"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

lunedì 5 febbraio 2018

René Guénon Considerazioni sull'Iniziazione - XIX - Riti e cerimonie

René Guénon
Considerazioni sull'Iniziazione

XIX - Riti e cerimonie

Dopo aver chiarito, per quanto era possibile fare, le principali questioni riferentisi alla vera natura del simbolismo, possiamo ora riprendere l’esame dei riti; su questo argomento, ci incombe ancora di dissipare alcune inopportune confusioni. 

Le affermazioni più stupefacenti sono diventate possibili, nella nostra epoca, al punto di farsi accettare comunemente, e questo accade perché sia coloro che le diffondono sia coloro che le intendono sono colpiti dalla stessa mancanza di discernimento; tocca, a chi osservi le manifestazioni svariate della mentalità contemporanea, constatare a ogni istante talmente tante cose di questo genere, di tutti i tipi e in ogni campo, che questi non dovrebbe più meravigliarsi di nulla. E tuttavia è nonostante tutto assai difficile evitare di provare un certo stupore quando si vedono dei sedicenti «istruttori spirituali» ‑ che alcuni credono addirittura investiti di «missioni» più o meno eccezionali ‑ trincerarsi dietro la loro «repulsione per le cerimonie» per respingere indistintamente tutti i riti, qualunque ne sia la natura, e per esprimere financo la loro ostilità per essi. Tale repulsione è in sé perfettamente ammissibile, se si vuole anche legittima, a condizione di attribuirla in larga parte a una questione di preferenze individuali e di non pretendere che tutti necessariamente la condividano; a ogni buon conto, per quel che ci riguarda, noi la comprendiamo senza nessuna difficoltà; non avremmo però mai sospettato che certi riti potessero essere confusi con delle «cerimonie», né che i riti in generale avessero da essere considerati passibili di un carattere simile. Perché è in questo che si incentra la confusione, ed è veramente strana da parte di chi abbia una qualche pretesa, più o meno confessata, di servire da «guida» agli altri in un campo in cui, precisamente, i riti hanno una funzione essenziale e della maggiore importanza, in quanto «veicoli» indispensabili delle influenze spirituali senza cui non potrebbe parlarsi del minimo contatto effettivo con realtà di ordine superiore, ma solo di aspirazioni vaghe e inconsistenti, di «idealismo» nebuloso e di speculazioni a vuoto.
Non ci attarderemo a cercare quale possa essere l’origine della parola «cerimonia», origine che sembra piuttosto oscura e su cui i linguisti sono lontani dal trovare un accordo[1]; resta inteso che noi l’assumiamo nel senso che essa ha costantemente nel linguaggio attuale e che è sufficientemente conosciuto da tutti perché non sia il caso di insistervi: si tratta tutto sommato sempre di una manifestazione comportante uno sfoggio più o meno grande di pompa esteriore, quali che siano le circostanze che ne forniscono l’occasione o il pretesto in ciascun caso particolare. È evidente che può accadere, e di fatto accade spesso, soprattutto nel campo dell’exoterismo, che alcuni riti siano accompagnati da una pompa di tal genere; ma allora la cerimonia costituisce semplicemente qualcosa che si sovrappone al rito in sé, perciò qualcosa di accidentale e di assolutamente non essenziale nei confronti di quest’ultimo; su questo punto ritorneremo fra poco. D’altro canto, è non meno evidente che esistono anche, e nella nostra epoca più numerose che mai, gran numero di cerimonie che hanno solo un carattere puramente profano, e non sono perciò per nulla collegate con l’effettuazione di un qualsiasi rito; se si è giunti a decorarle con il nome di riti è soltanto a causa di uno di quegli straordinari abusi di linguaggio che così spesso ci tocca denunciare, e in fondo la cosa si spiega con il fatto che dietro tutte queste manifestazioni si ritrova l’intenzione di istituire di fatto degli «pseudo-riti» destinati a soppiantare i veri riti religiosi, «pseudo-riti» che naturalmente non possono però imitare quelli veri se non in modo tutto esteriore, vale a dire precisamente nel loro solo aspetto «cerimoniale». Il rito in sé, di cui la cerimonia non era in qualche modo se non un semplice «rivestimento», è a questo punto totalmente inesistente, giacché non può esistere un rito profano, che sarebbe una contraddizione in termini; e ci sarebbe da chiedersi se gli ispiratori coscienti di queste grossolane contraffazioni facciano solo assegnamento sull’ignoranza e sull’incomprensione generali per indurre l’accettazione di una simile sostituzione, o se le condividano in certa misura essi stessi. Non tenteremo di risolvere tale questione, e ricorderemo soltanto, a coloro che si stupiscano che essa possa porsi, che l’intelligenza delle realtà propriamente spirituali, a qualsiasi grado, è rigorosamente preclusa alla «contro-iniziazione»[2]; sennonché quel che ci interessa al presente è propriamente il fatto che esistano cerimonie senza riti, così come riti senza cerimonie, il che è sufficiente a far vedere fino a qual punto sia sbagliato voler stabilire tra le due cose un’identità o un’assimilazione qualsiasi.
Abbiamo detto spesso che in una civiltà rigorosamente tradizionale tutto ha veramente un carattere rituale, ivi comprese le stesse azioni della vita ordinaria; vorrebbe forse questo dire che gli uomini debbano in essa vivere, se così ci si può esprimere, in uno stato di perpetua cerimonia? È questa una cosa letteralmente inimmaginabile, e basta formulare la questione in questo modo perché se ne veda subito tutta l’assurdità; anzi, bisognerebbe piuttosto dire che di una simile supposizione è vero tutto il contrario, giacché in tali condizioni i riti sono una cosa del tutto naturale, e non hanno in nessun modo il carattere d’eccezione che sembrano assumere quando la coscienza della tradizione si indebolisca e quando il punto di vista profano prenda vita e si diffonda in misura proporzionata a simile indebolimento, cosicché cerimonie di qualsiasi genere che si associassero a essi a enfatizzare tale carattere eccezionale non avrebbero sicuramente alcuna ragion d’essere. Se si risale alle origini, il rito non è se non «ciò che è conforme all’ordine», secondo l’accezione del termine sanscrito rita[3]; esso è perciò ciò che solo è «normale», mentre la cerimonia ‑ all’inverso ‑ dà sempre e invariabilmente l’impressione di qualcosa di più o meno anormale, fuori dal corso abituale e regolare degli avvenimenti che riempiono il resto dell’esistenza. Tale impressione ‑ facciamolo notare di sfuggita ‑ potrebbe forse contribuire in parte a spiegare il modo così peculiare in cui gli Occidentali moderni, che quasi non sanno più separare la religione dalle cerimonie, considerano la prima come qualcosa di totalmente isolato, che non ha più nessun rapporto reale con l’insieme delle altre attività alle quali «consacrano» la loro vita.
Tutte le cerimonie hanno un carattere artificiale, addirittura convenzionale, per così dire, perché in definitiva esse sono soltanto il prodotto di una elaborazione del tutto umana; anche quando esse siano destinate ad accompagnarsi a un rito, questo loro carattere si oppone a quello del rito in sé, il quale ‑ al contrario ‑ comporta essenzialmente un elemento «non-umano». Colui che compie un rito, se ha raggiunto un certo grado di conoscenza effettiva può, e deve anche, aver coscienza che si tratta di qualcosa che lo supera, che non dipende in nessun modo dalla sua iniziativa individuale; ma per quanto riguarda invece le cerimonie, anche se queste possono illudere coloro che vi assistono, e sono ridotti a sostenere in esse un ruolo che è più quello di spettatori che non di «partecipanti», è assai chiaro che coloro che le organizzano e ne regolano lo svolgimento sanno perfettamente di cosa si tratti, e si rendono perfettamente conto che tutta l’efficacia che si possono aspettare da esse è interamente subordinata alle disposizioni che hanno essi stessi emanate e al modo più o meno soddisfacente in cui saranno eseguite. In effetti tale efficacia, per il fatto stesso che una cerimonia non coinvolge nulla che non sia se non semplicemente umano, non può essere di ordine veramente profondo, ed è tutto sommato puramente «psicologica»; per questo si può dire che di fatto si tratta di impressionare gli spettatori o di far presa su di loro con ogni possibile mezzo sensibile; e del resto, uno degli elogi maggiori che si possano fare di una cerimonia non è forse proprio di qualificarla «imponente», senza tuttavia che si capisca bene il vero significato di quest’espressione? Notiamo ancora, a questo proposito, che coloro che ai riti non vogliono riconoscere se non effetti di tipo «psicologico» li confondono anch’essi, forse senza accorgersene, con le cerimonie, e ciò per il fatto che ne disconoscono il carattere «non-umano», in virtù del quale i loro effetti reali, in quanto riti veri e propri e indipendentemente da qualsiasi circostanza accessoria, sono al contrario di un ordine totalmente diverso.
Ora, ci si potrebbe porre questa domanda: perché aggiungere in tal modo delle cerimonie ai riti, quasi che il «non-umano» avesse bisogno di questo ausilio umano, mentre dovrebbe piuttosto rimanere il più possibile libero da simili contingenze? La verità è che si tratta molto semplicemente di una conseguenza della necessità, che si impone, di tener conto delle condizioni di fatto dell’umanità terrestre, per lo meno in questo o quell’altro periodo della sua esistenza; è una concessione fatta a un certo stato di decadimento, dal punto di vista spirituale, degli uomini che sono chiamati a partecipare ai riti; sono questi uomini ‑ e non i riti ‑ che hanno bisogno del soccorso delle cerimonie. Il problema non è assolutamente quello di rinforzare o di intensificare i riti nella loro sfera propria, ma unicamente di renderli più accessibili per gli individui ai quali essi si indirizzano, di preparare questi ultimi, per quanto possibile, ponendoli in uno stato emotivo e mentale appropriato; questo è tutto quel che possono fare le cerimonie, e bisogna riconoscere che sotto questo profilo esse sono tutt’altro che inutili, e che per la maggioranza degli uomini adempiono piuttosto bene tale ufficio. Per questo esse hanno vera ragion d’essere soltanto nell’ambito exoterico, che si rivolge a tutti senza distinzione; quando si tratti dell’ambito esoterico o iniziatico, le cose vanno in modo totalmente diverso, poiché quest’ultimo dev’essere riservato a un’élite che ‑ per definizione ‑ non ha la necessità di tali «ausili» puramente esteriori, tenuto conto che la sua qualificazione implica precisamente che essa sia superiore allo stato di decadimento che colpisce la maggioranza; per cui, se talvolta può avvenire che si incontrino in esso delle cerimonie, tale introduzione si spiegherà soltanto con una certa degradazione delle organizzazioni iniziatiche nelle quali ha luogo un fatto simile.
Quanto abbiamo detto definisce la funzione legittima delle cerimonie; sennonché, paralleli a essa, ci sono inoltre l’abuso e il pericolo: siccome ciò che è esteriore è anche ciò che è più immediatamente apparente, c’è sempre da temere che l’accidentale faccia perdere di vista l’essenziale, e che le cerimonie assumano ‑ agli occhi di coloro che ne sono testimoni ‑ molto maggior importanza dei riti, che esse dissimulano in certo qual modo sotto un cumulo di forme accessorie. Può anche accadere ‑ e questo è ancor più grave ‑ che simile errore sia condiviso da coloro che hanno per funzione di compiere i riti in qualità di rappresentanti autorizzati di una tradizione, se anche loro siano colpiti dal decadimento spirituale generale di cui abbiamo detto; il risultato ne è allora che, scomparsa la comprensione vera, tutto si riduce, per lo meno sul piano cosciente, a un «formalismo» eccessivo e irragionevole, il quale si dedicherà volentieri soprattutto a conservare la brillantezza delle cerimonie e ad amplificarla oltre misura, considerando quasi trascurabile il rito che fosse ricondotto all’essenziale, e che è invece tutto quel che dovrebbe contare veramente. Per una forma tradizionale si tratta ‑ quando sia così ridotta ‑ di una sorta di degradazione che confina, con la «superstizione» intesa nel suo significato etimologico, giacché il rispetto per le forme sopravvive in essa alla loro comprensione, e in tal modo la «lettera» soffoca completamente lo «spirito»; il «cerimonialismo» non è assolutamente l’osservanza del rituale, esso è piuttosto l’oblio del suo valore profondo e del suo significato reale, la materializzazione più o meno grossolana delle concezioni che ci si fanno della sua natura e della sua funzione e ‑ infine ‑ il disconoscimento del «non-umano» a profitto dell’umano.



[1] Si tratta di una parola che deriva dalle feste di Cerere dei Romani, ovvero ‑ come altri hanno supposto ‑ dal nome di un’antica città d’Italia chiamata Cere? La cosa non ha in fondo grande importanza, giacché tale origine può, come quella della parola «mistico» di cui abbiamo dovuto parlare in precedenza, non avere che un rapporto molto lontano con il senso che essa ha assunto nell’uso corrente, il quale è il solo in cui sia possibile usarla attualmente.
[2] Cfr. Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi, capp. XXXVIII e XL.
[3] Cfr. Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi, capp. III e VIII.

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