"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

venerdì 23 febbraio 2018

Guénon René, Considerazioni sull'Iniziazione - XXVII - Nomi profani e nomi iniziatici

Guénon René
Considerazioni sull'Iniziazione

XXVII - Nomi profani e nomi iniziatici

Parlando precedentemente dei diversi generi di segreti di tipo più o meno esteriore che possono esistere in certe organizzazioni, iniziatiche o no, abbiamo menzionato fra gli altri il segreto che si riferisce ai nomi dei loro membri; e può di fatto sembrare – a prima vista – che sia un segreto da classificare fra le semplici misure di precauzione destinate a proteggere se stessi contro i pericoli che possono derivare da eventuali nemici, senza che sia necessario cercare ragioni più profonde.

In effetti così è in non pochi casi, per lo meno in quelli nei quali si è in presenza di organizzazioni segrete puramente profane; tuttavia, quando in questione siano le organizzazioni iniziatiche può darsi che si tratti di qualcos’altro, e che un simile segreto ‑come tutto il resto ‑ rivesta un carattere veramente simbolico. Vale tanto più la pena di soffermarsi un po’ su tale punto, in quanto la curiosità dei nomi è una delle manifestazioni più abituali dell’«individualismo» moderno, e in quanto essa – quando abbia la pretesa di appuntarsi sulle cose della sfera iniziatica – è un altro dei sintomi di un’ignoranza grave delle realtà di questo tipo, e di una deprecabile tendenza a volerle ricondurre al livello delle contingenze profane. Lo «storicismo» dei nostri contemporanei non è soddisfatto se non mette nomi propri su tutte le cose, e se non può attribuirle, cioè, a individualità umane definite, secondo la concezione più limitata che ci si possa fare di esse, quella che ha corso nella vita profana e che non tiene conto se non della sola modalità corporea. Il fatto che l’origine delle organizzazioni iniziatiche non possa mai essere ricondotta a individualità simili, a tal proposito dovrebbe già far riflettere; e quando si tratti di organizzazioni che operano nell’ambito più profondo, i loro stessi membri non possono venire identificati, non perché dissimulino la loro identità – il che, per quanta cura vi pongano, potrebbe non essere sempre efficace –, ma perché, rigorosamente parlando, non sono «personaggi» nel senso che vorrebbero gli storici, cosicché chiunque creda di poterli nominare cadrà con ciò inevitabilmente in errore[1]. Prima di passare a spiegazioni più diffuse sull’argomento, diremo che qualcosa di analogo si ritrova, mantenendo le proporzioni, a ogni gradino della scala iniziatica, anche ai più elementari, per modo che, se un’organizzazione iniziatica è realmente quel che deve essere, l’indicazione di uno qualunque dei suoi membri con un nome profano, quand’anche sia «materialmente» esatta, sarà sempre intaccata da falsità, più o meno come lo sarebbe la confusione tra un attore e un personaggio di cui questi reciti la parte e del quale ci si ostinasse ad attribuirgli il nome in tutte le circostanze della sua esistenza.

Abbiamo già insistito sulla concezione dell’iniziazione come «seconda nascita»; è precisamente come conseguenza logica immediata di questa concezione che in numerose organizzazioni l’iniziato riceve un nuovo nome, diverso dal suo nome profano; né si tratta di una semplice formalità, giacché tale nome deve corrispondere, a una modalità parimenti diversa del suo essere, quella la cui realizzazione è resa possibile dall’azione dell’influenza spirituale trasmessa dall’iniziazione; si può inoltre osservare che, anche dal punto di vista exoterico, la stessa pratica esiste, con una ragione analoga, in taluni ordini religiosi. Avremo perciò per lo stesso essere due modalità distinte, una che si manifesta nel mondo profano, l’altra all’interno dell’organizzazione iniziatica[2]; e, normalmente, ciascuna di esse deve avere il suo nome proprio, giacché quello dell’una non si adatta all’altra, perché sono situate in due ambiti che sono realmente diversi. Ma ci si può spingere più in là: a ogni grado di iniziazione effettiva corrisponde ancora un’altra modalità dell’essere; questi dovrebbe perciò ricevere un nuovo nome per ognuno di tali gradi, e quand’anche esso non gli venga di fatto attribuito, ciò nondimeno esiste – si può dire – quale espressione caratteristica di questa modalità, giacché in realtà un nome non è altro se non questo. Ora, dal momento che tali modalità nell’essere sono disposte secondo una gerarchia, lo stesso avviene dei nomi che rispettivamente li rappresentano; un nome sarà perciò tanto più vero quanto più corrisponderà a una modalità di natura più profonda, giacché in tal modo esprimerà qualcosa di più vicino alla vera essenza dell’essere. Di conseguenza – contrariamente all’opinione comune – è il nome profano che è il meno vero di tutti, perché è quello che è attribuito alla modalità più esteriore e alla manifestazione più superficiale; così è soprattutto in una civiltà che abbia perduto qualsiasi carattere di tradizionalità, e nella quale un nome simile non esprima pressoché più nulla della natura dell’essere. Per quanto si riferisce poi a quello che può esser detto il vero nome dell’essere umano, il più vero di tutti – nome che è del resto un vero e proprio «numero» nel senso pitagorico e kabbalistico della parola –, esso è quello che corrisponde alla modalità centrale della sua individualità, vale a dire alla sua restaurazione nello «stato primordiale», perché è quello che costituisce l’espressione integrale della sua essenza individuale.
Da queste considerazioni risulta che un nome iniziatico non ha da esser conosciuto nel mondo profano, poiché rappresenta una modalità dell’essere che in tale mondo non potrebbe manifestarsi, perché la sua conoscenza cadrebbe in certo qual modo nel vuoto, non trovandovi nulla a cui possa applicarsi realmente.
Inversamente, il nome profano rappresenta una modalità di cui l’essere deve spogliarsi quando entra nell’ambito iniziatico, e che allora non è più per lui se non una semplice parte che sostiene all’esterno; tale nome in quest’ambito non ha perciò alcun valore perché quel che esprime è in qualche modo inesistente in rapporto a esso. E però ovvio che tali ragioni profonde della distinzione, e per così dire della separazione, tra il nome iniziatico e il nome profano, in quanto indicanti «entità» effettivamente differenti, possono non essere coscienti in tutti i «luoghi» in cui il cambiamento di nome sia praticato di fatto; può accadere che, in seguito a un processo degenerativo di talune organizzazioni iniziatiche, si giunga in esse al punto di cercare di spiegarlo con motivi del tutto esteriori, ad esempio presentandolo come una semplice misura di prudenza, cosa che – tutto sommato – ha più o meno lo stesso valore delle interpretazioni del rituale e del simbolismo in senso morale o politico, e non impedisce affatto che all’origine sia esistito qualcosa di totalmente diverso. Per converso, quando si tratti di organizzazioni solo profane, questi motivi esteriori sono realmente valevoli, e in esse non potrebbe esistere niente di più, a meno che, in certi casi, non sussista anche, come abbiamo già detto a proposito dei riti, il desiderio di imitare le procedure delle organizzazioni iniziatiche, naturalmente – però – senza che ciò possa corrispondere alla minima realtà; e questo fa vedere come, ancora una volta, apparenze simili possano di fatto sovrapporsi a cose della natura più differente.
Ora però, tutto quel che abbiamo detto finora di questa molteplicità di nomi che rappresentano altrettante modalità dell’essere, si riferisce unicamente a estensioni dell’individualità umana comprese nella sua realizzazione integrale, ossia – iniziaticamente – all’ambito dei «piccoli misteri», come spiegheremo in modo più preciso nel seguito della nostra esposizione. Quando l’essere passa ai «grandi misteri», vale a dire alla realizzazione di stati sovraindividuali, egli passa con ciò di là dal nome e dalla forma, giacché, com’è insegnato dalla dottrina indù, codeste (nâma-rûpa) sono le espressioni rispettive dell’essenza e della sostanza dell’individualità. Un essere simile non ha perciò veramente più alcun nome, perché questa è una limitazione dalla quale si è ormai liberato; egli potrà, se è il caso, assumere qualsiasi nome per manifestarsi nella sfera individuale, ma tale nome non avrà su di lui nessuna influenza e avrà per lui non diversa natura «accidentale» da quella di un semplice vestito che si può abbandonare o cambiare a volontà. In questo consiste la spiegazione di quanto dicevamo più sopra: quando si tratti di organizzazioni di questo tipo, i loro membri non hanno un nome, né hanno un nome esse stesse; in tali condizioni, cosa può ancora esistere che possa offrirsi alla presa della curiosità profana? Quand’anche quest’ultima riesca a scoprire qualche nome, essi non avranno se non un valore del tutto convenzionale; e tale fatto può già prodursi, non poche volte, per quanto riguarda organizzazioni di stato inferiore a quello da noi menzionato, organizzazioni in cui saranno ad esempio utilizzate «firme collettive», che rappresenteranno, vuoi tali organizzazioni nel loro insieme, vuoi funzioni intese indipendentemente dalle individualità che le ricoprono. Tutto ciò, ripetiamo, discende dalla natura stessa delle cose di ordine iniziatico, per le quali le considerazioni individuali non contano nulla, e non ha affatto come fine quello di sviare certe ricerche, anche se poi questa ne risulta una conseguenza di fatto; ma come potrebbero fare i profani per supporre qualcosa che sia diverso dalle intenzioni che essi stessi potrebbero avere?
Da qui proviene altresì – in un gran numero di casi – la difficoltà o addirittura l’impossibilità di identificare gli autori di opere scritte aventi un certo carattere iniziatico[3]: o esse sono integralmente anonime, o – che è proprio lo stesso – non hanno come firma se non un marchio simbolico o un nome convenzionale; non esiste del resto alcuna ragione perché i loro autori abbiano avuto nel mondo profano un qualsiasi ruolo apparente. Quando invece opere del genere portano il nome di un individuo che sia per altri versi stato conosciuto come esser stato effettivamente vivente, non per questo si è forse più facilitati, giacché non è per una ragione del genere che si saprà esattamente con chi o con cosa si ha a che fare: un individuo simile può benissimo essere stato soltanto un portaparola, oppure una mascheratura; in un caso consimile la sua opera presunta potrà comportare conoscenze che egli non avrà mai realmente avuto; egli può non essere se non un iniziato di grado inferiore, o anche un semplice profano, che sarà stato scelto per ragioni contingenti qualunque[4], e a questo punto non è evidentemente l’autore che ha importanza, bensì unicamente l’organizzazione che l’ha ispirato.
D’altro canto, anche nell’ambito profano, ci si può stupire dell’importanza che ai giorni nostri si attribuisce all’individualità di un autore e a tutto quel che da vicino o da lontano ha attinenza con essa; forse che il valore dell’opera dipende in qualche modo da cose di questo genere? Sotto un altro profilo, è facile da constatare che la preoccupazione di dare il proprio nome a una qualsiasi opera si incontra tanto meno frequentemente in una civiltà quanto più strettamente questa sia legata ai principi tradizionali, dei quali, di fatto, l’«individualismo» sotto tutte le sue forme è la negazione vera e propria. Si comprenderà senza difficoltà che tutte queste cose sono collegate tra di loro, né vogliamo insistere ulteriormente su di esse, tanto più che ne abbiamo già parlato spesso in altre occasioni; sennonché ci è sembrato non inutile – in questa – sottolineare che il tipo di azione dello spirito antitradizionale, caratteristico dell’epoca moderna, è la causa principale dell’incomprensione delle realtà iniziatiche e della tendenza a ridurle ai punti di vista profani. È questo spirito che, sotto nomi come «umanesimo» e «razionalismo», si sforza – da diversi secoli – di ricondurre tutto alle proporzioni dell’individualità umana comune, intendiamo dire della porzione ristretta che ne conoscono i profani, e di negare tutto quel che supera tale sfera esiguamente limitata, in particolare – perciò – tutto quel che ha attinenza con l’iniziazione, a qualunque livello. Non c’è quasi neppure bisogno di far rilevare come le considerazioni che abbiamo qui esposto si fondino essenzialmente sulla dottrina metafisica degli stati molteplici dell’essere, della quale sono un’applicazione diretta[5]; come potrebbe una simile dottrina essere capita da chi abbia la pretesa di fare dell’uomo individuale, e addirittura della sua sola modalità corporea, un tutto completo e chiuso, un essere che è sufficiente a se stesso, invece di vedere in esso se non quel che esso è in realtà, vale a dire la manifestazione contingente e transitoria di un essere in un particolarissimo dominio fra quelli la cui moltitudine indefinita, nel suo insieme, costituisce l’Esistenza universale, e ai quali corrispondono – sempre per quest’essere – altrettante modalità e stati differenti, di cui gli sarà possibile prender coscienza precisamente seguendo la via che gli viene aperta dall’iniziazione?



[1] Questo caso, in Occidente, è in particolare quello dei veri Rosa-Croce.
[2] La prima deve però essere considerata in possesso di una realtà illusoria nei confronti della seconda, non solo a motivo della differenza dei gradi di realtà al quali esse rispettivamente si riferiscono, ma altresì perché, come abbiamo spiegato poco fa, la «seconda nascita» implica necessariamente la «morte» dell’individualità profana, la quale non può più sussistere se non a titolo di semplice apparenza esteriore.
[3] Ciò è del resto suscettibile di applicazione generalizzata in tutte le civiltà tradizionali, e questo a motivo del carattere iniziatico che è inerente agli stessi mestieri, per modo che qualsiasi opera d’arte (o quel che i moderni chiamerebbero in questo modo), di qualunque genere sia, ne partecipa necessariamente in una certa misura. Su tale questione – che è quella del significato superiore e tradizionale dell’«anonimato» – si veda Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi, cap. IX.
[4] A titolo di esempio, sembra che questo sia stato, almeno in parte, il caso dei romanzi del Santo Graal; è pure a una questione di questo genere che in fondo si riferiscono tutte le discussioni alle quali ha dato origine la «personalità» di Shakespeare, anche se – di fatto – coloro che vi si sono applicati non hanno mai saputo portare la questione sul suo vero terreno, per modo che tutto quel che han saputo fare è stato soltanto di ingarbugliarla in modo pressoché inestricabile.
[5] Si veda, in merito all’esposizione completa della realtà in questione, il nostro studio sugli Stati molteplici dell’Essere.


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