Guénon René
Considerazioni sull'Iniziazione
XXIII - Sacramenti e riti iniziatici
Abbiamo detto in precedenza che i riti religiosi e i riti iniziatici appartengono a categorie essenzialmente diverse e non possono avere lo stesso scopo, cosa che deriva necessariamente dalla distinzione delle due sfere, exoterica ed esoterica, con le quali hanno rispettivamente rapporto; se tra gli uni e gli altri si originano confusioni nella mente di qualcuno, sono confusioni dovute anzitutto al disconoscimento di questa distinzione, e possono anche essere in parte provocate dalle rassomiglianze che nonostante tutto tali riti presentano, per lo meno nelle loro forme esteriori, rassomiglianze che possono ingannare coloro che osservano le cose soltanto «dall’esterno».
In tutti i casi la distinzione è perfettamente netta quando si tratti dei riti propriamente religiosi, che sono per definizione di carattere exoterico, e di conseguenza non dovrebbero dare origine a nessun dubbio; occorre però dire che essa può essere meno dichiarata in altri casi, quali quello di una tradizione nella quale non ci sia la divisione tra un exoterismo e un esoterismo costituenti in certo qual modo due aspetti separati, ma in cui esistano solamente gradi diversi di conoscenza e in cui, di conseguenza, la transizione dall’uno all’altro può essere pressoché insensibile, come accade in particolare per la tradizione indù; una simile gradualità di transizione prenderà naturalmente corpo in riti corrispondenti, cosicché alcuni fra di essi potranno presentare. sotto certi aspetti, un carattere in qualche modo misto o intermedio.
È precisamente nella tradizione indù che in effetti si incontra uno dei riti a proposito dei quali ci si può con ragione porre la questione se il loro carattere sia o non sia iniziatico; intendiamo parlare dell’upanayana, vale a dire del rito in conseguenza del quale un individuo è ricollegato effettivamente a una delle tre caste superiori, alla quale, prima dell’effettuazione del rito, apparteneva soltanto in una maniera che si può dire esclusivamente potenziale. Questo caso merita realmente di essere esaminato con una certa attenzione, e a tal proposito occorre innanzi tutto capire bene cosa si debba intendere esattamente con il termine samskâra, che viene abbastanza abitualmente tradotto con la parola «sacramento»; una traduzione simile ci sembra molto distante dall’essere soddisfacente, giacché, seguendo una tendenza troppo comune negli Occidentali, asserisce una identità tra cose che, anche se sono effettivamente paragonabili sotto certi aspetti, ciò nondimeno sono nel loro fondo assai differenti. A dar luogo a simile obiezione non è – a dire il vero – il significato etimologico vero e proprio della parola «sacramento», giacché, evidentemente, in effetti si tratta, in tutti i casi, di qualcosa di «sacro»; tale significato è d’altronde anche troppo ampio perché si possa ricavarne una nozione un po’ precisa, e se ci si attenesse a esso qualsiasi rito potrebbe indistintamente esser chiamato «sacramento»; sennonché, di fatto, tale parola è diventata inseparabile dall’uso specificamente religioso e ristrettamente definito che se ne fa nella tradizione cristiana, nella quale essa indica qualcosa di cui senza dubbio non si trova l’equivalente esatto da altre parti. È perciò di gran lunga più opportuno conformarsi a quest’uso onde evitare qualsiasi equivoco, e riservare la dizione «sacramenti» a una determinata categoria di riti religiosi specificamente appartenenti alla forma tradizionale cristiana; in queste condizioni è la nozione di «sacramento» a rientrare in quella di samskâra a titolo di caso particolare, e non l’inverso; in altri termini. si potrà dire che i sacramenti cristiani sono dei samskâra, ma non che i samskâra indù siano sacramenti, poiché, secondo la logica più elementare, il nome di un genere si applica a ciascuna delle specie che sono comprese in esso, ma, per converso, il nome di una di tali specie non può validamente applicarsi né a un’altra specie, né all’intero genere.
Un samskâra è essenzialmente un rito di «aggregazione» a una comunità tradizionale; questa definizione, come si vede subito, è totalmente indipendente dalla forma particolare, religiosa o d’altro tipo, che la tradizione in questione può rivestire; e nel Cristianesimo tale funzione è ricoperta dai sacramenti, così come samskâra di specie diversa la svolgono da altre parti. Dobbiamo tuttavia dire che la parola «aggregazione» che abbiamo testé usato manca un po’ di precisione, nonché di esattezza, e questo per due ragioni: prima di tutto, se ci si attiene rigorosamente al suo significato proprio, essa sembra indicare il ricollegamento vero e proprio alla tradizione, e di conseguenza non dovrebbe applicarsi se non a un unico rito, quello mediante il quale tale ricollegamento si opera in modo effettivo, mentre in realtà ci sono, in una stessa tradizione, un certo numero più o meno grande di samskâra; occorrerà perciò ammettere che l’«aggregazione» in questione comporti una molteplicità di gradi o di modalità, che generalmente corrispondono in certo qual modo alle principali fasi della vita di un individuo. D’altro canto, la stessa parola «aggregazione» può dare l’idea di un rapporto che rimane ancora in un certo senso esteriore, quasi che si trattasse semplicemente di unirsi a un «raggruppamento» o di aderire a una «società», mentre ciò di cui si tratta ha un carattere del tutto diverso e implica un’assimilazione che potrebbe esser detta «organica», poiché con essa si è in presenza di una vera e propria «trasmutazione» (abhisambhava) che si opera negli elementi sottili dell’individualità. Ananda K. Coomaraswamy ha proposto, per rendere samskâra, il termine «integrazione», che di fatto ci sembra assai preferibile a quello di «aggregazione» sotto questi due punti di vista, giacché rende molto esattamente tale idea di assimilazione, e inoltre è facilmente comprensibile che un’«integrazione» possa essere più o meno completa e profonda, e – di conseguenza – sia tale da potersi effettuare per gradi, il che tiene effettivamente conto della molteplicità dei samskâra all’interno di una medesima tradizione.
Occorre notare che una «trasmutazione» come quella di cui parlavamo poco fa ha di fatto luogo non soltanto nel caso dei samskâra, ma anche in quello dei riti iniziatici (dîkshâ)[1]; è uno dei caratteri che gli uni e gli altri hanno in comune, e che permettono di fare tra di essi un confronto sotto certi aspetti, quali che siano per altri versi le loro differenze essenziali. Di fatto, sia nell’uno che nell’altro caso esiste trasmissione o comunicazione di un’influenza spirituale, ed è tale influenza che, in qualche modo «infusa» dal rito, produce nell’individualità la «trasmutazione» in questione; è però ovvio che i suoi effetti potranno essere limitati a questo o a quell’ambito determinato, a seconda dello scopo proprio del rito che si considera; ed è precisamente in ragione del loro scopo, quindi anche in ragione dell’ambito o del tipo di possibilità nel quale operano, che i riti iniziatici differiscono profondamente da tutti gli altri.
Sotto un altro aspetto, la differenza senza dubbio più evidente all’esterno, conseguentemente quella che dovrebbe poter essere più facilmente riconosciuta anche da osservatori «dall’esterno», è che i samskâra sono comuni a tutti gli individui che sono ricollegati a una stessa tradizione, ovvero in definitiva a tutti coloro che appartengono a un «ambiente» determinato, cosa che conferisce a questi riti un aspetto che si può dire più propriamente «sociale», mentre – all’opposto – i riti iniziatici, i quali richiedono certe qualificazioni particolari, sono sempre riservati a un’élite più o meno ristretta. Da ciò ci si può render conto dell’errore che commettono gli etnologi e i sociologi, i quali, in particolare per ciò che riguarda le cosiddette «società primitive», si servono sconsideratamente del termine «iniziazione» – del quale evidentemente non conoscono che male il vero significato e la reale portata – applicandolo a riti ai quali hanno accesso, in questo o quel momento della loro esistenza, tutti i membri di un popolo o di una tribù; tali riti in realtà non hanno nessun carattere iniziatico, ma sono propriamente dei veri samskâra. Naturalmente, però, possono esistere, in queste stesse società, riti autenticamente iniziatici, quand’anche essi siano più o meno degenerati (e forse spesso lo sono meno di quel che si sarebbe tentati di supporre); sennonché, in questo come in tutti gli altri casi, simili riti non sono accessibili se non a determinati individui a esclusione degli altri, il che, senza neppure esaminare le cose più a fondo, dovrebbe essere sufficiente a rendere impossibile qualsiasi confusione.
Possiamo ora passare al caso più particolare, da noi menzionato all’inizio del capitolo, del rito indù dell’upanayana, il quale consiste essenzialmente nell’investitura del cordone brâhmanico (pavitra o upavîta), e dà il regolare accesso allo studio delle Scritture sacre; può esso essere un’iniziazione? La questione, a quel che pare, potrebbe in fondo essere risolta tenendo conto anche solamente del fatto che si tratta di un rito che è samskâra e non dîkshâ, giacché ciò implica che, dallo stesso punto di vista della tradizione indù, il quale è evidentemente quello che deve costituire autorità, esso non è considerato iniziatico; sennonché ci si può ancora chiedere perché le cose stiano in questo modo, nonostante che certe apparenze possano far pensare il contrario. Abbiamo già indicato come questo rito sia riservato ai membri delle prime tre caste; sennonché, a dire il vero, tale restrizione è inerente alla costituzione stessa della società tradizionale indù; essa non è quindi sufficiente perché si possa parlare in questo caso di iniziazione, così come – ad esempio – il fatto che questi o quei riti siano riservati agli uomini a esclusione delle donne, o inversamente, non permette da solo di attribuire a essi un carattere iniziatico (basta, per convincersene, citare il caso dell’ordinazione cristiana, la quale richiede inoltre addirittura altre qualificazioni più specifiche, e che nondimeno appartiene incontestabilmente all’ambito exoterico). Al di fuori di questa sola qualificazione, da noi ricordata poco fa (e che il termine ârya denomina in modo proprio), per l’upanayana non ne è richiesta nessun’altra; tale rito è perciò comune a tutti i membri delle prime tre caste senza eccezioni, e anzi essa costituisce per loro più un vero obbligo che un semplice diritto; ora, tale carattere di obbligo, il quale è direttamente legato a quello che abbiamo chiamato l’aspetto «sociale» dei samskâra, non potrebbe sussistere qualora si trattasse di un rito iniziatico. Un ambiente sociale, per quanto possa essere profondamente tradizionale, non può imporre a nessuno dei suoi membri, quali ne siano le qualificazioni, l’obbligo di entrare in un’organizzazione iniziatica; quest’ultima è una cosa che, per sua propria natura, non può derivare da nessuna imposizione più o meno esteriore, foss’anche semplicemente l’obbligo «morale» di quella che si è convenuto di chiamare l’«opinione pubblica», la quale non può evidentemente essere capace di un altro atteggiamento legittimo che non sia la pura e semplice ignoranza di tutto ciò che si riferisce all’iniziazione, giacché si tratta di un ordine di realtà che, per definizione, è precluso all’insieme della collettività in quanto tale. Per quel che riguarda l’upanayana, si può dire che la casta è ancora soltanto virtuale, o addirittura potenziale, fintanto che tale rito non sia compiuto (giacché la qualificazione richiesta non è propriamente se non l’attitudine naturale a far parte di questa casta), per modo che esso è necessario perché l’individuo possa occupare un posto e una funzione determinata nell’organismo sociale, giacché, se la sua funzione deve innanzi tutto essere conforme alla sua propria natura, bisogna però, perché egli sia in grado di ricoprirla in modo valido, che tale natura sia «realizzata» e non rimanga nello stato di semplice disposizione non sviluppata; è perciò perfettamente comprensibile e normale che il non compimento di questo rito entro i termini prescritti comporti l’esclusione dalla comunità o, ancor più esattamente, che implichi in sé e per sé una simile esclusione.
C’è però ancora da tener conto di un punto particolarmente importante, giacché è forse quello che può soprattutto dare origine a una confusione: l’upanayana conferisce la qualità di dwija, o di «nato due volte»; esso è perciò espressamente indicato come una «seconda nascita», ed è noto d’altronde che simile espressione si applica anche in senso assai preciso all’iniziazione. È vero che il battesimo cristiano, molto differente però dall’upanayana sotto più di un rispetto, è similmente una «seconda nascita», ed è anche troppo evidente che è un rito che non ha nulla in comune con un’iniziazione; ma come può essere che lo stesso termine «tecnico» possa ricevere in tal modo applicazione sia nella categoria dei samskâra (ivi compresi i sacramenti) sia nell’ambito iniziatico? La verità è che la «seconda nascita», in sé e per sé e secondo il suo significato generale, è propriamente una rigenerazione psichica (occorre in effetti prestare molta attenzione al fatto che è all’ambito psichico che essa si riferisce direttamente, e non all’ambito spirituale, giacché in quest’ultimo caso si tratterebbe di una «terza nascita»); sennonché simile rigenerazione può non avere che effetti essi stessi unicamente psichici, vale a dire limitati a un ordine più o meno particolare di possibilità individuali, oppure essa può – al contrario – essere il punto di partenza di una «realizzazione» di carattere superiore; soltanto in quest’ultimo caso essa avrà una portata propriamente iniziatica, mentre nel primo appartiene all’aspetto più «esterno» delle diverse forme tradizionali, ossia a quello a cui tutti indistintamente partecipano[2].
L’allusione da noi fatta poco fa al battesimo solleva un’altra questione che non è priva d’interesse: questo rito, a parte il suo carattere di «seconda nascita», presenta inoltre nella sua forma stessa una rassomiglianza con taluni riti iniziatici; si può d’altronde rilevare che una tale forma si rifà a quella dei riti di purificazione mediante gli elementi, sul quali ritorneremo tra poco, riti che costituiscono una categoria molto generale e chiaramente suscettibile di applicazione in campi assai diversi; tuttavia è possibile che a tal proposito ci sia qualcos’altro di cui tener conto. In effetti non c’è nulla di sorprendente nel fatto che dei riti exoterici siano in qualche modo modellati su riti esoterici o iniziatici; se gli stessi gradi dell’insegnamento esteriore hanno potuto, in una società tradizionale, essere ricalcati su quelli di una iniziazione, come più avanti spiegheremo, a maggior ragione un’«esteriorizzazione» del genere ha potuto prodursi per ciò che riguarda un ordine di realtà superiore a quest’ultimo, quantunque ancora exoterico, intendiamo dire in questo caso quello dei riti religiosi[3]. In una cosa di tal genere, la gerarchia dei rapporti normali è rigorosamente rispettata, giacché, secondo questi rapporti le applicazioni di carattere meno elevato o più esteriore devono discendere da quelle che hanno un carattere più principiale; se perciò consideriamo, per contenerci a questi soli esempi, cose quali la «seconda nascita» o la purificazione mediante gli elementi, è il loro significato iniziatico a essere in realtà il primo di tutti, e le loro altre applicazioni devono esserne derivate più o meno direttamente poiché in nessuna forma tradizionale potrebbe esserci qualcosa di più principiale dell’iniziazione e del suo ambito proprio, ed è in questo aspetto «interiore» che risiede veramente lo spirito di qualsiasi tradizione.
[1] Il termine dîkshâ è in sanscrito quello che significa propriamente «iniziazione», quantunque occorra talvolta renderlo piuttosto con «consacrazione» (cfr. sulla connessione di queste due idee, quel che abbiamo detto in precedenza dei diversi significati del verbo greco mueô); in effetti, in taluni casi, ad esempio quando si tratta di una persona che offre un sacrificio, la «consacrazione» indicata con il termine dîkshâ ha soltanto un effetto temporaneo, essendo valevole solo per la durata del sacrificio in questione, e dovrà essere rinnovata se, in seguito, la stessa persona si trova a offrire un altro sacrificio, anche se questo ha la stessa natura del primo; è perciò impossibile riconoscere a tale «consacrazione» il carattere di un’iniziazione nel vero senso della parola, giacché, come già abbiamo detto, qualsiasi iniziazione è necessariamente qualcosa di permanente, di acquisito una volta per tutte e che non potrà mai andar perduto quali che siano le circostanze.
[2] La limitatezza degli effetti della rigenerazione effettuata in modo exoterico spiega perché essa non può in alcun modo essere considerata un’iniziazione o dispensare da quest’ultima, quantunque sia l’una sia l’altra abbiano in comune il carattere di «seconda nascita» compreso nel suo senso più generico.
[3] Possiamo far rilevare che, secondo questo punto di vista, l’ordinazione religiosa rappresenta un’«esteriorizzazione» dell’iniziazione sacerdotale, e che il «sacro» dei re rappresenta un’«esteriorizzazione» dell’iniziazione regale, occasionate sia l’una sia l’altra da condizioni in cui le funzioni corrispondenti abbiano cessato di essere riservate a iniziati, come erano in epoca precedente.
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