Paolo
Urizzi
I fattori della Sintesi trascendente
Prefazione
a Ibn ‘Arabî, Il libro del Sé divino (Kitâb al-yâ’ wa Huwa kitâb al-Huwa)
Parte 2/2
Le considerazioni finali sono d’una
portata fondamentale sul piano epistemologico perché da esse si evince che, pur
essendo il Sé una realtà d’immediata percezione dal momento che accompagna ogni
attività dell’intelletto (pratibodha-mâtrah)[1],
quel che diviene “oggetto” della conoscenza che abolisce l’ignoranza (avidyâ-nivritta) non è il Testimone in
quanto tale, bensì il riflesso della Coscienza sopra-individuale (cidâbhâsa) nell’intelletto (buddhi, il nous).
La conoscenza di quest’ordine
non è pertanto la Conoscenza trascendente (paramârthika-jñânam),
ossia quella che il Sé ha di se stesso in se stesso (svarûpa-jñânam), ma soltanto un’operazione particolare
dell’intelletto (vritti-jñânam) che
realizza la conoscenza intuitiva ed immediata (anubhâva-vidyâm) del Sé, ovvero, detto in altri termini, la presa
di coscienza del Sé interiore (prâtyagâtmaciti)
colta attraverso uno stato dell’intelletto (buddhi-janmanâ)
che lo riflette[2]. La
realtà assoluta non può essere dunque afferrata, una volta che quella empirica
è stata rimossa, che a partire dalla realtà soggettiva.
Quanto detto può aiutarci a penetrare
meglio la criptica dottrina di Ibn ‘Arabî su questo punto, cui egli allude nel Kitâb al-Yâ’ quando afferma in modo
allusivo: «Non esiste alcuna metafora che si possa avvicinare a Huwa [“Egli”, il Sé trascendente],
tranne che la yâ’ e specialmente
quando le è unita la lettera lâm in lî, “a me”, oppure quando le si unisce inna, “invero”, in innî, “in verità io”»[3].
La Yâ’, infatti, esprime il Sé
interiore, il Pratyagâtman, o
coscienza interiore del Sé (sanscr. pratyakcaitanya),
che in termini islamici non è altro che lo Spirito (ar. rûh) che Allâh ha “insufflato” nell’uomo, chiamato anche Rûh al-Yâ’[4].
«Tutto ciò», aggiunge Ibn ‘Arabî, «deriva dalla forza del potere della yâ’, che è intermedia fra Anâ [“io”] e Huwa. Anâ è più lontano
da Huwa rispetto alla yâ’, poiché Anâ non possiede alcun influsso, ma Anâ è più vicino a Huwa
di Anta [“tu”, la realtà empirica] e
di ka, poiché Anta è quanto di più lontano ci sia da Huwa»[5]. È
infatti grazie alla Presenza divina immanente nel cuore che l’essere si
avvicina all’Essenza incondizionata: «O innî
(“In verità Io”), io mi sono realizzato per tuo tramite a partire da me»[6].
O, come espresso nei Fusûs: «(L’uomo)
conosce se stesso a partire dal suo sé (min
nafsihi), poiché il suo sé non è altro che l’Ipseità divina (huwiyyat al-haqq)»[7].
L’Innî,
in questo caso, è paragonabile a quella che Ramana Maharshi chiama l’esperienza
dell’“Io-Io” (nan-nan, in tamil)[8],
o Aham sphurana, la vibrazione luminosa dell’Io divino, che costituisce il
primo passo verso la perfetta realizzazione del Sé[9].
Qui, quel che “risplende” non è né l’“Io” trascendente (il Sé), né l’“io”
empirico (l’ego), ma qualcosa d’intermedio tra i due[10],
una sorta di loro combinazione, mentre il Sé è privo anche di questa
“vibrazione”[11].
Questo stato ci dà una conoscenza distintiva (vijñâna) del Sé, e pertanto non può costituire da se stesso la
Realtà ultima, che è Conoscenza integrale (il prajñâna brahma di Ait.Up.,
III.1.3) assolutamente al di là d’ogni distinzione (nirviéesha). Esperienza e conoscenza distintiva implicano ancora
dualità, foss’anche nella forma d’una “coscienza” empirica allo stato seminale,
laddove il Testimone trascendente non è qualcosa che può essere “provato”,
ossia sperimentato, perché è l’essenza stessa della “prova”, è il yathârtha per eccellenza, ossia il
criterio stesso di realtà.
Il Comprensore non può essere
“compreso”, il Sé è il Conoscitore che non diviene mai “oggetto di conoscenza”:
«Quando la conoscenza (vijñâna) è
duale (dvaitîbhûtam) [in soggetto e
oggetto], allora Egli sente, vede, odora, gusta e tocca [qualcosa], poiché è il
Sé che tutto conosce (sarvamâtmâ jânita).
Ma quando la conoscenza è senza dualità (advaitîbhûtam)
[e rimane solamente il soggetto conoscente][12],
senza effetto, causa, ed azione, Egli è al di là delle parole, al di là della
comparazione, al di là della descrizione. Che cos’è Quello? È indescrivibile» (Maytri Up., VI.7). «… allorché tutto è
diventato il Sé universale (sarvamâtmâ),
l’odore di chi e mediante che cosa si potrà percepire?…Chi e mediante che cosa
si potrà pensare? Chi e mediante che cosa si potrà conoscere [come altro che
sé]? Ciò mediante il quale si conosce quanto esiste, mediante che cosa potrà
essere conosciuto? Il Comprensore (vijñânî),
mediante che cosa potrà essere compreso?» (Brih.Up.,
II.4.14)[13].
«Egli è l’orecchio dell’orecchio, la mente della mente, il discorso del
discorso, il soffio del soffio e l’occhio dell’occhio… L’occhio non va colà, né
il discorso, né la mente… Egli è diverso dal conosciuto (viditât), e anche dal non-conosciuto (aviditât)… Ciò[14]
che non è pensato dalla mente (manasâ na
manute), ma dal quale la mente è pensata (yenâhurmano matam)… Ciò che non è visto dall’occhio, ma dal quale
gli occhi son visti… Ciò che non è udito dall’orecchio, ma dal quale l’orecchio
è udito, questo solo devi conoscere come Brahman, non ciò che viene meditato
come “questo” (idam, l’oggetto)» (Kena Up., I.2-8)[15].
In questo stato, l’essere che si è
perfettamente integrato alla Conoscenza che è Essere e non più sapere
distintivo, dove non vi è più differenza tra conoscente, conoscenza e
conosciuto, cessa di conoscere, ma «quantunque egli non conosca (na vijânâti), tuttavia conosce; non
conosce, ma non v’è alcuna perdita da parte del conoscitore, poiché egli è
indistruttibile; soltanto che non vi è più colà una seconda cosa diversa e
distinta da lui stesso che egli possa conoscere» (Brih. Up., IV.3.30). Si tratta dunque, come precisa Coomaraswamy[16],
di un «Non-sapere» che è in realtà la perfezione del conoscere. La teologia
apofatica medievale esprimerà lo stesso concetto con la “Nube della
non-conoscenza”[17],
Nube che ritroviamo anche nella tradizione islamica, dove un hadîth la descrive come il locus del
Solipsismo divino. Fu chiesto al Profeta: «Dove si trovava il nostro Signore (ayna kâna Rabbunâ) prima della creazione
delle creature (khalq)?» Rispose: «Si
trovava in una Nube (‘amâ’), né sopra
della quale, né sotto la quale v’era aria alcuna»[18].
La Nube è «la cosa più vicina a Dio
tra le cose esistenti»[19]
ed è in essa che le altre cose esistenti divengono manifeste[20];
per Ibn ‘Arabî è il Barzakh o “Istmo”
supremo, posto tra il Principio e la non-esistenza e compartecipe degli
attributi di entrambi[21].
Si tratta, a tutti gli effetti, d’un equivalente di Avidyâ o Mâyâ, e non è
difficile identificarla anche a quella Tenebra (superiore) in cui, secondo un
altro hadîth, gli esseri sono stati
creati[22].
Al pari della Mâyâ, che funge da
causa materiale delle trasformazioni degli esseri[23],
anche la Nube è la sostanza delle incessanti ed evanescenti trasmutazioni del
cosmo che, in fondo, non son altro che relazioni prive d’esistenza (‘umûr ‘adamiyya), ed anche qui il
substratum trasfigurante, il solo Essere veramente reale (al-wujûd al-mutlaq) e necessario (wâjib al-wujûd), è il Principio incondizionato. «Nello stato della
sua esistenza», scrive sempre lo Shaykh al-Akbar, «il cosmo non è null’altro
che le forme che la Nube riceve e che divengono manifeste al suo interno. Il
cosmo, se esaminiamo la sua realtà, non è nient’altro, dunque, che un accidente
destinato a svanire, vale a dire che la sua caratteristica essenziale è
l’evanescenza (zawâl). Ciò è
attestato dalla Parola divina: “Ogni cosa è annientata, tranne il suo volto”
(Cor. 28:88)[24]. Il
Profeta ha detto: “Il verso più vero composto dagli Arabi è quello di Labîd: “Non è forse vero che ogni cosa
eccetto Dio è irreale (bâtil)?”[25]…
La Nube, pertanto, è la sostanza immutabile (al-jawhar ath-thâbit), ed essa non è altro che il Soffio del
Misericordioso (nafas ar-rahmân)[26].
Il cosmo è l’insieme di tutte le forme che si manifestano in essa, accidenti
destinati a svanire[27].
Queste forme sono i “possibili” (al-mumkinât)
e la loro relazione con la Nube è quella delle forme che l’occhio d’un
osservatore (‘ayn ar-râ’î) vede in
uno specchio. Il (solo) Reale è la vista (basar)
del cosmo, dunque Egli è l’Osservatore (ar-râ’î)»[28].
Il carattere illusorio che il verso
di Labîd attribuisce all’esistenza
degli esseri contingenti è rafforzato anche da un altro detto profetico: «Dio è
e nessuna cosa è con Lui (kâna Allâh wa
lâ shay’ ma‘ahu)»[29].
Ibn ‘Arabî infatti, appoggiandosi al grammatico Sîbawayh[30],
dà al verbo kâna, abitualmente
tradotto con era, il senso di un presente assoluto dal momento che ad Allâh non
si può applicare una limitazione temporale. Per questo motivo l’aggiunta: «Ed
Egli è ora come era (wa huwa al-ân kama
kân)», che alcuni inseriscono come parte del hadîth, non solo non ha alcun senso e non è stata tramandata, ma
denota ignoranza da parte di coloro che la trasmettono[31].
Dunque, solo Allâh è realmente, mentre le “cose” (ashyâ’) non sono, né ora né mai, anche se la loro “non-esistenza”
non è assoluta, ma soltanto relativa (‘adam
idâfî), allo stesso modo in cui lo è, del resto, la loro apparente
“esistenza”[32];
l’unica realtà, infatti, che si può in qualche modo attribure alle cose è il
loro essere delle “possibilità” (mumkinât)
conservate negli “Scrigni dell’Apudseità” (al-khazâ’in
al-‘indiyya)[33].
«L’esistenza tutt’intera è un’immaginazione nell’immaginazione (al-wujûd kulluhu khayâl fî khayâl)»[34].
La Nube è quindi, al tempo stesso,
sia il ricettacolo delle trasformazioni (le “relazioni” dei Nomi con le
possibilità di manifestazione), sia il “luogo” metacosmico della nostra radice
essenziale, verso cui avviene il ritorno dall’esilio[35],
e «colui che conosce la sua radice conosce la sua essenza (‘ayn), cioè se stesso, e chi conosce se stesso conosce il suo
Signore»[36].
Ritorno che comporta l’estinzione completa d’ogni traccia creaturale, d’ogni
illusoria idea di ontologica sussistenza autonoma “fuori” dal Principio.
Perfino gli stati e le stazioni che ci portano a Lui (Huwa) sono abbandonati, poiché sono il limite che da Lui ci divide,
comportando una coscienza “separata” incompatibile con lo stato di Unificazione
ontologica (jam‘), di riduzione
all’Uno[37].
Tuttavia, insegna lo Shaykh, «la
“patria” del Principio non è lo stato di possibilità»[38],
e la prossimità che l’essere ottiene nella sua “estinzione” (fanâ’)[39],
rimane il velo ultimo da superare per arrivare alla Sintesi totale (jam‘ al-jam‘)[40].
Riferendosi simbolicamente al “Viaggio notturno” del Profeta, diversi maestri
del tasawwuf hanno interpretato la
“distanza di due archi”, che nella Sura della Stella (Cor. 53:9) indicava il
grado di prossimità raggiunto dal Profeta, come riferentesi rispettivamente
all’“arco della necessità” (qaws al-wujûb)
e a quello della “possibilità” (qaws
al-imkân). E la distanza di due archi, scrive Ibn ‘Arabî, «non è che il
diametro di un cerchio, quello che dà luogo alla distinzione tra il cosmo e
Allâh»[41],
ma questa retta che divide il cerchio in due archi non è, tuttavia, che
immaginaria, priva di esistenza propria; benché essa abbia «diviso il cerchio
in due archi, l’Ipseità divina (huwiyya)
è il cerchio stesso e non è altro che i due archi, per cui, considerati in
rapporto all’Ipseità, i due archi sono identici[42].
Sei tu stesso, dunque, la retta immaginaria che li divide. Il mondo, rispetto
ad Allâh, non ha che un’esistenza illusoria e non è (realmente) esistente… Ciò
che esiste e l’esistenza non sono altro che il Principio e a questo si
riferisce alla Sua Parola: “O ancor meno” (Cor. 53:9). L’“ancor meno” toglie
questa illusione [della loro separazione] e, una volta tolta, non rimane che il
cerchio senza la distinzione dei due archi. Per colui che si trova rispetto al
suo Signore con questa vicinanza, vale a dire quella della retta che divide il
cerchio, quindi toglie se stesso da questa retta, nessuno sa ciò che egli
ottiene in fatto di Conoscenza di Allâh»[43].
Si tratta della parola finale in
fatto di tawhîd, termine che a questo
punto non designa più la “professione dell’Unità”, quanto piuttosto l’Identità
Suprema eternamente stabilita nella Realtà divina. È quella che Ibn ‘Arabî
definisce come la Stazione muhammadiana per eccellenza che, a rigore, è
propriamente una “Non-stazione”, il lâ
maqâm, cui allude il versetto coranico: «O gente di Yathrib[44],
voi non avete luogo dove stare (lâ muqâm
lakum)! Ritornate, allora! (Cor. 33:13)», versetto che viene rivolto allo
Shaykh al-Akbar nell’“intimo colloquio di Huwa”
dopo che s’era levato in un mare senza sponda all’interno dell’Arca
muhammadiana yathribita. Egli quindi tornò sui suoi passi alla sponda da cui
era salpato, «ed ecco, era diventata mare, perciò anche se ci volgevamo
indietro era come se ci avvicinassimo, cercando noi ciò che non ha limite di
tempo, né durata (abad), né principio
né fine… Il Huwa proclamò: “O Miei
servi, voi avete chiesto da Me una Stazione (maqâman) in cui nessun altro che Me Mi veda. Io ero nella Nube
oscura e nessuna cosa era con Me. Io sono come ero[45],
nessuna cosa è con Me per via della tua esistenza. Il mare in cui ti trovi è la
Nube oscura in cui ti trovi. Se tu squarciassi la tua nube raggiungeresti la
Mia Nube oscura, ma Tu non potrai mai squarciare la tua Nube oscura, perciò tu
non puoi raggiungerMi. Tu sei nella tua Nube oscura e niente è con te. E questa
Nube oscura è il Sé (al-Huwa) che ti
appartiene. In verità la forma (as-sûra)
implica necessariamente, per te, ciò in cui ti trovi”. Allora io dissi: “O Huwa al-Huwa, “Sé del Sé”, che cosa posso io fare nel Sé?”. Egli rispose:
“Tuffatici!”. Io mi gettai dall’arca nudo e scuoiato dalla tenebra di
quell’arca, mi tuffai e trovai sollievo. Io vi sono dentro, sempre: non c’è
“io” nell’esistenza all’infuori di me. Ho trovato sollievo dalla preoccupazione
della cerca”»[46].
Nell’Identità Suprema, anche se la
“Possibilità Universale”, volto passivo dell’Infinito, permette la distinzione,
ogni dualità è in realtà superata. «Il fine ultimo e l’estremo ritorno degli
gnostici”, scrive Ibn ‘Arabî, “benché le loro essenze rimangano immutabilmente
fisse, è che il Vero (al-Haqq) è
identico a loro, mentre essi non esistono… Tutto dello gnostico è il Vero»[47].
«Coloro che ritornano a Dio sono “destituiti” di ogni cosa altra che Dio. Un
uomo ricco che vede il Vero in ogni forma non raggiungerà il livello di colui
che Lo vede in “nessuna cosa” (lâ shay’,
il ni-ente)[48],
poiché quest’ultimo Lo vede libero da tutte le relazioni, infinito e senza
alcuna limitazione»[49].
Qui lo Shaykh, a supporto della “visione” di Dio nel ni-ente, cita il versetto
coranico dell’assetato che scambia il miraggio per dell’acqua «finché,
giungendovi, non scopre che è ni-ente» – Dio, infatti, non è la cosa immaginata
– «e là egli trova Dio» (Cor. 24:39), ossia assieme al ni-ente, poiché «niente
è simile a Lui» (Cor. 42:11), ed Egli è «indipendente dai mondi» (Cor. 3:97)[50].
In ultima analisi, è solo grazie alla
conoscenza metafisica pura, in quanto emanante dalla luce increata del Sé
trascendente, che possiamo superare la dicotomia fondamentale di
soggetto-oggetto e non con quanto è sottoposto alle leggi dell’esistenza
contingente, come appunto lo è l’intelletto creato e, a maggior ragione, la
facoltà razionale dell’individuo.
[1]
Cfr. ibid., él. 133. Nelle Upanishad
il Sé è definito come “ciò che è conosciuto in ogni atto di cognizione (pratibodha-viditam matam)” (Kena Up., II.4).
[2]
Cfr. Sarvajñâtman, Samkshepaéârîraka,
IV.15-18 (ed. e tr. a cura di N. Veezhinathan, Madras, 1972, pp. 524-525);
Sankara parla di “un atto di conoscenza distintiva dell’intelletto (buddhivijñâna)” (Brah.Sû.Bh., I.2.7); vedere anche M. Piantelli, Sankara e il Kevalâdvaitavâda, cit., p.
300 nota 54. È indispensabile qualche precisazione sulla natura
dell’intelletto, pietra d’inciampo di ogni nostra Weltanschauung. Dal punto di
vista dell’advaita-vedânta, è solo la Coscienza
trascendente (cit, o caytaniya)
propria del Sé, unico principio auto-luminoso, a possedere la Conoscenza e a
conferirla, non l’intelletto (cfr. S.K. Seksena, Nature of Consciousness in Hindu Philosophy, Delhi, 1971, pp.
69-103; vedere anche M. Vâlsan, “Remarques
préliminaires sur l’Intellect et la Conscience”, in Études Traditionnelles 372-373, 1962, pp. 201-215). L’intelletto (buddhi) è solo un coadiuvatore, uno
strumento illuminato dall’irradiazione solare del Sé. Per Sankara, infatti, buddhi è quasi sempre considerato in
quanto intelletto individuale che, come tale, non possiede alcuna luce propria
ed è di per sé privo di coscienza e d’intelligenza (acetana) (cfr. Brah. Sû.Bh.,
I.2.11). Si tratta, in questo caso, d’una funzione dell’organo interno (antahkarana) che “a seconda delle sue
particolari condizioni limitative (upadhi),
viene chiamato con nomi diversi: manas,
buddhi, vijñâna, citta” (Ibid., II.3.32; cfr. anche II.4.6). Di
queste funzioni, buddhi designa
quella mediante cui l’animo umano possiede la padronanza cosciente dei suoi
atti, la capacità di decidere e quella di apprendere; non è la facoltà
elaboratrice del pensiero, ossia quella preposta a formulare i concetti,
propria di citta, quanto piuttosto quella della certezza intellettuale, in
grado di cogliere la verità intrinseca d’una cosa. Questa capacità gli deriva
dunque dal Sé, poiché è il Sé a manifestarla; la conoscenza e ogni altro
effetto, per quanto venga riferita alla sue cause immediate, in realtà dipende
unicamente dal Sé (cfr. Ibid.,
II.3.10; B.G., X.5). Nello stesso ordine logico, pur riconoscendo l’esistenza
d’un Intelletto universale – la Buddhi
in quanto Mahat, il “Grande
principio” –, Sankara sottolinea che, a differenza della dottrina cosmologica
indù (il Sâmkhya), dove questo
principio sopraindividuale è considerato come un prodotto della Sostanza
cosmica (Pradhâna, ossia la Prakriti), in testi vedici come: “Il
Grande Sé è al di là dell’intelletto (buddherâtmâ
mahânparah)” (Ka.Up., I.3.10), esso è riferito direttamente al Sé (Brah.Sû.Bh., I.4.7). Un precedente
passaggio del suo commento al Brahma-Sûtra
faceva ancor meglio capire questa funzione, solo apparentemente “intermedia”,
dell’Intelletto universale; riportando lo stesso versetto della Katha Upanishad, il maestro vedântin afferma che il Grande Sé (mahân âtmâ) sta qui ad indicare il primo
nato Hiranyagarbha, che è il
principio trascendente su cui si appoggiano gli intelletti di tutti gli esseri
(sarvâsâm buddhînâm paramâ pratishthâ)
(Ibid., I.4.1), Hiranyagarbha, l’“Embrione d’oro”, che dev’essere inteso, allora,
come ipostasi qualificata del Brahman
(cfr. Ibid., II.3.40). In quanto Intelletto universale, però, nel Vedânta ci si riferisce solo a Mahat e non si parla mai di buddhi, termine che viene riservato
unicamente alla sua determinazione nell’essere individuale. Nondimeno, in
quanto è capace di ricevere la luce del Sé, da cui deriva e da cui dipende,
anche l’intelletto individuale può unirsi al Sé e ad Esso identificarsi: “Come
un pezzo di sale immerso nell’acqua si dissolve, lo stesso accade a chi conosce
il Brahman: la buddhi, per la sua unione col Sé, diviene il Sé (svâtmayogâttathâ buddhirâtma)” (Advaytânubhuti,
I.51). L’intelletto del Vedânta rimane, in ogni caso, l’organo per eccellenza
della conoscenza intuitiva di ordine metafisico (anubhava) e quello dell’esperienza illuminante e contemplativa,
fondamento d’ogni percezione diretta della realtà quale conoscenza che
trascende il dominio dell’esperienza soggettiva (svânubhava) nonché quello d’una comprensione puramente discorsiva e
indiretta (paroksha jñâna) (cfr. S. Radhakrishnan, “Intellect and intuition in Samkara’s
philosophy”, Triveni 6, 1933, pp. 8-16).
Trasposta in ambito islamico, la nozione di buddhi, quando si riferisce all’ordine
individuale, trova il suo equivalente in quella di ‘aql, l’intelletto razionale e discorsivo; considerata invece nel
suo aspetto universale, dove non è altro che una ipostasi del Sé trascendente,
essa corrisponde piuttosto alla funzione che l’esoterismo islamico riserva allo
Spirito (rûh). Non mancano tuttavia,
nella tradizione, alcuni accenni ad un aspetto trascendente dell’intelletto,
poiché lo ritroviamo trasposto nell’universale e definito come la “prima realtà
creata” (awwal mâ khalaq Allâh); si
tratta in questo caso dell’“Intelletto primo” (al-‘aql al-awwal) o “universale” (al-‘aql al-kullî), identificato dal sufismo con il “Calamo supremo”
(al-qalam al-a‘lâ), termine di
origine coranica e anch’esso definito da un hadîth autentico come la “prima
realtà creata” (cfr. al-‘Ajlûnî, Kashf
al-khafâ’, I, pp. 263-264, e ad-Daylamî, Firdaws, Beirut, 1986, I, pp. 12-13). Questa funzione è analoga a
quella che viene riservata a buddhi dalla dottrina indù del Sâmkhya, ed è omologata in qualche modo
a quella dello Spirito supremo (ar-rûh
al-a‘zam), intellectus vel spiritus,
dunque (cfr. T. Burckhardt, Introduzione
alle dottrine esoteriche dell’Islam, Roma, 1979, pp. 64-65). Non bisogna
neppure dimenticare, inoltre, che la prima realtà creata è anche la “Luce” del
Profeta (an-nûr al-muhammadî)
identica al suo Spirito (ar-rûh
al-muhammadiyya) che, essendo nel contempo la “Realtà delle realtà” (haqîqat al-haqâ’iq), è un perfetto
equivalente del summum genus, come è definito appunto l’Intelletto agente
d’origine aristotelica (cfr. al-Qaysarî, La
Scienza iniziatica, a cura di G. Giurini, Torino, 2003, pp. 89-90 nota 117,
ed anche p. 79 nota 84). Per l’Islam, quando si parla d’intelletto (‘aql), risulta essere comunque sempre
una realtà limitata che non può trascendere da se stessa l’ordine creato.
Questo atteggiamento è ancor più marcato nel pensiero del sufismo, dove Hallâj
afferma ad esempio: “Il Principio divino è troppo inaccessibile perché gli
intelletti creati abbiano una qualche presa su di Lui… Egli risulta disgiunto
dagli intelletti e trascende la possibilità d’essere colto da essi, se non per
il fatto che hanno la possibilità di affermarNe l’esistenza” (Kalâbâdhî, Il Sufismo nelle parole degli antichi,
cit., p. 118). Se ciò vale, come in questo caso, per l’intelletto
dell’individuo, non diverso sembra essere il caso per quello universale, come
ci viene illustrato in un dialogo di Nûrî il quale, interrogato mediante che cosa
avesse conosciuto Dio, rispose: “Mediante Dio stesso”. Gli chiesero allora: “E
che parte vi ha avuto l’intelletto?”. “L’intelletto”, replicò Nûrî, “è
impotente (‘âjiz), non conduce che a
qualcosa d’impotente come lui. Quando Iddio ha creato l’intelletto gli chiese:
“Chi sono?” Esso rimase in silenzio. Egli illuminò allora la sua vista con la
luce dell’Unicità divina (nûr
al-wâhdaniyya) sicché quello Gli rispose: “Sei Dio”. L’intelletto non può
conoscere Dio che mediante Dio stesso” (Sarrâj, Al-Luma‘, p. 40; vedere anche P. Urizzi, introduzione ad Ibn
al-‘Arîf, Sedute mistiche, Giarre,
1995, p. 53. Lo stesso detto è riportato anche in Kalâbâdhî, ma viene
attribuito ad al-Sabbâk, ibid.).
Diverso è il caso, invece, quando si tratta dello Spirito, poiché esso viene
connesso direttamente a Dio quando il Corano parla dello Spirito divino
“insufflato” nell’uomo (vedere infra,
nota 48), come fa il Vedânta quando
parla dell’Intelletto trascendente o universale.
Tutte le difficoltà che sorgono nel prendere in esame questa
nozione derivano dal fatto che, essendo la realtà più universale (il summum genus, appunto), costituisce
l’“istmo” per eccellenza (il barzakh
al-barâzikh direbbero i maestri del sufismo) tra il manifestato e il
non-manifestato. Ciò che trascende la realtà manifestata, il cosmo, è per sé
Realtà divina; ciò che ne dipende e che “entra” per così dire nel divenire (per
quello che un metafisico definirebbe come un passaggio illusorio dalla potenza
all’atto) è realtà creata. L’“istmo”, invece, partecipa ad entrambi, senza
essere né l’uno né l’altro, ma potendo alle volte assumerne entrambe le
caratteristiche a seconda del punto di vista dal quale viene considerato. Del
resto, se così non fosse, difficilmente si riesce a comprendere come farebbe
l’essere contingente, che si trova nel manifestato, ad “uscire dal cosmo” e a
ritrovare la sua realtà increata. Giustamente Aristotele ha attribuito
l’immortalità solo all’intelletto separato (nous
choristòs… kaì touto monon athánaton
kaì aídion; De anima, III, 430 a 18)
che è l’Intelletto agente (nous poietikos),
e non all’intelletto passivo o potenziale (nous
pathetikòs) che ha sede nell’anima, poiché esso è perituro (phthartós) (Ibid., III, 430 a 25); detto altrimenti, è lo spirito che è
immortale, non l’anima; “chi ama la sua anima la perderà (o philon tèn psychèn autou apollúei autén)” (Giov., 12, 25). Ciò ha dato origine, come ben si sa, alla disputa
dei peripatetici antichi e medievali sull’immortalità o meno dell’anima; il
problema, però, non è di capire se l’anima è immortale in quanto tale, quanto
di sapere “che cosa” nell’anima è immortale e “come” ottiene tale sua
immortalità. Il “fondo dell’anima”, come lo chiama Eckhart (supra, nota 19) è un riflesso della
Coscienza trascendente, e non è altro che la “presenza” in noi dell’Intelletto
agente (tesi di Temistio prima e di Alberto Magno e di S. Tommaso poi), ma
senza che l’Intelletto agente si “incorpori” in quanto tale (la tesi di
Alessandro di Afrodisia e dei neoplatonici arabi). Se non ci fosse questa “presenza”,
l’intelletto possibile non potrebbe diventare intelletto acquisito, poiché ciò
presuppone una conoscenza in atto, e l’atto puro appartiene solo all’Intelletto
agente. Se l’uomo vuol essere immortale non ha che da conoscere il fondo della
sua anima ed identificarvisi; separandosi dal corpo al momento della morte,
riacquistata la sua vera essenza egli tornerà ad essere allora uno spirito
separato, dunque lui stesso realtà in atto. In
divinis l’Intelletto agente è Dio, identico alla Coscienza trascendente;
nel cosmo è l’Intelletto universale o Intelletto primo, il cui riflesso alberga
nell’uomo per trasformarne la coscienza mediante la conoscenza di Dio. Noi,
infatti, “possiamo conoscere Dio perché vi è una somiglianza di Lui che dimora
dentro di noi” (Summa Theologica
1.12.4). Dal canto suo Sankara afferma che “buddhi è solo uno strumento e non
l’agente perché all’agente appartiene l’autocoscienza (ahampratyaya) e l’agente è quindi l’anima vivente, che è il
riflesso del Sé, poiché il Sé non è un agente in senso proprio, ma appare tale
solo a motivo dei samskara, gli elementi aggiuntivi” (Brah.Sû.Bh., II.3.38); “l’auto-consapevolezza è essa stessa oggetto
di percezione del Sé che rimane, il solo, puro, isolato principio intelligente
(upalabdhri)” (ibid., II.3.40).
[3]
Infra, p. 139.
[4]
Cui allude il versetto: “…e avrò insufflato in lui [Adamo, l’Uomo] del Mio
Spirito (wa nafakhtu fîhi min rûh-î)”
(Cor., 15:29 e 38:72); cfr. C.A. Gilis, Lo
Spirito Universale dell’Islam, Rimini, 1999, cap. 14.
[5]
Infra, p. 140.
[6]
Infra, p. 166.
[7]
Fus., ed. ‘Affîfî, I, p. 122. La
frase rispecchia chiaramente il senso del hadîth:
“Chi conosce se stesso conosce il suo Signore” (vedere supra, nota 21) a cui lo Shaykh allude nuovamente qualche pagina
più avanti, affermando che il Signore è il Sé e la realtà essenziale della
creatura (huwa ‘ayn huwiyyatihi wa
haqîqatihi) (ibid., p. 125). Ibn
‘Arabî lo commenta in diversi passaggi della sua opera (vedere W.C. Chittick, The Sufi Path of Knowledge. Ibn al-‘Arabi’s
Metaphysics of Imagination, Albany, 1989, pp. 344-346). Per la differenza
tra l’interpetazione che ne dà Ibn ‘Arabî e quella di Balyânî, l’autore della Risâla al-Ahadiyya – sovente attribuita
allo stesso Ibn ‘Arabî – si veda l’introduzione di M. Chodkiewicz alla sua
traduzione de l’Épître sur l’Unicité
Absolue, Parigi, 1982, pp. 27-33, che evidenzia le differenze sostanziali
che dividono lo Shaykh al-Akbar dalla scuola della Wahdat al-mutlaqa (l’Unicità assoluta) facente capo a Ibn Sab‘în.
Aggiungiamo che è la dottrina di Ibn ‘Arabî, e non la Wahdat al-mutlaqa, ad essere più conforme all’Advaita sankariano (cfr. M. Piantelli, Sankara e il Kevalâdvaitavâda, cit., p. 297 nota 36).
[8]
Che si potrebbe anche tradurre con “Io sono Io” (cfr. “Egli diviene ‘Io’”, aham nâma abhavat, Br.Up., I.4.1), che lo stesso Ramana avrebbe accostato al Nome
ebraico dell’epifania sinaitica, l’’ehyeh
’ašer ’ehyeh, “Io sono Quello che Io sono” (Ex., 3, 14), ma il fatto sorprendente è che il Nome con cui Dio si
presenta nel versetto successivo: “YHWH… questo è il Mio nome in perpetuo”,
vocalizzato Yahwè, significa “Egli è” o “Colui che è”, il Huwa appunto.
[9]
Cfr. David Godman, “‘I’ and ‘I-I’ - A
Reader’s Query”, in The Mountain Path,
1991, pp. 79-88.
[10]
Si tratta di cidâbhâsa, il “riflesso
della Coscienza integrale”.
[11]
“Cfr. Day by Day with Bhagavan, “23rd
April, 1945”, cit. da D. Godman, ibid.
Le due fasi di cui parla Ramana si ritrovano esemplificate anche in un detto di
Bistâmî: Anâ lâ anâ, anâ anâ li-annî anâ
Huwa anâ anâ Huwa Huwa, che potremmo rendere con: “Io non sono io [l’io
empirico], “Io sono Io”, poiché “Io” [riflesso del Sé] sono Lui, (ma) io sono
io e Lui è Lui” (Sahlâjî, An-Nûr min
kalimât Abî Tayfûr, cit., p. 143). Frase che viene elucidata da un altro
suo detto: “…Egli mi mostrò le meraviglie del Suo mistero. Mi mostrò il Suo Sé
e io guardai tramite il Suo Sé il mio io, il quale scomparve. Guardai allora la
mia luce mediante la Sua luce, la mia gloria mediante la Sua gloria e la mia
potenza mediante la Sua potenza. E vidi il mio io mediante il Suo Sé… Lo vidi
con l’Occhio del Reale e Gli dissi: “Cos’è questo?” Rispose: “Questo non è né
Me, né altro che Me, non v’è altro Dio al di fuori di Me”. Quindi mutò il mio
io col Suo Sé e fece scomparire il mio io nel Suo Sé e mi mostrò il Suo Sé da
solo, sì che io lo vidi mediante il Suo Sé. Contemplando il Vero mediante il
Vero, vidi il Vero mediante il Vero e dimorai nel Vero mediante il Vero per un
tempo, in cui mi trovai senza soffio, né lingua, né orecchio. Io ero senza
sapere [alcunché] e Dio creò in me un sapere uscito dalla Sua Scienza, una
lingua proveniente dal Suo favore e un occhio emanante dalla Sua luce…” (ibid., p. 175; i due detti si trovano
nella tr. di A.W. Meddeb, Les dits de
Bistami, Parigi, 1989, pp. 117, 156).
[12]
La sola realtà, infatti, che non può essere rimossa è la consapevolezza
immediata di se stessi (svayamprakâshamâna).
[13]
Ugualmente Ibn ‘Arabî dirà: “Huwa
rimane, sotto ogni aspetto, né conosciuto, né raggiunto, né contemplato, né
alluso”. (infra, p. 136).
[14]
Yat, che Sankara glossa: “la luce
della Coscienza (caytanya-jyotih) che
illumina il mentale (manas)”.
[15]
L’essenza del Sé è una consapevolezza eterna (nitya-upalabdhi, Brah.Sû.Bh.,
II.3.40). Il Sé, nel suo stato di beatitudine, senza condizioni limitative
(upâdhi), rimane come Testimone (sâkshin) o pura capacità di conoscenza (upalabdhi).
[16]
Cfr. A.K. Coomaraswamy, Selected Papers,
2: Methaphysics, Princeton, 1977, p.
212.
[17]
Espressione che dà il nome all’anonimo trattato The Cloud of Unknowing, (tr. a c. di G. Brivio, La nube della non-conoscenza, Milano,
1990). Dionigi Areopagita scriveva peraltro: “C’è una conoscenza divinissima di
Dio, quella che si ottiene mediante l’ignoranza” (De divinis nominibus, VII, 3), e che egli definiva come la
“caligine luminosissima del silenzio” e la “caligine veramente segreta
dell’ignoranza” nella quale Mosè penetrò quando si fu liberato “da tutte le
cose che sono viste e da quelle che vedono” (De mystica theologia, I.3). La “Caligine” (gnóphos) va infatti associata alla “Nube oscura” (nephéle, ebr. ‘ab) in cui Mosè entrò sulla cima del Monte (cfr. Ex., 19, 9; 24, 15), la stessa in cui è
detto che appare la “Gloria di Dio” (ebr. kebod
Yhwh) (ibid., 16, 10), ossia la Shekina,
la Sua Presenza, poiché “la Luce vera splende nelle tenebre, anche se non la si
vede” (Eckhart, Dell’Uomo nobile, in Opere tedesche, cit., p. 50), ed anche:
“Fine ultima dell’essere è la tenebra, o non-conoscenza della Divinità
nascosta, che spande la luce, ma le tenebre non l’hanno compresa (Giov., 1, 5)” (id., Homo quidam nobilis, in Opere
tedesche, cit., p. 225). Cfr. anche H.Ch. Puech, Sulle tracce della Gnosi, Milano, 1985, pp. 149-170, e P.
Vicentini, “Conoscenza e ignoranza come
metafore dell’esperienza suprema”, in Simplegadi
22, 2003, pp. 19-28. Perfino nella filosofia moderna v’è qualcuno, come
Husserl, che non riesce a fare a meno di questo apofatismo, magari per semplice
rigore concettuale, e ad affermare la supremazia di una Pura Coscienza
svincolata da ogni dimensione psicologica e fenomenologica (cfr. Husserl, Ideen I, cap. II.3, “La Regione della Pura Coscienza”).
[18]
Tirmidhî, Tafsîr Sûra XI, 1; Ibn
Mâja, Muqaddima 13; Ibn Hanbal, Musnad, IV, 11-12.
[19]
Fut., II, p. 310.
[20]
Cfr. ibid., cit. in W.C. Chittick, The Sufi Path of Knowledge, cit., pp.
125-126.
[21]
Cfr. Fut., III, p. 47; vedere anche
G. De Luca, “Non sono Io il vostro
Signore?”, cit., p. 77.
[22]
Dio ha creato le creature nella tenebra (khalaqa
khalqahu fî zulma).” (Tirmidhî, Îmân
18; Ibn Hanbal, Musnad, II, pp. 176,
197). Il termine zulma rappresenta
più l’aspetto di Avidyâ che non
quello di Mâyâ.
[23]
Vedere supra, nota 34.
[24]
Abitualmente i commentatori coranici attribuiscono il termine “Suo Volto” (wajhahu) a Dio, e questa è anche
l’interpretazione dei partigiani della Wahdat
al-mutlaqa, che si appoggiano ad un versetto come questo per negare una
realtà qualsiasi alle cose esistenziate. Per Ibn ‘Arabî, invece, il “suo” si
riferisce alla realtà essenziale (haqîqa)
della creatura, che è il “Volto particolare” (wajh khâss) di Dio nelle cose: “In ogni cosa da Lui creata Egli
possiede infatti un Volto particolare mediante cui l’osserva e la mantiene nel
grado in seno al quale l’ha esistenziata… È ad esso che fa allusione la Parola
divina: “…viene dal Comando del mio Signore” (Cor., 17:85); vale a dire che
esso è uno dei Suoi Volti” (‘Abd al-Karîm al-Jîlî, al-Insân al-Kâmil, Casablanca, 1997, cap. 51, p. 155). Cfr. anche
Balyânî, Épître sur l’Unicité Absolue,
cit., p. 56-57 n. 18.
[25]
Bukhârî, Manâqib 26; Adab 90; Muslim, Birr 2-6; Tirmidhî, Adab
70; Ibn Hanbal, Musnad, II, 248 ecc.
[26]
La corrispondenza tra la Nube–Soffio del Misericordioso e la Mâyâ del Vedânta è
confermata dal fatto che, come quest’ultima possiede tre tendenze fondamentali
(i tre guna) che determinano tutte le
differenziazioni nell’ordine della manifestazione cosmica, anche il Soffio del
Misericordioso “anima” le essenze immutabili delle creature – le a‘yân ath-thâbita rappresentate delle
consonanti dell’alfabeto arabo – mediante le tre mozioni vocaliche (le harakât, o “movimenti”) che
corrispondono anch’esse alle tre tendenze della manifestazione (cfr. G. De
Luca, “Non sono Io il vostro Signore?”,
cit., pp. 71-72 e 91).
[27]
Cfr. il versetto: “Vedrai le montagne, che ritenevi saldamente fissate, svanire
come nubi” (Cor. 27:88).
[28]
“Fut., III, p. 443; cit. in W.C.
Chittick, The Sufi Path of Knowledge,
cit., p. 127.
[29]
Questo il testo in Ibn ‘Arabî (cfr. Fut.,
II, p. 56), ma Bukhârî dà una versione leggermente differente: “Allâh è e non
v’è cosa altra che Lui (kâna Allâh wa lam
yakun shay’an ghayrahu)” (Bidâ’
al-khalq 1; cfr. anche Bayhaqî, Sunan,
IX, p. 31; Hâkim, Mustadrak, II, p.
341). Cfr. W.C. Chittick, Ibid., pp.
88, 90, 131, 132, 168, 319, 364.
[30]
Essendo kâna, per Sîbawayh, una
particella che denota esistenza (harf wujûdî),
Ibn ‘Arabî l’interpreta come una particella che indica l’esserci (kawn), ossia l’esistenza (wujûd).
[31]
Cfr. il commento al Questionario di Tirmidhî (Q. XXIII), Fut., II, p. 56; trad. a c. di P. Fontanesi, in Riv. di Studi Tradizionali 47, 1977, pp.
61-67; cfr. anche W.C. Chittick, Ibid.,
pp. 88-89.
[32]
Cfr. Fut., III, pp. 192-193.
[33]
Il termine ‘indiyya è la forma
sostantivata della particella ‘inda, “presso”. Gli “Scrigni dell’Apudseità”
sono quindi le essenze immutabili delle cose che si trovano presso Dio, nella
Sua Scienza eterna; è in questo senso, dunque, che Egli è un “Tesoro nascosto”.
Parlando di questi “Scrigni”, un testo apocrifo di Ibn ‘Arabî, precisa: “Noi
non diciamo che le cose erano nella Sua Essenza allo stato di tracce, né
impresse, né formate – Dio è troppo elevato per questo! – ma (affermiamo) la
Sua Conoscenza di ciò che non è conosciuto, la Sua Scienza di ciò che non è
saputo, la Sua Visione di ciò che non è visto, la Sua Potenza su ciò che non è
(ancora per noi) oggetto della Sua potenza” (Tadhkirat al-khawâss, tr. a c. di R. Deladrière, La Profession de Foi, Parigi, 1978, p.
118; vedere anche ibid., pp.
112-113).
[34]
Cfr. Fus., I, p. 104.
[35]
Questo esilio (ghurba), precisa Ibn
‘Arabî, consiste per i Conoscitori nell’essersi separati dal loro stato di
possibilità principiali e di nonmanifestazione (‘adam), poiché è questa la terra d’origine d’ogni essere
contingente che entra nell’esistenza. Costoro aspirano a ritornare al loro
stato originario di non-manifestazione perché in esso godono di una prossimità
maggiore al Principio di quanto non ne godano nel loro stato di manifestazione
(cfr. Fut., II, p. 528).
[36]
Cfr. Fut., II, pp. 101-102.
[37]
Sul jam‘, cfr. Kalâbâdhî, Il Sufismo nelle parole degli Antichi,
cit., p. 221 n. 533.
[38]
Fut., II, p. 528.
[39]
Ibn ‘Arabî classifica presso i Sûfî sette tipi di fanâ’: 1. il fanâ’ riguardo agli atti di
disobbedienza, in virtù della protezione divina accordata al servitore; 2.
quello riguardo agli atti dei servitori, in cui il servitore vede che, dietro
il velo delle creature, in realtà l’atto appartiene a Dio; 3. quello riguardo
agli attributi delle creature, in cui il contemplante, durante l’estinzione,
non distingue più tra i suoi attributi, e in cui tutte le sue facoltà sono
unificate (il suo vedere non è diverso dal suo udire, e così per gli altri
sensi); 4. quello riguardo all’essenza del servitore (al-fanâ’ ‘an dhâtika), che avviene quando essa si estingue mediante
il contemplato (mashhûd) che è il
Testimone del Principio divino (shâhid
al-Haqq); 5. quello riguardo a tutto il cosmo; 6. quello riguardo a tutto
ciò che è altro che Dio, mediante Dio stesso; 7. quello riguardo agli Attributi
del Principio e dei loro rapporti, che avviene mediante la visione della
manifestazione del cosmo in quanto procedente (direttamente) dal suo Principio
divino. Vi è infine il fanâ’ riguardo
al fanâ’, dice Ibn ‘Arabî, ma questo
non è un ottavo genere di fanâ’,
poiché si riferisce alla situazione di chi è estinto e può ascriversi ad uno
qualunque dei sette gradi descritti (cfr. Fut.,
II, pp. 512-515). Sul fanâ’ e il
correlativo baqâ’ (permanenza), cfr.
anche Kalâbâdhî, op. cit., pp.
231-249.
[40]
Sul jam‘ al-jam‘ (sinonimo di ‘ayn al-jam‘, l’“Unione trasformante”),
cfr. ibid., pp. 48, 221 n. 533, e 256
n. 586.
[41]
Cfr. Fut., IV, p. 39.
[42]
È la coincidentia oppositorum su cui ha insistito, a partire da Eckhart, tutta
la scuola renana (cfr. M. Vannini, introduzione a Eckhart, Opere tedesche, cit., p. xxv), che richiama il jam‘ ad-diddayn di Kharrâz il quale, interrogato su come avesse
trovato Allâh, rispose: “Nel fatto che egli è Colui che riunisce gli opposti”
(cfr. Fut., II, p. 512).
[43]
Fut., IV, p. 40 (vedere anche C.
Casseler, infra, p. 124). Nella
Stazione di “O ancor meno”, aggiunge lo Shaykh, il centro si fonde nella
circonferenza e la circonferenza nel centro (ibid.). Per questo motivo “I Conoscitori perfetti non hanno esilio,
essi sono delle essenze immutabilmente fisse al loro posto; essi non hanno mai
lasciato la loro patria natia. Poiché il Principio è il loro specchio, le loro
forme si manifestano dentro di Lui, così come le forme appaiono dentro uno
specchio. Queste forme non sono pertanto le loro essenze, poiché le forme si
manifestano allora in accordo con la forma dello specchio” (Fut., II, p. 529). Cfr. G. De Luca, “Non sono Io il vostro Signore?”, cit.,
pp. 78-79, e W.C. Chittick, The
Self-Disclosure of God, Albany, 1998, pp. 233-237.
[44]
Antico nome di Medina, la “Città del Profeta”.
[45]
Kuntu fî-l-‘amâ wa lâ shay’ ma‘î wa anâ
kamâ kuntu; questa espressione del Kitâb
al-yâ’ è in apparente contraddizione con quanto lo stesso Ibn ‘Arabî
sancisce in modo perentorio a proposito della espressione: “Ed Egli è ora come
era”, fatta seguire da alcuni a: “Dio è e nessuna cosa è con Lui” (supra, p.
16). In un altro passaggio egli usa una forma ancora più vicina a quella del hadîth: Kâna al-Huwa wa lâ shay’ ma‘ahu (infra, p. 150); facciamo tuttavia
notare che questa frase rimane isolata, mentre in quella supra citata manca il
termine al-ân, “ora”, che è il
momento dell’“istante eterno”.
[46]
Infra, p. 162-64. Possiamo accostare
ancora una volta le parole del maestro domenicano: “In verità tu sei il Dio
nascosto, al fondo dell’anima, là dove il fondo dell’anima ed il fondo di Dio
sono un solo fondo. Più ti si cerca meno ti si trova. Tu devi cercarlo in guisa
tale da non trovarlo in alcun luogo. Se non lo cerchi allora lo trovi”
(Eckhart, Homo quidam nobilis, in Opere tedesche, cit., p. 225).
[47]
Fut., II, p. 512.
[48]
Qualsiasi “cosa” sarebbe un ente (un ‘ayn),
ossia una determinazione particolare che “vela” l’Identità del tutto priva di
dualità. L’illusorietà della manifestazione non porta ad un “nulla” per sé che
è una pura impossibilità; vuol solo significare che “il principio non è mai il
principiato, come il punto non è mai la linea. Perciò Dio, essendo principio
dell’essere o dell’ente, non è ente, né è l’essere della creatura” (Eckhart, La nascita eterna, a c. di G. Faggin,
Firenze, 1953, p. 11). Sono solo le creature che “sono un puro nulla”; queste,
precisa Eckhart, non sono “una piccola cosa o qualcosa: esse sono un puro
nulla. Ciò che non ha essere, non esiste. Tutte le cose non hanno essere,
poiché il loro essere dipende dalla presenza di Dio. Se Dio si ritraesse dalle
creature per un solo istante, esse cadrebbero nel nulla” (ibid. p. 67). Anche Sankara afferma che “la conoscenza del Brahman
(brahmavidyâ) si basa su qualcosa di
reale (vastutantrâ), al pari della
conoscenza delle cose reali che sono oggetti dei mezzi di conoscenza quali
l’esperienza sensibile” (Brah.Sû.Bh.,
I.1.4). Infatti, la non-esistenza di una cosa sovrapposta è identica alla cosa
su cui avviene la sovrapposizione, come nell’esempio della corda scambiata per
serpente: quando l’illusoria sovrapposizione del serpente è eliminata, quel che
rimane è il substrato reale della corda; lo stesso avviene quando si parla
della non-esistenza del tutto-condizionato (il cosmo) – ossia quando è stata
abolita la sua illusoria sovrapposizione –, quel che rimane è necessariamente
il Tutto-incondizionato: “Quello [il Principio incondizionato] è una Pienezza
[infinita, purna], e questo [l’universo condizionato] è una pienezza
[indefinita]. La pienezza [indefinita e condizionata] procede dalla Pienezza
[infinita e incondizionata]; se dalla Pienezza [incondizionata] togli la
pienezza [condizionata] quel che rimane è solo la Pienezza [eterna e
incondizionata]” (Îsâ Up., mantra
augurale). Se da un lato la “nonesistenza” della creatura, il suo fanâ’ (o
nirvâna), è la conseguenza della “distruzione dell’ignoranza” (avidyâ-nivritti), lo stato di sat-cit-ananada, conseguenza
dell’identità col Principio, comporta il suo baqâ’, o “permanenza”. Per dirla
con Ansârî, “si estingue [solo] che ciò che non è mai stato, e sussiste quel
che non ha mai cessato di essere” (cfr. Kalâbâdhî, Il Sufismo nelle parole degli Antichi, cit., p. 259) e,
analogamente, troviamo Eckhart affermare: “Ciò che mi ha permesso di
raggiungere la verità eterna è l’essere rimasto qui dove mi son trovato” (ed.
Pfeiffer, p. 467, cit. da M. Vannini, introduzione a Opere tedesche, cit., p. lxx).
Bisogna aggiungere, anche, che la caratteristica
principale di questo stato finale di liberazione (moksha) coincide con il sat-cit-ânanada,
che è “Essere [puro], Coscienza [integrale] e Beatitudine [infinita]”,
Beatitudine che, per Mandana Miéra, è anche la caratteristica principale della
liberazione e della conoscenza del Brahman, poiché il Brahman è essenzialmente
Beatitudine (cfr. M. Biardeau, La
Philosophie de Mandana Miéra vue à partir de la Brahmasiddhi, Parigi, 1969,
pp. 12-20, 141-148. Parimenti Eckhart afferma: “È sembrato ad alcuni che… il
fiore e il nucleo della beatitudine si situino nella conoscenza con la quale lo
spirito conosce di conoscere Dio… Tuttavia io dico con certezza che non è così…
giacché il primo elemento della beatitudine è che l’anima contempli Dio senza
velo. È di là che essa riceve tutto il suo essere e la sua vita e che attinge
tutto ciò che essa è nell’abisso di Dio, e non sa niente della conoscenza, né
dell’amore, né di quel che sia. Essa riposa totalmente ed esclusivamente
nell’essere di Dio, non conosce in ciò che l’essere e Dio” (Dell’Uomo nobile,
in Opere tedesche, cit., pp. 52-53).
[49]
Fut., III, p. 105.
[50]
Sulla “Non-stazione”, Cfr. W.C. Chittick, The
Sufi Path of Knowledge, cit., pp. 375-381, e M. Chodkiewicz, Le Sceau des saints, Parigi, 1986, pp.
90-94; sulla “non-esistenza” del cosmo, cfr. W.C. Chittick, The Self-Disclosure of God, cit., index,
s.v. “nothing” (lâ shay’).
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