"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

martedì 4 novembre 2014

René Guénon, Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi - 9. Il doppio senso dell’anonimato

René Guénon
Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi 

9. Il doppio senso dell’anonimato

A proposito della concezione tradizionale dei mestieri, che fa tutt’uno con quella delle arti, dobbiamo segnalare un’altra questione importante: le opere dell’arte tradizionale, ad esempio quella medioevale, sono generalmente anonime, ed è del tutto recente il tentativo, frutto dell’«individualismo» moderno, di attribuire taluni nomi conservati dalla storia a capolavori noti, tentativo che conduce ad «attribuzioni» spesso fortemente ipotetiche.
Questo anonimato è precisamente l’opposto della preoccupazione, costante negli artisti moderni, di affermare e di far conoscere a tutti i costi la propria individualità.
Qualche osservatore superficiale potrebbe forse pensare che ciò sia comparabile al carattere ugualmente anonimo dei prodotti industriali di oggi, benché questi non siano certamente «opere d’arte» ad alcun titolo; ma la verità è un’altra, perché, se effettivamente c’è anonimato in entrambi i casi, è per ragioni esattamente contrarie. Avviene per l’anonimato come per tutte quelle cose le quali, secondo l’analogia inversa, possono essere prese contemporaneamente, sia in senso superiore, sia in senso inferiore; è così per esempio che, in un’organizzazione sociale tradizionale, un essere può essere fuori dalle caste in due modi, o perché al di sopra di esse (ativarna), o perché al di sotto (avarna), ed è evidente che tali eventualità sono agli estremi opposti. Analogamente, quei moderni che si considerano fuori da ogni religione sono all’estremo opposto di quegli uomini i quali, avendo penetrato l’unità principiale di tutte le tradizioni, non sono più esclusivamente legati ad una particolare forma tradizionale.[1] In rapporto alle condizioni dell’umanità normale, o dell’umanità «media» in certo qual modo, gli uni si trovano al di qua e gli altri al di là; gli uni, si potrebbe dire, sono caduti nell’«infraumano», mentre gli altri si sono elevati al «sopraumano». Ordunque, l’anonimato può caratterizzare l’«infraumano» altrettanto bene che il «sopraumano»; il primo caso è quello dell’anonimato moderno, anonimato della folla o della «massa» nel senso in cui la si intende oggi (ed è ben significativo che si usi una parola così nettamente quantitativa come «massa»), mentre il secondo è quello dell’anonimato tradizionale nelle sue diverse applicazioni, ivi compresa quella concernente le opere d’arte.
Per un’esatta comprensione di quanto precede, occorre fare appello ai principi dottrinali che sono comuni a tutte le tradizioni: l’essere che ha conseguito uno stato sovraindividuale è per ciò stesso liberato da tutte le condizioni limitative dell’individualità, egli cioè è al di là delle determinazioni di «nome e forma» (nâma-rûpa) che costituiscono l’essenza e la sostanza di questa individualità come tale; egli è dunque veramente «anonimo», perché in lui l’«io» si è cancellato ed è completamente sparito di fronte al «Sé».[2] Quelli che non hanno effettivamente conseguito uno stato del genere devono nondimeno, nella misura delle proprie possibilità, cercare di ottenerlo, e per conseguenza, nella stessa misura, la loro attività dovrà imitare questo anonimato ed in certo qual modo parteciparvi, se così si può dire, il che d’altronde fornirà un «supporto» alla loro successiva realizzazione spirituale. Questo è visibile specialmente nelle istituzioni monastiche, che si tratti del Cristianesimo o del Buddhismo, dove ciò che si potrebbe chiamare la «pratica» dell’anonimato è costantemente osservata, anche se spesso se ne dimentica il significato profondo. Ma non si creda che il riflesso dell’anonimato nell’ordine sociale si limiti a questo caso particolare: ciò equivarrebbe a farsi ingannare dall’abitudine di distinguere fra «sacro» e «profano», distinzione che, diciamolo ancora una volta, non esiste ed è anzi priva di senso nelle società strettamente tradizionali. Quanto abbiamo detto del carattere «rituale» che in esse riveste tutta l’attività umana lo spiega a sufficienza, e, per quel che riguarda particolarmente i mestieri, abbiamo visto che questo carattere è tale che si è potuto parlare in merito di «sacerdozio»; nulla di stupefacente dunque che l’anonimato vi sia di regola, perché ciò rappresenta la vera conformità a quell’«ordine» che l’artifex deve cercare di realizzare il più perfettamente possibile in tutte le sue opere.
A questo punto si potrebbe sollevare una obiezione: se il mestiere deve essere conforme alla natura di colui che lo esercita, l’opera prodotta, abbiamo detto, esprimerà necessariamente questa natura, e potrà esser riguardata come perfetta nel suo genere, o costituente un «capolavoro», quando la esprimerà in maniera adeguata; orbene, la natura in questione è l’aspetto essenziale dell’individualità, cioè quello che si definisce mediante il «nome»: non si tratta forse di qualcosa che pare andare direttamente al rovescio dell’anonimato? Per rispondere bisogna anzitutto fare osservare che, a dispetto di tutte le false interpretazioni occidentali su nozioni come quelle di Moksha e di Nirvâna, l’estinzione dell’«io» non è in alcun modo una annichilazione dell’essere, ma al contrario essa implica una specie di «sublimazione» delle sue possibilità (diversamente, osserviamolo di sfuggita, la stessa idea di «resurrezione» non avrebbe alcun senso); senza dubbio l’artifex che si trova ancora nello stato individuale umano non può che tendere verso una simile «sublimazione», ma il fatto di conservare l’anonimato sarà appunto per lui il segno di questa tendenza «trasformante». Del resto si può anche dire che, in rapporto alla società stessa, non è in quanto «tal dei tali» che l’artifex produce la propria opera, ma in quanto egli svolge una determinata «funzione»; a questa, che è d’ordine veramente «organico» e non «meccanico» (il che pone in luce la differenza fondamentale con l’industria moderna), egli deve, nel suo lavoro, identificarsi per quanto possibile; e tale identificazione, oltre ad essere il mezzo della sua «ascesi», caratterizza in certo qual modo la misura della sua partecipazione effettiva all’organizzazione tradizionale, poiché è in virtù dell’esercizio stesso del suo mestiere che egli è incorporato a quest’ultima e che vi occupa il posto che propriamente conviene alla sua natura. Per cui, da qualsiasi parte si considerino le cose, l’anonimato si impone in qualche modo come norma; ed anche se tutto ciò che esso implica in principio non può essere effettivamente realizzato, dovrà per lo meno esistere un anonimato relativo nel senso che, soprattutto ove ci sia un’iniziazione basata sul mestiere, l’individualità profana o «esteriore», definita come «tale figlio di tal altro» (nâma-gotra), sparirà per tutto ciò che si riferisce all’esercizio di quel mestiere.[3]
Se ora passiamo all’altro estremo, quello rappresentato dall’industria moderna, vediamo che l’operaio vi è sì altrettanto anonimo, ma perché ciò che egli produce non esprime niente di lui stesso ed in realtà non è neanche opera sua, essendo puramente «meccanica» la funzione che egli svolge in tale produzione. In definitiva, l’operaio come tale non ha in realtà alcun «nome», perché, nel suo lavoro, egli non è che una semplice «unità» numerica senza qualità proprie, la quale potrebbe essere sostituita da un’altra «unità» equivalente, cioè da qualsiasi altro operaio, senza che nulla cambi nel prodotto di tale lavoro;[4] e così, come dicevamo prima, la sua attività non ha più niente di veramente umano, anzi, ben lungi dal tradurre o per lo meno dal riflettere qualcosa di «sopraumano», essa è ridotta all’«infraumano», nel quale ambito essa tende verso il grado più basso, cioè verso una modalità tanto quantitativa, quanto è possibile realizzarla nel mondo manifestato. L’attività «meccanica» dell’operaio rappresenta del resto solo un caso particolare (e però il più tipico, allo stato attuale, in quanto l’industria è il campo in cui le concezioni moderne sono riuscite più completamente ad esprimersi) di quel singolare «ideale» che i nostri contemporanei vorrebbero arrivare ad imporre a tutti gli individui umani ed in tutte le circostanze della loro esistenza; si tratta di una conseguenza immediata della tendenza cosiddetta «egualitaria», della tendenza cioè a quell’uniformità che esige di trattare gli individui come semplici «unità» numeriche, in modo da realizzare l’«eguaglianza» dal basso, poiché, «al limite», questo è il solo senso in cui essa possa essere realizzata, cioè in cui sia possibile, se non di raggiungerla di fatto (essendo essa contraria, come abbiamo visto, alle condizioni stesse di ogni esistenza manifestata), almeno di avvicinarcisi sempre di più e indefinitamente, finché si sia raggiunto il «punto di arresto» che segnerà la fine del mondo attuale.
Se ci si chiede che cosa diventi l’uomo in tali condizioni, vediamo che, a causa della sempre più accentuata predominanza in lui della quantità sulla qualità, egli è per così dire ridotto al suo aspetto sostanziale, cioè al rûpa della dottrina indù (ed in effetti non è possibile che egli perda la forma, quella cioè che definisce l’individualità come tale, senza perdere di conseguenza ogni esistenza), il che equivale a dire che egli è quasi esclusivamente quel che il linguaggio corrente chiamerebbe un «corpo senz’anima», e ciò nel senso più letterale dell’espressione. In un individuo del genere, l’aspetto qualitativo o essenziale è quasi completamente sparito (diciamo quasi perché tale limite non può essere raggiunto in realtà); e poiché questo aspetto è proprio quello designato come nâma, questo individuo non ha veramente più un «nome» che gli sia proprio, perché è come svuotato delle qualità che quel nome deve esprimere; egli è dunque realmente «anonimo», ma nel significato inferiore del termine. Si tratta dell’anonimato della «massa» di cui l’individuo fa parte ed in cui si perde, «massa» che è soltanto una collezione di individui simili, tutti considerati come altrettante «unità» aritmetiche pure e semplici; è pur vero che tali «unità» possono essere contate, in modo da valutare numericamente la collettività che esse formano, ma non si può minimamente dare a ciascuna di esse una denominazione che implichi, per qualche differenza qualitativa, una distinzione dalle altre.
Abbiamo detto che l’individuo si perde nella «massa», o che per lo meno tende sempre di più a perdervisi; questa «confusione» nella molteplicità quantitativa corrisponde ancora, per inversione, alla «fusione» nell’unità principiale. In quest’ultima l’essere possiede tutta la pienezza delle sue passibilità «trasformate», cosicché si può dire che la distinzione, intesa in senso qualitativo, vi è spinta al massimo grado, pur essendo contemporaneamente sparita qualsiasi separazione.[5] Nella quantità pura, al contrario, la separazione è al massimo perché ivi risiede il principio stesso della «separatività», e d’altronde l’essere è evidentemente tanto più «separato» e più chiuso in se stesso, quanto più le sue possibilità sono maggiormente limitate, cioè in quanto il suo aspetto essenziale comporta meno qualità; ma contemporaneamente, data la sua sempre maggiore indistinzione qualitativa in seno alla «massa», egli tende veramente a confondersi in essa. La parola «confusione» è qui tanto più appropriata in quanto evoca la indistinzione tutta potenziale del «caos», ed in effetti si tratta proprio di questo dal momento che l’individuo tende a ridursi al suo solo aspetto sostanziale, cioè, come la chiamerebbero gli Scolastici, ad una «materia senza forma» ove tutto è in potenza e niente è in atto, cosicché il termine ultimo, se lo si potesse raggiungere, sarebbe una vera «dissoluzione» di quanto nell’individualità vi è di realtà positiva; e, proprio in virtù dell’estrema opposizione esistente tra l’una e l’altra, questa confusione degli esseri nell’uniformità appare come una sinistra e «satanica» parodia della loro fusione nell’unità.


[1] Costoro potrebbero dire con Mohyiddîn ibn Arabi: «Il mio cuore è diventato capace di ogni forma: esso è un pascolo per le gazzelle ed un convento per i monaci cristiani, un tempio per gli idoli e la Kaabah del pellegrino, la tavola della Thorah ed il libro del Corano. Io seguo la religione dell’Amore, qualunque strada prendano i suoi cammelli; la mia religione e la mia fede sono la vera religione».

[2] A questo proposito vedasi A.K. Coomaraswamy, Âkimchanna: Selfnaughting, in «The New Indian Antiquary», aprile 1940.

[3] Ciò spiega per quale motivo, in certe iniziazioni di mestiere quale il Compagnonnage, come del resto negli ordini religiosi, è proibito designare un individuo mediante il suo nome profano; vi è ancora un nome, quindi un’individualità, ma è un’individualità già «trasformata», almeno virtualmente, per il fatto stesso dell’iniziazione.

[4] Può esserci solamente una differenza quantitativa, in quanto un operaio può lavorare più o meno rapidamente di un altro (ed in questa rapidità consiste in fondo tutta l’«abilità» che gli si richiede); ma dal punto di vista qualitativo, il prodotto del lavoro sarà sempre uguale, essendo determinato non dalla concezione mentale dell’operaio, o dalla sua abilità manuale a dare ad esso una forma esteriore, ma unicamente dall’azione della macchina di cui egli deve soltanto assicurare il funzionamento.


[5] È il significato dell’espressione di Eckhart «fuso, ma non confuso», che Coomaraswamy, nell’articolo succitato, pone assai giustamente in relazione con quello del termine sanscrito bhêdâbhêda, «distinzione senza differenza», cioè senza separazione.

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