Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi
9.
Il doppio senso dell’anonimato
A proposito della concezione tradizionale dei mestieri, che
fa tutt’uno con quella delle arti, dobbiamo segnalare un’altra questione
importante: le opere dell’arte tradizionale, ad esempio quella medioevale, sono
generalmente anonime, ed è del tutto recente il tentativo, frutto
dell’«individualismo» moderno, di attribuire taluni nomi conservati dalla
storia a capolavori noti, tentativo che conduce ad «attribuzioni» spesso fortemente
ipotetiche.
Questo anonimato è precisamente l’opposto della preoccupazione, costante negli artisti moderni, di affermare e di far conoscere a tutti i costi la propria individualità.
Qualche osservatore superficiale potrebbe forse pensare che ciò sia comparabile al carattere ugualmente anonimo dei prodotti industriali di oggi, benché questi non siano certamente «opere d’arte» ad alcun titolo; ma la verità è un’altra, perché, se effettivamente c’è anonimato in entrambi i casi, è per ragioni esattamente contrarie. Avviene per l’anonimato come per tutte quelle cose le quali, secondo l’analogia inversa, possono essere prese contemporaneamente, sia in senso superiore, sia in senso inferiore; è così per esempio che, in un’organizzazione sociale tradizionale, un essere può essere fuori dalle caste in due modi, o perché al di sopra di esse (ativarna), o perché al di sotto (avarna), ed è evidente che tali eventualità sono agli estremi opposti. Analogamente, quei moderni che si considerano fuori da ogni religione sono all’estremo opposto di quegli uomini i quali, avendo penetrato l’unità principiale di tutte le tradizioni, non sono più esclusivamente legati ad una particolare forma tradizionale.[1] In rapporto alle condizioni dell’umanità normale, o dell’umanità «media» in certo qual modo, gli uni si trovano al di qua e gli altri al di là; gli uni, si potrebbe dire, sono caduti nell’«infraumano», mentre gli altri si sono elevati al «sopraumano». Ordunque, l’anonimato può caratterizzare l’«infraumano» altrettanto bene che il «sopraumano»; il primo caso è quello dell’anonimato moderno, anonimato della folla o della «massa» nel senso in cui la si intende oggi (ed è ben significativo che si usi una parola così nettamente quantitativa come «massa»), mentre il secondo è quello dell’anonimato tradizionale nelle sue diverse applicazioni, ivi compresa quella concernente le opere d’arte.
Questo anonimato è precisamente l’opposto della preoccupazione, costante negli artisti moderni, di affermare e di far conoscere a tutti i costi la propria individualità.
Qualche osservatore superficiale potrebbe forse pensare che ciò sia comparabile al carattere ugualmente anonimo dei prodotti industriali di oggi, benché questi non siano certamente «opere d’arte» ad alcun titolo; ma la verità è un’altra, perché, se effettivamente c’è anonimato in entrambi i casi, è per ragioni esattamente contrarie. Avviene per l’anonimato come per tutte quelle cose le quali, secondo l’analogia inversa, possono essere prese contemporaneamente, sia in senso superiore, sia in senso inferiore; è così per esempio che, in un’organizzazione sociale tradizionale, un essere può essere fuori dalle caste in due modi, o perché al di sopra di esse (ativarna), o perché al di sotto (avarna), ed è evidente che tali eventualità sono agli estremi opposti. Analogamente, quei moderni che si considerano fuori da ogni religione sono all’estremo opposto di quegli uomini i quali, avendo penetrato l’unità principiale di tutte le tradizioni, non sono più esclusivamente legati ad una particolare forma tradizionale.[1] In rapporto alle condizioni dell’umanità normale, o dell’umanità «media» in certo qual modo, gli uni si trovano al di qua e gli altri al di là; gli uni, si potrebbe dire, sono caduti nell’«infraumano», mentre gli altri si sono elevati al «sopraumano». Ordunque, l’anonimato può caratterizzare l’«infraumano» altrettanto bene che il «sopraumano»; il primo caso è quello dell’anonimato moderno, anonimato della folla o della «massa» nel senso in cui la si intende oggi (ed è ben significativo che si usi una parola così nettamente quantitativa come «massa»), mentre il secondo è quello dell’anonimato tradizionale nelle sue diverse applicazioni, ivi compresa quella concernente le opere d’arte.
Per un’esatta comprensione di quanto precede, occorre fare
appello ai principi dottrinali che sono comuni a tutte le tradizioni: l’essere
che ha conseguito uno stato sovraindividuale è per ciò stesso liberato da tutte
le condizioni limitative dell’individualità, egli cioè è al di là delle
determinazioni di «nome e forma» (nâma-rûpa)
che costituiscono l’essenza e la sostanza di questa individualità come tale;
egli è dunque veramente «anonimo»,
perché in lui l’«io» si è cancellato ed è completamente sparito di fronte al «Sé».[2]
Quelli che non hanno effettivamente conseguito uno stato del genere devono
nondimeno, nella misura delle proprie possibilità, cercare di ottenerlo, e per
conseguenza, nella stessa misura, la loro attività dovrà imitare questo
anonimato ed in certo qual modo parteciparvi, se così si può dire, il che
d’altronde fornirà un «supporto» alla loro successiva realizzazione spirituale.
Questo è visibile specialmente nelle istituzioni monastiche, che si tratti del
Cristianesimo o del Buddhismo, dove ciò che si potrebbe chiamare la «pratica»
dell’anonimato è costantemente osservata, anche se spesso se ne dimentica il
significato profondo. Ma non si creda che il riflesso dell’anonimato
nell’ordine sociale si limiti a questo caso particolare: ciò equivarrebbe a
farsi ingannare dall’abitudine di distinguere fra «sacro» e «profano»,
distinzione che, diciamolo ancora una volta, non esiste ed è anzi priva di
senso nelle società strettamente tradizionali. Quanto abbiamo detto del
carattere «rituale» che in esse riveste tutta l’attività umana lo spiega a
sufficienza, e, per quel che riguarda particolarmente i mestieri, abbiamo visto
che questo carattere è tale che si è potuto parlare in merito di «sacerdozio»;
nulla di stupefacente dunque che l’anonimato vi sia di regola, perché ciò
rappresenta la vera conformità a quell’«ordine» che l’artifex deve cercare di realizzare il più perfettamente possibile
in tutte le sue opere.
A questo punto si potrebbe sollevare una obiezione: se il
mestiere deve essere conforme alla natura di colui che lo esercita, l’opera
prodotta, abbiamo detto, esprimerà necessariamente questa natura, e potrà esser
riguardata come perfetta nel suo genere, o costituente un «capolavoro», quando
la esprimerà in maniera adeguata; orbene, la natura in questione è l’aspetto
essenziale dell’individualità, cioè quello che si definisce mediante il «nome»:
non si tratta forse di qualcosa che pare andare direttamente al rovescio
dell’anonimato? Per rispondere bisogna anzitutto fare osservare che, a dispetto
di tutte le false interpretazioni occidentali su nozioni come quelle di Moksha e di Nirvâna, l’estinzione dell’«io» non è in alcun modo una
annichilazione dell’essere, ma al contrario essa implica una specie di «sublimazione» delle sue possibilità
(diversamente, osserviamolo di sfuggita, la stessa idea di «resurrezione» non avrebbe alcun senso);
senza dubbio l’artifex che si trova
ancora nello stato individuale umano non può che tendere verso una simile
«sublimazione», ma il fatto di conservare l’anonimato sarà appunto per lui il
segno di questa tendenza «trasformante». Del resto si può anche dire che, in
rapporto alla società stessa, non è in quanto «tal dei tali» che l’artifex produce la propria opera, ma in
quanto egli svolge una determinata «funzione»; a questa, che è d’ordine
veramente «organico» e non «meccanico» (il che pone in luce la differenza
fondamentale con l’industria moderna), egli deve, nel suo lavoro, identificarsi
per quanto possibile; e tale identificazione, oltre ad essere il mezzo della
sua «ascesi», caratterizza in certo qual modo la misura della sua
partecipazione effettiva all’organizzazione tradizionale, poiché è in virtù
dell’esercizio stesso del suo mestiere che egli è incorporato a quest’ultima e
che vi occupa il posto che propriamente conviene alla sua natura. Per cui, da
qualsiasi parte si considerino le cose, l’anonimato si impone in qualche modo
come norma; ed anche se tutto ciò che esso implica in principio non può essere
effettivamente realizzato, dovrà per lo meno esistere un anonimato relativo nel
senso che, soprattutto ove ci sia un’iniziazione basata sul mestiere,
l’individualità profana o «esteriore», definita come «tale figlio di tal altro»
(nâma-gotra), sparirà per tutto ciò
che si riferisce all’esercizio di quel mestiere.[3]
Se ora passiamo all’altro estremo, quello rappresentato
dall’industria moderna, vediamo che l’operaio vi è sì altrettanto anonimo, ma
perché ciò che egli produce non esprime niente di lui stesso ed in realtà non è
neanche opera sua, essendo puramente «meccanica» la funzione che egli svolge in
tale produzione. In definitiva, l’operaio come tale non ha in realtà alcun
«nome», perché, nel suo lavoro, egli non è che una semplice «unità» numerica
senza qualità proprie, la quale potrebbe essere sostituita da un’altra «unità»
equivalente, cioè da qualsiasi altro operaio, senza che nulla cambi nel
prodotto di tale lavoro;[4] e
così, come dicevamo prima, la sua attività non ha più niente di veramente
umano, anzi, ben lungi dal tradurre o per lo meno dal riflettere qualcosa di
«sopraumano», essa è ridotta all’«infraumano», nel quale ambito essa tende
verso il grado più basso, cioè verso una modalità tanto quantitativa, quanto è
possibile realizzarla nel mondo manifestato. L’attività «meccanica»
dell’operaio rappresenta del resto solo un caso particolare (e però il più tipico,
allo stato attuale, in quanto l’industria è il campo in cui le concezioni
moderne sono riuscite più completamente ad esprimersi) di quel singolare
«ideale» che i nostri contemporanei vorrebbero arrivare ad imporre a tutti gli
individui umani ed in tutte le circostanze della loro esistenza; si tratta di
una conseguenza immediata della tendenza cosiddetta «egualitaria»,
della tendenza cioè a quell’uniformità che esige di trattare gli individui come
semplici «unità» numeriche, in modo da realizzare l’«eguaglianza»
dal basso, poiché, «al limite», questo è il solo senso in cui essa possa essere
realizzata, cioè in cui sia possibile, se non di raggiungerla di fatto (essendo
essa contraria, come abbiamo visto, alle condizioni stesse di ogni esistenza
manifestata), almeno di avvicinarcisi sempre di più e indefinitamente, finché
si sia raggiunto il «punto di arresto» che segnerà la fine del mondo attuale.
Se ci si chiede che cosa diventi l’uomo in tali condizioni,
vediamo che, a causa della sempre più accentuata predominanza in lui della
quantità sulla qualità, egli è per così dire ridotto al suo aspetto
sostanziale, cioè al rûpa della
dottrina indù (ed in effetti non è possibile che egli perda la forma, quella
cioè che definisce l’individualità come tale, senza perdere di conseguenza ogni
esistenza), il che equivale a dire che egli è quasi esclusivamente quel che il
linguaggio corrente chiamerebbe un «corpo senz’anima», e ciò nel senso più
letterale dell’espressione. In un individuo del genere, l’aspetto qualitativo o
essenziale è quasi completamente sparito (diciamo quasi perché tale limite non
può essere raggiunto in realtà); e poiché questo aspetto è proprio quello
designato come nâma, questo individuo
non ha veramente più un «nome»
che gli sia proprio, perché è come svuotato delle qualità che quel nome deve
esprimere; egli è dunque realmente «anonimo», ma nel significato inferiore del
termine. Si tratta dell’anonimato della «massa» di cui l’individuo fa parte ed
in cui si perde, «massa» che è soltanto una collezione di individui simili,
tutti considerati come altrettante «unità» aritmetiche pure e semplici; è pur
vero che tali «unità» possono essere contate, in modo da valutare numericamente
la collettività che esse formano, ma non si può minimamente dare a ciascuna di
esse una denominazione che implichi, per qualche differenza qualitativa, una
distinzione dalle altre.
Abbiamo detto che l’individuo si perde nella «massa», o che
per lo meno tende sempre di più a perdervisi; questa «confusione» nella molteplicità quantitativa corrisponde
ancora, per inversione, alla «fusione» nell’unità principiale. In quest’ultima
l’essere possiede tutta la pienezza delle sue passibilità «trasformate»,
cosicché si può dire che la distinzione, intesa in senso qualitativo, vi è
spinta al massimo grado, pur essendo contemporaneamente sparita qualsiasi
separazione.[5] Nella quantità pura, al
contrario, la separazione è al massimo perché ivi risiede il principio stesso
della «separatività», e d’altronde l’essere è evidentemente tanto più «separato» e più chiuso in se stesso,
quanto più le sue possibilità sono maggiormente limitate, cioè in quanto il suo
aspetto essenziale comporta meno qualità; ma contemporaneamente, data la sua
sempre maggiore indistinzione qualitativa in seno alla «massa», egli tende
veramente a confondersi in essa. La parola «confusione» è qui tanto più
appropriata in quanto evoca la indistinzione tutta potenziale del «caos», ed in
effetti si tratta proprio di questo dal momento che l’individuo tende a ridursi
al suo solo aspetto sostanziale, cioè, come la chiamerebbero gli Scolastici, ad
una «materia senza forma» ove tutto è in potenza e niente è in atto, cosicché
il termine ultimo, se lo si potesse raggiungere, sarebbe una vera
«dissoluzione» di quanto nell’individualità vi è di realtà positiva; e, proprio
in virtù dell’estrema opposizione esistente tra l’una e l’altra, questa
confusione degli esseri nell’uniformità appare come una sinistra e «satanica»
parodia della loro fusione nell’unità.
[1] Costoro
potrebbero dire con Mohyiddîn ibn Arabi: «Il mio cuore è diventato capace di ogni forma: esso è un
pascolo per le gazzelle ed un convento per i monaci cristiani, un tempio per
gli idoli e la Kaabah del pellegrino,
la tavola della Thorah ed il libro
del Corano. Io seguo la religione dell’Amore, qualunque strada prendano i suoi
cammelli; la mia religione e la mia fede sono la vera religione».
[2] A
questo proposito vedasi A.K. Coomaraswamy, Âkimchanna:
Selfnaughting, in «The
New Indian Antiquary», aprile 1940.
[3] Ciò
spiega per quale motivo, in certe iniziazioni di mestiere quale il Compagnonnage, come del resto negli
ordini religiosi, è proibito designare un individuo mediante il suo nome
profano; vi è ancora un nome, quindi un’individualità, ma è un’individualità già
«trasformata», almeno virtualmente, per il fatto stesso dell’iniziazione.
[4] Può
esserci solamente una differenza quantitativa, in quanto un operaio può
lavorare più o meno rapidamente di un altro (ed in questa rapidità consiste in
fondo tutta l’«abilità» che gli si richiede); ma dal punto di vista
qualitativo, il prodotto del lavoro sarà sempre uguale, essendo determinato non
dalla concezione mentale dell’operaio, o dalla sua abilità manuale a dare ad
esso una forma esteriore, ma unicamente dall’azione della macchina di cui egli
deve soltanto assicurare il funzionamento.
[5] È il
significato dell’espressione di Eckhart «fuso, ma non confuso», che
Coomaraswamy, nell’articolo succitato, pone assai giustamente in relazione con
quello del termine sanscrito bhêdâbhêda, «distinzione
senza differenza», cioè senza separazione.
Nessun commento:
Posta un commento