Gian Giuseppe Filippi
Il Serpente e la Corda
I Parte
La prima parte de Il Serpente e la Corda si trova nel blog QUI.
II Parte
Commento al “Tattvamasi” di Śaṃkarācārya
II Parte
17. Commento al “Tattvamasi”
di Śaṃkarācārya (IV)
56. La conoscenza intesa come strumento dell’azione di conoscere, è applicabile all’intelletto e non al Sé, poiché non esiste uno strumento senza un agente che lo utilizzi. La medesima parola “conoscenza” non può nemmeno essere applicata al Sé quando con essa s’intende l’oggetto dell’azione di conoscere.57. Il Sé non può mai essere conoscibile né può essere indicato direttamente con parole [verbi], essendo, com’è, eternamente immutabile, libero da sofferenza e piacere, e assolutamente Uno.
58. Se l’ego fosse il Sé, allora una parola potrebbe descrivere il Sé in senso letterale. Ma secondo la śruti, l’ego non è il Sé, dal momento che è sottoposto a fame ecc.
L’ego è il riflesso del Sé
nella sfera individuale. Se l’ego fosse identico al Sé, quest’ultimo
sarebbe facilmente identificabile tramite una parola corrispondente a un’idea.
Perché qualsiasi nome evoca una idea a cui necessariamente corrisponde un oggetto.
Come, per esempio, “albero” evoca l’idea di albero che corrisponde
effettivamente all’oggetto albero. Ātman o Brahman non sono affatto
nomi, né idee o pensieri della mente e neppure oggetti passibili di conoscenza[2]. Perciò ego non può essere considerato un nome per definirli. Infatti,
sull’autorità della śruti, l’ego non è il Sé, essendo sottoposto
a tutte le limitazioni derivanti dalla sua esistenza empirica, fame, sete,
piacere, dolore ecc.
59. Oppositore: D’accordo, ma se le parole “egli conosce” non possono essere usate direttamente in nessun caso, non potranno essere applicate in modo metaforico nemmeno per il Sé. Perciò ora devi spiegare qual è il senso del verbo “egli conosce” [quando è applicato al Sé].60. La śruti perderebbe evidentemente tutta la sua autorevolezza se le sue parole non avessero senso. Ma questo è da respingere. Dovremo, dunque, accettare il significato del verbo “egli conosce” nel suo senso corrente.
Dopo che Śaṃkara ha affermato che:
1) il Sé, poiché è puro essere, non è un agente e che perciò non gli si può
attribuire l’azione di conoscere; 2) l’intelletto è in grado di agire in quanto
sottomesso al divenire, ma, allo stesso tempo, essendo privo di coscienza, non
ha la capacità di conoscere; 3) infine, l’ego è pura apparenza, perciò è
privo di esistenza (asat) e nemmeno è un agente (akartṛ),
l’oppositore del Vedānta si chiede quale mai interpretazione si
dovrà dare allora all’affermazione upaniṣadica “egli conosce”. Eppure le Upaniṣad
ripetono con fermezza che “egli conosce”, e la loro autorevolezza non può
essere messa in discussione. Perciò “egli conosce” dovrà essere inteso nel suo
senso primario, cioè secondo l’uso comune e in senso letterale, ossia che l’ego è
l’Ātman e, come tale è sia esistente (sat) sia agente (kartṛ).
61. Risposta del vedāntin: Se si accetta la sciocca opinione del popolo ignorante, si arriverà alla conclusione dei cārvāka[3] che sostengono che non c’è altro Sé se non il corpo. Questo sì è da respingere.
Se si sostiene che il Sé è l’ego,
si arriva a pensare che il Sé è il corpo, poiché l’ego si identifica con
il corpo. Qualcuno potrebbe dire che l’uomo comune sa ben distinguere tra l’ e
il corpo, in quanto in tutta apparenza è capace di comprendere che le proprie
modalità sottili non s’identificano con il corpo stesso. Anzi, soprattutto gli
occidentali che considerano l’anima o la mente[4], a
seconda delle loro credenze religiose o laiche, come il motore del corpo
grosso, sono convinti di saper discriminare tra queste due componenti
dell’individuo. Chi la pensa così si illude di discriminare, perché in realtà
l’ignorante si identifica esclusivamente al proprio ego e, così facendo,
si pone spazialmente nel corpo. Se l’individuo discriminasse effettivamente tra
sé stesso e il corpo egli sarebbe capace di liberarsi dalla propria
collocazione spaziale nel corpo[5]. Perciò l’uomo ordinario che crede di essere in grado di distinguere tra la
propria mente e il corpo, ipotizza semplicemente questa discriminazione con il
pensiero, senza riuscire a rendere reale tale distinzione. L’ego e il
corpo, in realtà, formano un tutt’uno, come due facce d’uno stesso foglio;
perciò chi condivide questo errore confina tutta la sua esistenza al solo corpo[6]. Questa concezione materialistica si basa esclusivamente su un errore di prospettiva
dovuto all’ignoranza. Perciò è questa la concezione che deve essere respinta
fermamente, e non la ricerca del vero significato della frase “egli conosce”.
62. D’altra parte, se si accetta il punto di vista dei grammatici che non usano mai le forme verbali in modo da separare l’agente dall’azione, allora non sarà mai compreso l’uso upaniṣadico della parola “conoscenza”, come abbiamo sopra segnalato.
Lasciando da parte le idee degli
ignoranti, si potrebbe allora supporre che il punto di vista dei grammatici,
che sono dotti e che conoscono i testi sacri, sia più corretto. Questa
correttezza grammaticale li induce a interpretare secondo le regole per le
quali ogni verbo è un’azione[7] e che
la forma coniugata non è altro se non l’applicazione a un tempo e a una persona
del significato del verbo all’infinito.
Ciò è errato, perché i grammatici
seguono delle regole generali in modo meccanico e sistematico, e tendono a
piegare il significato metafisico della śruti a tali regole. Invece
il vicāra vedāntico privilegia la ricerca del vero significato del
testo anche al di là dei limiti dogmatici della regolarità morfologica, che
stanno dalla parte dell’apparenza. Seguendo la linea d’indagine dei grammatici
non si potrà mai comprendere il significato delle parole che riguardano la
conoscenza[8]. Perciò si dovrà procedere in un altro modo per spiegare cosa la śruti intenda
con “egli conosce” e cosa voglia dire con le parole che significano conoscenza
(jñāna śabda).
63. L’ignorante prende il riflesso della faccia nello specchio come fosse proprio la faccia, dato che quel riflesso sembra avere la forma della faccia.
Per capire come procedere
correttamente si dovrà riprendere daccapo l’esempio del riflesso nello
specchio. Quando l’ignorante si guarda allo specchio, crede di vedere la sua
faccia e non si accorge che si tratta solo d’un riflesso.
64. In realtà, ogni volta che c’è il riflesso d’una cosa, la cosa e il riflesso vengono identificati per mancanza di discriminazione. In questo modo tutti istintivamente dicono che “egli conosce” vuol intendere l’azione impiegata per conoscere.65. Sovrapponendo al Sé una azione che è propriamente una caratteristica dell’intelletto, allora si dice “egli conosce” come fosse “egli fa conoscenza di”, e lo si definisce “conoscitore”. E, sovrapponendo all’intelletto la coscienza, che invece è propria del Sé, si chiama anche la buddhi cosciente e conoscitrice.
Il riflesso, si diceva, è
erroneamente considerato essere la stessa cosa che si riflette, come
nell’esempio della faccia di cui sopra. Allo stesso modo il verbo “egli
conosce” considerato come una azione che conduce alla conoscenza di qualcosa, è
avventatamente attribuito per errore alla cosa che si riflette, mentre, invece,
l’attività è propria solo dell’intelletto.
Tuttavia il vero errore (adhyāsa)
consiste nel fatto che con “egli conosce” si attribuisce al Sé una attività
conoscitiva che è propria della buddhi, sovrapponendo quest’ultimo
oggetto coinvolto nell’azione al Sé non agente; e, di converso, s’attribuisce
alla buddhi la capacità d’essere cosciente e conoscente, capacità
che è della natura del Sé, sovrapponendo il Sé, Coscienza pura, alla buddhi che,
invece, è acit. Come si può notare la sovrapposizione è sempre
illusoriamente reciproca.
66. Invece la śruti ci insegna che la Coscienza-conoscenza è proprio l’immutabile ed eterna natura del Sé. Di conseguenza questa non può mai essere il risultato di una azione, né da parte del Sé né dall’intelletto, né da null’altro.
Śaṃkara ribadisce per l’ennesima
volta che con l’affermazione upaniṣadica “egli conosce”, non si vuole
attribuire all’Ātman l’azione di conoscere, poiché esso è fuori del
dominio dell’azione; e che non si vuole nemmeno attribuire la formula “egli
conosce” all’intelletto, poiché esso non è cosciente. Perciò l’azione di
conoscere non può essere attribuita a nessuna altra cosa, essere od oggetto. Śaṃkara
lo ribadisce prima di elencare tutta una serie di errori d’interpretazione
compiuti da altri darśana, dai soliti sofismi dei buddhisti o da altre
correnti vedāntiche limitate o deviate:
67. Con l’espressione “egli conosce”, gli ignoranti intendono che sia il Sé sia la buddhi sono gli agenti dell’azione di conoscere, compiendo una sovrapposizione analoga a quella per la quale s’identificano con il loro corpo.
Questa interpretazione tipica degli
ignoranti è già stata presa in considerazione e parificata di fatto a quella
dei cārvāka; si tratta di una posizione che nel linguaggio moderno si
definirebbe materialismo “pratico”[9].
68. I logici [nayāyka] sostengono che la conoscenza è l’effetto di una causa. Ma essi sono ingannati dalle modificazioni dell’intelletto (vṛtti) che sono chiaramente dei risultati dell’azione e che hanno solo un’apparenza di coscienza.69. Perciò le parole “egli conosce”, l’apparente esperienza di aver prodotto della conoscenza e la memorizzazione di quell’esperienza, dipendono tutte dal fatto che i logici sono incapaci di discriminare tra la Coscienza-conoscenza, il suo riflesso nell’intelletto e l’intelletto stesso.70. Come le modificazioni del riflesso della faccia, condizionate dallo specchio, sono attribuite erroneamente alla faccia stessa, così le modificazioni del riflesso del Sé, condizionate dalla buddhi, sono attribuite erroneamente al Sé.71. Per questa ragione i pensieri dell’intelletto, illuminato dal riflesso del Sé, sembrano dotati della capacità di un’azione cognitiva, come le torce sembrano possedere un’attività illuminante [mentre questa è attribuibile solamente alla natura del fuoco].
I logici sostengono che la
conoscenza è il risultato di una causa, ossia che c’è un agente che è la causa
di un’azione la quale conduce all’ottenimento della conoscenza. In realtà
quello che essi chiamano conoscenza sono soltanto le modificazioni (vṛtti)
dell’intelletto e della mente[10]. Quando l’intelletto (buddhi) valuta un oggetto, esso prende la forma
dell’oggetto e questa forma intellettuale è poi depositata nella memoria (citta).
Queste forme sono dette , modificazioni, o, più letteralmente, vortici mentali.
La stessa cosa vale per la mente (manas), i cui pensieri si distinguono
da quelli della buddhi perché si rapportano alla sfera emozionale
piuttosto che a quella concettuale. Dunque i nayāyka prendono queste
modificazioni come fossero conoscenze. Inoltre considerano questi pensieri
dell’intelletto e della mente come fossero coscienti, mentre, al contrario sono
oggetti di una coscienza parziale che è quella prestata alla buddhi e al
manas dal Sé. Il medesimo errore lo compiono anche i pātañjala
yogi. Infatti, come vedremo più avanti, “La modificazione mentale, che è
prodotto della sua [dell’Ātman] apparizione, è definita come suo
anubhava [esperienza intuitiva].”.[11] Ragion per cui Svāmī Satcidānandendra commenta così: “Lo yogin che
crede di aver realizzato l’Ātman in una particolare modificazione della mente,
o anubhava, non conosce la verità.” [12]
La gravità della posizione dello Yoga
darśana, rispetto a quella del Nyāya, che è un darśana puramente
speculativo, è imputabile al fatto che questa prospettiva è dotata di un
metodo. Ciò significa che i pātañjala yogi confondono la conoscenza del
Supremo (paravidyā) con la conoscenza non suprema (aparavidyā).
Ma ben più grave è la medesima confusione tra i due domini operata da due advaitin,
com’è il caso di Maṇḍana Miśra e di Vācaspati Miśra.
I nayāyka, riducendo
tutta la realtà a un’attività logica, non conoscono altro tipo di conoscenza se
non quella sperimentata intellettualmente o mentalmente come frutto di un atto
d’indagine. Questa non è conoscenza nel senso proprio del termine, poiché dipende
da un’azione della ragione. Se ne ha la riprova constatando che se questa fosse
conoscenza nel senso vero del termine, essa sarebbe eternamente presente in chi
l’avesse riconosciuta; invece in questo caso l’esperienza dell’atto conoscitivo
deve essere ripetutamente richiamata dalla memoria (citta), dove è stata
depositata. E di nuovo torniamo a constatare che questa erronea teoria della
conoscenza è dovuta alla confusione che i logici fanno tra la
Coscienza-conoscenza, il suo riflesso e l’intelletto. Ossia attribuendo a
oggetti individuali una capacità conoscitiva, mentre sono solo degli agenti, i nayāyka
si comportano esattamente come coloro che assegnano a delle torce accese
l’azione di illuminare, quando invece la luce non è un’azione delle torce, ma è
la natura stessa del fuoco.
72. I buddhisti sostengono che i pensieri sono auto luminosi e sono dotati di una attività cognitiva e negano l’esistenza di un Testimone che li conosca come oggetti.73. Ora, questa teoria è sostenibile solo se non si riconosce che i pensieri, che sono oggetti privi di coscienza (acit), sono illuminati dal Testimone, totalmente diverso da loro per natura.
I buddhisti negano l’esistenza dell’Ātman e quindi,
di conseguenza, negano che esso possa essere il Testimone (Sākṣin) degli
oggetti manifestati. Devono perciò attribuire una realtà cosciente alle
modificazioni intellettuali e mentali. Al tempo stesso, essi conferiscono però
a queste modificazioni e agli altri oggetti (dharma) una esistenza priva
di essere, tutti travolti in un flusso di divenire peraltro temporalmente
discontinuo. Tutta questa serie di assurdità può essere razionalmente sostenuta
soltanto se si parte da un principio falso, che, in questo caso, è la negazione
del Testimone cosciente, soggiacente a tutta la manifestazione [13].
74. Né sarà più corretto sostenere che c’è un conoscitore che in continuazione compie l’azione di conoscere le varie modificazioni della mente e che osserva la loro presenza e assenza (sat e asat)[14]. Perché un tale conoscitore, essendo un agente, per la medesima ragione sarebbe anch’esso privo di coscienza come lo sono quelle modificazioni che sta conoscendo e perciò si dovrebbe presumere l’esistenza di un altro ulteriore conoscitore che lo conosca.
Non è nemmeno corretta la posizione
di certivedāntin come Bhartṛprapañca, che criticano la negazione
buddhista del Testimone, considerandolo però come un principio agente. Poiché
in tal caso il Testimone agente non potrebbe essere l’Ātman pura
Coscienza; allora sarebbe necessaria l’esistenza di un altro Testimone del
Testimone e via dicendo, ricadendo così nell’errore logico definito regressus
ad infinitum (anavasthāprasaṅga), che è un tipo di dispersione
razionale nel molteplice.
75. Saresti in errore anche qualora tu [accettassi che il Testimone sia non agente e differente dalle modificazioni mentali, ma] sostenessi che la conoscenza è possibile [non per mezzo del riflesso, ma] per la semplice contiguità del Testimone alla presenza e all’assenza delle modificazioni. Perché la semplice contiguità del Testimone [senza la mediazione del suo riflesso di coscienza] non sarebbe di alcuna utilità per comprendere quelle modificazioni. Se fosse vero che la sua contiguità potesse rendere cosciente l’intelletto, la stessa contiguità potrebbe rendere cosciente qualsiasi altra cosa.
I sāṃkhya sostengono che i puruṣa,
pur essendo molteplici (che da sola è chiaramente una affermazione errata),
sono di natura completamente distinta da Prakṛti e da tutte le sue
produzioni (tattva), ossia dagli oggetti manifestati (e questo è,
invece, una affermazione condivisibile). Secondo loro i puruṣa sono
i testimoni che illuminano la buddhi e gli altri oggetti senza però
che essi si riflettano nei tattva. Questo in quanto il Sāṃkhya,
rifiutando la dottrina del riflesso, nega ogni contatto tra i puruṣa,
concepiti come le monadi assurdamente “impermeabili” di leibniziana memoria, e
le produzioni non coscienti di Prakṛti. Al posto della dottrina del
riflesso essi sostengono la dottrina della contiguità o prossimità (sānnidhyavāda).
La semplice contiguità del puruṣa sarebbe in grado di influenzare un
oggetto trasferendo a quest’ultimo la sua capacità conoscitiva. Questa dottrina
presta il fianco a molteplici obiezioni, tra cui, principalmente, quella per la
quale la prossimità dipende dalla condizione spaziale. Basta la seguente
considerazione su questa teoria, per la quale la trasmissione della capacità
cognitiva sarebbe dipendente da tale condizione corporea, per respingere questa
tesi definitivamente. Inoltre, se così fosse, la semplice contiguità potrebbe
rendere coscienti e conoscenti anche oggetti universalmente riconosciuti dai
diversi pramāṇa come non coscienti (acit), quali, per esempio,
una pietra o una brocca[15].
Per gentile concessione del Comitato Redazionale Tridaṇḍa del sito Veda Vyāsa Maṇḍala e dell'Autore
[1] Oppure, in subordine d’importanza, la mente (manas) o, ancora, le facoltà di senso (jñānendriya).
[2] Da ciò deriva che il Sé (Ātman) o l'“Io” maiuscolo, non sono altro
che forme convenzionali adottate per indicare la reale natura essenziale che
appare illusoriamente come “io” (aham). Similmente Brahman, “Grande”, è
soltanto una forma convenzionale per designare l’Esistenza totale o pura
Coscienza assoluta. Non essendo nomi, queste designazioni non possono nemmeno
essere considerate come fossero simboli; infatti il simbolo deve partecipare
parzialmente della natura del simboleggiato.
[3] Composto di “cara”, mutevole, e “vāk”, parola: insegnamento o
dottrina diveniristica. Antica scuola eterodossa indiana prebuddhista che
sostenne un materialismo estremo, basandosi sulla concezione che la percezione
sensoriale fosse l’unico pramāṇa veridico.
[4] Il materialismo “pratico” che risulta istintivo nei moderni, arriva perfino
a confondere la mente con il cervello e i pensieri con i suoi impulsi nervosi.
Ossia esso confonde la facoltà con l’organo corrispondente, come se la vista,
per esempio, fosse solo il globo oculare.
[5] L’unico modo riconosciuto dagli ignoranti (ajñāni) per uscire da
questa identificazione (abhimāna) consiste nella morte intesa come caduta
del corpo (dehānta). Ma questa “uscita” avviene senza alcuna garanzia di
sopravvivenza, ragion per cui quest’ultima diventa articolo di fede per il
“credente”, o oggetto di diniego da parte del “non credente”. Il Vedānta,
invece, insegna la dottrina dei tre stati di coscienza (trayāvasthāvāda)
proprio per indicare altre modalità in cui quotidianamente si sperimenta la
disidentificazione dell’ego dal corpo. Nel sogno il jīva non si
identifica con il corpo grossolano, ma si “plasma” un corpo sottile a suo
piacimento. Nel sonno profondo, poi, non è presente alcun tipo di corpo. Per
chi sa discriminare (viveki), il risveglio prova inequivocabilmente che
è possibile l’esistenza indipendentemente del corpo.
[6] Questa prospettiva erronea porta a pensare che ci sia un’unica vita
collegata indissolubilmente al corpo grossolano. Perciò la “resurrezione della
carne”, invece di essere considerata correttamente come un’allusione
all’assunzione di un nuovo involucro di trasmigrazione, è intesa come se a
ritornare in vita fosse il medesimo corpo già morto.
[7] Questa affermazione, dal punto di vista gnoseologico, è comunque errata,
poiché sono almeno due i verbi che non implicano azione alcuna: essere (as)
ed esistere (bhū).
[8] Questa affermazione di Śaṃkara sembra davvero denunciare definitivamente,
con un anticipo d’un millennio, l’approccio filologico-glottologico degli
indologi e sanscritisti accademici. Tra costoro non abbiamo identificato
nessuno che abbia davvero capito qualcosa del Vedānta; al contrario,
possiamo affermare che coloro che oscuramente hanno presentito qualcosa del suo
vero senso, si sono volutamente adoperati per travisarlo.
[9] Con materialismo “pratico” non intendiamo riferirci qui alla scuola
filosofica cirenaica o edonistica del V-IV sec. a. C., ma più semplicemente al
comune sentire dell’uomo moderno, totalmente incapace di qualsiasi speculazione
e che si contenta, come massima “astrazione”, al pensiero tecnologico, a quello
psicologico e a quello sociologico. Nel materialismo “pratico”, perciò, va anche
inserita la teologia cattolica contemporanea in cui non c’è più alcuna traccia
di Θεός.
[10] Da questo momento in poi nel testo si sussegue una continua menzione delle
modificazioni della mente o “mentalizzazioni” e delle modificazioni
dell’intelletto o intellezioni. Poiché “mentalizzazioni” nel linguaggio comune
ha assunto abusivamente un significato attinente alla “mentalità” piuttosto che
alla mente, abbiamo preferito descrivere le attività o modificazioni di mente e
intelletto con la parola “pensieri”, per coprire sia il dominio del manas sia
della buddhi.
[11] Śaṃkara, US XVIII. 201.
[12] Svāmī Satcidānandendra, Dottrina e Metodo, cit.
p. 135.
[13] Ananda Kentish Coomaraswamy è stato senza dubbio una fonte autorevole per
quello che si rapporta al simbolismo vedico. Tuttavia, ogni qualvolta egli si
sia inoltrato nel dominio della metafisica, ha commesso considerevoli errori di
valutazione. Il suo sostegno alla discontinuità del tempo della dottrina
buddhista e la conseguente critica a Śaṃkara rilevano dalla sua istintiva
attrazione mentale per il theravāda singalese, piuttosto che dalla sua
consueta discriminazione d’indagine intellettuale. Cfr. A. K. Coomaraswamy, Time
and Eternity, Ascona, Artibus Asiæ Pbls., 1947, pp. 17-19.
[14] Per esempio quando si è negli stati di veglia e di sogno, seppure in modi
diversi, la mente, il mondo, gli oggetti, lo spazio, il tempo, la quantità
appaiono come presenti (sat), mentre nel sonno profondo sono del tutto
assenti (asat).
[15] Che questi oggetti facciano parte della natura cosciente del Testimone è
fuori di dubbio. Ma essi allora devono essere considerati come facenti parte di
un tutto e non presi singolarmente.
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