A. K. Coomaraswamy
"Veramente questi sono i pensieri di tutti gli uomini in tutte le età e terre, non sono miei originali"
Walt Whitman
I
Il
Vedânta e la Tradizione Occidentale
"Veramente questi sono i pensieri di tutti gli uomini in tutte le età e terre, non sono miei originali"
Walt Whitman
I
Ci
sono stati maestri come Orfeo, Hermes, Buddha, Lao-tzu e Cristo, sulla cui
vicenda umana, così come ci viene tramandata, sono stati posti dei dubbi,
altri invece la cui vita non è adombrata dal loro stesso mito. Shankara, come
Plotino, San Agostino o Meister Eckhart, fu certamente un uomo tra gli uomini,
benché si conoscano con certezza poche cose della sua vita.
Era bramino per nascita, dell’India del sud, visse nella prima metà del secolo nono d. C., e fondò un ordine monastico che ancora sopravvive. Divenne veramente un sannyâsin o "uomo povero", all'età di otto anni, come discepolo di un certo Govinda e dello stesso mae-stro di Govinda, Gaudapâda, autore di un trattato sulle Upanishad in quale si espone la dottrina essenziale della non dualità dell'Essere divino. Shankara viaggiò fino a Benares e lì scrisse il famoso commento sul Brahma Sûtra all’età di dodici anni; i commenti sulle Upanishad e sulla Bhagavad Gîtâ furono scritti più tardi. La maggior parte della vita, il gran saggio, la passò errando per l'India, insegnando e prendendo parte a dibat-titi religiosi. Si ritiene che morisse tra i trenta ed i quaranta anni di età. Viaggi e dispute come le sue sono state sempre istituzioni caratteristicamente Indiane; ai suoi tempi, come ora, il sanscrito era la lingua franca degli uomini istruiti, giustamente come per secoli il latino fu la lingua franca dei paesi Occidentali, ed il di-battito pubblico libero era tanto generalmente riconosciuto che si erigevano sale per l'impiego di maestri e conferenzieri peripatétici in quasi tutte le corti.
Era bramino per nascita, dell’India del sud, visse nella prima metà del secolo nono d. C., e fondò un ordine monastico che ancora sopravvive. Divenne veramente un sannyâsin o "uomo povero", all'età di otto anni, come discepolo di un certo Govinda e dello stesso mae-stro di Govinda, Gaudapâda, autore di un trattato sulle Upanishad in quale si espone la dottrina essenziale della non dualità dell'Essere divino. Shankara viaggiò fino a Benares e lì scrisse il famoso commento sul Brahma Sûtra all’età di dodici anni; i commenti sulle Upanishad e sulla Bhagavad Gîtâ furono scritti più tardi. La maggior parte della vita, il gran saggio, la passò errando per l'India, insegnando e prendendo parte a dibat-titi religiosi. Si ritiene che morisse tra i trenta ed i quaranta anni di età. Viaggi e dispute come le sue sono state sempre istituzioni caratteristicamente Indiane; ai suoi tempi, come ora, il sanscrito era la lingua franca degli uomini istruiti, giustamente come per secoli il latino fu la lingua franca dei paesi Occidentali, ed il di-battito pubblico libero era tanto generalmente riconosciuto che si erigevano sale per l'impiego di maestri e conferenzieri peripatétici in quasi tutte le corti.
La
metafisica tradizionale a cui è vincolato il nome di Shankara è conosciuta bene
come Vedânta, un termine che appare nelle Upanishad
e che significa il "fine" dei Veda, «fine» significa contemporaneamente
sia «l’ultima parte» che «il significato cui si tende»; o come Âtmavidyâ, dottrina della conoscenza del
vero «sé» o «essenza spirituale»; o come Advaita,
«Non duale», un termine che, benché neghi la dualità, non fa affermazione
alcuna sulla natura dell'unità e che non deve essere inteso come se implicasse
qualcosa di simile al nostro monismo o panteismo.
In
questa metafisica si insegna Conoscenza o Gnosi, o jnâna. Shankara non fu in nessun senso il fondatore, scopritore, o
promulgatore di una religione o filosofia nuova; la sua grande opera come
espositore fu formata dalla dimostrazione dell'unità e consistenza della
dottrina vedica e da una spiegazione delle sue contraddizioni apparenti in una
correlazione di differenti formulazioni dei punti di vista impliciti in esse.
Per l’esattezza, ed esattamente come nella scolastica europea, distinse tra i
due avvicinamenti complementari a Dio, che sono quelli della teologia
affermativa e negativa. Nella via dell'affermazione, o di quella conoscenza
relativa, si predicano le qualità nell'Identità Suprema a causa di eccellenza,
mentre nella via della negazione tutte le qualità sono astratte.
Il
famoso «No, no» (neti-neti) delle
Upanishad che forma la base del metodo di Shankara, ed è lo stesso di quello
del Buddha, dipende di un riconoscimento della verità - espressa da Dante tra
molti altri - che ci sono cose che sono oltre la portata del pensiero
discorsivo e che non possono essere capite tranne se non negandole.
Lo
stile di Shankara è di gran originalità e forza, così come di gran
sottigliezza. Citerò del suo commento sulla Bhagavad
Gîtâ un passaggio che ha il vantaggio addizionale di introdurci
immediatamente al problema centrale del Vedânta
— quello della discriminazione di ciò che realmente esiste, cioè non solamente
«me stesso» secondo il nostro modo di pensare, - «Come è che», dice Shankara,
ci sono maestri che simili a uomini ordinari sostengono che «io sono tizio» e
che «Questo è mio». Ascolta: la causa della loro supposta erudizione consiste
nel pensare al proprio corpo come a «sé stessi».
Nel
Commento sul Brahma Sûtra enuncia con
solo quattro parole sanscrite quello che permea la metafisica Indû dal
principio alla fine: la dottrina che consiste nello Spirito immanente dentro il
corpo come il solo conoscitore, agente, e trasmigrante.
La
letteratura metafisica che è soggetto delle esposizioni di Shankara consiste
essenzialmente nei Quattro Veda
insieme ai Brâhmana ed alle Upanishad, considerate tutti come
sviluppi eterni del Veda, databili
relativamente alla loro prima recensione, prima del secolo V a.C., insieme alla
Bhagavad Gîtâ ed al Brahma Sûtra, databili prima dell’inizio
dell'era cristiana. Di questi libri, i Veda
sono liturgici, i Brâhmana spiegano
il rituale, e le Upanishad sono
dedicate alla dottrina di Brahma o Theologia Mystica, la quale si dà per
supposta nella liturgia e nel rituale. Il Brahma
Sûtra è un compendio molto condensato della dottrina delle Upanishad, la Bhagavad Gîtâ è un'esposizione adattata alla comprensione di quelli
la cui occupazione primaria è piuttosto in relazione con la vita attiva che con
la vita contemplativa.
Per
molte ragioni che tenterò spiegare, è molto più difficile esporre il Vedânta che non esporre il punto di
vista di un «pensatore» moderno, o di un pensatore come Platone o Aristotele.
Le lingue vernacolari moderne o il linguaggio filosofico o psicologico non ci
forniscono un vocabolario adeguato, neanche le attuali educazione e cultura
moderna ci forniscono le basi ideologiche che sarebbero essenziali per una
comunicazione migliore. Per parlare di metafisica bisogna fare uso di un
linguaggio puramente simbolico, astratto e tecnico, come se si stesse parlando
in termini matematici; ricordiamoci che Emile Mâle parla del simbolismo
cristiano come di un «calcolo». C'è però un grande vantaggio: il tema esposto
ed i simboli usati non sono più indù che greci o islamici o egiziani o
cristiani.
La
metafisica, in generale, ricorre a simboli visuali, (croci e cerchi, per
esempio) ma soprattutto al simbolismo della luce e del sole - che, come dice
Dante, “nessun altro oggetto dei sensi nel mondo intero è più degno di essere
fatto simbolo di Dio”. Ma usa anche termini tecnici come essenza e sostanza,
potenzialità ed atto, espirazione e inspirazione, somiglianza esemplare,
atemporalità[1], forma ed incidente. La
metempsicosi deve essere distinta della trasmigrazione ed entrambe dalla «reincarnazione».
Dovremo distinguere l'anima dallo spirito.
Prima
di sapere quando sia appropriato, se lo è qualche volta, tradurre una data
parola sanscrita con la nostra parola «anima» (anima, psiche) dobbiamo conoscere i molti modi in cui la parola «anima» è
stata usata nella tradizione europea; che tipo di anime possono essere «salvate»;
che tipo di anima Cristo ci chiede di «odiare» se siamo suoi discepoli; a quale
tipo di anima si riferisce Mastro Eckhart quando dice che l'anima deve «arrendersi
alla morte». Dobbiamo sapere quello che intende per «anima» Filone; e chiederci
come possiamo concepire gli animali «senza anima», quando la stessa parola «animale»
significa letteralmente «animato» o «dotato di anima». Dobbiamo distinguere
essenza da esistenza. O coniare una parola come «ora-sempre» per esprimere i
significati pieni ed originali di parole come «improvvisamente», «immediatamente»
e «istantaneamente».
La
letteratura sacra dell’India è accessibile alla maggior parte di noi solo in
traduzioni fatte per eruditi esperti più in linguistica che in metafisica; ed è
stata esposta e spiegata - o come piuttosto direi, spiegata dal di fuori -
principalmente da eruditi che partivano da presupposti naturalisti e
antropologici, le cui capacità intellettuali dipendevano totalmente dalla loro
stessa capacità di osservazione da non poter più distinguere la realtà
dell'apparenza, il Sole Supremo della metafisica dal sole fisico della loro
esperienza.
A
parte questi, la letteratura indù è stata studiata e spiegata da propagandisti
cristiani il cui interesse principale era dimostrare la falsità ed assurdità
delle dottrine implicite, o da teosofisti da cui le dottrine sono state
caricaturate, magari con le migliori intenzioni ma con risultati ancor
peggiori.
D'altra
parte, oggigiorno, una persona di cultura media, è completamente fuori da ogni
contatto con quel modo del pensiero europeo e con quegli aspetti intellettuali
della dottrina cristiana che più si avvicinano a quelli della tradizione
Vedica. Una conoscenza del cristianesimo moderno sarà di scarsa utilità perchè
la sentimentalità fondamentale dei nostri tempi ha ridotto quello che una volta
era una dottrina intellettuale ad una mera moralità che appena può essere
distinta da un umanesimo pragmatico. Di un europeo difficilmente si può dire
che sia adeguatamente preparato per lo studio del Vedânta a meno che non abbia
acquisito qualche conoscenza e comprensione come minimo di Platone, Filone,
Hermes, Plotino, i Vangeli, specialmente quello di San Giovanni, San Dionisio e
finalmente di Meister Eckhart che, con la possibile eccezione di Dante, può
essere considerato, da un punto di vista indù, come il più grande di tutti gli
europei.
Il
Vedânta non è una «filosofia» nel
senso corrente della parola, bensì solamente nel senso che ha la parola nella
frase «Filosofia Perenne», e solamente se abbiamo nella mente la «filosofia»
ermetica o quella «Saggezza» con cui Boezio fu consolato. Le filosofie moderne
sono sistemi chiusi che usano il metodo della dialettica, e che danno per
stabilito che gli opposti sono mutuamente esclusivi. Nella filosofia moderna le
cose sono così o non sono così; nella filosofia eterna questo dipende dal
nostro punto di vista. La metafisica non è un sistema, bensì una dottrina
consistente; non è assolutamente interessata all'esperienza condizionata e
quantitativa, bensì alla possibilità universale. Quindi considera possibilità
che non possono essere possibilità di manifestazione o possibilità formali,
come insiemi di possibilità che possono realizzarsi in un dato mondo. La realtà
ultima della metafisica è una Identità Suprema in cui l'opposizione di tutti i
contrari, compresa quella dell'essere e del non-essere, è risolta; i suoi «mondi»
e «Dei» sono livelli di riferimento ed entità simboliche che non sono luoghi o
individui (financo supremi) bensì stati dell'essere realizzabili dentro di se.
I
filosofi hanno teorie personali sulla natura del mondo; la «disciplina
filosofica» è primariamente uno studio della storia di queste opinioni e delle
loro connessioni storiche. La nostra cultura incoraggia il filosofo in fiore ad
avere sue proprie opinioni, con l'aspettativa che possano rappresentare un
miglioramento di teorie precedenti. Non consideriamo, come fa la Filosofia
Perenne, la possibilità di conoscere d'un colpo la Verità Unica; ed ancora meno
erigiamo davanti a noi, come la nostra meta, diventare questa verità.
La
«filosofia» metafisica si chiama «perenne» a causa della sua eternità,
universalità ed immutabilità; è la “Saggezza increata, la stessa che fu sempre
e che sempre sarà” di San Agostino; la religione che - come lui asserisce -
venne a chiamarsi «cristianesimo» solamente dopo la venuta di Cristo. Quello
che fu rivelato in principio contiene implicitamente tutta la verità; e mentre
la tradizione si trasmette senza deviazioni, in altre parole, mentre la catena
di maestri e discepoli rimane senza rotture, né l'inconsistenza né l'errore
sono possibili. D'altra parte, la comprensione della dottrina deve rinnovarsi
perpetuamente; questo non è una questione di parole. Che la dottrina non abbia
nessuna storia non esclude in alcun modo la possibilità, o meglio la necessità,
di un perpetuo chiarimento delle sue formule, di un adattamento dei riti
praticati originariamente, e di un'applicazione dei suoi principi alle arti e
le scienze. Quanto più l'umanità declina dalla sua primordiale
auto-sufficienza, tanto più sorge la necessità di un tale impegno. È possibile
fare una storia di queste esplicitazioni ed adattamenti. Si stabilisce così una
distinzione tra quello che fu «ascoltato» nel principio e quello che è stato «ricordato».
Una
deviazione o eresia è possibile solo quando l'insegnamento essenziale è stato
incompreso o pervertito in qualche aspetto. Dire, per esempio, che “io sono
panteista” è semplicemente confessare che “io non sono un metafisico”, allo
stesso modo che dire che “due più due è uguale a cinque” sarebbe confessare che
“io non sono un matematico”. Dentro la tradizione non possono esserci teorie o
dogmi contraddittori o mutualmente esclusivi. Per esempio, quelli che sono
chiamati i «sei sistemi della filosofia indû», una frase nella quale solamente
le parole «sei» e «indiana» sono giustificate, perché non si tratta di teorie
mutualmente contradditorie ed esclusive. Dire che si tratta di «sistemi» può
essere più o meno ortodosso per la matematica, la chimica o la botanica, le
quali, benché discipline scientifiche più o meno separate tra loro, non sono
altro che rami di una «scienza» unica. In India si usa il termine «rami» per
indicare quelli che l'indologo fraintende come «sette» o «sistemi chiusi». Si
deve precisamente al fatto che non ci sono «sette» nel campo dell'ortodossia
braminica, un'intolleranza in senso europeo è stata virtualmente sconosciuta
nel storia indiana — e per la stessa ragione, è altrettanto facile per me
pensare ai termini della filosofia ermetica e nei termini del Vedânta. Sono «rami» poiché niente può
essere conosciuto eccetto nel modo del conoscitore; tanto più fermamente
capiamo che tutte le strade conducono all'unico Sole, è altrettanto evidente
che ogni uomo deve scegliere quella strada che comincia in quel punto in cui si
trova nel momento di partire. Per le stesse ragioni, l’induismo non è mai stato
una fede missionaria. Può essere vero che la tradizione metafisica si sia
conservata meglio e più completamente in India che in Europa. Se è così, ciò
significa solo che il cristiano può imparare del Vedânta come comprendere meglio la sua propria «via».
Il
filosofo spera di provare i suoi punti. Per il metafisico è sufficiente mostrare
che una dottrina che si suppone falsa implica una contraddizione dei principi
primi. Per esempio, un filosofo che argomenta per l'immortalità dell'anima si
sforza di scoprire le prove della sopravvivenza della personalità; per il
metafisico è sufficiente ricordare che “il primo principio deve essere lo
stesso che il fine ultimo” - da cui consegue che un'anima, essendo stata come
creata nel tempo, non può altro che avere la sua fine nel tempo. Il metafisico
non può essere convinto da nessuna ipotetica “prova della sopravvivenza della
personalità”, in maggiore misura di quello che potrebbe essere convinto un
fisico da una probabile prova della possibilità di una macchina dal moto
perpetuo. Inoltre, la metafisica tratta nella sua maggiore parte con materie
che non posso-no essere provate pubblicamente, ma solamente possono essere
dimostrate, cioè, diventare intelligibili per analogia e che, benché verificate
nell'esperienza personale, possono solo essere espresse in termini di simbolo o
come miti. Allo stesso tempo, la fede diventa relativamente facile proprio per
la logica infallibile dei testi stessi - che sono la sua bellezza ed il suo
potere attraente. Ricordiamo la definizione cristiana della fede: l'assenso ad
una proposta «credibile». Uno deve credere per comprendere, e comprendere per
credere. Tuttavia, questi non sono atti successivi, bensì atti simultanei della
mente. In altre parole, non ci può essere conoscenza di un qualcosa a cui la
volontà nega il suo consenso, o amore per qualcosa che non è stato conosciuto.
La
metafisica si distingue ancor di più dalla filosofia che ha un proposito puramente
pratico. Non è una ricerca della verità per la verità, come le arti a lei
vincolate non sono una ricerca dell'arte per l'arte, o come la condotta a lei
vincolata non è una ricerca della moralità per la moralità. Ha certamente uno
sviluppo, ma il cercatore conosce già, nella misura in cui questo può
esprimersi in parole cos’è quello che cerca; la ricerca è finita solamente
quando egli stesso è divenuto l'oggetto della sua ricerca. Né la conoscenza
verbale, né un assenso puramente formale, né una condotta impeccabile hanno più
valore di una disposizione, indispensabile - sono solo mezzi verso un fine.
Presi
nella loro materialità, in quanto «letteratura», i testi ed i simboli sono
inevitabilmente incompresi da quelli che non sono loro stessi coinvolti in
questa ricerca. Senza eccezione, i termini e simboli metafisici sono i termini
tecnici della caccia. Non sono mai ornamenti letterari, e Malinowski l'ha detto
tanto bene in un'altra occasione: “Il linguaggio tecnico, nel campo della
ricerca pratica, acquisisce il suo significato solamente attraverso la
partecipazione personale in quel tipo di ricerca”. È per questo che, come
l'indiani sostengono, i testi del Vedânta
sono stati compresi solamente in modo verbale e grammaticale, ma non realmente,
da quegli eruditi europei i cui metodi di studio sono confessatamente oggettivi
e senza un coinvolgimento interiore di ricerca. Il Vedânta può essere conosciuto solo nella misura in cui è stato
vissuto. Quindi, l'indiano non può fidarsi di un maestro la cui dottrina non si
riflette direttamente nel suo essere stesso. C'è qui qualcosa di molto lontano
del moderno concetto europeo di erudizione.
Dobbiamo
aggiungere, all'attenzione di quelli che hanno nozioni romantiche sul «oriente
misterioso» che il Vedânta non ha
niente a che vedere con la magia o con l'esercizio di poteri nascosti. È certo
che l'efficacia del procedimento magico e l'effettività dei poteri nascosti in
India si danno per scontati. Ma la magia è considerata come una scienza
applicata di tipo infimo; e benché nel corso della pratica contemplativa si acquisiscono
incidentalmente poteri nascosti, tali come quello dell'operazione «a distanza»,
il suo uso - a meno di circostanze eccezionali - è considerato come una
pericolosa deviazione dalla via.
Il
Vedânta non è un tipo di psicologia
né lo Yoga è una felice terapia se
non molto accidentalmente. La salute fisica e morale sono prerequisiti per il
progresso spirituale. L'analisi psicologica si impiega solamente per rompere la
nostra viziata fede nell'unità ed immaterialità della «anima», e aspirando a
distinguere meglio lo spirito di quello che non è lo spirito ma solamente una
manifestazione psicofisica temporale di una tra le più limitate delle sue
modalità. Chiunque insista, come Jung, nell’interpretare le essenze della
metafisica indiana o cinese con la psicologia sta solamente distorcendo il
significato dei testi. La psicologia moderna, da un punto di vista indù, ha
quasi gli stessi valori che si attribuiscono allo spiritismo e alla magia e ad
altre «superstizioni». In ultimo è importante specificare che la metafisica, il
Vedânta, non è una forma di misticismo,
eccetto nel senso in cui, con Dionisio possiamo parlare di una teologia
mistica. Quello che si intende ordinariamente per «misticismo» implica una
ricettività passiva – “dobbiamo concedere che le cose accadano nella psiche” è
il modo di Jung per definire il misticismo, e con questa affermazione egli
stesso si proclama un «mistico». Ma la metafisica ripudia la psiche
interamente. Le parole di Cristo, che “Nessun uomo può essere il mio discepolo
se non odia la sua stessa anima”, sono state dette ed in più di un’occasione da
tutti i guru indiani; e ben lungi dall’implicare passività, la pratica
contemplativa implica un'attività che si confronta comunemente all'ardore di un
fuoco ad una temperatura tanto alta da non mostrare né tremolio né fumo. Il
pellegrino è definito un «affannato», ed il ritornello caratteristico della
canzone del pellegrino è «proseguire, andare avanti». La «Via» del vedantista è
soprattutto un'attività.
[1] Signore dell’atemporalità: Il Purushasukta
afferma la trascendenza del Purusha
in termini che possono essere accostati ad altri inni, nel Brahmana e Upanishad . In
quella stanza, come abbiamo visto, è la «persona nel Sole», «è tutte le
esistenze» (visva Bhutani), questo
mondo, sia passato e futuro. L'ultima espressione corrisponde a “quanto è stato
fatto e sarà fatto” nel Rig Veda Samhita
I.25.11, Varuna è descritto come se stesse operando “ab extra”, nel Sole, come risulta dalle espressioni di “visibile a
distanza", “splendente per una veste d'oro”, “che indossava una veste
brillante”,”sul trono dell’impero universale” e stando così assiso, (idem II) “Da
lì, Lui che conosce tutte le cose nascoste, osserva ciò che è stato fatto e
verrà fatto ancora. Nel Rig Veda Samhita
X.88.13-14, si dice che sia una vecchia stella, osservatore degli Yaksha, Agni
Vaishvanara «ha» superato il Cielo e la Terra in potenza è detto un angelo
quaggiû e nell'aldilà. Passando sopra molti altri paralleli che potrebbero
essere citati, questo ci riporta a Purushasukta
, dove, nei versetti 2 e 3, abbiamo “Non importa quanto sia grande il potere
del Signore dell’atemporalità (il Sole) quando vi è di alimenti ulteriormente è
la persona”, come in versi 1 e 5, ha detto di" trascende il spazio di dieci
dita «e» supera la Terra”, dove, come al solito, «Terra»", l'intera «terreno»
di esistenza. Aitareya Aranyaka
II.3.3, dove Purusha trascende
l'universo intero, in precedenza, dipende ovviamente dai testi precedenti, e
non c'è nulla in esposizioni delle Upanishad, anche se più dettagliata si può
dire che a questo importo. Metafisica
844: Maha Purusha, «la suprema
identità».