Chiara
Casseler
Il
digiuno rituale nell’Islâm: un pilastro della fede
«O
voi che credete! Vi è prescritto il digiuno, come fu prescritto a coloro che
furono prima di voi – che voi possiate essere timorati [di Dio]!». (Cor. 2:183)
Il
digiuno è uno dei cosiddetti cinque pilastri (arkân) dell’Islâm,
ossia è un atto rituale fondante della fede, per cui è obbligatorio per ogni
credente musulmano.
Il termine arabo che designa questo precetto religioso è alternativamente sawm oppure siyâm, non senza qualche differenza. La radice comune dalla quale derivano entrambi i nomi (SWM) ha il significato di “astenersi da qualche cosa”, ma mentre siyâm si riferisce soltanto al digiuno legale, sawm è il digiuno, l’astinenza in quanto tale. Il noto detto del Profeta in cui sono elencati i cinque pilastri dell’Islâm fa riferimento esclusivamente al digiuno del mese di Ramadân, ma di fatto la pratica viene consigliata e considerata molto meritevole in diverse altre occasioni, in giorni o periodi particolari dell’anno, ferma restando la completa libertà di decisione del fedele, dal momento che il digiuno in questi altri casi non è obbligatorio. Il Profeta stesso invitava ed esortava i musulmani a compiere i digiuni supererogatori (ossia facoltativi), come ci viene trasmesso da una serie di tradizioni sull’argomento. Il digiuno, però, è bene ricordarlo, non nasce come pratica assolutamente nuova ed esclusiva dell’Islâm, perché già in epoca preislamica non erano sconosciuti i ritiri spirituali in luoghi remoti ed inaccessibili, lontani da accampamenti e centri abitati. Ed un’abitudine collegata da sempre con questi periodi di purificazione era proprio l’astensione dal cibo, dalle bevande e dai contatti sessuali, allo stesso modo in cui avverrà in seguito nella Tradizione islamica.
Nell’Islâm tutte le azioni compiute dal fedele vengono classificate considerando l’intera vita dell’uomo secondo una prospettiva che non ammette alcuna dicotomia reale tra sacro e profano, poiché ogni manifestazione e attività umana rientrano nella giurisdizione della Legge, fondata sul Corano, la Parola di Dio: il digiuno non fa eccezione, e pertanto viene regolamentato in tutti i suoi aspetti con precisione ed esattezza. Le condizioni necessarie per poter compiere un digiuno, di qualsiasi tipo, sono stabilite con inequivocabile chiarezza: l’appartenenza all’Islâm (ovviamente), l’età adulta, la capacità ragionativa che rende consapevoli dell’atto e la possibilità fisica di sopportare il digiuno, ossia la buona salute e, per la donna, anche l’assenza di perdite mestruali o puerperali (lochi). Non sono perciò tenuti al digiuno i bambini, gli impuberi, i malati di mente, i malati cronici e gli anziani. Accanto alla sanità del corpo ed alla lucidità della mente, è tuttavia indispensabile, in vista del compimento di un atto rituale (come è il digiuno), anche la salute interiore, vale a dire la purezza del cuore nel fedele. Quest’ultima condizione è, anzi, a ben vedere, quella veramente imprescindibile per la legittimità di ogni ufficio tradizionale, poiché il Profeta disse: “Nel corpo del figlio di Adamo [cioè, l’uomo] vi è un pezzo di carne; se esso è sano, tutto il corpo è sano, se invece è corrotto, tutto il corpo si corrompe. Questo è certamente il cuore”. La limpidezza della fede si esprime nella pia intenzione (niyya) che il musulmano formula di compiere il rito. Se essa viene a mancare, lo stesso atto religioso viene a mancare di validità, conformemente al detto che Profeta secondo cui le azioni valgono a seconda delle intenzioni. Il digiuno è un rito che si prolunga eccezionalmente nel tempo, per il fedele che vi è obbligato, poiché implica l’astensione dal cibo, dalle bevande e dai contatti sessuali per l’intera durata del periodo che va dal sorgere del sole fino al suo tramonto, e ciò per un numero determinato di giorni (nel caso del digiuno del mese di Ramadân, mediamente per 30 giorni). Se si rompe il digiuno senza giustificazione o lecito pretesto bisogna ricominciare tutto di nuovo, senza calcolare i giorni già trascorsi. Se invece non si riesce a rispettare la prescrizione religiosa a causa di un impedimento o per un altro motivo invalidante, si ha l’obbligo di recuperare il giorno o i giorni di digiuno interrotti (qadâ’), il prima possibile, restando comunque valida la parte di digiuno già rispettata. Sono pertanto ben definiti gli atti che invalidano il digiuno (chiamati in arabo muftirât oppure mufsidât); essi sono correlati ai due ambiti di astensione coinvolti nel digiuno, ossia l’ingestione di cibo ed il contatto sessuale. Da un lato, quindi, rompe lo stato di digiuno l’introduzione nel corpo, sia di proposito sia involontariamente, di qualsiasi cosa o sostanza, sia liquida o solida, di qualsiasi dimensione. Sono inclusi, oltre a tutti i cibi e ad ogni bevanda, anche tutti i tipi di medicine, le iniezioni, il fumo di tabacco, il catarro inghiottito deliberatamente dopo che era già giunto alla bocca, il vomito sia volontario che non, e infine l’acqua troppo abbondante inalata durante la piccola abluzione purificatrice (wudû’). Dall’altro lato, invalida lo svolgimento del precetto rituale l’eiaculazione avvenuta per qualunque motivo: il pensiero, uno sguardo prolungato, il bacio, un abbraccio o altro.
La gravità delle azioni è ben più rilevante, anche dal punto di vista delle Legge tradizionale, se le medesime azioni avvengono con coscienza, di proposito, secondo la propria volontà e senza alcuna giustificazione, con perfetta conoscenza del precetto di legge che viene infranto. Poiché, come abbiamo visto, è l’intenzione intima che determina il valore e la conseguenza di un atto effettuato, ed è per questo che il Profeta ha detto: “Iddio non sta a guardare i vostri corpi o le vostre sembianze; sta invece a guardare i vostri cuori”. Accanto alla classificazione minuziosa degli atti che rompono il digiuno ve ne è un’altra, che comprende una serie di atti e stati simili ai precedenti, ma i quali non vanificano il rito del digiuno proprio a motivo dell’assenza di intenzionalità nel loro verificarsi, ad esempio inghiottire involontariamente qualcosa che non si può rigettare, (come un insetto, peli, polvere), inalare durante l’abluzione troppa acqua, perdere sangue, avere emissione spermatica senza alcuna intenzione (come a causa di un sogno voluttuoso), e persino il mangiare o il bere qualora ci si scordasse che si sta digiunando. L’Imâm Al-Nawawî, infatti, tramanda queste parole profetiche, segno dell’immensa misericordia divina nei confronti della debolezza umana: “Se qualcuno di voi si dimentica, e mangia o beve, porti a termine il suo digiuno; è Iddio che gli ha dato da mangiare e lo ha dissetato”.
Il digiuno dai cibi e dai rapporti sessuali, ossia dagli appetiti fisici dell’anima, deve corrispondere ad una eguale, se non maggiore attenzione nel purificarsi interiormente, altrimenti si corre il rischio tutt’altro che remoto di ancorarsi ai cavilli dei precetti legislativi, rimanendo rigidi nei proprî comportamenti difettivi e incoerenti con il significato profondo dell’atto di fede. Per tutta la durata del digiuno, il credente viene raccomandato ad un comportamento particolarmente pio e scrupoloso di devozione a Dio e di attenzione nei confronti degli altri fedeli, evitando i discorsi inutili, indecenti e importuni, le maldicenze, gli insulti e la calunnia, la menzogna e quant’altro reca danno ad altri, per essere invece disponibili, gentili e concilianti. Il fedele viene spronato ad aumentare i lasciti di elemosine, soprattutto nei confronti dei parenti, e a dedicarsi alla recitazione del Corano e alla preghiera individuale.
I giorni di digiuno dovrebbero costituire un periodo di introspezione personale, di adorazione divina, di meditazione sull’esempio profetico, perciò è consigliabile pregare per il Profeta e dedicarsi alla preghiera volontaria in ogni momento possibile della giornata, sia di giorno sia di notte, conformemente alle parole coraniche: «Compite il digiuno fino alla notte e non giacete con le vostre donne, ma ritiratevi in preghiera nei luoghi d’adorazione (masjid)» (Cor. 2:187).
E quando il sole è tramontato, ma prima di eseguire la salât relativa, il digiuno viene rotto, doverosamente, poiché le interdizioni ai nutrimenti carnali vigono solo lungo tutta la durata della giornata di luce; è bene, in tale momento, recitare delle parole di ringraziamento e di lode, quali le seguenti: “O mio Dio, per Te ho digiunato e ho rotto il digiuno con il cibo che Tu mi hai donato, ho avuto fiducia in Te e ho creduto in Te. Se n’è andata la sete, le vene si sono bagnate e si è meritata la ricompensa. O Munifico, perdonami! Sia lode a Dio, che mi ha assistito cosicché potessi digiunare e che ha provvisto al mio sostentamento cosicché potessi rompere il digiuno”.
Segue il pasto che segna la rottura giornaliera del digiuno, detto fatûr o iftâr (dalla radice FTR, che significa “fendere, spaccare”, da cui, tecnicamente, “rompere il digiuno”), spesso costituito da cibi gustosi e particolari, ma a patto che non siano entrati in contatto col fuoco.
In ogni caso è preferibile, tuttavia, seguire la consuetudine tradizionale (sunna) risalente al Profeta Muhammad, il quale usava bere dell’acqua d’estate e mangiare datteri d’inverno. L’Imâm Al-Nawawî tramanda pure un’esortazione profetica a riguardo: “Quando uno di voi rompe il digiuno, lo faccia con un dattero, perché è una benedizione (baraka), e se non trova un dattero, con dell’acqua, perché è pura”. La tradizione raccomanda che i datteri siano preferibilmente freschi e in numero dispari, che è gradito a Dio, essendo Egli unico e senza pari. Sono invece considerati come riprovati e biasimevoli, e in quanto tali da evitarsi, gli atti che possono produrre passioni e desideri carnali ovvero legati ai sensi e all’anima concupiscente; tuttavia non comportano la rottura del regime di digiuno. Vi è così l’interdizione di stimolare i cinque sensi, per esempio annusando qualsiasi profumo, compresi i fiori, ed assaggiare il cibo in ogni caso, anche per il cuoco e per chi mastichi qualcosa per darla poi ad un bambino. È fatta eccezione per la circostanza dettata dalla necessità, a patto che non venga inghiottito nulla, altrimenti il digiuno è rotto e deve essere rimesso. Allo stesso modo è bene fuggire le occasioni che potrebbero invogliare sé stessi od altri alle relazioni sessuali, ed allo stesso modo è sconsigliato compiere qualunque atto che indebolisca la forza necessaria per sopportare il regime di astinenza.
Ad ogni modo, il fedele ha il dovere di osservare le prescrizioni religiose a patto di essere in grado di farlo, poiché il buono stato di salute e la stessa vita di un musulmano, a maggior ragione, non possono essere messi a repentaglio: non è questo lo scopo degli obblighi imposti da Dio e fatti conoscere attraverso il Suo Messaggero. Se perciò si nutre fondato timore che il digiuno possa, con buone probabilità, recare grave danno alla persona o ad altri, è lecito interromperlo, salvo recuperarlo in seguito. Ciò accade quando si teme il sopraggiungere di una malattia nell’uomo sano, avendo egli ricevuto consiglio da un medico o soltanto grazie alla propria sensibilità e per l’ammalato che, diversamente, ha la preoccupazione o è certo di un peggioramento della sua situazione o di un ritardo della sua guarigione, se digiuna. Quando, in più, si corre il rischio di morire o di soffrire danni seri e permanenti al corpo a causa del digiuno, la sua sospensione non solo è doverosa, bensì obbligatoria; ugualmente per la donna incinta o che allatta, ed in ogni caso durante il ciclo mestruale ed il puerperio. Altrettanto lecito è rompere il digiuno, con l’obbligo di recuperarlo, qualora si sia assaliti da una fame ed una sete veramente insostenibili. La Legge non intende minare la salute fisica del fedele, né abbattere la sua forza di volontà, né umiliare le sue capacità di sopportazione: «Nessun’anima può essere obbligata (tukallafu) se non per quanto essa è capace» (Cor. 2:233). Ogni cosa viene data secondo la sua misura, e secondo la possibilità specifica dell’essere umano cui viene attribuita: «Iddio non obbliga alcun’anima se non secondo la sua capacità» (Cor. 2:286). Ma sopra ogni cosa, bisogna tenere sempre bene a mente che il digiuno non è una punizione, né come tale deve essere vissuto: certo è una fatica grande ed un impegno notevole, sia fisico che interiore, da perseguire, ma non è una condizione di privazione per castigo, né una sofferenza gratuita imposta senza misura ed indiscriminatamente. Anzi, proprio in uno dei versetti coranici dedicati al digiuno, si legge: «Iddio vuole per voi la facilità (al-yusr), non vuole per voi la difficoltà (al-‘usr)» (Cor. 2:185).
La rinuncia rituale ad ogni cibo e bevanda per numerose ore al giorno richiede strenua costanza e zelante pazienza, ma in ciò vi sarà una ricompensa per il credente, poiché «Dio è con i pazienti» (Cor. 2:153), in arabo al-sâbirûn, vale a dire coloro che sopportano. Si tratta in certo modo di una vera e propria lotta contro gli appetiti dei sensi, ma essa viene compiuta secondo tempi e modalità stabilite da Dio, non in base ad un vezzo umorale umano, sicché è Dio stesso a sostenere l’uomo che vi si impegna, oltre ad essere Lui il suo premio finale: «E lottate in Dio secondo il diritto della sua lotta (jihâd). Egli vi ha prescelti e non vi ha imposto nella Religione alcuna [penosa] angustia» (Cor. 22:78). Analogamente a tutti gli altri pilastri di fede che costituiscono l’Islâm, il digiuno è per l’uomo, non contro l’uomo. È un’istituzione divina stabilita, come ogni rito, a favore dell’equilibrio, dell’armonia, della salvezza dell’essere umano, non a suo discapito. Astenersi dai piaceri della carne (sia alimentari sia sessuali) tramite un’astensione volontaria e consapevole significa, in realtà, rinunciare alle effimere voluttà offerte da questo basso mondo (dunyâ), preferendo alla loro tetra transitorietà la luce senza fine della vera fede, la cui adesione sincera conduce alla contemplazione della Luce del Volto di Allâh, che non verrà mai meno. Una santa Tradizione (hadîth qudsî) trasmette infatti le seguenti parole divine: “Ogni atto del figlio d’Adamo gli appartiene, eccetto il digiuno, perché il digiuno è per Me, ed Io ne sono la ricompensa”. Ciò significa che il digiuno è per Iddio e che, in realtà, Gli appartiene: non si tratta, a ben vedere, di un’azione o di un’opera rituale esteriore realizzata dall’uomo, bensì è una mancanza, un venir meno di un bisogno naturale costitutivo dello stesso essere di carne. Il digiuno è un’assenza di nutrimento fisico che comporta allo stesso tempo una tensione interiore alla purezza, un anelito all’elevazione verso Dio. È un supremo esercizio di pazienza, nel difficile intento di tenere a freno la propria anima, sempre riottosa e scalpitante, in vista della pace che deriva all’uomo capace di essere indipendente dalla bieca carnalità. Il digiuno è allora abbandono di ogni frivolezza terrena, è silenzio dell’anima e del cuore. Ed è con il significato di silenzio, inteso come “astensione dalla parola”, che il termine sawm si trova nel Corano, in relazione con la Vergine Maria: «Ho fatto voto di digiuno al Misericordioso (al-Rahmân), dunque oggi non parlerò ad alcun uomo» (Cor. 19:26).
Il digiuno è il silenzio del servo che riconosce la propria totale indigenza naturale in relazione all’onnipotenza e all’irraggiungibilità di Colui che è Al-Samad, il Signore supremo ed assoluto, Colui che non ha bisogno di nulla, mentre ogni cosa ha bisogno di Lui (e si noti che, letteralmente, samad significa “colui che sopporta la fame e la sete”). Contraddire la natura corporea dell’essere umano che ha bisogno di cibo e sostentamento per sopravvivere in questo mondo, significa allora annullarsi per lasciar risplendere in tutta la sua luce la Verità divina, nella pienezza e nella perfezione del suo trionfante zenit (e allora non sarà senza valore, in tal senso, ricordare che uno dei significati della radice SWM è, in riferimento al sole, “raggiungere l’ora del mezzogiorno”). «Giacché assieme alla difficoltà, v’è un agio (yusran)! In verità, assieme alla difficoltà, v’è un agio! Così, quando sei libero [dalle occupazioni mondane], levati [alla preghiera] ed al tuo Signore aspira!» (Cor. 94:4-8).
Il termine arabo che designa questo precetto religioso è alternativamente sawm oppure siyâm, non senza qualche differenza. La radice comune dalla quale derivano entrambi i nomi (SWM) ha il significato di “astenersi da qualche cosa”, ma mentre siyâm si riferisce soltanto al digiuno legale, sawm è il digiuno, l’astinenza in quanto tale. Il noto detto del Profeta in cui sono elencati i cinque pilastri dell’Islâm fa riferimento esclusivamente al digiuno del mese di Ramadân, ma di fatto la pratica viene consigliata e considerata molto meritevole in diverse altre occasioni, in giorni o periodi particolari dell’anno, ferma restando la completa libertà di decisione del fedele, dal momento che il digiuno in questi altri casi non è obbligatorio. Il Profeta stesso invitava ed esortava i musulmani a compiere i digiuni supererogatori (ossia facoltativi), come ci viene trasmesso da una serie di tradizioni sull’argomento. Il digiuno, però, è bene ricordarlo, non nasce come pratica assolutamente nuova ed esclusiva dell’Islâm, perché già in epoca preislamica non erano sconosciuti i ritiri spirituali in luoghi remoti ed inaccessibili, lontani da accampamenti e centri abitati. Ed un’abitudine collegata da sempre con questi periodi di purificazione era proprio l’astensione dal cibo, dalle bevande e dai contatti sessuali, allo stesso modo in cui avverrà in seguito nella Tradizione islamica.
Nell’Islâm tutte le azioni compiute dal fedele vengono classificate considerando l’intera vita dell’uomo secondo una prospettiva che non ammette alcuna dicotomia reale tra sacro e profano, poiché ogni manifestazione e attività umana rientrano nella giurisdizione della Legge, fondata sul Corano, la Parola di Dio: il digiuno non fa eccezione, e pertanto viene regolamentato in tutti i suoi aspetti con precisione ed esattezza. Le condizioni necessarie per poter compiere un digiuno, di qualsiasi tipo, sono stabilite con inequivocabile chiarezza: l’appartenenza all’Islâm (ovviamente), l’età adulta, la capacità ragionativa che rende consapevoli dell’atto e la possibilità fisica di sopportare il digiuno, ossia la buona salute e, per la donna, anche l’assenza di perdite mestruali o puerperali (lochi). Non sono perciò tenuti al digiuno i bambini, gli impuberi, i malati di mente, i malati cronici e gli anziani. Accanto alla sanità del corpo ed alla lucidità della mente, è tuttavia indispensabile, in vista del compimento di un atto rituale (come è il digiuno), anche la salute interiore, vale a dire la purezza del cuore nel fedele. Quest’ultima condizione è, anzi, a ben vedere, quella veramente imprescindibile per la legittimità di ogni ufficio tradizionale, poiché il Profeta disse: “Nel corpo del figlio di Adamo [cioè, l’uomo] vi è un pezzo di carne; se esso è sano, tutto il corpo è sano, se invece è corrotto, tutto il corpo si corrompe. Questo è certamente il cuore”. La limpidezza della fede si esprime nella pia intenzione (niyya) che il musulmano formula di compiere il rito. Se essa viene a mancare, lo stesso atto religioso viene a mancare di validità, conformemente al detto che Profeta secondo cui le azioni valgono a seconda delle intenzioni. Il digiuno è un rito che si prolunga eccezionalmente nel tempo, per il fedele che vi è obbligato, poiché implica l’astensione dal cibo, dalle bevande e dai contatti sessuali per l’intera durata del periodo che va dal sorgere del sole fino al suo tramonto, e ciò per un numero determinato di giorni (nel caso del digiuno del mese di Ramadân, mediamente per 30 giorni). Se si rompe il digiuno senza giustificazione o lecito pretesto bisogna ricominciare tutto di nuovo, senza calcolare i giorni già trascorsi. Se invece non si riesce a rispettare la prescrizione religiosa a causa di un impedimento o per un altro motivo invalidante, si ha l’obbligo di recuperare il giorno o i giorni di digiuno interrotti (qadâ’), il prima possibile, restando comunque valida la parte di digiuno già rispettata. Sono pertanto ben definiti gli atti che invalidano il digiuno (chiamati in arabo muftirât oppure mufsidât); essi sono correlati ai due ambiti di astensione coinvolti nel digiuno, ossia l’ingestione di cibo ed il contatto sessuale. Da un lato, quindi, rompe lo stato di digiuno l’introduzione nel corpo, sia di proposito sia involontariamente, di qualsiasi cosa o sostanza, sia liquida o solida, di qualsiasi dimensione. Sono inclusi, oltre a tutti i cibi e ad ogni bevanda, anche tutti i tipi di medicine, le iniezioni, il fumo di tabacco, il catarro inghiottito deliberatamente dopo che era già giunto alla bocca, il vomito sia volontario che non, e infine l’acqua troppo abbondante inalata durante la piccola abluzione purificatrice (wudû’). Dall’altro lato, invalida lo svolgimento del precetto rituale l’eiaculazione avvenuta per qualunque motivo: il pensiero, uno sguardo prolungato, il bacio, un abbraccio o altro.
La gravità delle azioni è ben più rilevante, anche dal punto di vista delle Legge tradizionale, se le medesime azioni avvengono con coscienza, di proposito, secondo la propria volontà e senza alcuna giustificazione, con perfetta conoscenza del precetto di legge che viene infranto. Poiché, come abbiamo visto, è l’intenzione intima che determina il valore e la conseguenza di un atto effettuato, ed è per questo che il Profeta ha detto: “Iddio non sta a guardare i vostri corpi o le vostre sembianze; sta invece a guardare i vostri cuori”. Accanto alla classificazione minuziosa degli atti che rompono il digiuno ve ne è un’altra, che comprende una serie di atti e stati simili ai precedenti, ma i quali non vanificano il rito del digiuno proprio a motivo dell’assenza di intenzionalità nel loro verificarsi, ad esempio inghiottire involontariamente qualcosa che non si può rigettare, (come un insetto, peli, polvere), inalare durante l’abluzione troppa acqua, perdere sangue, avere emissione spermatica senza alcuna intenzione (come a causa di un sogno voluttuoso), e persino il mangiare o il bere qualora ci si scordasse che si sta digiunando. L’Imâm Al-Nawawî, infatti, tramanda queste parole profetiche, segno dell’immensa misericordia divina nei confronti della debolezza umana: “Se qualcuno di voi si dimentica, e mangia o beve, porti a termine il suo digiuno; è Iddio che gli ha dato da mangiare e lo ha dissetato”.
Il digiuno dai cibi e dai rapporti sessuali, ossia dagli appetiti fisici dell’anima, deve corrispondere ad una eguale, se non maggiore attenzione nel purificarsi interiormente, altrimenti si corre il rischio tutt’altro che remoto di ancorarsi ai cavilli dei precetti legislativi, rimanendo rigidi nei proprî comportamenti difettivi e incoerenti con il significato profondo dell’atto di fede. Per tutta la durata del digiuno, il credente viene raccomandato ad un comportamento particolarmente pio e scrupoloso di devozione a Dio e di attenzione nei confronti degli altri fedeli, evitando i discorsi inutili, indecenti e importuni, le maldicenze, gli insulti e la calunnia, la menzogna e quant’altro reca danno ad altri, per essere invece disponibili, gentili e concilianti. Il fedele viene spronato ad aumentare i lasciti di elemosine, soprattutto nei confronti dei parenti, e a dedicarsi alla recitazione del Corano e alla preghiera individuale.
I giorni di digiuno dovrebbero costituire un periodo di introspezione personale, di adorazione divina, di meditazione sull’esempio profetico, perciò è consigliabile pregare per il Profeta e dedicarsi alla preghiera volontaria in ogni momento possibile della giornata, sia di giorno sia di notte, conformemente alle parole coraniche: «Compite il digiuno fino alla notte e non giacete con le vostre donne, ma ritiratevi in preghiera nei luoghi d’adorazione (masjid)» (Cor. 2:187).
E quando il sole è tramontato, ma prima di eseguire la salât relativa, il digiuno viene rotto, doverosamente, poiché le interdizioni ai nutrimenti carnali vigono solo lungo tutta la durata della giornata di luce; è bene, in tale momento, recitare delle parole di ringraziamento e di lode, quali le seguenti: “O mio Dio, per Te ho digiunato e ho rotto il digiuno con il cibo che Tu mi hai donato, ho avuto fiducia in Te e ho creduto in Te. Se n’è andata la sete, le vene si sono bagnate e si è meritata la ricompensa. O Munifico, perdonami! Sia lode a Dio, che mi ha assistito cosicché potessi digiunare e che ha provvisto al mio sostentamento cosicché potessi rompere il digiuno”.
Segue il pasto che segna la rottura giornaliera del digiuno, detto fatûr o iftâr (dalla radice FTR, che significa “fendere, spaccare”, da cui, tecnicamente, “rompere il digiuno”), spesso costituito da cibi gustosi e particolari, ma a patto che non siano entrati in contatto col fuoco.
In ogni caso è preferibile, tuttavia, seguire la consuetudine tradizionale (sunna) risalente al Profeta Muhammad, il quale usava bere dell’acqua d’estate e mangiare datteri d’inverno. L’Imâm Al-Nawawî tramanda pure un’esortazione profetica a riguardo: “Quando uno di voi rompe il digiuno, lo faccia con un dattero, perché è una benedizione (baraka), e se non trova un dattero, con dell’acqua, perché è pura”. La tradizione raccomanda che i datteri siano preferibilmente freschi e in numero dispari, che è gradito a Dio, essendo Egli unico e senza pari. Sono invece considerati come riprovati e biasimevoli, e in quanto tali da evitarsi, gli atti che possono produrre passioni e desideri carnali ovvero legati ai sensi e all’anima concupiscente; tuttavia non comportano la rottura del regime di digiuno. Vi è così l’interdizione di stimolare i cinque sensi, per esempio annusando qualsiasi profumo, compresi i fiori, ed assaggiare il cibo in ogni caso, anche per il cuoco e per chi mastichi qualcosa per darla poi ad un bambino. È fatta eccezione per la circostanza dettata dalla necessità, a patto che non venga inghiottito nulla, altrimenti il digiuno è rotto e deve essere rimesso. Allo stesso modo è bene fuggire le occasioni che potrebbero invogliare sé stessi od altri alle relazioni sessuali, ed allo stesso modo è sconsigliato compiere qualunque atto che indebolisca la forza necessaria per sopportare il regime di astinenza.
Ad ogni modo, il fedele ha il dovere di osservare le prescrizioni religiose a patto di essere in grado di farlo, poiché il buono stato di salute e la stessa vita di un musulmano, a maggior ragione, non possono essere messi a repentaglio: non è questo lo scopo degli obblighi imposti da Dio e fatti conoscere attraverso il Suo Messaggero. Se perciò si nutre fondato timore che il digiuno possa, con buone probabilità, recare grave danno alla persona o ad altri, è lecito interromperlo, salvo recuperarlo in seguito. Ciò accade quando si teme il sopraggiungere di una malattia nell’uomo sano, avendo egli ricevuto consiglio da un medico o soltanto grazie alla propria sensibilità e per l’ammalato che, diversamente, ha la preoccupazione o è certo di un peggioramento della sua situazione o di un ritardo della sua guarigione, se digiuna. Quando, in più, si corre il rischio di morire o di soffrire danni seri e permanenti al corpo a causa del digiuno, la sua sospensione non solo è doverosa, bensì obbligatoria; ugualmente per la donna incinta o che allatta, ed in ogni caso durante il ciclo mestruale ed il puerperio. Altrettanto lecito è rompere il digiuno, con l’obbligo di recuperarlo, qualora si sia assaliti da una fame ed una sete veramente insostenibili. La Legge non intende minare la salute fisica del fedele, né abbattere la sua forza di volontà, né umiliare le sue capacità di sopportazione: «Nessun’anima può essere obbligata (tukallafu) se non per quanto essa è capace» (Cor. 2:233). Ogni cosa viene data secondo la sua misura, e secondo la possibilità specifica dell’essere umano cui viene attribuita: «Iddio non obbliga alcun’anima se non secondo la sua capacità» (Cor. 2:286). Ma sopra ogni cosa, bisogna tenere sempre bene a mente che il digiuno non è una punizione, né come tale deve essere vissuto: certo è una fatica grande ed un impegno notevole, sia fisico che interiore, da perseguire, ma non è una condizione di privazione per castigo, né una sofferenza gratuita imposta senza misura ed indiscriminatamente. Anzi, proprio in uno dei versetti coranici dedicati al digiuno, si legge: «Iddio vuole per voi la facilità (al-yusr), non vuole per voi la difficoltà (al-‘usr)» (Cor. 2:185).
La rinuncia rituale ad ogni cibo e bevanda per numerose ore al giorno richiede strenua costanza e zelante pazienza, ma in ciò vi sarà una ricompensa per il credente, poiché «Dio è con i pazienti» (Cor. 2:153), in arabo al-sâbirûn, vale a dire coloro che sopportano. Si tratta in certo modo di una vera e propria lotta contro gli appetiti dei sensi, ma essa viene compiuta secondo tempi e modalità stabilite da Dio, non in base ad un vezzo umorale umano, sicché è Dio stesso a sostenere l’uomo che vi si impegna, oltre ad essere Lui il suo premio finale: «E lottate in Dio secondo il diritto della sua lotta (jihâd). Egli vi ha prescelti e non vi ha imposto nella Religione alcuna [penosa] angustia» (Cor. 22:78). Analogamente a tutti gli altri pilastri di fede che costituiscono l’Islâm, il digiuno è per l’uomo, non contro l’uomo. È un’istituzione divina stabilita, come ogni rito, a favore dell’equilibrio, dell’armonia, della salvezza dell’essere umano, non a suo discapito. Astenersi dai piaceri della carne (sia alimentari sia sessuali) tramite un’astensione volontaria e consapevole significa, in realtà, rinunciare alle effimere voluttà offerte da questo basso mondo (dunyâ), preferendo alla loro tetra transitorietà la luce senza fine della vera fede, la cui adesione sincera conduce alla contemplazione della Luce del Volto di Allâh, che non verrà mai meno. Una santa Tradizione (hadîth qudsî) trasmette infatti le seguenti parole divine: “Ogni atto del figlio d’Adamo gli appartiene, eccetto il digiuno, perché il digiuno è per Me, ed Io ne sono la ricompensa”. Ciò significa che il digiuno è per Iddio e che, in realtà, Gli appartiene: non si tratta, a ben vedere, di un’azione o di un’opera rituale esteriore realizzata dall’uomo, bensì è una mancanza, un venir meno di un bisogno naturale costitutivo dello stesso essere di carne. Il digiuno è un’assenza di nutrimento fisico che comporta allo stesso tempo una tensione interiore alla purezza, un anelito all’elevazione verso Dio. È un supremo esercizio di pazienza, nel difficile intento di tenere a freno la propria anima, sempre riottosa e scalpitante, in vista della pace che deriva all’uomo capace di essere indipendente dalla bieca carnalità. Il digiuno è allora abbandono di ogni frivolezza terrena, è silenzio dell’anima e del cuore. Ed è con il significato di silenzio, inteso come “astensione dalla parola”, che il termine sawm si trova nel Corano, in relazione con la Vergine Maria: «Ho fatto voto di digiuno al Misericordioso (al-Rahmân), dunque oggi non parlerò ad alcun uomo» (Cor. 19:26).
Il digiuno è il silenzio del servo che riconosce la propria totale indigenza naturale in relazione all’onnipotenza e all’irraggiungibilità di Colui che è Al-Samad, il Signore supremo ed assoluto, Colui che non ha bisogno di nulla, mentre ogni cosa ha bisogno di Lui (e si noti che, letteralmente, samad significa “colui che sopporta la fame e la sete”). Contraddire la natura corporea dell’essere umano che ha bisogno di cibo e sostentamento per sopravvivere in questo mondo, significa allora annullarsi per lasciar risplendere in tutta la sua luce la Verità divina, nella pienezza e nella perfezione del suo trionfante zenit (e allora non sarà senza valore, in tal senso, ricordare che uno dei significati della radice SWM è, in riferimento al sole, “raggiungere l’ora del mezzogiorno”). «Giacché assieme alla difficoltà, v’è un agio (yusran)! In verità, assieme alla difficoltà, v’è un agio! Così, quando sei libero [dalle occupazioni mondane], levati [alla preghiera] ed al tuo Signore aspira!» (Cor. 94:4-8).
Nessun commento:
Posta un commento