"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

giovedì 22 febbraio 2018

Gian Giuseppe Filippi, Il Serpente e la Corda - II Parte - 14. Commento al “Tattvamasi” di Śaṃkarācārya (I)

Gian Giuseppe Filippi
Il Serpente e la Corda

I Parte

La prima parte de Il Serpente e la Corda si trova nel blog QUI.
II Parte
Commento al Tattvamasi di Śaṃkarācārya

II Parte

14. Commento al “Tattvamasi” di Śaṃkarācārya (I)

Dedichiamo questa seconda parte alla traduzione e commento del capitolo XVIII dell’Upadeśa Sāhasrī, intitolato “Tattvamasi”. L’Upadeśa Sāhasrī è l’unico testo, assieme ai commenti ai Prasthāna Traya, incontestabilmente attribuito a Śaṃkara Bhagavadpāda.
Abbiamo selezionato questo capitolo tra gli altri, per la straordinaria importanza dottrinale del suo contenuto e per il fatto che molti degli argomenti fin qui trattati vi trovano conferma, in modo particolare per quanto attiene alla spiegazione dell’apparente relazione tra Sé e “io”. Gli altri capitoli, pur essendo sempre di un livello elevatissimo, riguardano principalmente i dubbi che possono cogliere il discepolo, principalmente durante la pratica del manana. Le loro domande e le risposte ricevute dal guru, tuttavia, sono di argomento quasi esclusivamente metodico. Perciò abbiamo ritenuto che potessero essere d’utilità solamente per i sādhaka già avanzati nel processo del viveka vicāra, rappresentando per tutti gli altri lettori soltanto un’occasione di curiosità. Inoltre, abbiamo considerato che i sādhaka regolarmente collegati al Vedānta in grado di leggere l’italiano del nostro scritto, essendo in quantità così esigua da non superare il numero delle dita di una mano, hanno l’opportunità, qualora s’imbattessero in dubbi, di rivolgersi direttamente al loro istruttore spirituale per trarre le soluzioni adeguate. In secondo luogo, abbiamo valutato sufficienti gli accenni puramente metodici accennati nei capitoli precedenti, non volendo violare la consegna per la quale i trattati scritti (siddhānta) evitano di soffermarsi su argomenti metodici (sādhana pradhāna)[1].
Tattvamasi”, ossia “Tu sei Quello”, è un testo che contiene un argomento compiuto, e che perciò tradizionalmente è spesso estrapolato dal contesto dell’Upadeśa Sāhasrī e usato come un trattatello autonomo. Abbiamo conservato tutte le obiezioni (pūrvapakṣa) degli occasionali oppositori all’Advaita Vedānta, siano essi buddhisti, sāṃkhya o rappresentanti di correnti vedāntiche devianti, non per indulgere a inutili comparazioni erudite proprie della cosiddetta “storia delle religioni”, ma perché quelle posizioni possono coincidere con eventuali difficoltà da parte del lettore. In questo modo le obiezioni degli oppositori e le puntuali risposte di Śaṃkara rappresentano una applicazione metodica dell’adhyāropāpavāda al fine di risolvere le difficoltà logiche e intuitive che possono insorgere nel corso della lettura. Non si stupisca il lettore se si imbatterà in nozioni che sono già state affrontate nella prima parte di questo libro. Non si tratta mai di ripetizioni, ma di descrizioni dell’unica realtà partendo da angolature differenti. D’altronde l’unico argomento del Vedānta vicāra è di una semplicità sconvolgente, dedicandosi esclusivamente alla conoscenza dell’unico Brahmātman non duale. Tanto sconvolgente da essere compreso quasi da nessuno, pur essendo la sua evidenza davanti gli occhi di tutti.
*
L’Advaita Vedānta riconosce sei mezzi di valida conoscenza per esaminare il mondo, detti pramāṇa, che sono per natura a disposizione della ragione umana e che si possono usare a qualsiasi livello individuale per svolgere indagini conoscitive. Essi sono: śabda (lett. la parola), ossia gli autorevoli testi vedici; pratyakṣa, la percezione degli oggetti esterni tramite i sensi (jñānendriya); anumāna, la deduzione logica o inferenza; upamāna, l’analogia basata sulla comparazione; arthāpatti, la supposizione, l’ipotesi; anupalabdhi, la constatazione dell’assenza d’un oggetto[2]. Tuttavia, a differenza di come si comportano gli altri darśana nell’applicazione dei loro pramāṇa, il Vedānta stabilisce tra essi una gerarchia di autorevolezza. Śabda è ritenuto il pramāṇa incontrovertibile e di massima autorità: con śabda s’intende, infatti, l’insegnamento vedāntico che si riscontra nelle Upaniṣad[3], spesso definito in questo contesto semplicemente come śāstra, l’insegnamento. E per una buona ragione è così denominato, poiché questo insegnamento deve obbligatoriamente essere udito dalla bocca di un maestro adepto[4], riconosciuto come upādhyāya o, più popolarmente, come guru, dato che le Upaniṣad trasmettono la loro efficacia soltanto se tramandate oralmente[5] da persona qualificata. Afferma la Kaṭha Upaniṣad:
“Questa conoscenza, o mio caro, non può essere acquisita né confutata per mezzo della speculazione, ma può condurre alla certezza solamente se è insegnata da un maestro che non sia un teorico.”[6]
E ancora:
“Insegnato da una persona di conoscenza inferiore, questo Ātman non può essere ben conosciuto anche qualora si ragionasse su di lui con differenti teorie. Non può esserci, invece, nessuna falla nella conoscenza, quando è insegnata da un maestro che è diventato uno con questo Ātman, perché [quest’Ātman] è più sottile di tutte le cose più sottili ed è al di là della ragione.”[7]
Come si potrà leggere nel testo dell’Upadeśa Sāhasrī, lo strumento valido di conoscenza (pramāṇa) e autorevolmente provato come valido (prāmāṇika), lo śabda, altro non è che l’ascolto (śrāvaṇa) della parte gnostica (jñāna kāṇḍa) della śruti[8], cioè la conoscenza vedica illustrata da un maestro illuminato. La garanzia di tale indiscutibile autorevolezza consiste nel fatto che questo insegnamento è trasmesso attraverso un’ininterrotta catena di maestri che, da tempo immemorabile fino al più recente guru vivente, hanno sperimentato realmente quanto insegnano. Da ciò si trae che la conoscenza metafisica (pāramārtika vidyā) è sperimentabile ed è il fine più elevato a cui si possa ambire durante la vita, fine che induce il discepolo a essere un aspirante alla Liberazione (mumukṣu).
Tuttavia, come sarà spiegato più avanti, la conoscenza che viene trasmessa non riguarda precisamente la natura dell’Assoluto, che è del tutto incomunicabile, quanto, piuttosto, il metodo per rimuovere l’ignoranza.
Dopo di ciò, ora inizia la cerca del Brahman sulla base dell’Upadeśa Sāhasrī scritta dall’Ādi Śaṃkarācārya Bhagavatpāda:
1. Mi prosterno all’eterna Intuizione, il Sé delle apparenze individuali, quel Sé da cui esse emergono e in cui si dissolvono.2. Mi prosterno al grandissimo Maestro[9], l’Indra[10] degli illuminati, dotato di illimitata conoscenza, che per primo ha sondato l’intimo significato del Veda e lo ha difeso, sconfiggendo centinaia di suoi nemici per mezzo della spada dello śāstra rafforzata da argomentazioni folgoranti.3. Se non fosse possibile raggiungere la certezza che “Io sono veramente l’esistenza e sono sempre libero” perché mai la śruti ce la dovrebbe insegnare con tanta premura materna?4. Nell’esempio della corda e del serpente, allorché il serpente è rimosso dalla corda, così dal Sé eternamente esistente è rimossa ogni cosa che è non-sé, ossia ciò che appare come ego [l’aggregato individuale], [rimozione che avviene] sulla base dell’evidente insegnamento “tu sei Quello” e per mezzo della riflessione.
Premettiamo che nel linguaggio vedāntico con śruti s’intendono le dieci principali Upaniṣad[11] e null’altro. La śruti, dunque, testimonia in linea di principio l’esistenza del Brahman-Ātman, ma fondamentalmente insegna la discriminazione (viveka) dall’Ātman di tutto ciò che non è Ātman (anātman), per mezzo dell’uso metodico del “né questo né questo” (neti neti). Una volta discriminato ciò che è anātman, rimane solamente la pura realtà dell’Ātman non duale: ossia, eliminata l’ignoranza, ciò che persiste è soltanto conoscenza. Solamente per errore di conoscenza (bhrama, mithyā), indotto dall’ignoranza (avidyā), l’Ātman appare come fosse un “io” individuale, come una entità separata dal suo principio. Infatti Śaṃkara altrove afferma:
“[...] la śruti, in realtà, non si propone d’insegnare il Brahman come un certo oggetto; al contrario, insegnache il Brahman non è un oggetto poiché è il Sé interiore; ed Esso rimuove tutte le distinzioni prodotte da avidyā,come, per esempio, il conoscitore, la conoscenza e il conosciuto.”[12]
La testimonianza testuale dell’esistenza di Brahmātman ha la semplice funzione di richiamarla alla mente, perché in realtà ciascun essere umano gode di essa come intuizione iniziale (sarvaloka prasiddhānubhava, lett. intuizione condivisa da tutti). Il fatto che il nostro vero “Io”, che è il Sé, intuisca che “Io esisto” e che “Io sono cosciente” è un’esperienza comune a tutti[13]. Ed è questa l’unica certezza che tutti hanno. Non si può essere altrettanto certi che “tu esisti”, che “il mondo e i suoi oggetti esistono”, che “piacere e sofferenza esistono”, che “questo è vero o è falso” perché queste intuizioni sono mediate dai sensi, dalla mente e dall’intelletto; e anche perché nessuno può sperimentare le esperienze altrui[14]. Al contrario, sapere che “esisto e che sono cosciente” è una esperienza diretta di ognuno. Inoltre, da ciò si trae la prova che esistenza e coscienza sono una sola e unica cosa. Quanto poi alla natura di quello che il Vedānta intende precisamente con “io”, su ciò ritorneremo tra breve seguendo il filo dell’argomentazione vedāntica (vicāra) dell’Upadeśa Sāhasrī. Per il momento basterà sottolineare che quando parliamo di “vero Io”, di “Io reale”, di “vera natura dell’Io”[15] intendiamo l’Ātman come appare nel preciso attimo della presa di coscienza interiore della propria esistenza. Tuttavia questa intuizione liminare[16], sperimentata in un attimo privo di durata (akṣaṇa)[17], è travolta all’istante (kṣaṇa) dal divenire dei momenti temporali[18], che coinvolgono l’“io” nel movimento e che lo inducono a prestare attenzione esclusivamente al mondo esterno[19].
Comunque sia, non si può in alcun modo negare l’evidenza di questa intuizione, perché:
“[...] non è possibile asserire che non esista o che non possa essere conosciuto. Perché nel passaggio“Ora, questo è l’‘Io’, descritto come né questo né questo”, il Puruṣa è chiamato con la parola Ātman,ed è impossibile negare il proprio Sé, perché anche chi lo nega è il Sé.”[20]
Per questa ragione il Vedānta pone l’intuizione di esistere dell’autentico “Io” cosciente al di fuori della portata dei pramāṇa, perché senza un “Io” cosciente, un Testimone, un pramātṛ (o pramātā), che li utilizzi come strumenti di conoscenza, essi sarebbero inutili.
“La śruti non è il solo mezzo di conoscenza [pramāṇa] per la ricerca sulla natura di Brahman, come inveceaccade [per la ricerca] sulla natura del Dharma [delle azioni rituali]. Ma nel primo caso la śruti, assiemeall’Intuizione e agli altri strumenti, è il mezzo più valido possibile, perché la conoscenza del Brahman deveculminare nell’Intuizione che raggiunge l’Essere realmente esistente. Per quel che riguarda i doverirituali, non c’è alcun bisogno di nessuna intuizione:  [in questo caso] la śruti anche da solapuò essere considerata un mezzo valido...”[21]
Perciò, seppure la śruti affermi l’esistenza del Brahman-Ātman non duale, le Upaniṣad non insegnano la corrispondente conoscenza, poiché l’Assoluto non può essere oggetto di alcun atto di conoscenza, né di alcuna altra azione, essendo Esso è al di là di qualsiasi azione, movimento, mutamento o divenire che dir si voglia, ossia al di là di tutto ciò che è indicato dal termine vyavahāra[22]. È pur vero che spesso anche nella śruti si descrive l’azione (karma) e il dominio del saṃsāra in cui essa si sviluppa; tuttavia le Upaniṣad sottolineano sempre con cura che la portata di quei brani si limita al divenire del mondo manifestato.
5. [Le Upaniṣad non soltanto affermano l’esistenza del Brahman in quanto Sé], ma anche descrivono la scienza ritualistica (dharmajñāna) finalizzata alle vite future che sono il risultato del karma. [Con la conoscenza del Sé o brahmajñāna] quell’ignoranza saṃsārica [che è il dharmajñāna] svanisce come l’effetto del veleno quando si pronuncia il mantra [di Garuḍa][23].
Per quale ragione, allora, le Upaniṣad si attardano spesso a descrivere la manifestazione sottoposta all’azione e gli atti rituali impartiti da organizzazioni iniziatiche di portata minore che conducono a mondi (loka) superiori, ma pur sempre limitati? Le ragioni sono due: a proposito della prima Śaṃkara afferma:
“L’esistenza di oggetti [esterni], come le scritture, il guru e il discepolo, è dovuta all’esperienza empirica (vyāvahārika) che è illusoria. La conoscenza empirica che si attribuisce alle scritture, al maestro e al discepolo è irrealeed è immaginata soltanto come mezzo per avviarsi verso l’ultima Realtà. Di conseguenza la śruti ecc.,che esistono solo in virtù di esperienze illusorie, non hanno una esistenza reale. D’altronde è stato stabilmenteaffermato che ogni dualità scompare non appena la Realtà ultima è conosciuta. Perciò quegli oggetti ritenutirealmente esistenti da quelle altre organizzazioni iniziatiche, sono nondimeno inesistenti se si procedea considerarli dal punto di vista della Realtà ultima.”[24]
Perciò la prima ragione per la quale la śruti tratta del divenire e delle azioni rituali di vario genere consiste nel fatto che questa scienza del dharma (dharmajñāna) può essere considerata utile per avviare verso la cerca dell’ultima Realtà coloro che non possono ambire a un approccio diretto.
“Le Upaniṣad contengono due insiemi d’insegnamenti che riguardano il Brahman, cioè la Realtà,indirizzati a due differenti livelli mentali. Al più elevato livello di aspiranti appartiene sia il discepoloche in questa vita ha raggiunto la purificazione mentale necessaria per affrontare questo tipo di cerca,sia colui che è dotato di una mente rivolta all’interiorità come risultato di una disciplina eseguitanelle sue ultime esistenze [...]. Secondo Śaṃkara, la seconda categoria d’insegnamenti upaniṣadici consiste nelle ingiunzioni alla meditazione di ciò che si definisce Aparabrahman, il Brahman non-Supremo. [...]Come la meditazione insegnata nelle religioni non hindū, anche la meditazione upaniṣadica di Brahman[non-Supremo] assicura il raggiungimento postumo del Cielo supremo, qui chiamato Brahmaloka.”[25]
La seconda ragione per la quale le Upaniṣad descrivono diffusamente il divenire e, su quella base, impartiscono l’ingiunzione di azioni rituali, quasi fossero testi del karma kāṇḍa vedico, invece, va cercata nell’espressa volontà di mettere questi argomenti in contrasto con la cerca della conoscenza del Brahman (Brahmajñāna). Lo scopo, in questo caso, consiste nell’evidenziare la superiorità assoluta della conoscenza sull’azione, spronando così l’iniziato (sādhaka) ad abbandonare la prospettiva vyāvahārika e ad ambire alla realizzazione metafisica:
“La śruti, quando descrive lo sviluppo del mondo, non ha in realtà lo scopo di insegnare lo sviluppo in quanto tale,perché si sa che questa conoscenza non porta a nessun risultato. Lo scopo è piuttosto quello di insegnareche Ātman è della natura di Brahman, perché si sa che questa conoscenza produce buon risultato.”[26]
Tra l’insegnamento della conoscenza del Brahman-Ātman e l’insegnamento dell’azione rituale si pone una netta distinzione poiché si tratta di due concezioni tra loro incompatibili. La prima si basa sull’Intuizione primigenia che tutti hanno (sarvaloka prasiddhānubhava), ossia sulla certezza di esistere e di essere l’Io cosciente. L’altra invece è frutto di una constatazione successiva, in cui l’“io” è proiettato verso l’esterno diventando un individuo (aham, jīva o jīvātman[27]) coinvolto nel divenire e che, erroneamente, si definisce l’“io” agente (kartṛ o kartā) semplicemente perché così appare.
6. Tra le due idee “Io sono il Brahman” e “io sono un agente”, entrambe testimoniate dal Sé, è ragionevole rinunciare a quella che ha la sua radice nell’ignoranza.
Quando l’“io” (aham) guarda all’esterno, allora esso pensa di esistere in quanto individuo vivente (jīva) e crea il pensiero o l’idea (vāsanā) chiamata asmitā, egoismo. Quest’ultimo è composto da due sensazioni: la prima è la convinzione della propria esistenza come fossimo un ego separato dal Sé, ossia il senso dell’ego (ahambhāva). E, in seconda battuta, questo aham, agendo verso il mondo esterno, crea il senso del “mio” (mama). Infatti l’azione nel mondo esterno è motivata dal desiderio (kāma) di estendere l’ego agli oggetti che compongono quel mondo per farli rientrare nella sfera di dominio dell’“io” individuale, ossia il senso della proprietà (mamatā). L’egoismo desidera tutti gli oggetti che trova piacevoli e utili all’“io”, e pretende di conquistarli e di assimilarli tramite il “mio”. Per attuare questo desiderio d’assimilazione, l’ego utilizza le facoltà di sensazione e azione (indriya), coordinate dalla mente (manas) e guidate dall’intelletto (buddhi), tutte modificazioni dell’“io” rivolte verso il mondo esterno.
7. Quella nozione [dell’io] che sorge da evidenze che sono tali solamente in apparenza, come le percezioni sensoriali ecc., sarà rimossa in quanto erronea da quell’altra nozione che trae la sua evidenza reale dalla śruti.8. Quando la śruti afferma: “Tu agisci così”, o: “Tu sei l’agente”, essa riporta l’opinione della gente ordinaria. Invece la conoscenza che “Io sono l’Esistenza” scaturisce davvero dalla śruti stessa. Quest’ultima affermazione confuta l’altra.
Le percezioni sensoriali (pratyakṣa) rielaborate dai pensieri della mente (anumāna) sembrerebbero fornire prove di valida conoscenza (pramāṇa) all’esistenza reale dell’aham come individuo esistente in modo indipendente da qualsiasi principio. La śruti stessa, in molti casi, sembrerebbe sostenere questa convinzione in forza del fatto che essa è il pramāṇa più autorevole in quanto śabda.
Ma sarà compito del discepolo qualificato distinguere tra i due diversi messaggi che la śruti offre ai suoi ascoltatori. Infatti quando le Upaniṣad affermano che l’“io” individuale è colui che agisce, che esso è l’agente che mette in opera azioni rituali e non rituali, esse riportano soltanto l’opinione degli ignoranti. Con ignoranti s’intende coloro che sono ingannati dalle apparenze e che vivono prigionieri del divenire e dell’azione. A loro è consacrato il karma kāṇḍa vedico[28]. Come s’è detto in precedenza, le Upaniṣad illustrano talora queste concezioni ordinarie allo scopo di confrontarle con il loro vero contenuto che riguarda la conoscenza del Brahmātman. Questa conoscenza confuta quella più esteriore e rimuove l’ignoranza insita in essa.
La conoscenza del Brahmātman è la vera fonte d’autorità della śruti in quanto pramāṇa infallibile o śabda, e non le citazioni che riportano l’opinione degli ignoranti. E la vera sintesi di tutto l’insegnamento metafisico upaniṣadico riguardante l’identità tra Ātman e Brahman è contenuta nel mahāvākya[29] “tu sei Quello”[30].
9. Oppositore: Quando si dice: “tu sei Quello”, non avviene la Liberazione assoluta. Si dovrà perciò ricorrere alla sua ripetizione [usandolo come un mantra] con l’aiuto della meditazione.10. Quand’anche ci si renda conto del significato del mahāvākya pronunciato una volta sola, non se ne può cogliere il vero senso, poiché ciò richiede, come s’è detto, altre due cose:11. come è necessaria un’ingiunzione che impone di compiere i riti vedici, così anche in questo caso sarà necessaria un’altra ingiunzione, almeno finché la persona non abbia conosciuto direttamente il Sé e finché non si sia fermamente stabilita in lei la conoscenza del Sé.12. Tutti i propri sforzi d’autocontrollo e altri ancora, sarebbero resi inutili se si potesse conoscere il Brahman senza averne ricevuto l’ingiunzione da parte di un maestro. Si dovrà, perciò, proseguire con la ripetizione per tutto il tempo che sia necessario per conoscere il Sé.13. Le chiare impressioni prodotte dai sensi confutano con certezza quella Conoscenza di “io sono il Brahman” che si trae dalla śruti. Inoltre un cercatore è attratto dagli oggetti esterni a causa delle impurità [interiori], quali l’attaccamento ecc.14. La conoscenza proveniente dai sensi e che ha per oggetto le caratteristiche dettagliate degli oggetti esterni, sicuramente contraddice ciò che è riportato dalla śruti e dalla deduzione, in quanto è connesso solamente a caratteristiche generali.15. Non s’è mai visto nessuno liberarsi dalla sofferenza della trasmigrazione solamente per aver capito il senso di una frase. Se, comunque, eccezionalmente c’è stato un uomo [Vāmadeva][31] che ha ottenuto la Liberazione solo con l’ascolto della śruti,[32] si deve dedurre che egli avrà dovuto praticare la ripetizione [del mantra] in vite precedenti.16. Inoltre, nel caso che non s’ammettesse la necessità dell’ingiunzione, la nostra posizione dovrebbe essere considerata contraria al Veda. E questo sarebbe deprecabile[33].17. Proprio come nella śruti i mezzi per raggiungere uno scopo sono imposti solo dopo aver stabilito quale risultato debba essere raggiunto, così anche qui si deve stabilire qual è il risultato di “tu sei Quello” e quali mezzi usare a tale fine; essi non sono nient’altro se non la ripetizione, che deve essere considerata la sola cosa capace di rivelare qualcosa d’eternamente esistente.18. Perciò, praticando l’autocontrollo ecc. e rinunciando a ogni cosa incompatibile con questo fine e con i mezzi per raggiungerlo, si dovrà praticare la summenzionata ripetizione allo scopo di poter conoscere direttamente il Sé.
Questi śloka 9-18 espongono un’obiezione sollevata da un oppositore della dottrina advitīya. Abbiamo ritenuto importante commentare questa obiezione, non perché interessante di per sé, ma perché la risposta fornita da Śaṃkara aggiunge alcune osservazioni che possono essere di grande utilità. L’oppositore di cui si tratta, sostiene una teoria vedāntica opposta all’Advaita, chiamata prasaṃkhyānavāda (interpretazione meditativa) secondo la quale il metodo del Vedānta dovrebbe consistere nella meditazione (upāsanā); ossia in quell’azione che avviene per uno sforzo di concentrazione della mente individuale (mānasa abhyāsa) rivolto a un simbolo che rappresenta il Brahman. Ovviamente, come è evidente dalle premesse, questo non può essere il Brahman assoluto in quanto tale, Parabrahman, che non può mai essere considerato oggetto di qualsivoglia azione né rappresentabile da alcun simbolo, ma bensì ciò che si definisce come Brahman non-Supremo, Aparabrahman, nei testi vedāntici definito anche Brahman qualificato, Brahmasaguṇa, oppure, ancora, Brahman-effettuato o attuato, Kāryabrahman. Questo non-Supremo altro non è se non una rappresentazione che la mente dell’individuo umano si crea per immaginare il Brahman assoluto[34]. Perciò la meta a cui si ambisce per mezzo di un metodo meditativo non può oltrepassare i limiti del mentale.
Questa teoria prasaṃkhyānavāda, la cui origine va fatta risalire al maestro preśaṃkariano Bhartṛprapañca della scuola del Bhedābheda Vedānta, godette di vasto consenso anche ai tempi di Śaṃkara; tant’è che anche Maṇḍana Miśra, pur essendo diventato discepolo dell’Advaita, la sostenne in contrasto con il suo grande maestro Ādi Śaṃkarācārya. Nel corso della storia, questa teoria è riaffiorata ripetutamente e, riformulata da Vācaspati Miśra, ancor oggi influenza alcune frange deviate dell’Advaita Vedānta, il neo-Vedānta vivekānandiano e quello dei guru del neo-Induismo e della new age. Questa teoria dimostra la più totale incomprensione del metodo conoscitivo śaṃkariano e, copiando dallo Yoga, dal tantrismo e dalle altre numerose correnti appartenenti al dominio della conoscenza del non-Supremo (aparavidyā), adotta il metodo meditativo basato sulla ripetizione del mantra (jāpa). In questo modo il mahāvākya, nella fattispecie, “tu sei Quello” (tattvamasi), invece di essere considerato la summa della conoscenza upaniṣadica che si deve comprendere, è ridotto dai prasaṃkhyānavādin a un semplice mantra da ripetere per imposizione del guru, senza esercitare alcuna indagine sul suo vero significato.

[1] “Tuttavia, Śrī Śaṃkara, in questa poesia, non ha menzionato il termine sādhana catuṣṭaya, in quanto i suoi versi non vogliono essere d’argomento metodico (sādhana pradhāna). Essi sono stati scritti dal punto di vista del siddhānta pradhāna, cioè d’un approccio principalmente dottrinale al Vedānta.” Svāmī Satcidānandendra Sarasvatī, Le cinque gemme dell’Advaita, tr. di Maitreyī, 0. Introduzione, p. 6, pubblicato in questo medesimo Sito di rete.
[2] Questo strumento di prova, generalmente sconosciuto ai logici occidentali, si basa sulla constatazione, operata per mezzo dei sensi, dell’assenza di un oggetto e si esprime negativamente come, per esempio: “In questa stanza non c’è alcun serpente”.
[3] È patetica l’insistenza con cui i filologi occidentali, che si denominino indifferentemente sanscritisti o indologi, insistono a proporre la loro interpretazione del termine Upaniṣad improntato alla vita ordinaria, composto, secondo loro, da sad [sedere] e dai prefissi upa e ni [vicino], ossia “sedersi ai piedi del al maestro”, benché né “piedi” né  “maestro” compaiano nel termine in esame, essendo solo ipotizzati dalla fantasia degli stessi filologi. Essi volutamente ignorano la spiegazione fornita da Śaṃkarācārya e unanimemente accettata da tutti i paṇḍita tradizionali: “La conoscenza del Brahman è chiamata Upaniṣad, in quanto rimuove totalmente questo mondo contingente e la sua causa da colui che si dedica alla Sua cerca, perché la radice sad [rimuovere], preceduta da upa e da ni [insegnamento] significa esattamente ciò [: insegnamento che rimuove]” (BU, Upoddhātaḥa). Ma ben si sa che gli eruditi profani sono scioccamente convinti di saperne di più di chi il sanscrito lo parla e lo studia sin dalla più tenera infanzia, avendolo appreso “ai piedi” di insegnanti qualificati per davvero, invece che da studiosi o manualetti accademici.
[4] Con adepto s’intende “perfetto” (lat. adeptus, realizzato), e non, come impropriamente nell’uso volgare, per indicare un seguace di checchessia.
[5] D’altra parte la versione per iscritto delle Upaniṣad o Vedānta risale soltanto al 1657, quando il principe ereditario mughal Dara Shikoh, di tendenze sincretistiche, diede ordine di tradurle in persiano, provocando grande scandalo nell’ambiente brāhmaṇico.
[6] KU I. 2. 9.
[7] KU I. 2. 8.
[8] Śruti e śrāvaṇa, infatti, derivano entrambi dalla radice śru, ascoltare.
[9] Si tratta di Gauḍapādācārya, il paramguru di Śaṃkara Bhagavadpāda e autore delle Kārikā della Māṇḍūkya Upaniṣad.
[10] Come Indra è il Re degli dèi, così Gauḍapāda è Re degli illuminati.
[11] Esse sono: Bṛhadāraṇyka, Chāndogya, Māṇḍūkya, Kaṭha, Muṇḍaka, Praśna, Aitareya, Kena, Taittirīya e Īśā Upaniṣad.
[12] Brahma Sūtra Śaṃkara Bhāṣya, I. 1. 4.
[13] Sebbene ben pochi si soffermino a riflettere su questa esperienza.
[14] Esempio classico per questa affermazone è che nessun uomo, per quanta immaginazione possa impiegare, è incapace di capire i dolori del parto provati dalle madri.
[15] Dobbiamo anche ricorrere alla maiuscola iniziale per sottolineare la differenza l’“Io” inteso come il proprio Sé e l’“io” individuale.
[16] Liminare significa che è al di fuori dello spazio sia del mondo della veglia sia di quello del sogno, ossia che non è sottoposto alle condizioni d’esistenza di questi due stati di coscienza parziale. La “situazione” liminare è quella tipica del Sākṣin. Si deve dunque considerare liminare il sonno profondo, alla luce di ciò che si dirà alla fine di questa traduzione.
[17] Usiamo volutamente “attimo” per la sua origine etimologica comune ad Ātman.
[18] Momento significa, in realtà, ‘movimento’ e istante vuol dire ‘incalzante’. Ciò sottolinea che solo l’attimo è davvero atemporale, mentre quelli che sono comunemente considerati suoi sinonimi, momento e istante, altro non sono che minime misure di tempo.
[19] In tal caso si tratterà dell’apparenza del Sé o del suo riflesso, definito “io apparente o individuale”, o semplicemente come “io”, aham, o ego.
[20] BSŚBh ibid.
[21] BSŚBh I. 1. 2.
[22] Il significato primario di vyavahāra è per l’appunto cambiamento, divenire, modo d’agire.
[23] Garuḍa è la mitica cavalcatura del dio Viṣṇu. Si tratta di un’aquila divina, venerata come distruttrice dei cobra (nāga). Basta pronunciare il suo nome come mantra per annullare l’effetto intossicante del veleno.
[24] Māṇḍūkya Upaniṣad Gauḍapāda Kārikā Śaṃkara Bhāṣya (MāUGKŚBh), IV. 73.
[25] Svāmī Satcidānandendra Sarasvatī, Dottrina e Metodo, cit., pp. 37-38.
[26] BSŚBh II. 1. 27.
[27] La buddhi impartisce un nome a ogni oggetto che si trovi sotto il dominio della sua indagine conoscitiva. L’Ātman non fa parte di questo dominio; tuttavia l’intelletto s’illude di poterlo oggettivare e lo immagina come “io”. Ma siccome a ogni nome deve corrispondere un oggetto, il concetto di “io” è del tutto irreale. Quindi se con jīvātman s’intende l’ego, allora il jīvātman è irreale. Ma se con jīvātman s’intende il proprio vero “Io”, cioè il Sé, allora si deve considerare jīvātman identico al Ātman. La combinazione di questi due pensieri formulati dall’intelletto fa apparire jīvātman come fosse satasat, reale e non reale a un tempo.
[28] “Sezione rituale”, che comprende gli inni vedici, Saṃhitā, i testi rituali, Brāhmaṇa, i testi di rituale interiorizzato, Āraṇyaka. Il più esteriore tra tutti questi testi, quello che più s’avvicina al dominio dell’essoterismo com’è inteso in Occidente, è proprio la Ṛgveda Saṃhitā (così cara all’indologia accademica che considera quella raccolta di inni come la vetta intellettuale del Veda) tant’è che è simboleggiata da un asino. Al contrario le Upaniṣad sono definite jñāna kāṇḍa, “sezione conoscitiva”.
[29] “Il Grande Detto”, uno degli aforismi che sintetizzano l’intera dottrina vedāntica. Essi sono popolarmente considerati in numero di quattro, sebbene, in realtà, ogni Upaniṣad maggiore ne contenga almeno uno.
[30] Tat tvam asi, (ChU VI. 8. 7).
[31] AiU II. 5.
[32] BU I. 4. 10.
[33] Deprecabile è definito l’atteggiamento di chi non accetta gli insegnamenti della śruti, che è il pramāṇa più autorevole.
[34] Il Brahman non Supremo è una proiezione mentale di portata universale che corrisponde esattamente all’idea microcosmica dell’ego. Perciò, per analogia con l’aham, se l’idea del non Supremo, o di Hiraṇyagarbha, è considerata come una oggettivazione del Brahman al fine di poterlo conoscere, essa è affatto irreale; al contrario se Hiraṇyagarbha è considerato identico al Brahman, e come tale impossibile da oggettivare, allora esso è davvero il Supremo, l’Ātman.

Per gentile concessione del Comitato Redazionale Tridaṇḍa del sito Veda Vyāsa Maṇḍala e dell'Autore
Il testo si trova al link:

Nessun commento:

Posta un commento