Paolo
Urizzi
I fattori della Sintesi trascendente
Prefazione
a Ibn ‘Arabî, Il libro del Sé divino (Kitâb al-yâ’ wa Huwa kitâb al-Huwa)
Parte 1/2
Il presente opuscolo, pur nella sua
brevità, è notevole sotto molti riguardi e lo stesso Shaykh al-Akbar ci avverte:
«Studia attentamente questo libro, poiché per suo tramite ti appaiono brillanti
numerosi segreti elevati che gli Uomini di questa Via hanno [sempre] celato»[1].
È questo il motivo che, alla fine, ci ha fatto decidere per la sua
pubblicazione, nonostante le evidenti difficoltà con cui il lettore dovrà
cimentarsi. Infatti, al di là delle previste oscurità cui è avvezzo chiunque
abbia una seppur minima frequentazione delle opere akbariane, il trattato è
complicato da un ulteriore ostacolo per quei lettori che non hanno alcun
rudimento della lingua araba, per quanto l’eccellente lavoro di Chiara Casseler
non manchi di fornire le delucidazioni indispensabili a chiarirne il senso. Una
scelta, dunque, non facile, ma tuttavia dettata dall’essenzialità dell’argomento
poiché, come il titolo lascia chiaramente intendere, il testo affronta
direttamente la questione del Sé divino e la sua relazione con l’essere
individuale, simboleggiati nel linguaggio rispettivamente dal pronome personale
di terza persona, huwa (“egli”), e da
quello di prima persona, anâ (“io”),
che in arabo è all’occorrenza rappresentato dalla lettera yâ’[2].
Oltre a questi due, vi è naturalmente il pronome di seconda persona, anta
(“tu”), ossia tutto ciò che è “altro da me” e s’identifica all’oggetto che
entra in relazione col soggetto. Il Sé, infatti, non potendo mai essere
considerato come un “oggetto” e non potendo neppure identificarsi con l’io
empirico, viene designato col pronome della “persona assente” (al-ghâ’ib, alla lettera “colui che non è
oggetto di visione diretta”), il Huwa
appunto. Si tratta, insomma, dei principali parametri di riferimento di ogni
logica del linguaggio, ma soprattutto di quelli del linguaggio della
metafisica, quand’anche della “Persona assente” non rimanga in fondo espressione
più adeguata che il silenzio.
Come si può facilmente vedere, quelli
implicati sono anche gli elementi fondanti di ogni epistemologia: la coscienza
individuale e la sua relazione con il mondo, nonché la sua reale identità, fine
ultimo di ogni dottrina metafisica e di ogni indagine gnoseologica. Il concetto
di “io” corrisponde alla coscienza e al dominio mentale, il microcosmo; quello
del “tu” al mondo fisico e al dominio cosmologico, il macrocosmo; l’“egli”,
infine, a ciò che trascende entrambi i domìni[3].
Questi sono gli ambiti in cui si esercita la ricerca della conoscenza, e quindi
della Realtà ultima, sia in ambito sacro e tradizionale sia in quello
dell’indagine filosofica, con la sola fondamentale differenza che, mentre nel
primo caso il criterio d’indagine rimane ancorato alla Rivelazione (ar. wahy), intesa come un’ispirazione di
origine “non-umana” (cfr. sanscr. apaurusheya),
nel secondo esso si affida unicamente agli strumenti inerenti all’essere
individuale[4];
quest’ultima ricerca, pertanto, non può che ridursi, vuoi alle capacità
d’indagine interiore (diánoia), ossia
all’intelletto razionale, vuoi agli strumenti di conoscenza del mondo
esteriore, essenzialmente costituiti dalle nostre facoltà di percezione (aísthesis, sanscr. indriya).
I fautori della conoscenza a priori
(ar. badîhî), di tipo logico e
razionale, sono considerati gli “idealisti”; quelli che considerano solo la
conoscenza a posteriori (ar. kasbî)[5],
riducendola al dominio della percezione sensibile, sono i “materialisti”;
quelli che, invece, considerano la possibilità di accedere alla sfera dell’Assoluto
sono i “trascendentalisti”[6].
Ovviamente, quando si applicano questi schemi, essenzialmente profani e
moderni, alle suddivisioni del pensiero tradizionale, bisogna fare dei debiti distinguo,
specialmente quando si tratta di dottrina metafisica. La loro menzione è intesa
solo a mostrare certi parallelismi del pensiero umano nel suo insieme e le
analoghe posizioni concettuali che si sono sviluppate nel corso della storia;
ma quelle che separano il mondo sacrale della Philosophia Perennis dal pensiero della filosofia tout-court
possono essere tanto distanti quanto lo sono le motivazioni che animavano le
rilevazioni astronomiche dei costruttori di Stonehenge da quelle degli
scienziati dell’osservatorio di Mount Palomar in California. Nondimeno,
analogie si possono riscontrare in ogni tempo e sotto ogni latitudine, poiché
non c’è nulla di nuovo sotto il sole e gli argomenti, ad esempio, della critica
tradizionale al pensiero materialista, o almeno a quello che più sembra
corrispondergli, si applicano altrettanto bene in entrambi i contesti.
Tale storia del pensiero umano si può
dunque descrivere come il graduale passaggio dalla realizzazione di ciò che è
per sua natura “senza limite” alla mera investigazione del “limite”, un limite
sempre più definito e circoscritto, come precisamente è il campo della moderna
mentalità scientifica e filosofica. Non si tratta, in ultima analisi, che della
riproduzione sul piano epistemologico del principio di differenziazione o, se
si preferisce, di frammentazione, proprio dell’aspetto quantitativo della
manifestazione e, poiché quest’ultimo è quello che più caratterizza l’ambiente
e l’epoca nei quali viviamo, all’uomo moderno giunge difficile concepire la realtà
come forma significante di un Principio di ordine superiore che ne è ad un
tempo la causa efficiente e l’essenza trascendente; un principio che, proprio
per la sua assolutezza, non ammette alcunché di esteriore alla sua natura
indivisa[7].
Questo modo particolaristico di vedere le cose, per sua stessa natura, si situa
palesemente agli antipodi di quello sintetico che presuppone la capacità di
coglierne l’essenza uscendo dai limiti del sistema di riferimento[8].
È come se i contemporanei si peritassero di analizzare in modo sistematico le
relazioni che connettono tra loro i punti di una circonferenza, per loro natura
indefiniti e quindi non analiticamente esauribili, senza riuscire invece a
cogliere il tutto nella sintesi del centro[9]
da cui la circonferenza ha origine e in cui tutti i punti che la costituiscono
alla fine si risolvono[10].
Restando dunque nell’ambito della
circonferenza si sarà sempre e in ogni caso vincolati ad una qualche forma di
relativismo. Tale conoscenza, infatti, è giocoforza solo di ordine empirico o
psicologico dal momento che la conoscenza che procede dalla circonferenza, e di
conseguenza anche la rappresentazione della Realtà che ne deriva, non può, per
sua natura, oltrepassare i limiti della relazione soggetto-oggetto. In un certo
senso si potrebbe arrivare a dire che perfino la conoscenza derivante dalla
percezione sensibile, pur non essendo una semplice astrazione – è pur sempre
considerata un valido strumento di conoscenza (sanscr. pramâna) anche nella scienza tradizionale[11]
–, risulta essere, in fin dei conti, una rappresentazione della mente. La
mente, infatti, rimane comunque un filtro per tutti i contenuti di questa
esperienza la quale, pertanto, non potrà mai risultare totalmente
“oggettivabile”. Una ben nota sentenza buddhista ci ricorda che «gli elementi
della realtà (dhammâ, ossia i
“fenomeni” dell’esperienza empirica) hanno la mente come principio (manopubbangamâ), hanno la mente come
elemento essenziale (manosetthâ) e
sono costituiti di mente (manomayâ)»
(Dhammapâda, I.1).
Da qui l’impasse dei sistemi
filosofici che, presupponendo come criteri dell’epistéme (la conoscenza
scientifica), unicamente le categorie razionali del pensiero discorsivo (gr. dianóesis), non possono non cadere
nell’aporia di postulare un Assoluto – quando lo fanno – a partire dal
relativo, o di affermare l’Unità divina a partire dalla dualità. Non diverso
però, quanto alla Realtà ultima (al-haqîqa),
sarebbe il caso delle “stazioni” della Via iniziatica; la Meta rimane pur
sempre al di là e al di fuori di quanto può essere raggiunto dalla nostra
“visione interiore” (basîra) o dallo
“svelamento” di ordine soprasensibile (kashf),
dal momento che, inesorabilmente, ogni “raggiungimento” (idrâk) si situa nel dominio del contingente e del relativo, mentre
la Realtà ultima trascende ogni ordine creato, nonché la sua stessa
trascendenza che, una volta postulata, costituisce essa stessa una “relazione”
limitativa[12]. Non
si afferma forse in una tradizione profetica che “Allâh è nascosto da
settantamila veli di luce e di tenebra”? Per quanto ci si elevi nei gradi della
realizzazione spirituale, ciascuno di questi gradi – in quanto “gradi”,
beninteso – rimane comunque un velo che ci separa ancora dalla possibilità di
conoscere veramente la Realtà Suprema, la cui infinità (kibriyâ’) permane inviolata al di là di tutti questi veli[13].
È per questo che ‘Abd Allâh al-Ansârî (m. 1089) concludeva le sue Dimore degli
itineranti con dei drastici versi sull’unico vero tawhîd, l’affermazione dell’Unità:
L’Unità
dell’Unico nessuno l’afferma:
chiunque
l’affermi la nega.
L’affermazione
dell’Unità,
in
chi parla di tale Sua qualità,
è
vano discorso che l’Unico annienta.
L’affermazione
della Sua Unità a Se stesso
È
l’affermazione vera della Sua Unità”[14].
Ed è per lo stesso motivo che Abû
Yazîd al-Bistâmî (m. 874), qualche secolo prima, dichiarava: «Gli uomini si
pentono dei loro peccati. Quanto a me, io mi pento di dire: “Non v’è divinità
se non Dio”[15].
Perché io lo dico con la voce e le lettere, mentre il Vero (al-Haqq) è al di là della voce e al di
là delle lettere»[16].
Ecco allora riverberare tra gli apofatici del sufismo la frase del califfo Abû
Bakr as-Siddîq: “L’impotenza a raggiungere la comprensione è comprensione (al-‘ajz ‘an dark al-idrâk idrâk)”,
considerata da molti come l’ultima parola in fatto di dottrina dell’Unità[17].
E allora, gnosi o agnosticismo? La
domanda è ovviamente retorica, poiché la frase citata non è un’affermazione di
agnosticismo; essa, al contrario, viene considerata come l’unico mezzo per
accedere, per via apofatica, alla conoscenza (ar. ma‘rifa) che concerne la Realtà ultima[18].
Ma il solco che divide le due sponde dello scetticismo agnostico e della
metafisica tradizionale è troppo profondo perché fra i partigiani dell’uno o
dell’altro fronte vi siano dei canali di comunicazione. Quelli, tra i nuovi maîtres à penser, che non riescono a
concepire una via trascendente per l’intuizione metafisica (gr. nóesis, sanscr. antarjñâna) dell’Essenza senza dualità sono costretti a rigor di
logica a negarne la possibilità. Anche il semplice fatto di presupporla,
infatti, richiederebbe di ammettere la presenza, nell’essere, d’un principio di
natura trascendente capace, come tale, d’una conoscenza non-empirica.
Ovviamente, non po’ tendo essere verificabile dall’“esterno” in quanto non dimostrabile
in termini di conoscenza empirica, un tale principio, quand’anche fosse
ipoteticamente postulato, stando a questi parametri non potrebbe essere
classificato che come un elemento del “soggettivismo” idealista e pertanto
inconsistente quale strumento di validità epistemologica. Quanto all’argomento
a priori, se limitato ad una concezione meramente mentale (cogitatione), neppur esso risulterebbe esente dalla critica di
soggettivismo psicologico, e si arriverebbe di nuovo alla presunzione di
non-validità. Tutto questo solo perché si continua a voler stabilire criteri di
conoscenza assoluta a partire da fattori che per loro natura sono soltanto
relativi, il che è una contraddizione in termini. È la storia del voler trarre
la “misura” della circonferenza a partire dalla circonferenza, mentre è solo la
presenza d’un elemento trascendente a permettere l’operazione di “passaggio al
limite”.
Qual è quindi l’argomento valido a
giustificare la possibilità di superamento del limite e la presenza d’una
realtà ultima immanente nel soggetto (ar. kunh
dhâtihi)[19] che
permetta la sintesi tra la conoscenza soggettiva e quella oggettiva?
L’insegnamento unanime e universale
di ogni dottrina metafisica, quale che sia il procedimento dialettico o la téchne (metodo o arte) che ci permette
di accedere alla conoscenza certa della verità[20],
vede nell’unità indivisibile del Tutto e nella presenza immanente della sua
essenza in ciascuna delle sue parti il fondamento dell’Identità suprema (ar. tawhîd), identità che non ha altro
supporto che la stessa Realtà ultima[21].
È solo quest’Identità che consente di conoscere la Realtà[22],
anche se questa suprema conoscenza rimarrà sempre ineffabile, apofatica e
trascendente[23]. Gli
esseri insenzienti, però, partecipano di questa identità in una forma meramente
passiva, e non possono attuare quella più alta forma d’identità che solo l’atto
sintetico del conoscere e dell’essere consente di realizzare. Tale capacità
presuppone la presenza dell’intelletto (gr. nous,
sanscr. buddhi, ar. ‘aql, intelletto acquisito), organo
della percezione conoscitiva dell’essere. Ogni essere dotato d’intelletto è
pertanto, almeno virtualmente, capace per sé della Conoscenza suprema, quella
che, proprio per questo motivo, deve preliminarmente passare attraverso la
conoscenza di se stessi, la delfica gnothi
sautón («conosci te stesso») espressa
anche dalla sentenza profetica: «Chi conosce se stesso conosce il suo Signore (man ‘arafa nafsahu ‘arafa rabbahu)»[24].
Ciò riguarda in particolar modo
l’uomo, creato secondo l’immagine (gr. eikón)
e la somiglianza (homoiôsis)[25].
Stando, infatti, al postulato degli antichi per cui solo «il simile conosce il
simile»[26],
egli non potrebbe conoscere la Realtà suprema se questa non gli fosse in
qualche modo connaturata. Se è vero che ogni cosa, in quanto teofania, è un locus theologicus che rende manifesto il
Tesoro nascosto dell’Essenza, l’uomo, in virtù della similitudine inerente alla
sua natura intellettuale, è costituito però come essere a parte, un essere
capace di “assimilarsi al divino” (homoiôsis
theôi)[27] e
quindi di conoscere Dio, poiché l’immagine che egli incarna è quella del
Pensiero divino, Ragione eterna d’ogni cosa (gr. lógos, ar. haqîqat al-haqâ’iq),
a modello del quale è stato formato e plasmato[28].
Non va dimenticato che egli è l’unico essere, secondo il Corano, ad aver
accettato il peso del “Deposito di fiducia” (amâna) rifiutato dai cieli e dalla terra[29],
e ciò va posto in relazione con quanto viene detto in una tradizione santa (hadîth qudsî): «I cieli e la terra non
Mi contengono, ma Mi contiene il cuore del Mio servitore fedele»[30].
Dal momento che «il fedele è lo specchio del Fedele» (al-mu’min mir’ât al-Mu’min)[31],
ossia di Dio, il “servitore fedele” di Dio (‘abd
al-mu’min) non è altri che colui il cui cuore è divenuto specchio dell’Eterno
e, assimilatosi a Lui, riflette l’Infinito.
Quest’autologia dell’essere appare,
dunque, come un riflesso dell’Autologia del Principio. Se il Principio non
conoscesse Se stesso, nulla potrebbe conoscerLo, e l’essere non solo non
potrebbe conoscere la sua origine essenziale, ma neppure potrebbe conoscere
alcun’altra cosa, poiché verrebbe meno il fondamento stesso d’ogni epistéme: la
sostanza inerte (gr. hýle)[32]
rimane tale e non sviluppa da sé la coscienza (con-sapevolezza, gr. syneídesis, sanscr. samjñâna)[33],
senza la quale ogni altra conoscenza sarebbe impossibile[34].
In altre parole la sostanza inerte è “indescrivibile” (sanscr. anirvacanîyam, cioè non-oggettivabile)
senza un soggetto cosciente, e il vero e unico “Soggetto” della Realtà è, in
fondo, solo il Sé divino, che, al tempo stesso e ad un livello diverso da
quello dell’Unità pura e sopra-ontologica (ar. ahadiyya), è anche, per così dire, l’“oggetto” di Se stesso in Se
stesso. L’infinito (sanscr. ananta,
ar. al-lâ ta‘ayyun, che comporta al-wujûd al-mutlaq, l’Essere assoluto)[35],
pur complicando omnes distinctiones
(sanscr. bheda, viéesha, ar. ta‘ayyunât)[36]
– rimane in se stesso senza dualità: un’Identità suprema e trascendente che
Kharrâz (m. 890) aveva sintetizzato affermando che, «al di fuori di Dio, a
nessuno è consentito di dire “Io” (anâ)»[37].
Ciò premesso, dobbiamo però indagare
la relazione che unisce tra loro i differenti elementi della dialettica
epistemologica. La metafisica indù del puro non-dualismo (kevalâdvaitavâda) parte dal presupposto che l’ignoranza[38]
al riguardo della Realtà suprema è la sola causa dell’illusoria “alterità” che
fa apparire la molteplicità dell’esistenza. Per Sankara (VIII-IX sec.) tale
alterità, prodotta dall’ignoranza, è dovuta alla falsa “sovrapposizione” (adhyâsa), che consiste nell’imputare
erroneamente le qualità essenziali dell’oggetto (vishaya) – identificabile con il concetto “tu” (yushmad), ossia tutto ciò che è “altro
che me” – a quelle del soggetto (vishayin)
– identificabile con il concetto “io” (asmad).
Infatti, pur essendo gli attributi dei loro rispettivi campi d’azione
mutualmente opposti come la luce e la tenebra, nell’esperienza ordinaria (vyavahârah) di questo mondo constatiamo
che il soggetto s’identifica con gli attributi dell’oggetto quando afferma: «io
sono ciò», «questo è mio»[39].
Nelle righe iniziali del suo Bhâshya,
il maestro vedântin enuncia in sintesi la natura della Realtà e quella
dell’illusione derivante dall’esperienza empirica e dall’ignoranza (avidyâ) fondamentale dei veri attributi
del “soggetto conoscente”, radice di tutti i veli che impediscono di scorgere
la Realtà ultima dell’esistenza, ossia il Sé o Âtman. Coerente con la sua
logica non-dualista, la dottrina Sankariana non ammette alcuna reale dicotomia
tra l’unico Soggetto della coscienza trascendente e il suo riflesso
individualizzato nell’essere vivente (jîvâtma):
l’esistenza del jîva individuale è
soltanto una “sovrapposizione” illusoria al Sé supremo, non un’entità reale che
in qualche modo gli si “aggiunge”, e questo Sé immanente nell’individuo non è
assolutamente inconoscibile. Ad un’obiezione riguardante il concetto di adhyâsa, dove si afferma che il Sé
interiore (pratyagâtman), opponendosi
al non-Sé, non diviene mai oggetto dei sensi e delle facoltà mentali, Sankara
risponde, infatti, dicendo che non è vero che il Sé interiore «è un non-oggetto
in senso assoluto (ekântena-avishayah),
poiché esso è una realtà d’immediata percezione (aparokshatvât) e s’identifica col concetto di “io” (asmat-pratyaya-vishayatvât)»[40].
Ovviamente, non è il pratyagâtman, il
Sé interiore, ad essere un “oggetto”; avendo in se stesso la sua propria
luminosità (svayamprakâsha), esso è
piuttosto il “Soggetto trascendente” (il “Testimone”, sâkshin)[41]
di ogni forma di conoscenza, da non confondersi, dunque, con il semplice
soggetto empirico, l’ahampratyayin[42],
che è l’organo interno (antahkaranam)[43].
È a quest’ultimo, infatti, che il Sé si presenta come un “oggetto”, anche se
questo Sé “oggetto” della percezione dell’io (aham-pratyaya-vishaya) è, a rigore, non il sâkshin, ma soltanto l’ahamkartri, “quello che fa l’io”, ossia il
Sé quale principio immediato dell’individualità, la sua causa strumentale[44].
[1]
Infra, p. 160.
[2]
Come in tutte le lingue semitiche, anche nell’arabo i pronomi hanno due forme,
una isolata ed una suffissa, che serve per il complemento oggetto e i
complementi indiretti, come nel genitivo di me, di te, di lui, ecc.,
rappresentati da un suffisso che si unisce al nome, verbo o particella a cui si
riferisce. La lettera yâ’ (= î) rappresenta
il pronome suffisso me; es.: kitâb
(libro) + î (me) diviene kitâbî = il libro di me (ossia “il mio
libro”).
[3]
Ibn ‘Arabî sintetizza il discorso in questo modo: “Anâ [“io”] è più vicino a Huwa
[“Egli”] di Anta [“Tu”] e di Ka [“Te”, come suffisso], poiché Anta è quanto di più lontano ci sia da
Huwa” (infra, p. 140).
[4]
“Per questo nella tradizione indù si parla di darshana, alla lettera “punti di
vista”, e non già di “sistemi”, che comportano sempre l’idea d’un ordine
chiuso; per essa, tutti i darshana fondati
sulla Rivelazione (il Veda, in questo caso) sono chiamati âstika (il “vi è” che attesta il riferimento al Veda, ossia
ortodossi), gli altri nâstika (“non
vi è” tale riferimento, ossia eterodossi). Nell’Islam, ogni prospettiva fondata
su di una Rivelazione è quella propria dei “credenti” (mu’minûn), tutti gli altri sono semplicemente i “non-credenti” (kuffâr).
[5]
Per l’impiego di questi termini nella logica islamica cfr. G. Giurini, introd.
ad Al-Qaysarî, La Scienza iniziatica,
Torino, 2003, p. 23 n. 41.
[6]
Questa Conoscenza, richiedendo in ogni caso una forma di “svelamento”, viene
classificata dal tasawwuf come kashfî e, nella misura in cui comporta
una certa forma di “percezione diretta” (sanscr. aparoksha), soggettiva e incomunicabile, è detta anche dhawqî, “saporosa” (cfr. ibid., pp.
21-22).
[7]
Si tratta dell’Essere che, secondo Parmenide di Elea (V sec. a.C.), “essendo
ingenerato è anche imperituro, tutt’intero, impassibile e senza fine. Quello
che non è mai stato né mai sarà, perché è ora tutt’insieme (epeì nûn éstin ómoû pân), uno e continuo
(sunechés)” (Peri Phuseôs, 8.3-6). Questa definizione trova un perfetto
parallelismo in quella che la Sura
Al-ikhlâs (Cor. 112) dà del Principio divino: “Dì: Egli Dio è Uno (ahad, Uno-senza-secondo), Dio è Il Tutto
impenetrabile (as-samad, la Realtà
piena, senza alcunché che le sia esteriore). Egli non ha generato né è stato
generato, e nulla è simile a Lui”. Il termine as-Samad ben si accosta al “tutto pieno d’essere (pân d’émpleón èstin èóntos)” di
Parmenide (ibid. 8.24). È scontato
che entrambe le prospettive escludono ogni panteistica identità del mondo col
suo Principio trascendente.
[8]
Ciò è richiesto in modo assiomatico anche dai procedimenti della logica
analitica, come possiamo vedere perfino in Wittgenstein: “Il senso del mondo
dev’essere fuori di esso” (Tractatus,
6.41). Non essendo il mondo che l’insieme accidentale dei fatti, il loro
Principio deve necessariamente trascendere tale divenire contingente, poiché
altrimenti sarebbe esso stesso un accidente (cfr. ibid.). La formulazione del
principio logico, però, non implica ancora l’intuizione del suo contenuto
metafisico.
[9]
L’intelletto puro, non discorsivo, coglie i suoi oggetti totum simul, senza
discontinuità logica (cfr. l’ómoû pân e
il sunechés, supra, n. 6). Vedere
A.C. Lloyd, “Non-propositional Thought in
Plotinus”, in Phronesis 31, 1986,
pp. 197-228. Restando in questo àmbito, vale qui la pena di ricordare che per
Plotino il “centro” s’identifica all’Uno e che sia esso sia l’Intelletto sono
infiniti (cfr. J. Boulad Ayoub, “L’image
du centre et la notion de l’Un dans les Ennéades”, in Philosophiques 11, 1984, pp. 41-70; e J.H. Heiser, “Plotinus and the apeiron of Plato’s
Parmenides”, Thomist 55, 1991, pp. 53-81).
[10]
Anche qui possiamo ritrovare una formulazione di Wittgenstein dello stesso
tenore: “…il solipsismo, svolto rigorosamente, coincide con il realismo puro.
L’Io del solipsismo si contrae in punto inesteso e resta la realtà coordinata
ad esso” (Tractatus, 5.64). Quello
che viene chiamato qui “Io” non è, come egli ci avverte, l’io empirico, poiché
questo Io “è non l’uomo, non il corpo umano o l’anima umana della quale tratta
la psicologia, ma il soggetto metafisico, il limite – non una parte – del
mondo” (ibid. 5.641). Il “soggetto
metafisico”, come si può facilmente vedere, non è altro che il Sé trascendente
della metafisica tradizionale, soggetto del presente trattato di Ibn ‘Arabî.
[11]
Anche se, come si è già indicato nella nota 2, il criterio principale di ogni
valida conoscenza è, in una prospettiva tradizionale, prima di tutto la
Rivelazione. Per la conoscenza della Realtà ultima, poi, le scuole metafisiche
come l’advaita non ammettono altra fonte esteriore di valida conoscenza che il sabda-pramâna, ossia la testimonianza
verbale della Scrittura, nella fattispecie le mahâvâkiyas, le “grandi
attestazioni” upanishadiche, quali Tat
tvam asi, “Tu sei Quello” (Chând.Up.,
VI.8.7), che affermano l’identità suprema tra il Sé (Âtman) e il Principio Incondizionato (Brahman).
[12]
La dottrina indù della non-dualità giunge alla conclusione che, da un punto di
vista assoluto, non vi è alcuna realtà della Rivelazione; al pari d’ogni altro
aspetto della manifestazione, anche il Veda è mithyâ, un’entità di cui si ha l’esperienza, ma priva di una sua
realtà intrinseca. Tuttavia, i maestri dell’Advaita Vedânta sostengono che, da
un punto di vista empirico, il Veda è efficace, nel senso che “benché irreale”
esso ci dà la conoscenza. L’aporia viene risolta quando, una volta trasceso il
dominio della visione distintiva di soggetto e oggetto, si realizza che, sempre
dal punto vista assoluto, non vi è neppure una vera conoscenza del Brahman,
poiché il Principio incondizionato, essendo pura coscienza avente in sé la
propria luminosità (svayamprakâsha),
non ha alcun “oggetto” a lui esteriore a cui rivelarsi. Per Sankara, infatti,
una volta ottenuta la conoscenza anche il Veda diviene non-esistente (Brah.Sû.Bh., IV.1.3; Brih.Up.Bh., IV.3.22: Yatra vedâh avedâh) e, per la stessa
ragione, non si può neppure affermare che l’essere contingente (jîva) è diventato l’Assoluto, poiché non
aveva mai cessato di esserlo (cfr. Brih.Up.Bh.,
VI.4.6). Dunque, il mezzo, pur facendoci pervenire allo scopo, trascende i
limiti del piano di riferimento ontologico o concettuale di partenza, per cui,
“oltrepassato il limite”, tutto ciò che risultava “sensato” nel piano di
riferimento, dopo diventa “in-sensato” in rapporto a tale piano. “Egli deve,
per così dire, gettar via la scala dopo che v’è salito (Tractatus, 6.54), il che richiama il noto simbolo buddhista della
zattera. Ciò non va però inteso come un rigetto delle prescrizioni legali (ibâha) che, nella tradizione islamica,
non è ammesso ad alcun livello di realizzazione spirituale (cfr. Kalâbâdhî, Kitâb at-ta‘arruf, trad. it. a cura di
P. Urizzi: Il Sufismo nelle parole degli
Antichi, Palermo, 2002, pp. 110-111). Se nell’Advaita-Vedânta assistiamo al
rigetto dell’azione, ciò va inteso solo come un distacco dalle prescrizioni
rituali intese all’ottenimento di un frutto particolare, diverso dal Sé, ma
anche in questo il sannyâsi non fa
che conformarsi alle prescrizioni vediche relative al suo status spirituale.
[13]
Ciò non esclude che comunque non vi possa essere anche uno svelamento del Kibriyâ’; l’Imâm ‘Alî, cugino del
Profeta, ha detto infatti: “La Conoscenza consiste nello svelamento delle
Glorie della Maestà divina (subuhât
al-jalâl), e il suo punto estremo è lo stupore nel Kibriyâ’ di Allâh” (cfr. P. Urizzi, “La visione teofanica secondo
Ibn ‘Arabî. Parte II”, in Perennia Verba 2, 1998, pp. 3-14).
[14]
Ansârî, Manâzil as-sâ’irîn, Il Cairo,
1962, arabo p. 113, tr. fr. pp. 138-139.
[15]
Si tratta della prima parte della Professione di fede islamica.
[16]
Sahlâjî, An-Nûr min kalimât Abî Tayfûr,
ed. ‘A.R. Badawî in Shatahât as-sûfiyya,
Beirut, 1978, p. 104.
[17]
Detto spesso citato da Ibn ‘Arabî (cfr. Futûhât,
II, p. 619, e III, p. 132); vedere anche Kalâbâdhî, Il Sufismo nelle parole degli Antichi, cit., p. 252. Citato anche infra, p. 135. Una sentenza analoga si
trova in Platone, Apol., 23a-b.
[18]
“Quantunque egli non conosca, tuttavia conosce; …è solo che non vi è più colà
una seconda cosa, distinta da se stessi, sì da poter essere conosciuta” (Brih.Up., IV.3.30); cfr. A.K.
Coomaraswamy, Selected Papers, 2: Methaphysics, Princeton, 1977, p. 212.
[19]
Alla lettera “il fondo della sua essenza”, che corrisponde a quel che Eckhart
chiama il “fondo dell’anima” (cfr. infra, n. 88), da associare all’antahpurusha, la “persona interiore”
della tradizione indù. Tale nozione è identificata da Eckhart con quella di synderesis o synteresis (probabile corruzione di syneidesis, “conscienza”), termine della scolastica medievale,
postulato da S. Tommaso (De Veritate,
17.2), che indicava la capacità di cogliere direttamente le realtà universali.
[20]
In realtà l’uso del termine “accedere” (husûl)
è strumentale; alla Verità ultima non si accede, essa si “trova” (wujûd). La dialettica è il processo
logico che permette di sciogliere il dubbio riguardo alla proposizione; quando
l’evidenza s’impone in modo autonomo e non ammette dubbio, allora non vi è
alcuna necessità di un procedimento dialettico: in questo caso la conoscenza è
immediata. La Conoscenza suprema è sempre di questo tipo e ciò che la produce
(o meglio “induce”, non trattandosi d’un risultato “non-preesistente”) è il tajallî dhâtî, l’Auto-manifestazione
essenziale. Quanto alla téchne, essa
considera i mezzi necessari alla progressiva spoliazione (tajrîd) degli “involucri” che sembrano avvolgere la Coscienza
trascendente. Il primo processo è di natura logica, il secondo di natura
ontologica. L’accesso alla Coscienza trascendente non è mai il risultato di una
téchne; esso non può attuarsi che in modo autonomo, come nel caso dell’evidenza
per quanto riguarda l’aspetto gnoseologico. Questa modalità di realizzazione
effettiva della Realtà suprema è conosciuta nel tasawwuf col termine jadhba
ilâhiyya, “attrazione divina”.
[21]
“La rassomiglianza e l’amore ardente attirano verso l’alto, conducono l’anima
nella prima origine dell’Uno, padre di tutti… Io dico dunque che la somiglianza
che nasce dall’Uno attira l’anima in Dio, in quanto egli è Uno nella sua unione
nascosta” (Eckhart, Benedictus Deus,
in Opere tedesche, Firenze, 1982, p.
18).
[22]
Al-Haqîqa, identica ad al-wujûd al-mutlaq, l’“Essere assoluto”,
dove wujûd sta anche per la “realtà
attuale” (cfr. sanscr. paramârtika satyam, la “Realtà suprema”, opposta
tanto a vyavahârika satyam, la “realtà empirica”, che a pratibhâsika satyam”, la “realtà soggettiva”). Sulla Haqîqa come Realtà ultima, vedere Qâshânî, La domanda essenziale. Dialogo sulla Verità suprema, a c. di A.
Grigio, Torino, 2001.
[23]
Vedere infra, p. 58 ss., 132.
[24]
Hadîth non canonico diffuso tra i
Sufi, che i tradizionisti fanno risalire a Ibn Mu‘âdh ar-Râzî, ma che Ibn
‘Arabî attribuisce al Profeta sulla base dello svelamento intuitivo (cfr.
‘Ajlûnî, Khafâ’, II, 262; Suyûtî, Addurar al-muntathira, 258). Vedere infra, nota 49.
[25]
Cfr. Gen., 1, 26-27.
[26]
La nozione risale ad Empedocle (fr. 109, gaíni
mèn gàr gaîan opópamen ecc.), rielaborata da Platone nella sua dottrina
della conoscenza (cfr. Phaed.,
74a-75c).
[27]
Cfr. Platone, Theaet., 176a-b;
Plotino, Enn., I.2 (vedere anche Sumi
Sivaratnam, “Assimilation to god as
self-knowledge in Ennead 1.2”, in Prudentia,
Suppl. 2001, pp. 321-338).
[28]
Cfr. Filone, De Op. Mundi, IV.16;
VI.24-25.
[29]
Cfr. Cor. 33:72. L’Amâna è il segreto
divino che Dio ha consegnato all’uomo all’atto della sua creazione, rendendolo
degno della Luogotenenza divina (khilâfa).
Cfr. G. De Luca, “Non sono Io il vostro
Signore?”, in Quaderni di Avallon
31, 1993, p. 68, e Ch.A. Gilis, Le sept
Étendards du Califat, Parigi, 1993, cap. XX.
[30]
Hadîth noto presso i Sufi; lo ha
riportato Ghazâlî nell’Ihyâ’, III,
15, ma viene contestato dai tradizionisti (cfr. ‘Ajlûnî, Khafâ’, II, 195-196).
[31]
Abû Dâwud, Adab 49. Questa è
un’interpretazione esoterica del hadîth,
resa possibile dal fatto che al-Mu’min
è anche un nome divino; in termini ordinari, invece, esso si riferisce al fatto
che ciascun credente riflette gli altri credenti.
[32]
Letteralmente: il “legno”, ossia la materia prima che necessita l’intelligenza
e l’opera di un Carpentiere cosmico per costruire un mondo ordinato; l’armonia
(armoinía) non è altro che la
“carpenteria” (cfr. A.K. Coomaraswamy, Selected
Papers, 2: Methaphysics, cit., 7,
p. 349 n.).
[33]
Qui, in realtà, è più questione di materia
secunda, riflesso elementare di quella Prakriti,
la Sostanza universale delle dottrine cosmologiche indù (il Sâmkhya), che non solo è priva di ogni
“coscienza” (cit), ma neppure potrebbe dare origine a forme ordinate di
esistenza senza l’influenza agente di Purusha,
il Principio trascendente che si polarizza allora in quanto Essenza universale
(cfr. R. Guénon, Il Regno della quantità
e i segni dei tempi, Milano, 1982, capp. I e II). Questo principio è
rappresentato nella tradizione islamica dal Kun,
il fiat cosmogonico, equivalente del Lógos divino, che si polarizza come
principio intellettuale (al-‘aql alawwal,
l’Intelletto primo) nei confronti della “Tavola custodita” (al-lawh al-mahfûz) delle possibilità di
manifestazione.
[34]
Per alcuni scienziati moderni la coscienza è un epifenomeno della materia; una
critica a tale punto di vista, assimilabile a quello dei Cârvâka o materialisti (lokâyatika)
dell’India, è affrontata nei commenti al Brahma-sûtra,
ap. III.3.53-54. Per i problemi attuali del rapporto tra vita e coscienza si
veda G. Monastra, Le origini della vita,
Rimini, 2000.
[35]
Nel linguaggio della Rivelazione, il Veda
lo chiama Brahman (cfr. il satyam jñânam anantam Brahma, “Il Brahma
è essere, conoscenza [=coscienza, anubhûti,
consapevolezza, avabodha], infinito”
di Taitt. Up., II.1.1). Il Brahman è nirguna o “non qualificato” quando è per sé, senza le sue
determinazioni ontologiche; saguna o
“qualificato” quando è considerato in quanto principio della molteplicità. Al-lâ ta‘ayyun, “il Senza-determinazione”
(equivalente del Nirguna-Brahman), è
la denominazione data da Qûnawî al Principio incondizionato; nel Corano è il
nome divino Allâh, referente teologico dell’Essenza, anche se questa, per sé, è
“Senza nome” (il wu ming, del Tao Tê
Ching, I.5; qualificato o “col nome”, yu
ming, diviene la “Madre dei diecimila esseri”, ibid. I.6) e all’Essenza si
può solo alludere.
[36]
Nel senso secondo cui, per Cusano, “l’infinito complica ogni cosa” (De Docta Ign., II, 3).
[37]
Abû Sa‘îd al-Kharrâz, Kitâb al-farâgh,
in Rasâ’il, Baghdad, 1967, p. 45.
Sull’Io divino vedere anche H. Landolt, “Deux
opuscules de Semnânî sur le moi théophanique”, in Mélanges Henri Corbin, Tehran, 1977, pp. 279-319.
[38]
Nella dottrina advaita post sankariana, a cominciare dal discepolo Padmapâda,
l’Ignoranza (avidyâ) essenziale ed
originaria (mûla-avidyâ) è identica a
Mâyâ, intesa come il duplice potere
inerente al Brahman: il potere di
occultare (âvarana-éakti) la Realtà
ultima e quello di proiettare (un’illusoria manifestazione) (vikshepa-éakti). In rapporto alla
molteplicità illusoria, la Mâyâ
appare come la causa sostanziale trasformante (parinâma-upâdâna), mentre il Brahman,
che è il substratum (âéraya) immutabile delle trasformazioni,
come la causa sostanziale trasfigurante (vivarta-upâdâna).
Troviamo un’analoga concezione in Ibn ‘Arabî, secondo il quale “il fondamento
nel cosmo è l’ignoranza (al-asl fî
al-‘âlam al-jahl), mentre la conoscenza è acquisita. La conoscenza è
esistenza (al-‘ilm wujûd) e
l’esistenza appartiene a Dio, mentre l’ignoranza è non-esistenza (al-jahl ‘adam) e la non-esistenza
appartiene al cosmo” (Fut., III, p.
160). Anche Padmapâda, infatti, assimila l’avidyâ
alla non-esistenza (avyakta, il
“non-manifestato”; cfr. Pañcapâdikâ,
Madras, 1938, p. 98), e possiamo notare che il termine arabo asl è un perfetto sinonimo del sanscrito
mûla, “radice”. Per Sankara,
tuttavia, Mâyâ, Prakriti, avyakta, ecc.,
sono solo i frutti, immaginati e prodotti, dell’Ignoranza e i suoi effetti, ma
non sono identici ad essa. Per una visione del delicato problema della Mâyâ in Sankara e nei suoi successori si
veda M. Piantelli, Sankara e il
Kevalâdvaitavâda, Roma, 1998, p. 240.
[39]
Sankara, Brah.Sû.Bh., I.1, adhyâsa-bhâshya. Sul concetto di adhyâsa, cfr. S.H. Phillips, “Padmapâda’s Illusion Argument”, in Philosophy East and West 37, January
1987, pp. 3-23; più in generale, si veda N. K. Devaraja, An Introduction to Sankara’s Theory of Knowledge, Delhi, 1962.
[40]
Brah.Sû.Bh., ibid.
[41]
O “Spettatore” (paridrashtrin), a cui
si può accostare, in parallelo, la nozione di shâhid al-Haqq della primitiva dottrina del sufismo, come risulta
ad esempio dalla risposta di Hasan ibn ‘Alî ibn al-Yazdâniyâr alla domanda:
“Quando perviene lo gnostico alla contemplazione diretta del Principio (mashhad al-Haqq)?”. “Quando appare il
Testimone (ashshâhid), cessa la
visione delle cose esteriori (fanâ
ash-shawâhid), scompaiono le facoltà sensibili e svanisce la sincerità”
(Kalâbâdhî, Il Sufismo nelle parole degli
Antichi, cit., p. 262). Junayd ha dato questa definizione di shâhid: “Il Testimone dell’Essere divino
è presente alla tua persona ed ai tuoi pensieri e li controlla, e quel che è
visto interiormente (mashhûd) è quel
che attesta in te il Testimone divino” (Sarrâj, Kitâb al-luma‘, p. 339).
[42]
“Lett. “il soggetto che presenta l’io” (sott’inteso, al Sé interiore).
[43]
Che Sankara assimila al manas, il
“mentale” (cfr. Brah.Sû.Bh., II.3.32).
[44]
Nello śloka 127 del Vivekacûdâmani (testo attribuito a
Sankara, ma che alcuni considerano essere in realtà un testo del XVI sec.) il
Sé, come Testimone trascendente, è definito aham-pratyaya-lambanah,
il substrato della percezione dell’io. Il Sé si presenta come oggetto di
conoscenza individuale nella misura in cui appare soggetto alle condizioni
limitative (upâdhi) derivanti dagli
elementi aggiuntivi, ossia l’organo interno, le facoltà di conoscenza e
d’azione (indriya) con gli organi di
senso, e i corpi sottile e grossolano che, per la scuola advaitavâda
śankariana, sono il prodotto dell’Ignoranza innata (avidyâ); detto in altri termini, ciò accade fintantoché il soggetto
conoscente è un jîva, un’anima
individuale.
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