscienza fino ai limiti estremi dell’individualità integrale, giungono a percepire direttamente gli stati superiori del loro essere senza però parteciparvi effettivamente; siamo qui nella sfera dell’iniziazione, ma tale iniziazione, reale ed effettiva per quanto riguarda l’estensione dell’individualità nelle sue modalità extra-corporee, è ancora soltanto teorica e virtuale nei confronti degli stati superiori, poiché non ha come risultato attuale il possesso di questi ultimi. Essa produce certezze incomparabilmente più complete, più sviluppate e più coerenti di quelle relative al caso precedente, giacché non appartiene più alla sfera fenomenica; tuttavia, colui che le acquisisce può essere paragonato a un uomo che conosca la luce soltanto attraverso i raggi che arrivano fino a lui (nel caso precedente, la conosceva soltanto attraverso riflessi od ombre proiettate nel campo della sua ristretta coscienza individuale, come i prigionieri della simbolica caverna di Platone), mentre per conoscere perfettamente la luce nella sua intima ed essenziale realtà, bisogna risalire fino alla sua sorgente, e identificarsi con la sorgente stessa[8]. L’ultimo caso è quello che corrisponde alla pienezza dell’iniziazione reale ed effettiva, vale a dire alla presa di possesso cosciente e volontaria della totalità degli stati dell’essere, secondo i due sensi da noi prima indicati; questo è il risultato completo e finale dell’incantazione, ben diverso, come si può vedere, da tutti quelli che i mistici possono ottenere con la preghiera, poiché non è altro che la perfezione della conoscenza metafisica pienamente realizzata; lo Yogi della tradizione indù, o il Sûfî della tradizione islamica, quando si intendano tali termini nel loro rigoroso e vero significato, è colui che è giunto a questo grado supremo e ha in tal modo realizzato nel suo essere la totale possibilità dell’«Uomo Universale».
[1] Ovviamente il constatare l’esistenza di fatto di organizzazioni sociali puramente profane, vale a dire prive di qualsiasi elemento che presenti un carattere tradizionale, non comporta minimamente il riconoscimento della loro legittimità.
[2] Quanto diciamo può essere vero anche per organizzazioni profane, ma è evidente che queste ultime possono in ogni caso utilizzare tale forza soltanto inconsciamente e per risultati di carattere esclusivamente corporeo.
[3] Si può osservare che nella dottrina cristiana il ruolo dell’influenza spirituale corrisponde all’azione della «grazia», e quello della forza collettiva alla «comunione dei santi».
[4] In un caso del genere si è in presenza di una costituzione paragonabile a quella di un essere vivente completo, con un «corpo» che è il «supporto» del quale parliamo, un’«anima» che è la forza collettiva, e uno «spirito» che è naturalmente l’influenza spirituale che agisce tramite gli altri due elementi.
[5] Dev’essere chiaro che «preghiera» non è assolutamente sinonimo di «adorazione»; è possibilissimo che si richiedano benefici a qualcuno senza con ciò «divinizzarlo» in alcun modo.
[6] La parola «incantazione» ha subito nell’uso corrente un processo di degenerazione simile a quello della parola francese «charme», la quale è anch’essa comunemente usata nella stessa accezione, mentre il latino carmen da cui essa deriva denominava in origine la poesia intesa nel suo senso propriamente «sacro»; non è forse privo d’interesse notare che la parola carmen presenta una stretta somiglianza con il sanscrito karma, inteso nel senso di «azione rituale» come già ci è occorso di dire.
[7] Si veda Il Simbolismo della Croce.
[8] Questo è quanto la tradizione islamica denomina haqqul-yaqîn, mentre il grado precedente, che corrisponde alla «vista» senza identificazione, è chiamato aynul-yaqîn, e il primo – quello che i semplici credenti possono ottenere per mezzo dell’insegnamento exoterico ‑ è ilmul-yaqîn.
Nessun commento:
Posta un commento