"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

mercoledì 28 febbraio 2018

Gian Giuseppe Filippi, Il Serpente e la Corda - II Parte - 17. Commento al “Tattvamasi” di Śaṃkarācārya (IV)

Gian Giuseppe Filippi
Il Serpente e la Corda

I Parte
La prima parte de Il Serpente e la Corda si trova nel blog QUI.
II Parte
Commento al Tattvamasi di Śaṃkarācārya

II Parte

17. Commento al “Tattvamasi”  di Śaṃkarācārya (IV)
56. La conoscenza intesa come strumento dell’azione di conoscere, è applicabile all’intelletto e non al Sé, poiché non esiste uno strumento senza un agente che lo utilizzi. La medesima parola “conoscenza” non può nemmeno essere applicata al Sé quando con essa s’intende l’oggetto dell’azione di conoscere.57. Il Sé non può mai essere conoscibile né può essere indicato direttamente con parole [verbi], essendo, com’è, eternamente immutabile, libero da sofferenza e piacere, e assolutamente Uno.
Se si suppone che esista qualcosa che, usando come strumento l’azione conoscitiva, s’appresta a conoscere qualcosa di conoscibile, ossia di un oggetto che alla fine di questo processo d’indagine diventa conosciuto, con questo “qualcosa” si può intendere l’intelletto (buddhi)[1], non certamente l’Ātman. Infatti l’Ātman non è agente, perciò non può essere ridotto a qualcosa che usa uno strumento conoscitivo per conoscere. Se con conoscenza s’intende un’azione volta a conoscere, questo tipo di conoscenza non può dunque essere attribuito all’Ātman. Allo stesso modo in cui non si può attribuire all’Ātman alcuna azione, nemmeno quella conoscitiva, così esso non può essere oggetto di alcuna azione: perciò nemmeno dell’azione di conoscere. L’Ātman perciò non può essere conoscibile né tanto meno conosciuto. Non può essere né soggetto né oggetto di alcun verbo che indichi azione, essendo immutabile, uno e al di là della dualità. Se potesse essere soggetto o oggetto di modificazione, allora non dell’Ātman si tratterebbe, ma dello sperimentatore del saṃsāra come erroneamente sostengono alcuni.
58. Se l’ego fosse il Sé, allora una parola potrebbe descrivere il Sé in senso letterale. Ma secondo la śruti, l’ego non è il Sé, dal momento che è sottoposto a fame ecc.
L’ego è il riflesso del Sé nella sfera individuale. Se l’ego fosse identico al Sé, quest’ultimo sarebbe facilmente identificabile tramite una parola corrispondente a un’idea. Perché qualsiasi nome evoca una idea a cui necessariamente corrisponde un oggetto. Come, per esempio, “albero” evoca l’idea di albero che corrisponde effettivamente all’oggetto albero. Ātman o Brahman non sono affatto nomi, né idee o pensieri della mente e neppure oggetti passibili di conoscenza[2]. Perciò ego non può essere considerato un nome per definirli. Infatti, sull’autorità della śruti, l’ego non è il Sé, essendo sottoposto a tutte le limitazioni derivanti dalla sua esistenza empirica, fame, sete, piacere, dolore ecc.
59. Oppositore: D’accordo, ma se le parole “egli conosce” non possono essere usate direttamente in nessun caso, non potranno essere applicate in modo metaforico nemmeno per il Sé. Perciò ora devi spiegare qual è il senso del verbo “egli conosce” [quando è applicato al Sé].60. La śruti perderebbe evidentemente tutta la sua autorevolezza se le sue parole non avessero senso. Ma questo è da respingere. Dovremo, dunque, accettare il significato del verbo “egli conosce” nel suo senso corrente.
Dopo che Śaṃkara ha affermato che: 1) il Sé, poiché è puro essere, non è un agente e che perciò non gli si può attribuire l’azione di conoscere; 2) l’intelletto è in grado di agire in quanto sottomesso al divenire, ma, allo stesso tempo, essendo privo di coscienza, non ha la capacità di conoscere; 3) infine, l’ego è pura apparenza, perciò è privo di esistenza (asat) e nemmeno è un agente (akartṛ), l’oppositore del Vedānta si chiede quale mai interpretazione si dovrà dare allora all’affermazione upaniṣadica “egli conosce”. Eppure le Upaniṣad ripetono con fermezza che “egli conosce”, e la loro autorevolezza non può essere messa in discussione. Perciò “egli conosce” dovrà essere inteso nel suo senso primario, cioè secondo l’uso comune e in senso letterale, ossia che l’ego è l’Ātman e, come tale è sia esistente (sat) sia agente (kartṛ).
61. Risposta del vedāntin: Se si accetta la sciocca opinione del popolo ignorante, si arriverà alla conclusione dei cārvāka[3] che sostengono che non c’è altro Sé se non il corpo. Questo sì è da respingere.
Se si sostiene che il Sé è l’ego, si arriva a pensare che il Sé è il corpo, poiché l’ego si identifica con il corpo. Qualcuno potrebbe dire che l’uomo comune sa ben distinguere tra l’ e il corpo, in quanto in tutta apparenza è capace di comprendere che le proprie modalità sottili non s’identificano con il corpo stesso. Anzi, soprattutto gli occidentali che considerano l’anima o la mente[4], a seconda delle loro credenze religiose o laiche, come il motore del corpo grosso, sono convinti di saper discriminare tra queste due componenti dell’individuo. Chi la pensa così si illude di discriminare, perché in realtà l’ignorante si identifica esclusivamente al proprio ego e, così facendo, si pone spazialmente nel corpo. Se l’individuo discriminasse effettivamente tra sé stesso e il corpo egli sarebbe capace di liberarsi dalla propria collocazione spaziale nel corpo[5]. Perciò l’uomo ordinario che crede di essere in grado di distinguere tra la propria mente e il corpo, ipotizza semplicemente questa discriminazione con il pensiero, senza riuscire a rendere reale tale distinzione. L’ego e il corpo, in realtà, formano un tutt’uno, come due facce d’uno stesso foglio; perciò chi condivide questo errore confina tutta la sua esistenza al solo corpo[6]. Questa concezione materialistica si basa esclusivamente su un errore di prospettiva dovuto all’ignoranza. Perciò è questa la concezione che deve essere respinta fermamente, e non la ricerca del vero significato della frase “egli conosce”.
62. D’altra parte, se si accetta il punto di vista dei grammatici che non usano mai le forme verbali in modo da separare l’agente dall’azione, allora non sarà mai compreso l’uso upaniṣadico della parola “conoscenza”, come abbiamo sopra segnalato.
Lasciando da parte le idee degli ignoranti, si potrebbe allora supporre che il punto di vista dei grammatici, che sono dotti e che conoscono i testi sacri, sia più corretto. Questa correttezza grammaticale li induce a interpretare secondo le regole per le quali ogni verbo è un’azione[7] e che la forma coniugata non è altro se non l’applicazione a un tempo e a una persona del significato del verbo all’infinito.
Ciò è errato, perché i grammatici seguono delle regole generali in modo meccanico e sistematico, e tendono a piegare il significato metafisico della śruti a tali regole. Invece il vicāra vedāntico privilegia la ricerca del vero significato del testo anche al di là dei limiti dogmatici della regolarità morfologica, che stanno dalla parte dell’apparenza. Seguendo la linea d’indagine dei grammatici non si potrà mai comprendere il significato delle parole che riguardano la conoscenza[8]. Perciò si dovrà procedere in un altro modo per spiegare cosa la śruti intenda con “egli conosce” e cosa voglia dire con le parole che significano conoscenza (jñāna śabda).
63. L’ignorante prende il riflesso della faccia nello specchio come fosse proprio la faccia, dato che quel riflesso sembra avere la forma della faccia.
Per capire come procedere correttamente si dovrà riprendere daccapo l’esempio del riflesso nello specchio. Quando l’ignorante si guarda allo specchio, crede di vedere la sua faccia e non si accorge che si tratta solo d’un riflesso.
64. In realtà, ogni volta che c’è il riflesso d’una cosa, la cosa e il riflesso vengono identificati per mancanza di discriminazione. In questo modo tutti istintivamente dicono che “egli conosce” vuol intendere l’azione impiegata per conoscere.65. Sovrapponendo al Sé una azione che è propriamente una caratteristica dell’intelletto, allora si dice “egli conosce” come fosse “egli fa conoscenza di”, e lo si definisce “conoscitore”. E, sovrapponendo all’intelletto la coscienza, che invece è propria del Sé, si chiama anche la buddhi cosciente e conoscitrice.
Il riflesso, si diceva, è erroneamente considerato essere la stessa cosa che si riflette, come nell’esempio della faccia di cui sopra. Allo stesso modo il verbo “egli conosce” considerato come una azione che conduce alla conoscenza di qualcosa, è avventatamente attribuito per errore alla cosa che si riflette, mentre, invece, l’attività è propria solo dell’intelletto.
Tuttavia il vero errore (adhyāsa) consiste nel fatto che con “egli conosce” si attribuisce al Sé una attività conoscitiva che è propria della buddhi, sovrapponendo quest’ultimo oggetto coinvolto nell’azione al Sé non agente; e, di converso, s’attribuisce alla buddhi la capacità d’essere cosciente e conoscente, capacità che è della natura del Sé, sovrapponendo il Sé, Coscienza pura, alla buddhi che, invece, è acit. Come si può notare la sovrapposizione è sempre illusoriamente reciproca.
66. Invece la śruti ci insegna che la Coscienza-conoscenza è proprio l’immutabile ed eterna natura del Sé. Di conseguenza questa non può mai essere il risultato di una azione, né da parte del Sé né dall’intelletto, né da null’altro.
Śaṃkara ribadisce per l’ennesima volta che con l’affermazione upaniṣadica “egli conosce”, non si vuole attribuire all’Ātman l’azione di conoscere, poiché esso è fuori del dominio dell’azione; e che non si vuole nemmeno attribuire la formula “egli conosce” all’intelletto, poiché esso non è cosciente. Perciò l’azione di conoscere non può essere attribuita a nessuna altra cosa, essere od oggetto. Śaṃkara lo ribadisce prima di elencare tutta una serie di errori d’interpretazione compiuti da altri darśana, dai soliti sofismi dei buddhisti o da altre correnti vedāntiche limitate o deviate:
67. Con l’espressione “egli conosce”, gli ignoranti intendono che sia il Sé sia la buddhi sono gli agenti dell’azione di conoscere, compiendo una sovrapposizione analoga a quella per la quale s’identificano con il loro corpo.
Questa interpretazione tipica degli ignoranti è già stata presa in considerazione e parificata di fatto a quella dei cārvāka; si tratta di una posizione che nel linguaggio moderno si definirebbe materialismo “pratico”[9].
68. I logici [nayāyka] sostengono che la conoscenza è l’effetto di una causa. Ma essi sono ingannati dalle modificazioni dell’intelletto (vṛtti) che sono chiaramente dei risultati dell’azione e che hanno solo un’apparenza di coscienza.69. Perciò le parole “egli conosce”, l’apparente esperienza di aver prodotto della conoscenza e la memorizzazione di quell’esperienza, dipendono tutte dal fatto che i logici sono incapaci di discriminare tra la Coscienza-conoscenza, il suo riflesso nell’intelletto e l’intelletto stesso.70. Come le modificazioni del riflesso della faccia, condizionate dallo specchio, sono attribuite erroneamente alla faccia stessa, così le modificazioni del riflesso del Sé, condizionate dalla buddhi, sono attribuite erroneamente al Sé.71. Per questa ragione i pensieri dell’intelletto, illuminato dal riflesso del Sé, sembrano dotati della capacità di un’azione cognitiva, come le torce sembrano possedere un’attività illuminante [mentre questa è attribuibile solamente alla natura del fuoco].
I logici sostengono che la conoscenza è il risultato di una causa, ossia che c’è un agente che è la causa di un’azione la quale conduce all’ottenimento della conoscenza. In realtà quello che essi chiamano conoscenza sono soltanto le modificazioni (vṛtti) dell’intelletto e della mente[10]. Quando l’intelletto (buddhi) valuta un oggetto, esso prende la forma dell’oggetto e questa forma intellettuale è poi depositata nella memoria (citta). Queste forme sono dette , modificazioni, o, più letteralmente, vortici mentali. La stessa cosa vale per la mente (manas), i cui pensieri si distinguono da quelli della buddhi perché si rapportano alla sfera emozionale piuttosto che a quella concettuale. Dunque i nayāyka prendono queste modificazioni come fossero conoscenze. Inoltre considerano questi pensieri dell’intelletto e della mente come fossero coscienti, mentre, al contrario sono oggetti di una coscienza parziale che è quella prestata alla buddhi e al manas dal Sé. Il medesimo errore lo compiono anche i pātañjala yogi. Infatti, come vedremo più avanti, “La modificazione mentale, che è prodotto della sua [dell’Ātman] apparizione, è definita come suo anubhava [esperienza intuitiva].”.[11] Ragion per cui Svāmī Satcidānandendra commenta così: “Lo yogin che crede di aver realizzato l’Ātman in una particolare modificazione della mente, o anubhava, non conosce la verità.[12]
La gravità della posizione dello Yoga darśana, rispetto a quella del Nyāya, che è un darśana puramente speculativo, è imputabile al fatto che questa prospettiva è dotata di un metodo. Ciò significa che i pātañjala yogi confondono la conoscenza del Supremo (paravidyā) con la conoscenza non suprema (aparavidyā). Ma ben più grave è la medesima confusione tra i due domini operata da due advaitin, com’è il caso di Maṇḍana Miśra e di Vācaspati Miśra.
I nayāyka, riducendo tutta la realtà a un’attività logica, non conoscono altro tipo di conoscenza se non quella sperimentata intellettualmente o mentalmente come frutto di un atto d’indagine. Questa non è conoscenza nel senso proprio del termine, poiché dipende da un’azione della ragione. Se ne ha la riprova constatando che se questa fosse conoscenza nel senso vero del termine, essa sarebbe eternamente presente in chi l’avesse riconosciuta; invece in questo caso l’esperienza dell’atto conoscitivo deve essere ripetutamente richiamata dalla memoria (citta), dove è stata depositata. E di nuovo torniamo a constatare che questa erronea teoria della conoscenza è dovuta alla confusione che i logici fanno tra la Coscienza-conoscenza, il suo riflesso e l’intelletto. Ossia attribuendo a oggetti individuali una capacità conoscitiva, mentre sono solo degli agenti, i nayāyka si comportano esattamente come coloro che assegnano a delle torce accese l’azione di illuminare, quando invece la luce non è un’azione delle torce, ma è la natura stessa del fuoco.
72. I buddhisti sostengono che i pensieri sono auto luminosi e sono dotati di una attività cognitiva e negano l’esistenza di un Testimone che li conosca come oggetti.73. Ora, questa teoria è sostenibile solo se non si riconosce che i pensieri, che sono oggetti privi di coscienza (acit), sono illuminati dal Testimone, totalmente diverso da loro per natura.
I buddhisti negano l’esistenza dell’Ātman e quindi, di conseguenza, negano che esso possa essere il Testimone (Sākṣin) degli oggetti manifestati. Devono perciò attribuire una realtà cosciente alle modificazioni intellettuali e mentali. Al tempo stesso, essi conferiscono però a queste modificazioni e agli altri oggetti (dharma) una esistenza priva di essere, tutti travolti in un flusso di divenire peraltro temporalmente discontinuo. Tutta questa serie di assurdità può essere razionalmente sostenuta soltanto se si parte da un principio falso, che, in questo caso, è la negazione del Testimone cosciente, soggiacente a tutta la manifestazione[13].
74. Né sarà più corretto sostenere che c’è un conoscitore che in continuazione compie l’azione di conoscere le varie modificazioni della mente e che osserva la loro presenza e assenza (sat e asat)[14]. Perché un tale conoscitore, essendo un agente, per la medesima ragione sarebbe anch’esso privo di coscienza come lo sono quelle modificazioni che sta conoscendo e perciò si dovrebbe presumere l’esistenza di un altro ulteriore conoscitore che lo conosca.
Non è nemmeno corretta la posizione di certivedāntin come Bhartṛprapañca, che criticano la negazione buddhista del Testimone, considerandolo però come un principio agente. Poiché in tal caso il Testimone agente non potrebbe essere l’Ātman pura Coscienza; allora sarebbe necessaria l’esistenza di un altro Testimone del Testimone e via dicendo, ricadendo così nell’errore logico definito regressus ad infinitum (anavasthāprasaṅga), che è un tipo di dispersione razionale nel molteplice.
75. Saresti in errore anche qualora tu [accettassi che il Testimone sia non agente e differente dalle modificazioni mentali, ma] sostenessi che la conoscenza è possibile [non per mezzo del riflesso, ma] per la semplice contiguità del Testimone alla presenza e all’assenza delle modificazioni. Perché la semplice contiguità del Testimone [senza la mediazione del suo riflesso di coscienza] non sarebbe di alcuna utilità per comprendere quelle modificazioni. Se fosse vero che la sua contiguità potesse rendere cosciente l’intelletto, la stessa contiguità potrebbe rendere cosciente qualsiasi altra cosa.
I sāṃkhya sostengono che i puruṣa, pur essendo molteplici (che da sola è chiaramente una affermazione errata), sono di natura completamente distinta da Prakṛti e da tutte le sue produzioni (tattva), ossia dagli oggetti manifestati (e questo è, invece, una affermazione condivisibile). Secondo loro i puruṣa sono i testimoni che illuminano la buddhi e gli altri oggetti senza però che essi si riflettano nei tattva. Questo in quanto il Sāṃkhya, rifiutando la dottrina del riflesso, nega ogni contatto tra i puruṣa, concepiti come le monadi assurdamente “impermeabili” di leibniziana memoria, e le produzioni non coscienti di Prakṛti. Al posto della dottrina del riflesso essi sostengono la dottrina della contiguità o prossimità (sānnidhyavāda). La semplice contiguità del puruṣa sarebbe in grado di influenzare un oggetto trasferendo a quest’ultimo la sua capacità conoscitiva. Questa dottrina presta il fianco a molteplici obiezioni, tra cui, principalmente, quella per la quale la prossimità dipende dalla condizione spaziale. Basta la seguente considerazione su questa teoria, per la quale la trasmissione della capacità cognitiva sarebbe dipendente da tale condizione corporea, per respingere questa tesi definitivamente. Inoltre, se così fosse, la semplice contiguità potrebbe rendere coscienti e conoscenti anche oggetti universalmente riconosciuti dai diversi pramāṇa come non coscienti (acit), quali, per esempio, una pietra o una brocca[15].

Per gentile concessione del Comitato Redazionale Tridaṇḍa del sito Veda Vyāsa Maṇḍala e dell'Autore






[1] Oppure, in subordine d’importanza, la mente (manas) o, ancora, le facoltà di senso (jñānendriya).
[2] Da ciò deriva che il Sé (Ātman) o l'“Io” maiuscolo, non sono altro che forme convenzionali adottate per indicare la reale natura essenziale che appare illusoriamente come “io” (aham). Similmente Brahman, “Grande”, è soltanto una forma convenzionale per designare l’Esistenza totale o pura Coscienza assoluta. Non essendo nomi, queste designazioni non possono nemmeno essere considerate come fossero simboli; infatti il simbolo deve partecipare parzialmente della natura del simboleggiato.
[3] Composto di “cara”, mutevole, e “vāk”, parola: insegnamento o dottrina diveniristica. Antica scuola eterodossa indiana prebuddhista che sostenne un materialismo estremo, basandosi sulla concezione che la percezione sensoriale fosse l’unico pramāṇa veridico.
[4] Il materialismo “pratico” che risulta istintivo nei moderni, arriva perfino a confondere la mente con il cervello e i pensieri con i suoi impulsi nervosi. Ossia esso confonde la facoltà con l’organo corrispondente, come se la vista, per esempio, fosse solo il globo oculare.
[5] L’unico modo riconosciuto dagli ignoranti (ajñāni) per uscire da questa identificazione (abhimāna) consiste nella morte intesa come caduta del corpo (dehānta). Ma questa “uscita” avviene senza alcuna garanzia di sopravvivenza, ragion per cui quest’ultima diventa articolo di fede per il “credente”, o oggetto di diniego da parte del “non credente”. Il Vedānta, invece, insegna la dottrina dei tre stati di coscienza (trayāvasthāvāda) proprio per indicare altre modalità in cui quotidianamente si sperimenta la disidentificazione dell’ego dal corpo. Nel sogno il jīva non si identifica con il corpo grossolano, ma si “plasma” un corpo sottile a suo piacimento. Nel sonno profondo, poi, non è presente alcun tipo di corpo. Per chi sa discriminare (viveki), il risveglio prova inequivocabilmente che è possibile l’esistenza indipendentemente del corpo.
[6] Questa prospettiva erronea porta a pensare che ci sia un’unica vita collegata indissolubilmente al corpo grossolano. Perciò la “resurrezione della carne”, invece di essere considerata correttamente come un’allusione all’assunzione di un nuovo involucro di trasmigrazione, è intesa come se a ritornare in vita fosse il medesimo corpo già morto.
[7] Questa affermazione, dal punto di vista gnoseologico, è comunque errata, poiché sono almeno due i verbi che non implicano azione alcuna: essere (as) ed esistere (bhū).
[8] Questa affermazione di Śaṃkara sembra davvero denunciare definitivamente, con un anticipo d’un millennio, l’approccio filologico-glottologico degli indologi e sanscritisti accademici. Tra costoro non abbiamo identificato nessuno che abbia davvero capito qualcosa del Vedānta; al contrario, possiamo affermare che coloro che oscuramente hanno presentito qualcosa del suo vero senso, si sono volutamente adoperati per travisarlo.
[9] Con materialismo “pratico” non intendiamo riferirci qui alla scuola filosofica cirenaica o edonistica del V-IV sec. a. C., ma più semplicemente al comune sentire dell’uomo moderno, totalmente incapace di qualsiasi speculazione e che si contenta, come massima “astrazione”, al pensiero tecnologico, a quello psicologico e a quello sociologico. Nel materialismo “pratico”, perciò, va anche inserita la teologia cattolica contemporanea in cui non c’è più alcuna traccia di Θεός.
[10] Da questo momento in poi nel testo si sussegue una continua menzione delle modificazioni della mente o “mentalizzazioni” e delle modificazioni dell’intelletto o intellezioni. Poiché “mentalizzazioni” nel linguaggio comune ha assunto abusivamente un significato attinente alla “mentalità” piuttosto che alla mente, abbiamo preferito descrivere le attività o modificazioni di mente e intelletto con la parola “pensieri”, per coprire sia il dominio del manas sia della buddhi.
[11] Śaṃkara, US XVIII. 201.
[12] Svāmī Satcidānandendra, Dottrina e Metodo, cit. p. 135.
[13] Ananda Kentish Coomaraswamy è stato senza dubbio una fonte autorevole per quello che si rapporta al simbolismo vedico. Tuttavia, ogni qualvolta egli si sia inoltrato nel dominio della metafisica, ha commesso considerevoli errori di valutazione. Il suo sostegno alla discontinuità del tempo della dottrina buddhista e la conseguente critica a Śaṃkara rilevano dalla sua istintiva attrazione mentale per il theravāda singalese, piuttosto che dalla sua consueta discriminazione d’indagine intellettuale. Cfr. A. K. Coomaraswamy, Time and Eternity, Ascona, Artibus Asiæ Pbls., 1947, pp. 17-19.
[14] Per esempio quando si è negli stati di veglia e di sogno, seppure in modi diversi, la mente, il mondo, gli oggetti, lo spazio, il tempo, la quantità appaiono come presenti (sat), mentre nel sonno profondo sono del tutto assenti (asat).
[15] Che questi oggetti facciano parte della natura cosciente del Testimone è fuori di dubbio. Ma essi allora devono essere considerati come facenti parte di un tutto e non presi singolarmente.

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