"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

mercoledì 14 febbraio 2018

Paolo Urizzi, I fattori della Sintesi trascendente - 1/2


Paolo Urizzi
I fattori della Sintesi trascendente
Prefazione a Ibn ‘Arabî, Il libro del Sé divino (Kitâb al-yâ’ wa Huwa kitâb al-Huwa)
Parte 1/2


Il presente opuscolo, pur nella sua brevità, è notevole sotto molti riguardi e lo stesso Shaykh al-Akbar ci avverte: «Studia attentamente questo libro, poiché per suo tramite ti appaiono brillanti numerosi segreti elevati che gli Uomini di questa Via hanno [sempre] celato»[1].
È questo il motivo che, alla fine, ci ha fatto decidere per la sua pubblicazione, nonostante le evidenti difficoltà con cui il lettore dovrà cimentarsi. Infatti, al di là delle previste oscurità cui è avvezzo chiunque abbia una seppur minima frequentazione delle opere akbariane, il trattato è complicato da un ulteriore ostacolo per quei lettori che non hanno alcun rudimento della lingua araba, per quanto l’eccellente lavoro di Chiara Casseler non manchi di fornire le delucidazioni indispensabili a chiarirne il senso. Una scelta, dunque, non facile, ma tuttavia dettata dall’essenzialità dell’argomento poiché, come il titolo lascia chiaramente intendere, il testo affronta direttamente la questione del Sé divino e la sua relazione con l’essere individuale, simboleggiati nel linguaggio rispettivamente dal pronome personale di terza persona, huwa (“egli”), e da quello di prima persona, anâ (“io”), che in arabo è all’occorrenza rappresentato dalla lettera yâ’[2]. Oltre a questi due, vi è naturalmente il pronome di seconda persona, anta (“tu”), ossia tutto ciò che è “altro da me” e s’identifica all’oggetto che entra in relazione col soggetto. Il Sé, infatti, non potendo mai essere considerato come un “oggetto” e non potendo neppure identificarsi con l’io empirico, viene designato col pronome della “persona assente” (al-ghâ’ib, alla lettera “colui che non è oggetto di visione diretta”), il Huwa appunto. Si tratta, insomma, dei principali parametri di riferimento di ogni logica del linguaggio, ma soprattutto di quelli del linguaggio della metafisica, quand’anche della “Persona assente” non rimanga in fondo espressione più adeguata che il silenzio.
Come si può facilmente vedere, quelli implicati sono anche gli elementi fondanti di ogni epistemologia: la coscienza individuale e la sua relazione con il mondo, nonché la sua reale identità, fine ultimo di ogni dottrina metafisica e di ogni indagine gnoseologica. Il concetto di “io” corrisponde alla coscienza e al dominio mentale, il microcosmo; quello del “tu” al mondo fisico e al dominio cosmologico, il macrocosmo; l’“egli”, infine, a ciò che trascende entrambi i domìni[3]. Questi sono gli ambiti in cui si esercita la ricerca della conoscenza, e quindi della Realtà ultima, sia in ambito sacro e tradizionale sia in quello dell’indagine filosofica, con la sola fondamentale differenza che, mentre nel primo caso il criterio d’indagine rimane ancorato alla Rivelazione (ar. wahy), intesa come un’ispirazione di origine “non-umana” (cfr. sanscr. apaurusheya), nel secondo esso si affida unicamente agli strumenti inerenti all’essere individuale[4]; quest’ultima ricerca, pertanto, non può che ridursi, vuoi alle capacità d’indagine interiore (diánoia), ossia all’intelletto razionale, vuoi agli strumenti di conoscenza del mondo esteriore, essenzialmente costituiti dalle nostre facoltà di percezione (aísthesis, sanscr. indriya).
I fautori della conoscenza a priori (ar. badîhî), di tipo logico e razionale, sono considerati gli “idealisti”; quelli che considerano solo la conoscenza a posteriori (ar. kasbî)[5], riducendola al dominio della percezione sensibile, sono i “materialisti”; quelli che, invece, considerano la possibilità di accedere alla sfera dell’Assoluto sono i “trascendentalisti”[6]. Ovviamente, quando si applicano questi schemi, essenzialmente profani e moderni, alle suddivisioni del pensiero tradizionale, bisogna fare dei debiti distinguo, specialmente quando si tratta di dottrina metafisica. La loro menzione è intesa solo a mostrare certi parallelismi del pensiero umano nel suo insieme e le analoghe posizioni concettuali che si sono sviluppate nel corso della storia; ma quelle che separano il mondo sacrale della Philosophia Perennis dal pensiero della filosofia tout-court possono essere tanto distanti quanto lo sono le motivazioni che animavano le rilevazioni astronomiche dei costruttori di Stonehenge da quelle degli scienziati dell’osservatorio di Mount Palomar in California. Nondimeno, analogie si possono riscontrare in ogni tempo e sotto ogni latitudine, poiché non c’è nulla di nuovo sotto il sole e gli argomenti, ad esempio, della critica tradizionale al pensiero materialista, o almeno a quello che più sembra corrispondergli, si applicano altrettanto bene in entrambi i contesti.
Tale storia del pensiero umano si può dunque descrivere come il graduale passaggio dalla realizzazione di ciò che è per sua natura “senza limite” alla mera investigazione del “limite”, un limite sempre più definito e circoscritto, come precisamente è il campo della moderna mentalità scientifica e filosofica. Non si tratta, in ultima analisi, che della riproduzione sul piano epistemologico del principio di differenziazione o, se si preferisce, di frammentazione, proprio dell’aspetto quantitativo della manifestazione e, poiché quest’ultimo è quello che più caratterizza l’ambiente e l’epoca nei quali viviamo, all’uomo moderno giunge difficile concepire la realtà come forma significante di un Principio di ordine superiore che ne è ad un tempo la causa efficiente e l’essenza trascendente; un principio che, proprio per la sua assolutezza, non ammette alcunché di esteriore alla sua natura indivisa[7]. Questo modo particolaristico di vedere le cose, per sua stessa natura, si situa palesemente agli antipodi di quello sintetico che presuppone la capacità di coglierne l’essenza uscendo dai limiti del sistema di riferimento[8]. È come se i contemporanei si peritassero di analizzare in modo sistematico le relazioni che connettono tra loro i punti di una circonferenza, per loro natura indefiniti e quindi non analiticamente esauribili, senza riuscire invece a cogliere il tutto nella sintesi del centro[9] da cui la circonferenza ha origine e in cui tutti i punti che la costituiscono alla fine si risolvono[10].
Restando dunque nell’ambito della circonferenza si sarà sempre e in ogni caso vincolati ad una qualche forma di relativismo. Tale conoscenza, infatti, è giocoforza solo di ordine empirico o psicologico dal momento che la conoscenza che procede dalla circonferenza, e di conseguenza anche la rappresentazione della Realtà che ne deriva, non può, per sua natura, oltrepassare i limiti della relazione soggetto-oggetto. In un certo senso si potrebbe arrivare a dire che perfino la conoscenza derivante dalla percezione sensibile, pur non essendo una semplice astrazione – è pur sempre considerata un valido strumento di conoscenza (sanscr. pramâna) anche nella scienza tradizionale[11] –, risulta essere, in fin dei conti, una rappresentazione della mente. La mente, infatti, rimane comunque un filtro per tutti i contenuti di questa esperienza la quale, pertanto, non potrà mai risultare totalmente “oggettivabile”. Una ben nota sentenza buddhista ci ricorda che «gli elementi della realtà (dhammâ, ossia i “fenomeni” dell’esperienza empirica) hanno la mente come principio (manopubbangamâ), hanno la mente come elemento essenziale (manosetthâ) e sono costituiti di mente (manomayâ)» (Dhammapâda, I.1).
Da qui l’impasse dei sistemi filosofici che, presupponendo come criteri dell’epistéme (la conoscenza scientifica), unicamente le categorie razionali del pensiero discorsivo (gr. dianóesis), non possono non cadere nell’aporia di postulare un Assoluto – quando lo fanno – a partire dal relativo, o di affermare l’Unità divina a partire dalla dualità. Non diverso però, quanto alla Realtà ultima (al-haqîqa), sarebbe il caso delle “stazioni” della Via iniziatica; la Meta rimane pur sempre al di là e al di fuori di quanto può essere raggiunto dalla nostra “visione interiore” (basîra) o dallo “svelamento” di ordine soprasensibile (kashf), dal momento che, inesorabilmente, ogni “raggiungimento” (idrâk) si situa nel dominio del contingente e del relativo, mentre la Realtà ultima trascende ogni ordine creato, nonché la sua stessa trascendenza che, una volta postulata, costituisce essa stessa una “relazione” limitativa[12]. Non si afferma forse in una tradizione profetica che “Allâh è nascosto da settantamila veli di luce e di tenebra”? Per quanto ci si elevi nei gradi della realizzazione spirituale, ciascuno di questi gradi – in quanto “gradi”, beninteso – rimane comunque un velo che ci separa ancora dalla possibilità di conoscere veramente la Realtà Suprema, la cui infinità (kibriyâ’) permane inviolata al di là di tutti questi veli[13]. È per questo che ‘Abd Allâh al-Ansârî (m. 1089) concludeva le sue Dimore degli itineranti con dei drastici versi sull’unico vero tawhîd, l’affermazione dell’Unità:
L’Unità dell’Unico nessuno l’afferma:
chiunque l’affermi la nega.
L’affermazione dell’Unità,
in chi parla di tale Sua qualità,
è vano discorso che l’Unico annienta.
L’affermazione della Sua Unità a Se stesso
È l’affermazione vera della Sua Unità”[14].
Ed è per lo stesso motivo che Abû Yazîd al-Bistâmî (m. 874), qualche secolo prima, dichiarava: «Gli uomini si pentono dei loro peccati. Quanto a me, io mi pento di dire: “Non v’è divinità se non Dio”[15]. Perché io lo dico con la voce e le lettere, mentre il Vero (al-Haqq) è al di là della voce e al di là delle lettere»[16]. Ecco allora riverberare tra gli apofatici del sufismo la frase del califfo Abû Bakr as-Siddîq: “L’impotenza a raggiungere la comprensione è comprensione (al-‘ajz ‘an dark al-idrâk idrâk)”, considerata da molti come l’ultima parola in fatto di dottrina dell’Unità[17].
E allora, gnosi o agnosticismo? La domanda è ovviamente retorica, poiché la frase citata non è un’affermazione di agnosticismo; essa, al contrario, viene considerata come l’unico mezzo per accedere, per via apofatica, alla conoscenza (ar. ma‘rifa) che concerne la Realtà ultima[18]. Ma il solco che divide le due sponde dello scetticismo agnostico e della metafisica tradizionale è troppo profondo perché fra i partigiani dell’uno o dell’altro fronte vi siano dei canali di comunicazione. Quelli, tra i nuovi maîtres à penser, che non riescono a concepire una via trascendente per l’intuizione metafisica (gr. nóesis, sanscr. antarjñâna) dell’Essenza senza dualità sono costretti a rigor di logica a negarne la possibilità. Anche il semplice fatto di presupporla, infatti, richiederebbe di ammettere la presenza, nell’essere, d’un principio di natura trascendente capace, come tale, d’una conoscenza non-empirica. Ovviamente, non po’ tendo essere verificabile dall’“esterno” in quanto non dimostrabile in termini di conoscenza empirica, un tale principio, quand’anche fosse ipoteticamente postulato, stando a questi parametri non potrebbe essere classificato che come un elemento del “soggettivismo” idealista e pertanto inconsistente quale strumento di validità epistemologica. Quanto all’argomento a priori, se limitato ad una concezione meramente mentale (cogitatione), neppur esso risulterebbe esente dalla critica di soggettivismo psicologico, e si arriverebbe di nuovo alla presunzione di non-validità. Tutto questo solo perché si continua a voler stabilire criteri di conoscenza assoluta a partire da fattori che per loro natura sono soltanto relativi, il che è una contraddizione in termini. È la storia del voler trarre la “misura” della circonferenza a partire dalla circonferenza, mentre è solo la presenza d’un elemento trascendente a permettere l’operazione di “passaggio al limite”.
Qual è quindi l’argomento valido a giustificare la possibilità di superamento del limite e la presenza d’una realtà ultima immanente nel soggetto (ar. kunh dhâtihi)[19] che permetta la sintesi tra la conoscenza soggettiva e quella oggettiva?
L’insegnamento unanime e universale di ogni dottrina metafisica, quale che sia il procedimento dialettico o la téchne (metodo o arte) che ci permette di accedere alla conoscenza certa della verità[20], vede nell’unità indivisibile del Tutto e nella presenza immanente della sua essenza in ciascuna delle sue parti il fondamento dell’Identità suprema (ar. tawhîd), identità che non ha altro supporto che la stessa Realtà ultima[21]. È solo quest’Identità che consente di conoscere la Realtà[22], anche se questa suprema conoscenza rimarrà sempre ineffabile, apofatica e trascendente[23]. Gli esseri insenzienti, però, partecipano di questa identità in una forma meramente passiva, e non possono attuare quella più alta forma d’identità che solo l’atto sintetico del conoscere e dell’essere consente di realizzare. Tale capacità presuppone la presenza dell’intelletto (gr. nous, sanscr. buddhi, ar. ‘aql, intelletto acquisito), organo della percezione conoscitiva dell’essere. Ogni essere dotato d’intelletto è pertanto, almeno virtualmente, capace per sé della Conoscenza suprema, quella che, proprio per questo motivo, deve preliminarmente passare attraverso la conoscenza di se stessi, la delfica gnothi sautón («conosci te stesso») espressa anche dalla sentenza profetica: «Chi conosce se stesso conosce il suo Signore (man ‘arafa nafsahu ‘arafa rabbahu[24].
Ciò riguarda in particolar modo l’uomo, creato secondo l’immagine (gr. eikón) e la somiglianza (homoiôsis)[25]. Stando, infatti, al postulato degli antichi per cui solo «il simile conosce il simile»[26], egli non potrebbe conoscere la Realtà suprema se questa non gli fosse in qualche modo connaturata. Se è vero che ogni cosa, in quanto teofania, è un locus theologicus che rende manifesto il Tesoro nascosto dell’Essenza, l’uomo, in virtù della similitudine inerente alla sua natura intellettuale, è costituito però come essere a parte, un essere capace di “assimilarsi al divino” (homoiôsis theôi)[27] e quindi di conoscere Dio, poiché l’immagine che egli incarna è quella del Pensiero divino, Ragione eterna d’ogni cosa (gr. lógos, ar. haqîqat al-haqâ’iq), a modello del quale è stato formato e plasmato[28]. Non va dimenticato che egli è l’unico essere, secondo il Corano, ad aver accettato il peso del “Deposito di fiducia” (amâna) rifiutato dai cieli e dalla terra[29], e ciò va posto in relazione con quanto viene detto in una tradizione santa (hadîth qudsî): «I cieli e la terra non Mi contengono, ma Mi contiene il cuore del Mio servitore fedele»[30]. Dal momento che «il fedele è lo specchio del Fedele» (al-mu’min mir’ât al-Mu’min)[31], ossia di Dio, il “servitore fedele” di Dio (‘abd al-mu’min) non è altri che colui il cui cuore è divenuto specchio dell’Eterno e, assimilatosi a Lui, riflette l’Infinito.
Quest’autologia dell’essere appare, dunque, come un riflesso dell’Autologia del Principio. Se il Principio non conoscesse Se stesso, nulla potrebbe conoscerLo, e l’essere non solo non potrebbe conoscere la sua origine essenziale, ma neppure potrebbe conoscere alcun’altra cosa, poiché verrebbe meno il fondamento stesso d’ogni epistéme: la sostanza inerte (gr. hýle)[32] rimane tale e non sviluppa da sé la coscienza (con-sapevolezza, gr. syneídesis, sanscr. samjñâna)[33], senza la quale ogni altra conoscenza sarebbe impossibile[34]. In altre parole la sostanza inerte è “indescrivibile” (sanscr. anirvacanîyam, cioè non-oggettivabile) senza un soggetto cosciente, e il vero e unico “Soggetto” della Realtà è, in fondo, solo il Sé divino, che, al tempo stesso e ad un livello diverso da quello dell’Unità pura e sopra-ontologica (ar. ahadiyya), è anche, per così dire, l’“oggetto” di Se stesso in Se stesso. L’infinito (sanscr. ananta, ar. al-lâ ta‘ayyun, che comporta al-wujûd al-mutlaq, l’Essere assoluto)[35], pur complicando omnes distinctiones (sanscr. bheda, viéesha, ar. ta‘ayyunât)[36] – rimane in se stesso senza dualità: un’Identità suprema e trascendente che Kharrâz (m. 890) aveva sintetizzato affermando che, «al di fuori di Dio, a nessuno è consentito di dire “Io” (anâ[37].
Ciò premesso, dobbiamo però indagare la relazione che unisce tra loro i differenti elementi della dialettica epistemologica. La metafisica indù del puro non-dualismo (kevalâdvaitavâda) parte dal presupposto che l’ignoranza[38] al riguardo della Realtà suprema è la sola causa dell’illusoria “alterità” che fa apparire la molteplicità dell’esistenza. Per Sankara (VIII-IX sec.) tale alterità, prodotta dall’ignoranza, è dovuta alla falsa “sovrapposizione” (adhyâsa), che consiste nell’imputare erroneamente le qualità essenziali dell’oggetto (vishaya) – identificabile con il concetto “tu” (yushmad), ossia tutto ciò che è “altro che me” – a quelle del soggetto (vishayin) – identificabile con il concetto “io” (asmad). Infatti, pur essendo gli attributi dei loro rispettivi campi d’azione mutualmente opposti come la luce e la tenebra, nell’esperienza ordinaria (vyavahârah) di questo mondo constatiamo che il soggetto s’identifica con gli attributi dell’oggetto quando afferma: «io sono ciò», «questo è mio»[39].
Nelle righe iniziali del suo Bhâshya, il maestro vedântin enuncia in sintesi la natura della Realtà e quella dell’illusione derivante dall’esperienza empirica e dall’ignoranza (avidyâ) fondamentale dei veri attributi del “soggetto conoscente”, radice di tutti i veli che impediscono di scorgere la Realtà ultima dell’esistenza, ossia il Sé o Âtman. Coerente con la sua logica non-dualista, la dottrina Sankariana non ammette alcuna reale dicotomia tra l’unico Soggetto della coscienza trascendente e il suo riflesso individualizzato nell’essere vivente (jîvâtma): l’esistenza del jîva individuale è soltanto una “sovrapposizione” illusoria al Sé supremo, non un’entità reale che in qualche modo gli si “aggiunge”, e questo Sé immanente nell’individuo non è assolutamente inconoscibile. Ad un’obiezione riguardante il concetto di adhyâsa, dove si afferma che il Sé interiore (pratyagâtman), opponendosi al non-Sé, non diviene mai oggetto dei sensi e delle facoltà mentali, Sankara risponde, infatti, dicendo che non è vero che il Sé interiore «è un non-oggetto in senso assoluto (ekântena-avishayah), poiché esso è una realtà d’immediata percezione (aparokshatvât) e s’identifica col concetto di “io” (asmat-pratyaya-vishayatvât[40]. Ovviamente, non è il pratyagâtman, il Sé interiore, ad essere un “oggetto”; avendo in se stesso la sua propria luminosità (svayamprakâsha), esso è piuttosto il “Soggetto trascendente” (il “Testimone”, sâkshin)[41] di ogni forma di conoscenza, da non confondersi, dunque, con il semplice soggetto empirico, l’ahampratyayin[42], che è l’organo interno (antahkaranam)[43]. È a quest’ultimo, infatti, che il Sé si presenta come un “oggetto”, anche se questo Sé “oggetto” della percezione dell’io (aham-pratyaya-vishaya) è, a rigore, non il sâkshin, ma soltanto l’ahamkartri, “quello che fa l’io”, ossia il Sé quale principio immediato dell’individualità, la sua causa strumentale[44].



[1] Infra, p. 160.
[2] Come in tutte le lingue semitiche, anche nell’arabo i pronomi hanno due forme, una isolata ed una suffissa, che serve per il complemento oggetto e i complementi indiretti, come nel genitivo di me, di te, di lui, ecc., rappresentati da un suffisso che si unisce al nome, verbo o particella a cui si riferisce. La lettera yâ’ (= î) rappresenta il pronome suffisso me; es.: kitâb (libro) + î (me) diviene kitâbî = il libro di me (ossia “il mio libro”).
[3] Ibn ‘Arabî sintetizza il discorso in questo modo: “Anâ [“io”] è più vicino a Huwa [“Egli”] di Anta [“Tu”] e di Ka [“Te”, come suffisso], poiché Anta è quanto di più lontano ci sia da Huwa” (infra, p. 140).
[4] “Per questo nella tradizione indù si parla di darshana, alla lettera “punti di vista”, e non già di “sistemi”, che comportano sempre l’idea d’un ordine chiuso; per essa, tutti i darshana fondati sulla Rivelazione (il Veda, in questo caso) sono chiamati âstika (il “vi è” che attesta il riferimento al Veda, ossia ortodossi), gli altri nâstika (“non vi è” tale riferimento, ossia eterodossi). Nell’Islam, ogni prospettiva fondata su di una Rivelazione è quella propria dei “credenti” (mu’minûn), tutti gli altri sono semplicemente i “non-credenti” (kuffâr).
[5] Per l’impiego di questi termini nella logica islamica cfr. G. Giurini, introd. ad Al-Qaysarî, La Scienza iniziatica, Torino, 2003, p. 23 n. 41.
[6] Questa Conoscenza, richiedendo in ogni caso una forma di “svelamento”, viene classificata dal tasawwuf come kashfî e, nella misura in cui comporta una certa forma di “percezione diretta” (sanscr. aparoksha), soggettiva e incomunicabile, è detta anche dhawqî, “saporosa” (cfr. ibid., pp. 21-22).
[7] Si tratta dell’Essere che, secondo Parmenide di Elea (V sec. a.C.), “essendo ingenerato è anche imperituro, tutt’intero, impassibile e senza fine. Quello che non è mai stato né mai sarà, perché è ora tutt’insieme (epeì nûn éstin ómoû pân), uno e continuo (sunechés)” (Peri Phuseôs, 8.3-6). Questa definizione trova un perfetto parallelismo in quella che la Sura Al-ikhlâs (Cor. 112) dà del Principio divino: “Dì: Egli Dio è Uno (ahad, Uno-senza-secondo), Dio è Il Tutto impenetrabile (as-samad, la Realtà piena, senza alcunché che le sia esteriore). Egli non ha generato né è stato generato, e nulla è simile a Lui”. Il termine as-Samad ben si accosta al “tutto pieno d’essere (pân d’émpleón èstin èóntos)” di Parmenide (ibid. 8.24). È scontato che entrambe le prospettive escludono ogni panteistica identità del mondo col suo Principio trascendente.
[8] Ciò è richiesto in modo assiomatico anche dai procedimenti della logica analitica, come possiamo vedere perfino in Wittgenstein: “Il senso del mondo dev’essere fuori di esso” (Tractatus, 6.41). Non essendo il mondo che l’insieme accidentale dei fatti, il loro Principio deve necessariamente trascendere tale divenire contingente, poiché altrimenti sarebbe esso stesso un accidente (cfr. ibid.). La formulazione del principio logico, però, non implica ancora l’intuizione del suo contenuto metafisico.
[9] L’intelletto puro, non discorsivo, coglie i suoi oggetti totum simul, senza discontinuità logica (cfr. l’ómoû pân e il sunechés, supra, n. 6). Vedere A.C. Lloyd, “Non-propositional Thought in Plotinus”, in Phronesis 31, 1986, pp. 197-228. Restando in questo àmbito, vale qui la pena di ricordare che per Plotino il “centro” s’identifica all’Uno e che sia esso sia l’Intelletto sono infiniti (cfr. J. Boulad Ayoub, “L’image du centre et la notion de l’Un dans les Ennéades”, in Philosophiques 11, 1984, pp. 41-70; e J.H. Heiser, “Plotinus and the apeiron of Plato’s Parmenides”, Thomist 55, 1991, pp. 53-81).
[10] Anche qui possiamo ritrovare una formulazione di Wittgenstein dello stesso tenore: “…il solipsismo, svolto rigorosamente, coincide con il realismo puro. L’Io del solipsismo si contrae in punto inesteso e resta la realtà coordinata ad esso” (Tractatus, 5.64). Quello che viene chiamato qui “Io” non è, come egli ci avverte, l’io empirico, poiché questo Io “è non l’uomo, non il corpo umano o l’anima umana della quale tratta la psicologia, ma il soggetto metafisico, il limite – non una parte – del mondo” (ibid. 5.641). Il “soggetto metafisico”, come si può facilmente vedere, non è altro che il Sé trascendente della metafisica tradizionale, soggetto del presente trattato di Ibn ‘Arabî.
[11] Anche se, come si è già indicato nella nota 2, il criterio principale di ogni valida conoscenza è, in una prospettiva tradizionale, prima di tutto la Rivelazione. Per la conoscenza della Realtà ultima, poi, le scuole metafisiche come l’advaita non ammettono altra fonte esteriore di valida conoscenza che il sabda-pramâna, ossia la testimonianza verbale della Scrittura, nella fattispecie le mahâvâkiyas, le “grandi attestazioni” upanishadiche, quali Tat tvam asi, “Tu sei Quello” (Chând.Up., VI.8.7), che affermano l’identità suprema tra il Sé (Âtman) e il Principio Incondizionato (Brahman).
[12] La dottrina indù della non-dualità giunge alla conclusione che, da un punto di vista assoluto, non vi è alcuna realtà della Rivelazione; al pari d’ogni altro aspetto della manifestazione, anche il Veda è mithyâ, un’entità di cui si ha l’esperienza, ma priva di una sua realtà intrinseca. Tuttavia, i maestri dell’Advaita Vedânta sostengono che, da un punto di vista empirico, il Veda è efficace, nel senso che “benché irreale” esso ci dà la conoscenza. L’aporia viene risolta quando, una volta trasceso il dominio della visione distintiva di soggetto e oggetto, si realizza che, sempre dal punto vista assoluto, non vi è neppure una vera conoscenza del Brahman, poiché il Principio incondizionato, essendo pura coscienza avente in sé la propria luminosità (svayamprakâsha), non ha alcun “oggetto” a lui esteriore a cui rivelarsi. Per Sankara, infatti, una volta ottenuta la conoscenza anche il Veda diviene non-esistente (Brah.Sû.Bh., IV.1.3; Brih.Up.Bh., IV.3.22: Yatra vedâh avedâh) e, per la stessa ragione, non si può neppure affermare che l’essere contingente (jîva) è diventato l’Assoluto, poiché non aveva mai cessato di esserlo (cfr. Brih.Up.Bh., VI.4.6). Dunque, il mezzo, pur facendoci pervenire allo scopo, trascende i limiti del piano di riferimento ontologico o concettuale di partenza, per cui, “oltrepassato il limite”, tutto ciò che risultava “sensato” nel piano di riferimento, dopo diventa “in-sensato” in rapporto a tale piano. “Egli deve, per così dire, gettar via la scala dopo che v’è salito (Tractatus, 6.54), il che richiama il noto simbolo buddhista della zattera. Ciò non va però inteso come un rigetto delle prescrizioni legali (ibâha) che, nella tradizione islamica, non è ammesso ad alcun livello di realizzazione spirituale (cfr. Kalâbâdhî, Kitâb at-ta‘arruf, trad. it. a cura di P. Urizzi: Il Sufismo nelle parole degli Antichi, Palermo, 2002, pp. 110-111). Se nell’Advaita-Vedânta assistiamo al rigetto dell’azione, ciò va inteso solo come un distacco dalle prescrizioni rituali intese all’ottenimento di un frutto particolare, diverso dal Sé, ma anche in questo il sannyâsi non fa che conformarsi alle prescrizioni vediche relative al suo status spirituale.
[13] Ciò non esclude che comunque non vi possa essere anche uno svelamento del Kibriyâ’; l’Imâm ‘Alî, cugino del Profeta, ha detto infatti: “La Conoscenza consiste nello svelamento delle Glorie della Maestà divina (subuhât al-jalâl), e il suo punto estremo è lo stupore nel Kibriyâ’ di Allâh” (cfr. P. Urizzi, “La visione teofanica secondo Ibn ‘Arabî. Parte II”, in Perennia Verba 2, 1998, pp. 3-14).
[14] Ansârî, Manâzil as-sâ’irîn, Il Cairo, 1962, arabo p. 113, tr. fr. pp. 138-139.
[15] Si tratta della prima parte della Professione di fede islamica.
[16] Sahlâjî, An-Nûr min kalimât Abî Tayfûr, ed. ‘A.R. Badawî in Shatahât as-sûfiyya, Beirut, 1978, p. 104.
[17] Detto spesso citato da Ibn ‘Arabî (cfr. Futûhât, II, p. 619, e III, p. 132); vedere anche Kalâbâdhî, Il Sufismo nelle parole degli Antichi, cit., p. 252. Citato anche infra, p. 135. Una sentenza analoga si trova in Platone, Apol., 23a-b.
[18] “Quantunque egli non conosca, tuttavia conosce; …è solo che non vi è più colà una seconda cosa, distinta da se stessi, sì da poter essere conosciuta” (Brih.Up., IV.3.30); cfr. A.K. Coomaraswamy, Selected Papers, 2: Methaphysics, Princeton, 1977, p. 212.
[19] Alla lettera “il fondo della sua essenza”, che corrisponde a quel che Eckhart chiama il “fondo dell’anima” (cfr. infra, n. 88), da associare all’antahpurusha, la “persona interiore” della tradizione indù. Tale nozione è identificata da Eckhart con quella di synderesis o synteresis (probabile corruzione di syneidesis, “conscienza”), termine della scolastica medievale, postulato da S. Tommaso (De Veritate, 17.2), che indicava la capacità di cogliere direttamente le realtà universali.
[20] In realtà l’uso del termine “accedere” (husûl) è strumentale; alla Verità ultima non si accede, essa si “trova” (wujûd). La dialettica è il processo logico che permette di sciogliere il dubbio riguardo alla proposizione; quando l’evidenza s’impone in modo autonomo e non ammette dubbio, allora non vi è alcuna necessità di un procedimento dialettico: in questo caso la conoscenza è immediata. La Conoscenza suprema è sempre di questo tipo e ciò che la produce (o meglio “induce”, non trattandosi d’un risultato “non-preesistente”) è il tajallî dhâtî, l’Auto-manifestazione essenziale. Quanto alla téchne, essa considera i mezzi necessari alla progressiva spoliazione (tajrîd) degli “involucri” che sembrano avvolgere la Coscienza trascendente. Il primo processo è di natura logica, il secondo di natura ontologica. L’accesso alla Coscienza trascendente non è mai il risultato di una téchne; esso non può attuarsi che in modo autonomo, come nel caso dell’evidenza per quanto riguarda l’aspetto gnoseologico. Questa modalità di realizzazione effettiva della Realtà suprema è conosciuta nel tasawwuf col termine jadhba ilâhiyya, “attrazione divina”.
[21] “La rassomiglianza e l’amore ardente attirano verso l’alto, conducono l’anima nella prima origine dell’Uno, padre di tutti… Io dico dunque che la somiglianza che nasce dall’Uno attira l’anima in Dio, in quanto egli è Uno nella sua unione nascosta” (Eckhart, Benedictus Deus, in Opere tedesche, Firenze, 1982, p. 18).
[22] Al-Haqîqa, identica ad al-wujûd al-mutlaq, l’“Essere assoluto”, dove wujûd sta anche per la “realtà attuale” (cfr. sanscr. paramârtika satyam, la “Realtà suprema”, opposta tanto a vyavahârika satyam, la “realtà empirica”, che a pratibhâsika satyam”, la “realtà soggettiva”). Sulla Haqîqa come Realtà ultima, vedere Qâshânî, La domanda essenziale. Dialogo sulla Verità suprema, a c. di A. Grigio, Torino, 2001.
[23] Vedere infra, p. 58 ss., 132.
[24] Hadîth non canonico diffuso tra i Sufi, che i tradizionisti fanno risalire a Ibn Mu‘âdh ar-Râzî, ma che Ibn ‘Arabî attribuisce al Profeta sulla base dello svelamento intuitivo (cfr. ‘Ajlûnî, Khafâ’, II, 262; Suyûtî, Addurar al-muntathira, 258). Vedere infra, nota 49.
[25] Cfr. Gen., 1, 26-27.
[26] La nozione risale ad Empedocle (fr. 109, gaíni mèn gàr gaîan opópamen ecc.), rielaborata da Platone nella sua dottrina della conoscenza (cfr. Phaed., 74a-75c).
[27] Cfr. Platone, Theaet., 176a-b; Plotino, Enn., I.2 (vedere anche Sumi Sivaratnam, “Assimilation to god as self-knowledge in Ennead 1.2”, in Prudentia, Suppl. 2001, pp. 321-338).
[28] Cfr. Filone, De Op. Mundi, IV.16; VI.24-25.
[29] Cfr. Cor. 33:72. L’Amâna è il segreto divino che Dio ha consegnato all’uomo all’atto della sua creazione, rendendolo degno della Luogotenenza divina (khilâfa). Cfr. G. De Luca, “Non sono Io il vostro Signore?”, in Quaderni di Avallon 31, 1993, p. 68, e Ch.A. Gilis, Le sept Étendards du Califat, Parigi, 1993, cap. XX.
[30] Hadîth noto presso i Sufi; lo ha riportato Ghazâlî nell’Ihyâ’, III, 15, ma viene contestato dai tradizionisti (cfr. ‘Ajlûnî, Khafâ’, II, 195-196).
[31] Abû Dâwud, Adab 49. Questa è un’interpretazione esoterica del hadîth, resa possibile dal fatto che al-Mu’min è anche un nome divino; in termini ordinari, invece, esso si riferisce al fatto che ciascun credente riflette gli altri credenti.
[32] Letteralmente: il “legno”, ossia la materia prima che necessita l’intelligenza e l’opera di un Carpentiere cosmico per costruire un mondo ordinato; l’armonia (armoinía) non è altro che la “carpenteria” (cfr. A.K. Coomaraswamy, Selected Papers, 2: Methaphysics, cit., 7, p. 349 n.).
[33] Qui, in realtà, è più questione di materia secunda, riflesso elementare di quella Prakriti, la Sostanza universale delle dottrine cosmologiche indù (il Sâmkhya), che non solo è priva di ogni “coscienza” (cit), ma neppure potrebbe dare origine a forme ordinate di esistenza senza l’influenza agente di Purusha, il Principio trascendente che si polarizza allora in quanto Essenza universale (cfr. R. Guénon, Il Regno della quantità e i segni dei tempi, Milano, 1982, capp. I e II). Questo principio è rappresentato nella tradizione islamica dal Kun, il fiat cosmogonico, equivalente del Lógos divino, che si polarizza come principio intellettuale (al-‘aql alawwal, l’Intelletto primo) nei confronti della “Tavola custodita” (al-lawh al-mahfûz) delle possibilità di manifestazione.
[34] Per alcuni scienziati moderni la coscienza è un epifenomeno della materia; una critica a tale punto di vista, assimilabile a quello dei Cârvâka o materialisti (lokâyatika) dell’India, è affrontata nei commenti al Brahma-sûtra, ap. III.3.53-54. Per i problemi attuali del rapporto tra vita e coscienza si veda G. Monastra, Le origini della vita, Rimini, 2000.
[35] Nel linguaggio della Rivelazione, il Veda lo chiama Brahman (cfr. il satyam jñânam anantam Brahma, “Il Brahma è essere, conoscenza [=coscienza, anubhûti, consapevolezza, avabodha], infinito” di Taitt. Up., II.1.1). Il Brahman è nirguna o “non qualificato” quando è per sé, senza le sue determinazioni ontologiche; saguna o “qualificato” quando è considerato in quanto principio della molteplicità. Al-lâ ta‘ayyun, “il Senza-determinazione” (equivalente del Nirguna-Brahman), è la denominazione data da Qûnawî al Principio incondizionato; nel Corano è il nome divino Allâh, referente teologico dell’Essenza, anche se questa, per sé, è “Senza nome” (il wu ming, del Tao Tê Ching, I.5; qualificato o “col nome”, yu ming, diviene la “Madre dei diecimila esseri”, ibid. I.6) e all’Essenza si può solo alludere.
[36] Nel senso secondo cui, per Cusano, “l’infinito complica ogni cosa” (De Docta Ign., II, 3).
[37] Abû Sa‘îd al-Kharrâz, Kitâb al-farâgh, in Rasâ’il, Baghdad, 1967, p. 45. Sull’Io divino vedere anche H. Landolt, “Deux opuscules de Semnânî sur le moi théophanique”, in Mélanges Henri Corbin, Tehran, 1977, pp. 279-319.
[38] Nella dottrina advaita post sankariana, a cominciare dal discepolo Padmapâda, l’Ignoranza (avidyâ) essenziale ed originaria (mûla-avidyâ) è identica a Mâyâ, intesa come il duplice potere inerente al Brahman: il potere di occultare (âvarana-éakti) la Realtà ultima e quello di proiettare (un’illusoria manifestazione) (vikshepa-éakti). In rapporto alla molteplicità illusoria, la Mâyâ appare come la causa sostanziale trasformante (parinâma-upâdâna), mentre il Brahman, che è il substratum (âéraya) immutabile delle trasformazioni, come la causa sostanziale trasfigurante (vivarta-upâdâna). Troviamo un’analoga concezione in Ibn ‘Arabî, secondo il quale “il fondamento nel cosmo è l’ignoranza (al-asl fî al-‘âlam al-jahl), mentre la conoscenza è acquisita. La conoscenza è esistenza (al-‘ilm wujûd) e l’esistenza appartiene a Dio, mentre l’ignoranza è non-esistenza (al-jahl ‘adam) e la non-esistenza appartiene al cosmo” (Fut., III, p. 160). Anche Padmapâda, infatti, assimila l’avidyâ alla non-esistenza (avyakta, il “non-manifestato”; cfr. Pañcapâdikâ, Madras, 1938, p. 98), e possiamo notare che il termine arabo asl è un perfetto sinonimo del sanscrito mûla, “radice”. Per Sankara, tuttavia, Mâyâ, Prakriti, avyakta, ecc., sono solo i frutti, immaginati e prodotti, dell’Ignoranza e i suoi effetti, ma non sono identici ad essa. Per una visione del delicato problema della Mâyâ in Sankara e nei suoi successori si veda M. Piantelli, Sankara e il Kevalâdvaitavâda, Roma, 1998, p. 240.
[39] Sankara, Brah.Sû.Bh., I.1, adhyâsa-bhâshya. Sul concetto di adhyâsa, cfr. S.H. Phillips, “Padmapâda’s Illusion Argument”, in Philosophy East and West 37, January 1987, pp. 3-23; più in generale, si veda N. K. Devaraja, An Introduction to Sankara’s Theory of Knowledge, Delhi, 1962.
[40] Brah.Sû.Bh., ibid.
[41] O “Spettatore” (paridrashtrin), a cui si può accostare, in parallelo, la nozione di shâhid al-Haqq della primitiva dottrina del sufismo, come risulta ad esempio dalla risposta di Hasan ibn ‘Alî ibn al-Yazdâniyâr alla domanda: “Quando perviene lo gnostico alla contemplazione diretta del Principio (mashhad al-Haqq)?”. “Quando appare il Testimone (ashshâhid), cessa la visione delle cose esteriori (fanâ ash-shawâhid), scompaiono le facoltà sensibili e svanisce la sincerità” (Kalâbâdhî, Il Sufismo nelle parole degli Antichi, cit., p. 262). Junayd ha dato questa definizione di shâhid: “Il Testimone dell’Essere divino è presente alla tua persona ed ai tuoi pensieri e li controlla, e quel che è visto interiormente (mashhûd) è quel che attesta in te il Testimone divino” (Sarrâj, Kitâb al-luma‘, p. 339).
[42] “Lett. “il soggetto che presenta l’io” (sott’inteso, al Sé interiore).
[43] Che Sankara assimila al manas, il “mentale” (cfr. Brah.Sû.Bh., II.3.32).
[44] Nello śloka 127 del Vivekacûdâmani (testo attribuito a Sankara, ma che alcuni considerano essere in realtà un testo del XVI sec.) il Sé, come Testimone trascendente, è definito aham-pratyaya-lambanah, il substrato della percezione dell’io. Il Sé si presenta come oggetto di conoscenza individuale nella misura in cui appare soggetto alle condizioni limitative (upâdhi) derivanti dagli elementi aggiuntivi, ossia l’organo interno, le facoltà di conoscenza e d’azione (indriya) con gli organi di senso, e i corpi sottile e grossolano che, per la scuola advaitavâda śankariana, sono il prodotto dell’Ignoranza innata (avidyâ); detto in altri termini, ciò accade fintantoché il soggetto conoscente è un jîva, un’anima individuale.



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