Fabrizio Alfieri
Considerazioni sul Flauto magico
Un rinnovato interesse nei confronti
della figura di Wolfgang Amadeus Mozart, recentemente amplificato dai media
in occasione del duecentocinquantesimo anniversario della nascita del compositore, ha favorito la pubblicazione di numerosi
studi biografici e musicologici, volti a evidenziarne aspetti anche meno noti
della vita e dell’opera.
Tuttavia, l’oggettiva difficoltà nel trattare quanto è afferente all’ambito dell’esoterismo, anche solo sul piano teorico, sovente non disgiunta da una certa ostilità nei confronti della dimensione massonica, ha purtroppo condizionato tanta parte di quei contributi: pure laddove non fosse manifesto l’intento di relegare in secondo piano la formazione di Mozart nell’esperienza libero-muratória, il senso iniziatico della sua produzione artistica è stato perlopiù considerato come summa di nozioni apprese dall’esterno e gioco intellettualistico, quando non tentativo di supplire, per ragioni sociali o comunque contingenti, a necessità di carattere esclusivamente individuale.
Anche se il «catalogo» mozartiano abbonda, sia sul versante della liederistica sia sul versante della composizione strumentale, di titoli esplicitamente dedicati ai lavori di Loggia accanto ad altri – le ultime sinfonie, le grandi opere teatrali – qualificati da uno straordinario significato simbolico, non si è usi considerare tali capolavori come espressioni di una «maestria» conseguita dall’autore e, quindi, come possibili supporti per un lavoro interiore di chi, fruendone, intenda realmente penetrarne lo «spirito»[1].
D’altronde, non occorre che si faccia professione di agnosticismo perché tali aspetti, di carattere realmente intellettuale, siano riguardati con sufficienza, giacché un tradizionalismo «letteralista» è scientemente in grado di condurre alle medesime conclusioni, seppur percorrendo strade (in apparenza) differenti: la disconoscenza del vero esoterismo può essere espressa secondo modalità particolari a tal o tal altra forma mentis, questo sì; ma in definitiva, si tratta comunque di prospettive parziali che si affermano nel tentativo di circoscrivere il reale all’interno dei propri limiti di comprensione, negando quanto li travalica in luogo di sforzarsi nella direzione di un loro superamento, ovverosia in luogo di ciò che – solo – sarebbe conforme alla volontà di perseguire una via di conoscenza.
Allorché ci decidemmo per la stesura di un intero volume[2] intorno all’ultimo capolavoro del teatro musicale mozartiano, avevamo indovinato che su questi punti, fatte salve alcune pregevoli note di carattere documentario, non vi sarebbe stata troppa inflazione: probabilmente gli studi specialistici avrebbero posto in secondo piano, rispetto a un approccio meramente analitico, il senso di un’«arte che risiede nell’artista»; e di conseguenza si sarebbe trascurata la possibilità che un’opera sapientemente costruita intorno al tema del viaggio si facesse supporto per una riflessione intorno al proprio viaggio.
Uno studio sul Flauto magico, massima espressione dei principi massonici nel teatro musicale, sarebbe dovuto assurgere a confronto vero sul tema dell’aspirazione umana alla libertà e alla conoscenza: anzitutto, superando la pretesa accademica di rifarsi «scientificamente» alla sterminata bibliografia sull’argomento[3], in favore di un maggiore approfondimento sul piano dottrinale; in secondo luogo, adottando quella metodologia che l’opera mozartiana stessa rivela, cioè una metodologia per la quale, in un ideale geometrico rapporto tra centro e circonferenza, non ci si contenesse a enumerare i particolari di superficie, ma, piuttosto, si mirasse al «cuore» dell’opera, lavorando sinteticamente, per sottrazione di materiale in eccesso.
Non vi è dubbio sul fatto che l’ambiente massonico si propone – ora come allora, ove davanti e ove dietro le quinte – come motore intellettuale teso a favorire la diffusione di una visione del mondo incentrata sul principio, antidogmatico, che la sacralità dell’essere umano risiede nella sua facoltà di superare l’ignoranza, il fanatismo e la superstizione individuali. Ma quanto importa ribadire in questa sede è che tale principio, nella sua inalterabile attualità, non rinnega affatto l’idea di Tradizione, ovvero l’idea che nella metafora del mito, della leggenda e delle grandi opere dell’ingegno dell’umanità vi è da riconoscere un patrimonio simbolico e metodologico volto a favorire la presa di coscienza della vera e profonda natura di sé: un «conosci te stesso» che, in Occidente, dal frontone del tempio di Delfi è giunto come testimone delle radici – quelle vere – della nostra civiltà sino alla formalizzazione del trinomio libertà-uguaglianza-fratellanza[4].
Tutto nel Flauto magico esprime tale principio, che è rinnovamento sociale, «politico» nel senso più ampio e nobile del termine, ma anche – anzi, soprattutto – interiore. Per questo abbiamo ponderato, già durante il lavoro preparatorio alla stesura, che occorreva superare la «classica» interpretazione tesa a distinguere l’opera in due momenti, uno dei quali dichiaratamente massonico e l’altro conseguente alla volontà di adattare al teatro musicale, nella forma del Singspiel, una fiaba di August Liebeskind, Lulu o il flauto magico[5].
Pur se la straordinaria ricchezza di richiami a miti e figurazioni simboliche del Flauto magico trova solo un parziale corrispettivo nell’antecedente letterario, comune alle due vicende è la necessità d’intraprendere un viaggio per ritrovare qualcosa che è andato perduto, ciò che è proprio, in verità, al patrimonio iniziatico tradizionale di ogni epoca e regione[6]. Per tutta conseguenza, abbiamo ritenuto opportuno concentrare i nostri sforzi nella direzione di un chiarimento definitivo proprio su tale punto: il Singspiel mozartiano non è opera massonica solo in quanto presenta nell’atto secondo, velati sotto le sembianze dell’ambientazione egizia, contenuti simbolici specificamente massonici, concernenti il rito d’iniziazione al grado di Apprendista Libero Muratore[7]; piuttosto, è opera massonica in quanto, fin da subito, esplica il passaggio di un uomo, di una donna e di un mondo dall’ignorare al conoscere. Presenta e promuove, cioè, il superamento della «regina» di tutte le illusioni: la volontà di conservazione dei propri caratteri individuali, limiti e paure[8]; tale superamento può avvenire solo attraverso una trasformazione, cioè – etimologicamente – un «passaggio di là dalla forma», a partire da quella forma mentis che induce a considerare le cose non per quanto sono in verità, ma per quanto illusoriamente appaiono finché non si allarghi il proprio orizzonte intellettuale lacerando il «velo della notte», il velo di Mâyâ, facendo cadere quella benda simbolica che impedisce all’individuo – come al protagonista, in principio dell’opera – di rendersi conto che «tutto è finzione»[9].
Naturalmente, i limiti imposti da un articolo non consentono di argomentare nel dettaglio, con dovizia di particolari, la ricchezza e la complessità di questo capolavoro[10]. Ci è sufficiente qui rimarcare come gli elementi simbolici e rituali evocati, di chiara derivazione massonica, sottendano una identità in principio con quanto espresso in forme proprie a tradizioni anche molto «lontane» da quella, almeno su un piano esteriore. D’altronde, la nozione stessa di «simbolismo» implica una giunzione intellettuale tra i vari piani di realtà, a partire dalla molteplicità delle forme, con la sorgente universale di cui quelle forme medesime non sono che altrettanti adattamenti. Ciò è in stretto rapporto con le ragioni per le quali la chiarificazione di aspetti della propria tradizione è facilitata – e in alcuni casi resa possibile – dal confronto con quanto assolve la medesima funzione in altre, a partire dal riconoscimento dell’Oriente al quale rivolgersi come «luogo simbolico» dal quale il sole spirituale sorge e la luce dell’intelletto procede[11]: non si tratta di compiacere desideri esotici o, meno che mai, di cercare altrove una dottrina e un metodo che si disconoscono alla via intrapresa, quanto, piuttosto, di intendere l’universalità come carattere proprio alla Libera Muratorìa già a partire dall’utilizzo di un metodo che riconosce nel lavoro – ciò che dovrebbe apparire manifesto, trattandosi di una «iniziazione di mestiere» – lo strumento primo ed essenziale per la costruzione del «tempio dell’umanità» e che, soprattutto, riconosce nel Costruttore – simbolo veramente universale e proprio, in senso lato, all’ambito di tutte le attività umane – quell’aspetto del Logos, o archetipo divino, designato come «Grande Architetto dell’Universo».
***
Intraprendere un viaggio, attraverso un combattimento interiore, volto alla conoscenza di sé: tale è il lavoro che l’eroe è sollecitato a compiere dallo sviluppo organizzato della trama, allorché, teatro nel teatro, deve avvedersi della prospettiva illusoria – profana – che lo vincola. Ritrovatosi in una landa sconosciuta, arciere privo di frecce e inseguito da astuto serpente, egli dovrà riassumere le proprie prerogative reali e divine attraverso il recupero dell’amata: mediazione che rimanda a nobili modelli di «Madonna Intelligenza»[12], sarà l’amore per la fanciulla – simbolo della sua disposizione (philo) nei confronti della conoscenza (Sophia) – a consentirgli l’accesso a quell’Eden prefigurato, nel finale dell’opera, dal trionfo della Saggezza, della Forza e della Bellezza.
Non vi è da stupirsi se il protagonista, al principio dell’opera, risulta privo tanto di freccia quanto di controparte femminile: sono mancanze che si possono legittimamente considerare come espediente letterario volto ad alludere all’impossibilità, per il profano, di affrontare i propri demoni con qualche speranza di riuscita; l’impossibilità, cioè, di trascendere la propria individualità e i suoi limiti con i soli mezzi individuali – ipotesi, d’altronde, del tutto illogica – e la necessità, invece, per compiere tale «trasformazione», di qualcosa che consenta di attualizzare quanto appartiene in proprio alle possibilità dell’essere nella sua totalità, ma di là dalle restrizioni a cui la parvenza individuale sembra limitarlo. Che questo «qualcosa» sia l’iniziazione, è indicato esplicitamente nell’atto secondo: «Ogni iniquo pregiudizio svanirà non appena Tamino possederà la grandezza della nostra difficile arte»[13]; ma se vi fossero delle perplessità intorno a questa conclusione, potrebbe essere risolutivo mettere in rilievo che tale simbolismo è puntuale anche rispetto alla tipologia di uomo cui viene messo in relazione nell’opera: il principe Tamino, infatti, figlio di un «sovrano che regna su molti paesi e uomini»[14], viene presentato come «cavaliere», cioè, secondo il principio dell’istituzione delle caste – tradizionalmente intese come funzioni sociali conformi alla natura propria di ogni essere umano e convenienti alle tendenze che si svilupperanno durante la sua esistenza -, come colui che deve svolgere nell’azione il combattimento contro i propri demoni.
Alla luce di quanto precede, pare incomprensibile la ragione per la quale molti commentatori considerano il Flauto magico come semplice vicenda d’amore[15] o, peggio, come favola intrisa di un’aura mistica, secondo una consuetudine che non tiene affatto da conto la distinzione tra il dominio iniziatico e quello a cui essa dovrebbe riferirsi, cioè il fatto che, a prescindere dall’etimologia del termine – riconducibile agli antichi «misteri» iniziatici -, il misticismo, com’è ordinariamente inteso, partecipa integralmente della prospettiva religiosa. Non si tratta di una questione marginale, neanche per quello che concerne la sola interpretazione del Singspiel, come si potrebbe superficialmente avanzare: infatti, tale considerazione può indurre registi e interpreti – ed è avvenuto – a offrire alle scene suggestioni fortemente caratterizzate in tal senso[16]; nulla di più sbagliato, allorché si consideri che il capolavoro mozartiano propone l’adozione di una prospettiva per la quale l’individuo, lungi dal porsi nella passività che caratterizza la propensione mistica, deve mantenere e alimentare un atteggiamento attivo, al fine di «conquistare con fatica e solerzia» la meta del viaggio iniziatico, ovverosia, nelle parole di Sarastro, «squarciare il velo della notte e guardare nel santuario della perfetta Luce»[17].
Proprio intorno a questo personaggio – il saggio sovrano – ruota l’intero impianto drammaturgico, come evocato dall’assonanza dello stesso nome conferitogli con quello di Zoroastro, colui che, al pari di altri corrispondenti in differenti forme tradizionali, rappresenta l’applicazione all’ordine sociale di una «intelligenza universale» espressa attraverso l’opera non tanto di un singolo individuo, quanto di tutto un ambito iniziatico: «Egli è il Nume a cui tutti siamo consacrati»[18]; l’espressione, cioè, della conformità a un «ordine delle cose» di natura realmente intellettuale[19]. Misurare la vera portata degli apporti confluiti in seno alla tradizione massonica e, conseguentemente, nella genesi dell’opera, appare evidentemente complesso: dai Collegia Fabrorum di origine precristiana agli elementi ebraici e pitagorici; dalle eredità «ermetiche» a quelle templari veicolate, queste ultime, attraverso componenti rosacrociane e cavalleresche. Ma ciò che possiamo agevolmente rilevare, attraverso la figura di Sarastro, è l’evocazione del «Sacro Impero»[20]: «mediatore» tra la Terra e il Cielo – utilizzando l’espressione propria al Wang, il «Re-Pontefice» della tradizione estremo-orientale – egli è colui che, posto tra la squadra e il compasso, esprime le qualità del Maestro al quale è rinato.
Eccezionale glorificazione dei princìpi massonici, il trionfo di Saggezza, Forza e Bellezza – attribuiti propriamente a Sarastro, Tamino e Pamina nel finale dell’opera – concerne una umanità che si presenta rinnovata in conoscenza: «I raggi del Sole dissolvono la notte, annullano il potere degli ipocriti, carpito con l’inganno»[21]. Nella gerarchia piramidale evocata dalla simbologia egizia[22] è palesata la raffigurazione della «molteplicità nell’unità» offerta proprio in quella nozione che, dal De Monarchia dantesco sino allo Scozzesismo massonico, informa manifestamente tutta l’opera mozartiana[23]. È una gerarchia intellettuale che, al contrario dei dogmatismi «uniformizzanti» propri a questa o quella concezione anche tradizionale, ma ancora esteriore – sia essa ideologica, politica o confessionale -, «fa tesoro» della multiformità del reale, secondo una prospettiva che riconosce, nell’intrecciarsi e nel sovrapporsi delle qualità e delle caratteristiche di ognuno, l’espressione di ciò che, a un livello universale, è massonicamente definito come «piano del Grande Architetto dell’Universo».
***
Il viaggio che il protagonista del Flauto magico affronta[24] è determinato affinché egli possa guadagnare l’accesso a un ordine superiore di conoscenza attraverso il sacrificio – che è sublimazione, non annichilimento – dei propri caratteri: il fatto che tale percorso sia tracciato attraverso lo strumento dell’illusione è da ricondurre al senso del teatro, cioè della rappresentazione nella quale ogni elemento concorre, attraverso l’interpretazione del ruolo – cioè della propria funzione – all’equilibrio complessivo di cui quei particolari sono una espressione contingente, seppur necessaria al compimento del dramma[25].
Tuttavia, l’oggettiva difficoltà nel trattare quanto è afferente all’ambito dell’esoterismo, anche solo sul piano teorico, sovente non disgiunta da una certa ostilità nei confronti della dimensione massonica, ha purtroppo condizionato tanta parte di quei contributi: pure laddove non fosse manifesto l’intento di relegare in secondo piano la formazione di Mozart nell’esperienza libero-muratória, il senso iniziatico della sua produzione artistica è stato perlopiù considerato come summa di nozioni apprese dall’esterno e gioco intellettualistico, quando non tentativo di supplire, per ragioni sociali o comunque contingenti, a necessità di carattere esclusivamente individuale.
Anche se il «catalogo» mozartiano abbonda, sia sul versante della liederistica sia sul versante della composizione strumentale, di titoli esplicitamente dedicati ai lavori di Loggia accanto ad altri – le ultime sinfonie, le grandi opere teatrali – qualificati da uno straordinario significato simbolico, non si è usi considerare tali capolavori come espressioni di una «maestria» conseguita dall’autore e, quindi, come possibili supporti per un lavoro interiore di chi, fruendone, intenda realmente penetrarne lo «spirito»[1].
D’altronde, non occorre che si faccia professione di agnosticismo perché tali aspetti, di carattere realmente intellettuale, siano riguardati con sufficienza, giacché un tradizionalismo «letteralista» è scientemente in grado di condurre alle medesime conclusioni, seppur percorrendo strade (in apparenza) differenti: la disconoscenza del vero esoterismo può essere espressa secondo modalità particolari a tal o tal altra forma mentis, questo sì; ma in definitiva, si tratta comunque di prospettive parziali che si affermano nel tentativo di circoscrivere il reale all’interno dei propri limiti di comprensione, negando quanto li travalica in luogo di sforzarsi nella direzione di un loro superamento, ovverosia in luogo di ciò che – solo – sarebbe conforme alla volontà di perseguire una via di conoscenza.
Allorché ci decidemmo per la stesura di un intero volume[2] intorno all’ultimo capolavoro del teatro musicale mozartiano, avevamo indovinato che su questi punti, fatte salve alcune pregevoli note di carattere documentario, non vi sarebbe stata troppa inflazione: probabilmente gli studi specialistici avrebbero posto in secondo piano, rispetto a un approccio meramente analitico, il senso di un’«arte che risiede nell’artista»; e di conseguenza si sarebbe trascurata la possibilità che un’opera sapientemente costruita intorno al tema del viaggio si facesse supporto per una riflessione intorno al proprio viaggio.
Uno studio sul Flauto magico, massima espressione dei principi massonici nel teatro musicale, sarebbe dovuto assurgere a confronto vero sul tema dell’aspirazione umana alla libertà e alla conoscenza: anzitutto, superando la pretesa accademica di rifarsi «scientificamente» alla sterminata bibliografia sull’argomento[3], in favore di un maggiore approfondimento sul piano dottrinale; in secondo luogo, adottando quella metodologia che l’opera mozartiana stessa rivela, cioè una metodologia per la quale, in un ideale geometrico rapporto tra centro e circonferenza, non ci si contenesse a enumerare i particolari di superficie, ma, piuttosto, si mirasse al «cuore» dell’opera, lavorando sinteticamente, per sottrazione di materiale in eccesso.
Non vi è dubbio sul fatto che l’ambiente massonico si propone – ora come allora, ove davanti e ove dietro le quinte – come motore intellettuale teso a favorire la diffusione di una visione del mondo incentrata sul principio, antidogmatico, che la sacralità dell’essere umano risiede nella sua facoltà di superare l’ignoranza, il fanatismo e la superstizione individuali. Ma quanto importa ribadire in questa sede è che tale principio, nella sua inalterabile attualità, non rinnega affatto l’idea di Tradizione, ovvero l’idea che nella metafora del mito, della leggenda e delle grandi opere dell’ingegno dell’umanità vi è da riconoscere un patrimonio simbolico e metodologico volto a favorire la presa di coscienza della vera e profonda natura di sé: un «conosci te stesso» che, in Occidente, dal frontone del tempio di Delfi è giunto come testimone delle radici – quelle vere – della nostra civiltà sino alla formalizzazione del trinomio libertà-uguaglianza-fratellanza[4].
Tutto nel Flauto magico esprime tale principio, che è rinnovamento sociale, «politico» nel senso più ampio e nobile del termine, ma anche – anzi, soprattutto – interiore. Per questo abbiamo ponderato, già durante il lavoro preparatorio alla stesura, che occorreva superare la «classica» interpretazione tesa a distinguere l’opera in due momenti, uno dei quali dichiaratamente massonico e l’altro conseguente alla volontà di adattare al teatro musicale, nella forma del Singspiel, una fiaba di August Liebeskind, Lulu o il flauto magico[5].
Pur se la straordinaria ricchezza di richiami a miti e figurazioni simboliche del Flauto magico trova solo un parziale corrispettivo nell’antecedente letterario, comune alle due vicende è la necessità d’intraprendere un viaggio per ritrovare qualcosa che è andato perduto, ciò che è proprio, in verità, al patrimonio iniziatico tradizionale di ogni epoca e regione[6]. Per tutta conseguenza, abbiamo ritenuto opportuno concentrare i nostri sforzi nella direzione di un chiarimento definitivo proprio su tale punto: il Singspiel mozartiano non è opera massonica solo in quanto presenta nell’atto secondo, velati sotto le sembianze dell’ambientazione egizia, contenuti simbolici specificamente massonici, concernenti il rito d’iniziazione al grado di Apprendista Libero Muratore[7]; piuttosto, è opera massonica in quanto, fin da subito, esplica il passaggio di un uomo, di una donna e di un mondo dall’ignorare al conoscere. Presenta e promuove, cioè, il superamento della «regina» di tutte le illusioni: la volontà di conservazione dei propri caratteri individuali, limiti e paure[8]; tale superamento può avvenire solo attraverso una trasformazione, cioè – etimologicamente – un «passaggio di là dalla forma», a partire da quella forma mentis che induce a considerare le cose non per quanto sono in verità, ma per quanto illusoriamente appaiono finché non si allarghi il proprio orizzonte intellettuale lacerando il «velo della notte», il velo di Mâyâ, facendo cadere quella benda simbolica che impedisce all’individuo – come al protagonista, in principio dell’opera – di rendersi conto che «tutto è finzione»[9].
Naturalmente, i limiti imposti da un articolo non consentono di argomentare nel dettaglio, con dovizia di particolari, la ricchezza e la complessità di questo capolavoro[10]. Ci è sufficiente qui rimarcare come gli elementi simbolici e rituali evocati, di chiara derivazione massonica, sottendano una identità in principio con quanto espresso in forme proprie a tradizioni anche molto «lontane» da quella, almeno su un piano esteriore. D’altronde, la nozione stessa di «simbolismo» implica una giunzione intellettuale tra i vari piani di realtà, a partire dalla molteplicità delle forme, con la sorgente universale di cui quelle forme medesime non sono che altrettanti adattamenti. Ciò è in stretto rapporto con le ragioni per le quali la chiarificazione di aspetti della propria tradizione è facilitata – e in alcuni casi resa possibile – dal confronto con quanto assolve la medesima funzione in altre, a partire dal riconoscimento dell’Oriente al quale rivolgersi come «luogo simbolico» dal quale il sole spirituale sorge e la luce dell’intelletto procede[11]: non si tratta di compiacere desideri esotici o, meno che mai, di cercare altrove una dottrina e un metodo che si disconoscono alla via intrapresa, quanto, piuttosto, di intendere l’universalità come carattere proprio alla Libera Muratorìa già a partire dall’utilizzo di un metodo che riconosce nel lavoro – ciò che dovrebbe apparire manifesto, trattandosi di una «iniziazione di mestiere» – lo strumento primo ed essenziale per la costruzione del «tempio dell’umanità» e che, soprattutto, riconosce nel Costruttore – simbolo veramente universale e proprio, in senso lato, all’ambito di tutte le attività umane – quell’aspetto del Logos, o archetipo divino, designato come «Grande Architetto dell’Universo».
***
Intraprendere un viaggio, attraverso un combattimento interiore, volto alla conoscenza di sé: tale è il lavoro che l’eroe è sollecitato a compiere dallo sviluppo organizzato della trama, allorché, teatro nel teatro, deve avvedersi della prospettiva illusoria – profana – che lo vincola. Ritrovatosi in una landa sconosciuta, arciere privo di frecce e inseguito da astuto serpente, egli dovrà riassumere le proprie prerogative reali e divine attraverso il recupero dell’amata: mediazione che rimanda a nobili modelli di «Madonna Intelligenza»[12], sarà l’amore per la fanciulla – simbolo della sua disposizione (philo) nei confronti della conoscenza (Sophia) – a consentirgli l’accesso a quell’Eden prefigurato, nel finale dell’opera, dal trionfo della Saggezza, della Forza e della Bellezza.
Non vi è da stupirsi se il protagonista, al principio dell’opera, risulta privo tanto di freccia quanto di controparte femminile: sono mancanze che si possono legittimamente considerare come espediente letterario volto ad alludere all’impossibilità, per il profano, di affrontare i propri demoni con qualche speranza di riuscita; l’impossibilità, cioè, di trascendere la propria individualità e i suoi limiti con i soli mezzi individuali – ipotesi, d’altronde, del tutto illogica – e la necessità, invece, per compiere tale «trasformazione», di qualcosa che consenta di attualizzare quanto appartiene in proprio alle possibilità dell’essere nella sua totalità, ma di là dalle restrizioni a cui la parvenza individuale sembra limitarlo. Che questo «qualcosa» sia l’iniziazione, è indicato esplicitamente nell’atto secondo: «Ogni iniquo pregiudizio svanirà non appena Tamino possederà la grandezza della nostra difficile arte»[13]; ma se vi fossero delle perplessità intorno a questa conclusione, potrebbe essere risolutivo mettere in rilievo che tale simbolismo è puntuale anche rispetto alla tipologia di uomo cui viene messo in relazione nell’opera: il principe Tamino, infatti, figlio di un «sovrano che regna su molti paesi e uomini»[14], viene presentato come «cavaliere», cioè, secondo il principio dell’istituzione delle caste – tradizionalmente intese come funzioni sociali conformi alla natura propria di ogni essere umano e convenienti alle tendenze che si svilupperanno durante la sua esistenza -, come colui che deve svolgere nell’azione il combattimento contro i propri demoni.
Alla luce di quanto precede, pare incomprensibile la ragione per la quale molti commentatori considerano il Flauto magico come semplice vicenda d’amore[15] o, peggio, come favola intrisa di un’aura mistica, secondo una consuetudine che non tiene affatto da conto la distinzione tra il dominio iniziatico e quello a cui essa dovrebbe riferirsi, cioè il fatto che, a prescindere dall’etimologia del termine – riconducibile agli antichi «misteri» iniziatici -, il misticismo, com’è ordinariamente inteso, partecipa integralmente della prospettiva religiosa. Non si tratta di una questione marginale, neanche per quello che concerne la sola interpretazione del Singspiel, come si potrebbe superficialmente avanzare: infatti, tale considerazione può indurre registi e interpreti – ed è avvenuto – a offrire alle scene suggestioni fortemente caratterizzate in tal senso[16]; nulla di più sbagliato, allorché si consideri che il capolavoro mozartiano propone l’adozione di una prospettiva per la quale l’individuo, lungi dal porsi nella passività che caratterizza la propensione mistica, deve mantenere e alimentare un atteggiamento attivo, al fine di «conquistare con fatica e solerzia» la meta del viaggio iniziatico, ovverosia, nelle parole di Sarastro, «squarciare il velo della notte e guardare nel santuario della perfetta Luce»[17].
Proprio intorno a questo personaggio – il saggio sovrano – ruota l’intero impianto drammaturgico, come evocato dall’assonanza dello stesso nome conferitogli con quello di Zoroastro, colui che, al pari di altri corrispondenti in differenti forme tradizionali, rappresenta l’applicazione all’ordine sociale di una «intelligenza universale» espressa attraverso l’opera non tanto di un singolo individuo, quanto di tutto un ambito iniziatico: «Egli è il Nume a cui tutti siamo consacrati»[18]; l’espressione, cioè, della conformità a un «ordine delle cose» di natura realmente intellettuale[19]. Misurare la vera portata degli apporti confluiti in seno alla tradizione massonica e, conseguentemente, nella genesi dell’opera, appare evidentemente complesso: dai Collegia Fabrorum di origine precristiana agli elementi ebraici e pitagorici; dalle eredità «ermetiche» a quelle templari veicolate, queste ultime, attraverso componenti rosacrociane e cavalleresche. Ma ciò che possiamo agevolmente rilevare, attraverso la figura di Sarastro, è l’evocazione del «Sacro Impero»[20]: «mediatore» tra la Terra e il Cielo – utilizzando l’espressione propria al Wang, il «Re-Pontefice» della tradizione estremo-orientale – egli è colui che, posto tra la squadra e il compasso, esprime le qualità del Maestro al quale è rinato.
Eccezionale glorificazione dei princìpi massonici, il trionfo di Saggezza, Forza e Bellezza – attribuiti propriamente a Sarastro, Tamino e Pamina nel finale dell’opera – concerne una umanità che si presenta rinnovata in conoscenza: «I raggi del Sole dissolvono la notte, annullano il potere degli ipocriti, carpito con l’inganno»[21]. Nella gerarchia piramidale evocata dalla simbologia egizia[22] è palesata la raffigurazione della «molteplicità nell’unità» offerta proprio in quella nozione che, dal De Monarchia dantesco sino allo Scozzesismo massonico, informa manifestamente tutta l’opera mozartiana[23]. È una gerarchia intellettuale che, al contrario dei dogmatismi «uniformizzanti» propri a questa o quella concezione anche tradizionale, ma ancora esteriore – sia essa ideologica, politica o confessionale -, «fa tesoro» della multiformità del reale, secondo una prospettiva che riconosce, nell’intrecciarsi e nel sovrapporsi delle qualità e delle caratteristiche di ognuno, l’espressione di ciò che, a un livello universale, è massonicamente definito come «piano del Grande Architetto dell’Universo».
***
Il viaggio che il protagonista del Flauto magico affronta[24] è determinato affinché egli possa guadagnare l’accesso a un ordine superiore di conoscenza attraverso il sacrificio – che è sublimazione, non annichilimento – dei propri caratteri: il fatto che tale percorso sia tracciato attraverso lo strumento dell’illusione è da ricondurre al senso del teatro, cioè della rappresentazione nella quale ogni elemento concorre, attraverso l’interpretazione del ruolo – cioè della propria funzione – all’equilibrio complessivo di cui quei particolari sono una espressione contingente, seppur necessaria al compimento del dramma[25].
Di là da tale rappresentazione è
l’autore, la cui prospettiva informa l’opera intera. Il
riconoscimento di questo senso attribuito al teatro è chiaramente espresso, nel
capolavoro di Mozart e Schikaneder, tramite commenti nel formulare i
quali i personaggi in scena, temporaneamente dimentichi del proprio ruolo
specifico nell’azione drammatica, si rivolgono al pubblico: una serie di
«messaggi» consegnati allo spettatore attraverso un espediente per il quale gli
autori, «svegliando» per un attimo i loro «doppi» in scena, prendono le
distanze da quei caratteri per «tirare le fila» del discorso, suggerendo
indirettamente, al tempo stesso, la piena coscienza intorno al senso ultimo
delle scelte drammaturgiche adottate.
Questa valutazione mette in gioco tutta una serie di affinità tra le dimensioni drammaturgica e onirica – teatro e sogno –, giacché in entrambe l’uomo rende manifesto un «mondo» che origina interamente da se stesso: infatti, pur se presente solo alla zona centrale della sua coscienza e nonostante nella sua essenza egli non ne risulta per nulla infirmato, ogni altro elemento è «reale» solo in quanto partecipa della sua esistenza e si realizza come sua modificazione[26]. Ecco perché l’individuo, parvenza tra parvenze, deve considerare ogni stimolo esterno, nell’adozione di una prospettiva realmente iniziatica, come strumento dell’Essere volto a favorirne l’attualizzazione delle possibilità ancora allo stato potenziale: in effetti, le forme altro non sono che rappresentazioni della verità; ma se attraversandole – e occorre partire da quanto in conformità con la propria natura – si supera l’opposizione fittizia che, a un certo livello, esse mettono in scena, ci si può rendere conto che gli stimoli alla scoperta di se stessi possono provenire dalle occasioni più disparate.
Tale è il ruolo della Regina della Notte, che nel Flauto magico rappresenta Mâyâ, il potere di illusione: ve ne troviamo riscontro nella coerenza con almeno uno dei sensi del termine sanscrito, segnatamente quello che la assimila a Prakriti, la substantia universale, ciò che costituisce il substrato potenziale e oscuro della manifestazione, corrispondente, nel simbolismo iniziatico, alla situazione del profano; a un livello incomparabilmente superiore, invece, ovvero in senso analogicamente inverso, Mâyâ è l’«arte» intesa come shakti (o «potere» materno) di Brahma, cioè l’«Attività divina» allorché sia considerata distintamente dalla «Volontà» o, in altri termini, l’«onnipotenza» risiedente nel Principio supremo[27]. Proprio in quanto «arte» e «illusione» insieme, la Regina della Notte diviene, drammaturgicamente, il personaggio necessario perché la trama si dipani, ovvero, metafisicamente, l’impulso necessario perché la situazione primitiva di «disordine» possa essere «riordinata»[28].
D’altronde, riprendendo ancora l’analogia con le condizioni dello stato di sogno, la distinzione tra l’essere consapevoli o meno della relativa illusorietà degli avvenimenti di tale stato, è proprio determinata dal grado di sviluppo della coscienza individuale. Per questo, nel Singspiel, la scelta di far «cadere la maschera» ai personaggi è gravida di conseguenze a livello di chiarificazione intellettuale, conseguenze che, senza tema di smentita, possono essere spinte fino all’affermazione di una vera e propria «consapevolezza ontologica», quantomeno su un piano teorico: come il sogno in relazione all’individuo, così il teatro in relazione all’autore è un’adeguata rappresentazione della manifestazione universale in rapporto al Principio da cui essa procede.
Veicolato in conformità con la funzione di insegnamento da sempre attribuita al teatro, il significato ultimo del Flauto magico si esprime, così, nella possibilità, per chi aspiri veramente alla conoscenza, di intraprendere un combattimento interiore al termine del quale la palingenesi dell’umanità altro non è che la naturale conseguenza del raggiungimento della propria pace, ovverosia l’universalizzazione della propria realizzazione personale: alba di un ciclo nuovo, è in essa che «la terra diviene un regno celeste e i mortali eguagliano gli Dèi»[29].
Questa valutazione mette in gioco tutta una serie di affinità tra le dimensioni drammaturgica e onirica – teatro e sogno –, giacché in entrambe l’uomo rende manifesto un «mondo» che origina interamente da se stesso: infatti, pur se presente solo alla zona centrale della sua coscienza e nonostante nella sua essenza egli non ne risulta per nulla infirmato, ogni altro elemento è «reale» solo in quanto partecipa della sua esistenza e si realizza come sua modificazione[26]. Ecco perché l’individuo, parvenza tra parvenze, deve considerare ogni stimolo esterno, nell’adozione di una prospettiva realmente iniziatica, come strumento dell’Essere volto a favorirne l’attualizzazione delle possibilità ancora allo stato potenziale: in effetti, le forme altro non sono che rappresentazioni della verità; ma se attraversandole – e occorre partire da quanto in conformità con la propria natura – si supera l’opposizione fittizia che, a un certo livello, esse mettono in scena, ci si può rendere conto che gli stimoli alla scoperta di se stessi possono provenire dalle occasioni più disparate.
Tale è il ruolo della Regina della Notte, che nel Flauto magico rappresenta Mâyâ, il potere di illusione: ve ne troviamo riscontro nella coerenza con almeno uno dei sensi del termine sanscrito, segnatamente quello che la assimila a Prakriti, la substantia universale, ciò che costituisce il substrato potenziale e oscuro della manifestazione, corrispondente, nel simbolismo iniziatico, alla situazione del profano; a un livello incomparabilmente superiore, invece, ovvero in senso analogicamente inverso, Mâyâ è l’«arte» intesa come shakti (o «potere» materno) di Brahma, cioè l’«Attività divina» allorché sia considerata distintamente dalla «Volontà» o, in altri termini, l’«onnipotenza» risiedente nel Principio supremo[27]. Proprio in quanto «arte» e «illusione» insieme, la Regina della Notte diviene, drammaturgicamente, il personaggio necessario perché la trama si dipani, ovvero, metafisicamente, l’impulso necessario perché la situazione primitiva di «disordine» possa essere «riordinata»[28].
D’altronde, riprendendo ancora l’analogia con le condizioni dello stato di sogno, la distinzione tra l’essere consapevoli o meno della relativa illusorietà degli avvenimenti di tale stato, è proprio determinata dal grado di sviluppo della coscienza individuale. Per questo, nel Singspiel, la scelta di far «cadere la maschera» ai personaggi è gravida di conseguenze a livello di chiarificazione intellettuale, conseguenze che, senza tema di smentita, possono essere spinte fino all’affermazione di una vera e propria «consapevolezza ontologica», quantomeno su un piano teorico: come il sogno in relazione all’individuo, così il teatro in relazione all’autore è un’adeguata rappresentazione della manifestazione universale in rapporto al Principio da cui essa procede.
Veicolato in conformità con la funzione di insegnamento da sempre attribuita al teatro, il significato ultimo del Flauto magico si esprime, così, nella possibilità, per chi aspiri veramente alla conoscenza, di intraprendere un combattimento interiore al termine del quale la palingenesi dell’umanità altro non è che la naturale conseguenza del raggiungimento della propria pace, ovverosia l’universalizzazione della propria realizzazione personale: alba di un ciclo nuovo, è in essa che «la terra diviene un regno celeste e i mortali eguagliano gli Dèi»[29].
Tratto da: «La Lettera G»
N° 6 - 2007 - http://www.laletterag.it
[1] Secondo la prospettiva iniziatica inequivocabilmente
adottata dal compositore stesso nella celeberrima lettera del 4 aprile 1787
indirizzata al padre Leopold, in forza alla stessa Loggia: «Essendo la morte
(se così si può dire) il vero scopo della nostra vita, (…) ringrazio il mio Dio
d’avermi concesso la fortuna di procurarmi l’opportunità (Ella
m’intende) d’impararla a conoscere come chiave della nostra felicità»
(trad. it. in A. Basso, L’invenzione della gioia, Garzanti, Milano
1994, p. 613). Inequivocabili, altresì, le posizioni preconcette dei
commentatori: «Per Mozart certo niente di più di un
modo di dire. (…) la lettera ci par scritta per soddisfare i desideri dei
biografi» (W. Hildesheimer, Mozart, Sansoni, Firenze 1979, pp.
216-17).
[2] F. Alfieri, Mozart. Il viaggio iniziatico nel «Flauto magico», Luni Editrice, Milano-Firenze 2006.
[3] Soprattutto, considerando a quali grotteschi esiti è stata in grado di pervenire la «scientificità» di tale approccio: «Sappiamo che la vera massoneria di Mozart non è quella, in cui lui credeva di credere, degli iniziati, ma è quella in cui crede con tutta spontaneità e naturalezza, dei poveri diavoli, della gentarella comune, dei bravi viennesi» (i corsivi sono nostri) (M. Mila, Lettura del Flauto magico, Einaudi, Torino 1989, p. 166).
[4] A riprova di questa «tensione» al superamento di ogni particolarismo, ecco un breve estratto del testo predisposto per Eine kleine teutsche Kantate, musicato da Mozart nel luglio 1791, contemporaneamente alla stesura del Flauto magico: «Voi che onorate il creatore dell’universo infinito, che lo chiamiate Jehova, o Dio, che lo chiamiate Fu o Brahma (…) Amate l’ordine, il senso delle proporzioni, l’armonia! (…) Spogliatevi dei travestimenti settari di cui l’umanità si è rivestita! (…) allora nel vostro deserto creerete la valle dell’Eden; allora tutta la natura sorriderà a voi; allora avrete raggiunto la vera felicità della vita» (F. H. Ziegenhagen, Die ihr des unermeßlichen Weltalls Schöpfer ehrt; trad. it. in A. Basso, L’invenzione della gioia, cit., p. 618)
[5] La fiaba sarebbe stata, almeno inizialmente, d’ispirazione alla stesura del libretto redatto da Emanuel Schikaneder, presumibilmente nell’ambito di un «lavoro collettivo» cui Mozart stesso aveva preso parte: un giovane principe, Tamino, è inviato da una regina, disegnata come personaggio positivo, a salvare una fanciulla (di lei figlia), rapita e tenuta prigioniera da un mago malvagio; per rendere possibile l’impresa, l’eroe riceve in dono un flauto magico. Nel Flauto magico, poi, ad accompagnare il protagonista è Papageno, l’ingenuo uccellatore «che si accontenta di dormire, mangiare e bere» (Il flauto magico, II, 3) e che, infatti, non potrà accedere alla conoscenza.
[6] Per quello che riguarda l’Occidente, d’altronde, i due esempi più noti in tal senso sono legati entrambi alla genesi del Flauto magico: il primo è la cosiddetta «cerca del Graal», nelle iniziazioni cavalleresche del Medio Evo, che tanta influenza avrà anche in ambito strettamente «culturale» sul mondo germanico; il secondo, è la ricerca della «Parola perduta» nell’iniziazione massonica.
[7] Il che, naturalmente, non implica affatto l’assenza di una esplicita volontà, da parte degli autori, nel rappresentare tali aspetti come fase culminante dell’opera: «I (nomi cancellati) oggi avevano un palco, e mostravano il loro consenso. Ma lui, l’onnisciente, si è mostrato così “bavarese” che non ho potuto rimanere, altrimenti gli avrei dato dell’asino. Sfortunatamente ero ancora accanto a lui all’inizio del secondo atto, e pure durante la scena solenne. Ha riso di tutto; all’inizio ho tentato, con pazienza, di richiamare la sua attenzione su alcune frasi, ma egli rideva sempre. Era troppo per me: l’ho chiamato Papageno e sono andato via. Non credo, però, che l’imbecille abbia capito» (il corsivo è nostro) (Lettera di W. A. Mozart alla moglie Konstanze, 8-9 ottobre 1791).
[8] Si tratta propriamente di «tenebre», lo svincolarsi dalle quali è totalmente precluso alla mentalità profana: nelle parole di Papageno, riferite al dominio della Regina della Notte, «quale occhio umano potrebbe guardare attraverso il suo velo intessuto di nero?» (Il flauto magico, I, 2).
[9] Il flauto magico, I, 15. – È questa la sintetica espressione di quanto Tamino dovrà comprendere nel corso del viaggio: il vero aspirante alla conoscenza di sé è un uomo perfettibile e l’opera che ha deciso di intraprendere non pone quale termine un’etica di comportamento o l’adozione di un particolare punto di vista; si tratta, invece, di spiegare come ali tutte le possibilità che l’essere umano reca già in sé, ma soffocate dall’esclusivismo della prospettiva profana.
[10] Per questo, rimandiamo al nostro Mozart. Il viaggio iniziatico nel «Flauto magico», studio nel quale abbiamo svolto l’interpretazione simbolica di tutte le scene, seguendo passo a passo lo sviluppo lineare dell’opera, sia sotto il profilo drammaturgico sia sotto il profilo musicale.
[11] Affrontando la questione da tale prospettiva, dovrebbe essere tanto «trasparente» la disposizione del tempio massonico, anche solo nelle sue implicite corrispondenze con l’organizzazione corporea dell’essere umano, da rendere inutili ulteriori specificazioni.
[12] Nella poetica propria ai «Fedeli d’Amore», velante sotto la sua superficie, nell’espediente letterario dell’«amor cortese», un senso profondo noto solo a chi ne possiede la chiave di lettura, la donna rappresenta propriamente il raggio celeste che illumina l’anima umana dal proprio centrum divino, vale a dire l’Intelletto trascendente che domina le facoltà di ordine individuale. In quest’ottica, non ci sembra azzardato ricondurre il «modello» del Flauto magico a quanto già espresso da stilnovismo, tradizione trobadorica e Minnesang, rispettivamente nelle aree mediterranea, occitana e germanica.
[13] Il flauto magico, II, 1.
[14] Ibid., I, 2.
[15] «Macché Sarastro, macché saggezza superiore, macché rivelazione!» (M. Mila, Lettura del Flauto magico, cit., p. 123).
[16] È particolarmente criticabile, almeno sotto questo profilo, l’adattamento cinematografico di Ingmar Bergman: tonache, lunghe barbe, immagini da Ultima cena… sono stilemi appartenenti alla sfera del religioso in generale e, più in particolare, di quanto si reputa comune al mistico.
[17] Il flauto magico, II, 1.
[18] Ibid., I, 18.
[19] Come non si può concepire limitante, rispetto a tale «intelligenza», l’adozione di una prospettiva che, quando non riconosce i propri limiti di competenza, si arroga la pretesa di affermare quali verità dogmaticamente indiscutibili le speciali posizioni relative a necessità del tutto contingenti, mutevoli in epoche, civiltà e culture differenti?
[20] Si tratta di quanto assurge, negli Alti Gradi dello Scozzesismo, a «vero coronamento per la Massoneria, che viene così radicalmente trasformata e vede il suo carattere artigianale – limitato per natura ai “piccoli misteri” – aperto all’influenza che emana dal principio che regge la doppia natura del potere temporale e dell’Autorità spirituale» (A. Bachelet, Denys Roman e «L’Arca vivente dei Simboli», in «Zenit – Rivista di massoneria e cultura simbolica», www.zen-it.com).
[21] Il flauto magico, II, 30.
[22] Per quanto riguarda l’ambientazione del Flauto magico, importerà mettere in risalto non tanto le fonti letterarie – dal Saggio sui misteri degli Egizi di Ignaz von Born, alle Favole egizie e greche svelate e ridotte agli stessi princìpi di Antoine-Joseph Pernety, al Sethos di Jean Terrasson, dal Corpo ermetico attribuito a Ermete Trismegisto all’Iside e Osiride di Plutarco, alle Metamorfosi di Apuleio, fino alla Biblioteca di Diodoro Siculo – che hanno consentito a Mozart e Schikaneder di rivelare (nella duplice accezione di «svelare» e «velare di nuovo»), presentati nelle apparenze di una tradizione scomparsa, alcuni aspetti del patrimonio simbolico e rituale della Libera Muratorìa, quanto, piuttosto, la possibilità di riflettere sul significato profondo di quegli stessi aspetti, in relazione alla loro universalità.
[23] Si pensi, per esempio, alla composizione per voce e pianoforte Beim Auszug in das Feld: «Poiché l’umanità tutta / viene dal gran Dio, / il pagano e il turco, il giudeo e il cristiano / sono dall’Imperatore accettati come suoi figli» (trad. it. in L. Bramani, Mozart massone e rivoluzionario, Bruno Mondadori, Milano 2005, p. 72).
[24] Beninteso, anche su un piano letterale si tratta di un viaggio alla ricerca della verità, non solo della fanciulla, in quanto Tamino si avvia all’intrapresa, su esortazione della Regina della Notte, immaginando Pamina come sottratta alla libertà da un tiranno, certo non preservata all’amore da un saggio sovrano.
[25] Alcuni commentatori hanno sottolineato che, tra le particolarità dell’opera, rispetto alla sua «fonte» – salvo, naturalmente, il fatto che in Lulu, a differenza di quanto avviene nel Flauto magico, non vi è alcun rovesciamento, in corso d’opera, dei ruoli di «buoni» e «cattivi» attribuiti inizialmente alla Regina della Notte e a Sarastro –, vi è lo scopo della missione che l’eroe si appresta a intraprendere: Tamino deve salvare la figlia della Regina della Notte; Lulu deve recuperare un «acciarino d’oro», fonte di potere, sottratto dal mago alla fata radiosa. Si tratta, in realtà, di una differenza riguardante solo l’espediente narrativo: infatti, anche in Lulu ci si imbatterà in una fanciulla rapita, come nel Flauto magico si parlerà di un «settemplice cerchio solare», simbolo evidente di autorità e maestria.
[26] Cfr. R. Guénon, Gli Stati molteplici dell’Essere, Edizioni Studi Tradizionali, Torino 1965, pp. 57-59.
[27] Cfr. R. Guénon, «Mâyâ», in Studi sull’Induismo, Luni Editrice, Milano 1996.
[28] Negli studi di taglio storico, si pone l’accento su una Regina della Notte intesa come passèisme da superare; non escludiamo tale lettura, perlomeno a un certo livello, ma quanto più importa crediamo sia proprio cogliere la simbologia metafisica dell’intreccio, cioè di realizzazione per il tramite della conoscenza.
[29] Il flauto magico, I, 19.
[2] F. Alfieri, Mozart. Il viaggio iniziatico nel «Flauto magico», Luni Editrice, Milano-Firenze 2006.
[3] Soprattutto, considerando a quali grotteschi esiti è stata in grado di pervenire la «scientificità» di tale approccio: «Sappiamo che la vera massoneria di Mozart non è quella, in cui lui credeva di credere, degli iniziati, ma è quella in cui crede con tutta spontaneità e naturalezza, dei poveri diavoli, della gentarella comune, dei bravi viennesi» (i corsivi sono nostri) (M. Mila, Lettura del Flauto magico, Einaudi, Torino 1989, p. 166).
[4] A riprova di questa «tensione» al superamento di ogni particolarismo, ecco un breve estratto del testo predisposto per Eine kleine teutsche Kantate, musicato da Mozart nel luglio 1791, contemporaneamente alla stesura del Flauto magico: «Voi che onorate il creatore dell’universo infinito, che lo chiamiate Jehova, o Dio, che lo chiamiate Fu o Brahma (…) Amate l’ordine, il senso delle proporzioni, l’armonia! (…) Spogliatevi dei travestimenti settari di cui l’umanità si è rivestita! (…) allora nel vostro deserto creerete la valle dell’Eden; allora tutta la natura sorriderà a voi; allora avrete raggiunto la vera felicità della vita» (F. H. Ziegenhagen, Die ihr des unermeßlichen Weltalls Schöpfer ehrt; trad. it. in A. Basso, L’invenzione della gioia, cit., p. 618)
[5] La fiaba sarebbe stata, almeno inizialmente, d’ispirazione alla stesura del libretto redatto da Emanuel Schikaneder, presumibilmente nell’ambito di un «lavoro collettivo» cui Mozart stesso aveva preso parte: un giovane principe, Tamino, è inviato da una regina, disegnata come personaggio positivo, a salvare una fanciulla (di lei figlia), rapita e tenuta prigioniera da un mago malvagio; per rendere possibile l’impresa, l’eroe riceve in dono un flauto magico. Nel Flauto magico, poi, ad accompagnare il protagonista è Papageno, l’ingenuo uccellatore «che si accontenta di dormire, mangiare e bere» (Il flauto magico, II, 3) e che, infatti, non potrà accedere alla conoscenza.
[6] Per quello che riguarda l’Occidente, d’altronde, i due esempi più noti in tal senso sono legati entrambi alla genesi del Flauto magico: il primo è la cosiddetta «cerca del Graal», nelle iniziazioni cavalleresche del Medio Evo, che tanta influenza avrà anche in ambito strettamente «culturale» sul mondo germanico; il secondo, è la ricerca della «Parola perduta» nell’iniziazione massonica.
[7] Il che, naturalmente, non implica affatto l’assenza di una esplicita volontà, da parte degli autori, nel rappresentare tali aspetti come fase culminante dell’opera: «I (nomi cancellati) oggi avevano un palco, e mostravano il loro consenso. Ma lui, l’onnisciente, si è mostrato così “bavarese” che non ho potuto rimanere, altrimenti gli avrei dato dell’asino. Sfortunatamente ero ancora accanto a lui all’inizio del secondo atto, e pure durante la scena solenne. Ha riso di tutto; all’inizio ho tentato, con pazienza, di richiamare la sua attenzione su alcune frasi, ma egli rideva sempre. Era troppo per me: l’ho chiamato Papageno e sono andato via. Non credo, però, che l’imbecille abbia capito» (il corsivo è nostro) (Lettera di W. A. Mozart alla moglie Konstanze, 8-9 ottobre 1791).
[8] Si tratta propriamente di «tenebre», lo svincolarsi dalle quali è totalmente precluso alla mentalità profana: nelle parole di Papageno, riferite al dominio della Regina della Notte, «quale occhio umano potrebbe guardare attraverso il suo velo intessuto di nero?» (Il flauto magico, I, 2).
[9] Il flauto magico, I, 15. – È questa la sintetica espressione di quanto Tamino dovrà comprendere nel corso del viaggio: il vero aspirante alla conoscenza di sé è un uomo perfettibile e l’opera che ha deciso di intraprendere non pone quale termine un’etica di comportamento o l’adozione di un particolare punto di vista; si tratta, invece, di spiegare come ali tutte le possibilità che l’essere umano reca già in sé, ma soffocate dall’esclusivismo della prospettiva profana.
[10] Per questo, rimandiamo al nostro Mozart. Il viaggio iniziatico nel «Flauto magico», studio nel quale abbiamo svolto l’interpretazione simbolica di tutte le scene, seguendo passo a passo lo sviluppo lineare dell’opera, sia sotto il profilo drammaturgico sia sotto il profilo musicale.
[11] Affrontando la questione da tale prospettiva, dovrebbe essere tanto «trasparente» la disposizione del tempio massonico, anche solo nelle sue implicite corrispondenze con l’organizzazione corporea dell’essere umano, da rendere inutili ulteriori specificazioni.
[12] Nella poetica propria ai «Fedeli d’Amore», velante sotto la sua superficie, nell’espediente letterario dell’«amor cortese», un senso profondo noto solo a chi ne possiede la chiave di lettura, la donna rappresenta propriamente il raggio celeste che illumina l’anima umana dal proprio centrum divino, vale a dire l’Intelletto trascendente che domina le facoltà di ordine individuale. In quest’ottica, non ci sembra azzardato ricondurre il «modello» del Flauto magico a quanto già espresso da stilnovismo, tradizione trobadorica e Minnesang, rispettivamente nelle aree mediterranea, occitana e germanica.
[13] Il flauto magico, II, 1.
[14] Ibid., I, 2.
[15] «Macché Sarastro, macché saggezza superiore, macché rivelazione!» (M. Mila, Lettura del Flauto magico, cit., p. 123).
[16] È particolarmente criticabile, almeno sotto questo profilo, l’adattamento cinematografico di Ingmar Bergman: tonache, lunghe barbe, immagini da Ultima cena… sono stilemi appartenenti alla sfera del religioso in generale e, più in particolare, di quanto si reputa comune al mistico.
[17] Il flauto magico, II, 1.
[18] Ibid., I, 18.
[19] Come non si può concepire limitante, rispetto a tale «intelligenza», l’adozione di una prospettiva che, quando non riconosce i propri limiti di competenza, si arroga la pretesa di affermare quali verità dogmaticamente indiscutibili le speciali posizioni relative a necessità del tutto contingenti, mutevoli in epoche, civiltà e culture differenti?
[20] Si tratta di quanto assurge, negli Alti Gradi dello Scozzesismo, a «vero coronamento per la Massoneria, che viene così radicalmente trasformata e vede il suo carattere artigianale – limitato per natura ai “piccoli misteri” – aperto all’influenza che emana dal principio che regge la doppia natura del potere temporale e dell’Autorità spirituale» (A. Bachelet, Denys Roman e «L’Arca vivente dei Simboli», in «Zenit – Rivista di massoneria e cultura simbolica», www.zen-it.com).
[21] Il flauto magico, II, 30.
[22] Per quanto riguarda l’ambientazione del Flauto magico, importerà mettere in risalto non tanto le fonti letterarie – dal Saggio sui misteri degli Egizi di Ignaz von Born, alle Favole egizie e greche svelate e ridotte agli stessi princìpi di Antoine-Joseph Pernety, al Sethos di Jean Terrasson, dal Corpo ermetico attribuito a Ermete Trismegisto all’Iside e Osiride di Plutarco, alle Metamorfosi di Apuleio, fino alla Biblioteca di Diodoro Siculo – che hanno consentito a Mozart e Schikaneder di rivelare (nella duplice accezione di «svelare» e «velare di nuovo»), presentati nelle apparenze di una tradizione scomparsa, alcuni aspetti del patrimonio simbolico e rituale della Libera Muratorìa, quanto, piuttosto, la possibilità di riflettere sul significato profondo di quegli stessi aspetti, in relazione alla loro universalità.
[23] Si pensi, per esempio, alla composizione per voce e pianoforte Beim Auszug in das Feld: «Poiché l’umanità tutta / viene dal gran Dio, / il pagano e il turco, il giudeo e il cristiano / sono dall’Imperatore accettati come suoi figli» (trad. it. in L. Bramani, Mozart massone e rivoluzionario, Bruno Mondadori, Milano 2005, p. 72).
[24] Beninteso, anche su un piano letterale si tratta di un viaggio alla ricerca della verità, non solo della fanciulla, in quanto Tamino si avvia all’intrapresa, su esortazione della Regina della Notte, immaginando Pamina come sottratta alla libertà da un tiranno, certo non preservata all’amore da un saggio sovrano.
[25] Alcuni commentatori hanno sottolineato che, tra le particolarità dell’opera, rispetto alla sua «fonte» – salvo, naturalmente, il fatto che in Lulu, a differenza di quanto avviene nel Flauto magico, non vi è alcun rovesciamento, in corso d’opera, dei ruoli di «buoni» e «cattivi» attribuiti inizialmente alla Regina della Notte e a Sarastro –, vi è lo scopo della missione che l’eroe si appresta a intraprendere: Tamino deve salvare la figlia della Regina della Notte; Lulu deve recuperare un «acciarino d’oro», fonte di potere, sottratto dal mago alla fata radiosa. Si tratta, in realtà, di una differenza riguardante solo l’espediente narrativo: infatti, anche in Lulu ci si imbatterà in una fanciulla rapita, come nel Flauto magico si parlerà di un «settemplice cerchio solare», simbolo evidente di autorità e maestria.
[26] Cfr. R. Guénon, Gli Stati molteplici dell’Essere, Edizioni Studi Tradizionali, Torino 1965, pp. 57-59.
[27] Cfr. R. Guénon, «Mâyâ», in Studi sull’Induismo, Luni Editrice, Milano 1996.
[28] Negli studi di taglio storico, si pone l’accento su una Regina della Notte intesa come passèisme da superare; non escludiamo tale lettura, perlomeno a un certo livello, ma quanto più importa crediamo sia proprio cogliere la simbologia metafisica dell’intreccio, cioè di realizzazione per il tramite della conoscenza.
[29] Il flauto magico, I, 19.
Nessun commento:
Posta un commento