"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

lunedì 3 novembre 2014

Charles-André Gilis, Presentazione a Ibn Arabî - Kitâb Fusûs al-Hikam 
(“Il Libro dei Castoni delle Saggezze”)


Charles-André Gilis
Presentazione a Ibn  Arabî - Kitâb Fusûs al-Hikam 
(“Il Libro dei Castoni delle Saggezze”)

L’opera di cui presentiamo la traduzione integrale svolge, in seno all’esoterismo islamico come nell’intero universo tradizionale, una funzione eccezionale. Trasmessa al 'più grande dei Maestri', assieme al suo titolo, dallo stesso Profeta, contiene una dottrina universale di una elevazione metafisica e di un’ampiezza esistenziale e ciclica senza equivalenti. Il favore di cui gode nel Tasawwuf, dove ha dato origine da parte dell’élite intellettuale a diverse dozzine di commentari, non è quindi usurpato; e altrettanto si può dire della reputazione che trova in Occidente, nonostante che sino ad ora non sia stata presentata se non in maniera insoddisfacente.
Vero è che rendere conto di uno scritto di questa portata è una scommessa, tanto ricchi sono gli insegnamenti che veicola. Per di più, questi sono espressi in uno stile conciso, allusivo fino all’ellissi, che richiede costantemente di essere interpretato. Allo splendore e alla diversità delle luci si aggiunge la presenza di segreti spesso indicati in modo tanto discreto da poter passare inosservati, che appaiono soltanto attraverso il tale o il talaltro dettaglio significativo, posto ad attirare l’attenzione.[1]

La presentazione del 'Libro dei Castoni delle Saggezze' (Kitâb Fusûs al-Hikam) è tuttavia facilitato dalla breve introduzione di Ibn Arabî, che in poche parole espone la quintessenza ed il significato dell’opera. Ci sembra il caso, nella prefazione, di esaminare questo significato alla luce dell’odierno contesto tradizionale, ossia nella prospettiva dottrinale aperta da René Guénon e continuata da Michel Vâlsan. In effetti, l’insegnamento di questi due Maestri contiene degli elementi decisivi che chiariscono il senso escatologico del presente trattato in una maniera che i commentatori hanno solo potuto intravedere, e che probabilmente hanno dovuto tacere per delle ragioni di opportunità ciclica.[2]

A questo proposito, prima di tutto rileviamo il fatto singolare che Ibn Arabî fornisce la lista completa dei capitoli che compongono la sua opera non all’inizio di questa, né alla fine, ma dopo il primo capitolo, che tratta della Saggezza 'divina' nel Verbo di Adamo. L’autore stabilisce una separazione netta tra questo capitolo iniziale e l’insieme di quelli che gli succedono. Questo modo di procedere sottolinea come le differenti manifestazioni del Verbo nel corso del presente ciclo dell’umanità terrestre sono tutte derivanti dal 'padre degli uomini', per quanto riguarda la loro modalità corporea. Tuttavia questa interpretazione rende conto del solo aspetto esteriore, poiché l’indicazione che viene fornita in questo maniera fa anche allusione ad una tradizione esoterica oltremodo misteriosa relativa al “Tesoro d’Adamo”[3]. Questo è descritto dai commentatori e dagli storici musulmani come un Cofano (Tâbût) nel quale si trovano le immagini dei profeti della discendenza d’Adamo, l’ultima delle quali è quella del Sigillo della profezia, Muhammad, su di lui la Grazia e la Pace! Questo deposito fu trasmesso per via di eredità profetica prima di tutto a Seth, poi ad Abramo, ad Ismaele e ai profeti d’Israele in maniera ininterrotta, essendo l’Arca dell’Alleanza, secondo la tradizione islamica, nient’altro che una delle forme storiche prese da questo Tâbût primordiale. La cosa più straordinaria è che un simile deposito, almeno per quanto riguarda il suo contenuto apparente, era detenuto dagli Imperatori di Bisanzio. Nel corso di un incontro notturno negli appartamenti imperiali, l’Imperatore Eraclio mostrò a tre Compagni del Profeta, inviatigli in ambasciata dal Califfo Abû Bakr, un grande cofano a scomparti, da cui estrasse in successione dei pezzi di seta nera su ciascuno dei quali si trovava dipinta una figura umana. L’Imperatore spiegò loro che Adamo aveva domandato al suo Signore di fargli vedere i profeti della sua discendenza, e che allora “Dio produsse le loro forme su delle pezze di seta del Paradiso”. Egli aggiunse che i ritratti che possedeva non erano che delle copie di queste figure primordiali, fatte all’epoca del Profeta Daniele. Secondo Michel Vâlsan, quest’ultimo era lui stesso l’autore di questi esemplari. Sottolineiamo che questa serie di ritratti cominciava con Adamo e terminava con Muhammad. La tradizione del 'Tesoro d’Adamo' non è quindi proprietà esclusiva dell’esoterismo islamico, anche se è peraltro quest'ultimo che, per riprendere un’espressione di Réne Guénon a proposito del segno della Croce[4], “ne possiede la dottrina”. Ed è precisamente questa dottrina che è stata formulata, con incomparabile maestria, nel trattato del quale qui presentiamo la traduzione.

Rendendo conto delle due menzioni coraniche del termine Tâbût, riguardanti entrambe Mosè[5], Michel Vâlsan diceva: "In entrambi i casi, non si tratta di una semplice questione di tradizione simbolica e dottrinale, ma di un deposito sacrosanto e reale, di virtù divina, oracolare e operativa, costituente il principio ed il centro di una tradizione[6] in tutta la sua realtà spirituale e istituzionale." Riguardo al primo caso, egli precisava che "nelle parole divine rivolte alla madre di Mosè, è detto «calato nel Tâbût (fî at-Tâbût)», e non in 'un' tâbût, essendo il termine determinato; questo vuol dire che si tratta di una cosa preesistente, precedentemente 'conosciuta', e ciò non può riferirsi che al Tâbût permanente, o ancora ad uno dei suoi adattamenti tipici di cui allora era più specialmente causa".  E anche, ciò che è ancora più esplicito, che la madre di Mosè lo rimetteva così “al Tâbût assoluto in quanto Arca permanente dei tesori tradizionali da salvaguardare durante i periodi di pericolo esteriore.” 

Queste differenti indicazioni mostrano che il vero Tesoro d’Adamo fa parte della Tradizione primordiale, alla quale si rapporta ugualmente il 'Libro dei Castoni delle Saggezze', cosa che spiega lo strano posto dato da Ibn Arabî all'elenco dei capitoli. Tuttavia, tale dottrina è considerata in questo trattato dal punto di vista proprio dell’Islam. Quest'ultimo si presenta da una parte come una restaurazione del Culto assiale e come il supporto provvidenziale d’una manifestazione finale della Tradizione immutabile, e dall’altra come l’erede della totalità delle verità metafisiche e delle modalità tipiche della realizzazione iniziatica rivelate nelle forme tradizionali anteriori. Se dunque la lista dei capitoli pone i differenti profeti nella dipendenza di Adamo in ragione del fatto che sono tutti suoi figli secondo la carne, questo deve essere compreso prima di tutto come un segno del rispetto delle convenienze a suo riguardo da parte del vero Maestro dell’opera, che non è altri che il Profeta, su di lui la Grazia e la Pace!, dato che è lui che la trasmette direttamente all’autore; quest’ultimo del resto si descrive come un semplice interprete che “rispetta i limiti tracciati per lui dall’Inviato d’Allâh, senza aggiungere o togliere nulla”, e che “trasmette solo ciò che gli è stato trasmesso”. Muhammad, Sigillo dei Profeti, realizza la Totalità principiale che esprime al grado delle verità trascendenti la 'perfezione passiva', e analogicamente, in una prospettiva ciclica,  il compimento del nostro stato d’esistenza, simboleggiato dal 'punto d’arresto' che comporta la 'cristallizzazione finale' dell’insieme dei suoi 'risultati' spirituali[7]. Egli rappresenta il Tutto tanto nella sua origine, dato che trasmette l’opera nell’interezza del suo contenuto, quanto nel suo termine, visto che la sua propria Saggezza è qualificata dall’Incomparabilità principiale (fardiyya) dovuta precisamente al fatto che è il solo a detenere il Tutto. La Saggezza di Adamo, che è quella dell’”unità originale”, è inclusa nella sua. Ugualmente, dal punto di vista supremo l’”Uno” esprime la prima affermazione in seno alla Possibilità Totale. È per questa ragione che il Profeta, rendendo testimonianza del suo proprio grado, ha detto di aver ricevuto “la Scienza dei primi e degli ultimi“. Aggiungiamo che a questo significato caratteristico della sua propria Saggezza corrisponde un’altra particolarità formale del 'Libro dei Castoni', ossia il numero simbolico dei suoi capitoli che è in realtà di ventisette poiché, secondo l’indicazione data dallo stesso autore, conviene includervi il capitolo su Adamo, a dispetto del posto privilegiato che occupa all’inizio dell’opera[8].

Che senso prende questo deposito sacro che è costituito dal Tesoro di Adamo quando lo si considera nella prospettiva dell’eredità tradizionale muhammadiana? Anche qui è alla scienza, anch’essa incomparabile, di Michel Vâlsan che abbiamo fatto ricorso. Egli fa innanzitutto notare, a proposito del passaggio coranico relativo all’Arca dell’Alleanza, che i commentatori fanno derivare il termine tâbût dalla radice t-w-b, "che esprime l’idea di 'ritorno' (da cui quella di 'pentimento' e di 'riconciliazione'), che è qui giustificata in diversi modi, che potrebbero essere viceversa in rapporto con l’idea di un certo ritorno della grazia divina verso Israele." Si tratta dunque, come è stato detto prima, di una delle forme particolari prese storicamente dal Tâbût primordiale. Per mostrare che l’istituzione di questo “è effettivamente ricollegata ad Adamo”, il nostro rimpianto Maestro cita un passaggio della sura della Giovenca (Al Baqarah) che menziona la discesa e l’esilio sulla Terra del 'Padre degli uomini': «Allora Adamo ricevette dal suo Signore delle Parole (Kalimât), e il Signore ritornò a lui (tâba ‘Alay-hi); in verità, Egli è Colui che ama ritornare e perdonare (at-Tawwâb), il molto Misericordioso (ar-Rahîm)» (Cor. 2, 36-37). Ed aggiunge questo commentario, essenziale per la comprensione del nostro argomento: "Abbiamo qui il primo momento in cui nella storia sacra interviene la nozione di tawba (…), alla quale è collegato il significato arabo di tâbût, e che, per come la intendono i commentatori, investe allo stesso tempo sia il servo che il Signore[9]. In questo caso viene enunciato il nome divino at-Tawwâb (del quale ar-Rahîm funge da qualificativo), che è indice d’una teofania adeguata, logicamente la prima in rapporto a questo nome. Si può anche notare che in questa riconciliazione vi è un aspetto di 'alleanza', nel senso biblico di questa parola, il che richiama inoltre una delle qualificazioni dell’Arca presso gli Israeliti."

Si sottolinea la presenza nei versetti citati, del termine kalimât, che è utilizzato nei capitoli dei Fusûs per designare le differenti manifestazioni del Verbo universale. In effetti, è per mezzo dei 'Verbi di Allâh' che ogni volta si opera il Ritorno divino verso un popolo o una comunità a un determinato momento del ciclo storico; sono loro ad essere i supporti successivi della 'teofania adeguata'; e, almeno quando si tratta di inviati divini, sono sempre loro a fissare i mezzi con i quali estendere all’insieme della comunità di cui hanno la responsabilità la grazia legata a questo Ritorno, come pure le condizioni della Riconciliazione divina. La moltitudine di queste riconciliazioni e di queste alleanze è indicata dalla morfologia del nome divino at-Tawwâb la cui forma nominale, simile a quella del Nome 'Allâh', implica un accento d’intensità e d’universalità.

Tutto questo conferma senza alcun dubbio la relazione tra il 'Libro dei Castoni' e la dottrina esoterica del Tâbût adamitico; inoltre, il punto di vista particolare dell’ 'eredità muhammadiana' è evocato dalla presenza, nel passaggio coranico citato, del Nome ar-Rahîm (il molto Misericordioso), che, a differenza di ar-Rahmân, è non solo un Nome divino ma anche un nome del Profeta, su di lui la Grazia e la Pace; e cosa ancor più degna di nota è che questo nome lo qualifica in quanto manifestazione perfetta della Forma di  Allâh, ossia dell’Uomo Universale considerato come Califfo Supremo[10]. Sottolineando che il Nome ar-Rahîm menzionato in questo passaggio “serve da qualificativo al Nome at-Tawwâb”, Michel Vâlsan indica che le successive alleanze divine che intervengono nel corso della storia terrestre si operano sotto l’autorità e l’egida del 'Califfato muhammadiano', designazione che qui esprime, in un linguaggio islamico, la permanenza della Presenza e delle Scienze divine nel cuore dello stato umano.

La funzione nell’insegnamento esoterico dell’Islam del 'Libro dei Castoni delle Saggezze' implica al più alto grado il principio di una Riconciliazione divina universale. Ognuno dei suoi capitoli esprime un aspetto fondamentale della Saggezza eterna identificata al 'castone', ossia al cuore di un profeta, e lo illumina alla luce d’una dottrina metafisica suprema che trascende di gran lunga le tre religioni monoteiste alle quali appartengono nominalmente i Verbi profetici che di volta in volta sono menzionati e studiati. Tutte le verità fondatrici delle forme tradizionali sono qui riunite in una sintesi finale che rivela la loro unità essenziale. In un momento ciclico in cui queste forme, in quanto tali irriducibili le une alle altre, sono per la prima volta messe a confronto, e in cui il loro apparente antagonismo fa il gioco della sovversione, l’affermazione esplicita del loro principio comune appare come una Grazia e una Benedizione ultime indirizzate all’insieme degli uomini. Mentre le manifestazioni storiche del Tâbût adamitico suggellavano le alleanze che rinnovavano il Patto primordiale, permettendo alle diverse comunità umane diversificate nel tempo e nello spazio di ritrovare, secondo modalità e condizioni variabili, lo statuto originale perduto, la formulazione islamica della dottrina del Tesoro d’Adamo comporta delle virtualità che non sono dello stesso ordine. Certo, le condizioni d’una nuova alleanza sono fissate dalla Legge trasmessa dal Sigillo dei profeti; e altrettanto certamente questa legge nella sua modalità formale è incompatibile con le legislazioni sacre anteriori, che essa abroga in linea di principio, conformemente alle esigenze del Diritto sacro. Tuttavia in rapporto alla Verità universale questo apparente particolarismo non ha altra ragion d’essere che portare il supporto provvidenziale e misericordioso d’una riconciliazione finale e totale dell’insieme delle forze tradizionali che sussistono ed operano presentemente nel mondo. L’Islam, per come è in linea di principio e in quanto resta intatto nonostante le incomprensioni d’ogni sorta che oggi lo sfigurano, instaura una comunità fraterna che s’identifica virtualmente all’umanità intera. Le Saggezze e le Vie iniziatiche anteriori sono riunite nel suo seno in una formulazione nuova direttamente ricollegata alla luce e alla guida muhammadiane, cosa della quale il presente trattato apporta un’eclatante testimonianza. I tipi profetici precedenti sono realizzati come altrettante modalità comprese nella Saggezza della Legge islamica totale, in virtù del principio tradizionale secondo cui “i Santi sono gli eredi dei Profeti”. Da questo punto di vista, il 'Libro dei Castoni delle Saggezze' appare essere il libro per eccellenza della Maestria spirituale al suo più alto grado. Nello stesso tempo, l’insegnamento dottrinale di cui è veicolo costituisce il supporto di una manifestazione privilegiata della Sakîna[11], e possiede per tale motivo un’autorità particolare. Esso detiene le chiavi che aprono la comprensione intima delle verità rivelate e dei segreti che appartengono alle tradizioni anteriori, al punto che è possibile affermare che ogni opposizione alla Dottrina sacra che espone, opposizione fatta nel nome di una forma tradizionale particolare o di un credo limitativo, implica necessariamente una concordante incomprensione di questa stessa forma tradizionale e di questo credo; e ciò è vero anche quando, com'è troppo spesso il caso, questa opposizione proviene da musulmani dotati di scarsa comprensione che ignorano la natura della religione che professano, e la vera ragione della sua eccellenza.

Se l’insegnamento esoterico contenuto in questo libro si rivolge all’Elite intellettuale degli uomini, quale che sia la religione o la forma rivelata alla quale appartengono, esso è nondimeno puramente muhammadiano nella sua fonte, ed esclusivamente islamico nella sua espressione e nei suoi riferimenti tradizionali. Questo è un elemento essenziale, il cui pieno intendimento domina e condiziona l'intellezione dei suoi diversi capitoli. In tal senso osserviamo che è possibile considerare l’unità metafisica dell’insieme sotto più punti di vista. È possibile innanzitutto rapportarla al Profeta, su di lui la Grazia e la Pace, che in quanto Uomo Perfetto (al-insân al-kâmil), possiede la Scienza e la Profezia universali, e riunisce in sé le Saggezze rappresentate dalle differenti manifestazioni del Verbo divino; e questo perché egli è la fonte prima del presente lavoro, come abbiamo detto. Ma è anche possibile riferire questa unità anche all’autore apparente, ossia a Ibn Arabî, poiché questi, in quanto Sigillo della Sanità muhammadiana, sintetizza tutte le modalità e tutti i gradi della realizzazione metafisica. Da questo punto di vista, i differenti Verbi menzionati nei Fusûs appaiono come altrettanti tipi spirituali realizzabili secondo la loro formulazione muhammadiana, il che implica una certa trasposizione dei casi che li riguardano, esplicitamente indicata in diversi capitoli; per esempio nel nono, in cui dopo aver spiegato la Saggezza dello Yûsuf (Giuseppe) 'storico', lo Sheikh al-Akbar tratta della realizzazione iniziatica e dell’eccellenza dello “Yûsuf muhammadiano”. Questo punto di vista, che è quello della Santità universale, predomina nell’opera. Del resto Ibn Arabî indica espressamente nel suo testo introduttivo che il Libro dei Fusûs si rivolge “alle Genti d’Allâh che sono i Maestri dei cuori”, ossia i modelli e le guide sulla Via della realizzazione spirituale. Questo spiega perché i suoi capitoli siano considerati dai commentatori del Tasawwuf come altrettante 'Stazioni iniziatiche', e perché in base a questo essi giustificano l’ordine di successione delle differenti Saggezze, che non sempre è quello della manifestazione storica dei Verbi corrispondenti; così la Saggezza di Sulaymân (Salomone) è esposta prima di quella di suo padre Dâwûd (Davide), e quella di Yahyâ (Giovanni Battista) prima di quella di Zakhariyyâ (Zaccaria). Infine, questa unità metafisica può essere rapportata a ’Isâ ibn Maryam, 'Gesù figlio di Maria', che, secondo il Corano, è «il Suo Verbo che Egli ha proiettato in Maria» (Cor. 4,171). ‘Isâ è il Verbo da cui procedono tutti i Verbi come dall'unica loro essenza[12], ed è per mezzo di Maryam che sono resi molteplici. In effetti ella simboleggia la Sostanza divina che è la 'madre delle forme'. Se Maryam è la sola delle grandi figure coraniche alla quale non è espressamente consacrato alcun capitolo dell’opera, non è solamente perché è una donna, secondo la spiegazione ordinaria, ma è anche e soprattutto perché essa rappresenta il Mistero da cui procedono tutte le Saggezze.

Questo triplice punto di vista mette in evidenza la relazione dei Fusûs con la dottrina dei 'tre Sigilli' dell’esoterismo islamico: Muhammad, Sigillo dei Profeti; Ibn Arabî, Sigillo della Santità muhammadiana; il Cristo della Seconda Venuta, Sigillo della Santità universale. Ricordiamo che questi Sigilli non dipendono dalla forma islamica nel senso restrittivo e limitativo di questa espressione, ma dal Centro iniziatico Supremo. Essi sono 'indipendenti' a riguardo dell’Islam nella misura in cui è questo a dipendere da loro dal punto di vista della sua definizione formale e dei suoi riadattamenti ciclici[13]. Se dunque i dati relativi al Tesoro d’Adamo ricollegano l’ispirazione di questo lavoro alla Tradizione primordiale, la dottrina dei Sigilli mette in luce la sua funzione escatologica, evocata nell’ultimo capitolo dalla Saggezza muhammadiana propriamente detta. In effetti, la fardiyya racchiude un significato che si ricollega al numero 3, di cui il 27 rappresenta, in corrispondenza con ciascun Sigillo, le tre potenze visibili. In questa prospettiva, si noterà ancora che il simbolismo delle gemme, suggerito e implicito in quello dei castoni, appartiene al regno minerale, come la Gerusalemme Celeste; del resto, la rivelazione del Cofano adamitico e del suo contenuto, nella misura autorizzata da Dio, appare veramente come un' 'apocalisse', ossia come uno svelamento dei misteri nascosti. Se il Tâbût assoluto e primordiale, considerato in quanto Arca “dei tesori tradizionali da salvaguardare durante i periodi di pericolo esteriore", può essere identificato con la Legge universale proclamata dal Profeta, che Allâh spanda su di lui la Sua Grazia unitiva e la Sua Pace, questi stessi tesori, eminentemente rappresentati dalle Saggezze dei Verbi, permangono inalterati nella loro unità inviolabile e nella loro permanente attualità attraverso la decadenza del nostro mondo, poiché contengono e preservano, nell’attesa d’una Provvidenza e d’una Benedizione nuove, i principi spirituali del ciclo futuro.

L’unità principiale dei Verbi si riflette in una particolarità nel titolo dei capitoli: sia le Saggezze qualificate per mezzo di termini indicativi delle Stazioni iniziatiche che i Verbi corrispondenti, nominalmente attribuiti ai diversi profeti, sono grammaticalmente indeterminati, il che costituisce un simbolo di totale universalità. Se per esempio si prende il primo capitolo, bisogna comprendere che non si tratta de 'la Saggezza divina nel Verbo d’Adamo', ma di una Saggezza assoluta e indeterminata qualificata come “divina” quando la si consideri essere quella del Verbo universale esaminato nella sua espressione adamitica. Per la stessa ragione questi capitoli non sono numerati, contrariamente a quelli delle Futûhât. Ed è unicamente per una questione di comodità che una tale numerazione appare presso i commentatori. Se nella traduzione del testo sono stati preferiti i nomi coranici dei profeti, in luogo dei loro equivalenti francesi, ciò è dovuto proprio al fine di preservare questa unità formale dell’insieme.

L’ispirazione da cui procede l’opera conferisce al suo stile una grande spontaneità; nondimeno essa appare ben elaborata, soprattutto nelle diverse parti in cui le idee si succedono secondo una logica al contempo razionale nelle sue concatenazioni e tradizionale nei suoi riferimenti. La sua comprensione richiede una vasta conoscenza della tradizione islamica in generale e degli insegnamenti dello Sheikh al-Akbar in particolare, principalmente quelli contenuti nelle Futûhât.

Il testo è ben stabilito, e comporta tutto sommato poche varianti. D’altra parte, innumerevoli passaggi sono resi ambigui dall’estrema concisione del loro stile. La traduzione obbliga continuamente a scegliere tra più interpretazioni, senza che nulla permetta di stabilire con certezza quale sia la più conforme alle intenzioni dell’autore. Peraltro è evidente che questa indeterminatezza implicante più sensi è da questi voluta; raramente l’adagio traduttore traditore [in italiano nel testo, ndt] è stato più appropriato. Per tale motivo è grande il pericolo di aggiungere indebitamente dei significati che un esame scrupoloso del testo o del contesto esige vengano scartati; o ancor peggio, di comprendere altre cose rispetto a ciò che è realmente scritto, e di introdurre nella traduzione delle idee preconcette. La minima disattenzione può determinare un controsenso. La difficoltà risulta ancor più grande quando la dottrina suprema esposta nei Fusûs al-Hikam porta lo Sheikh  al-Akbar a commentare certi dati tradizionali in una maniera che differisce dalle loro interpretazioni anteriori.

Tutto ciò spiega e giustifica il gran numero di commentari tradizionali ai quali l’opera ha dato luogo; secondo Osman Yahyâ oltre un centinaio. È impossibile tener conto di tutte le spiegazioni che sono state proposte, e nulla sarebbe più contrario all’insegnamento di  Ibn Arabî che cercare di riassumerle tutte. In nostro fine è stato di presentare in francese una traduzione completa e intellegibile, cosa che comunque richiede il ricorso ad abbondanti note, anche quando le si riduce all’indispensabile. Questo è il metodo da noi scelto. In ogni capitolo, la traduzione è posta all’inizio. Una distinzione fondamentale è stata stabilita tra le note che si rapportano alla comprensione del testo e quelle che concernono l’insegnamento dottrinale. Le prime figurano a piè di pagina, e in esse sono indicate le varianti, le interpretazioni divergenti, i riferimenti, e il senso letterale dei termini arabi in trascrizione. Le seconde sono precedute da una presentazione sintetica della qualificazione propria alla Saggezza studiata e del Verbo nominale corrispondente a tale Saggezza, in riferimento all’insieme del capitolo, e a volte anche a degli elementi tradizionali estranei al testo attinti dai commentari in lingua araba o dall’insegnamento dei nostri due Maestri, Sheikh Abd al-Wâhid (René Guénon) e Sheikh Mustafâ (Michel Vâlsan); attraverso la loro mediazione, è stato possibile operare degli accostamenti significativi con le Rivelazioni anteriori all’Islam. Di seguito a questa presentazione iniziale figurano le interpretazioni dottrinali complementari riguardanti in particolar modo questo o quel passaggio. Per facilitare la loro consultazione abbiamo diviso il testo della traduzione in paragrafi numerati, che possono comportare più capoversi. Beninteso questa divisione, come quella inizialmente stabilita tra le note relative al testo e quelle riferite alla dottrina, è dovuta unicamente ad una ragione pratica, poiché spesso la comprensione dottrinale è direttamente tributaria di quella del testo, e viceversa.  (…)


[1] Ne sia esempio la qualificazione della Saggezza nel titolo del capitolo, che può benissimo non essere spiegata nel testo che segue. 
[2] Su questo punto, vedi il nostro studio René Guénon et l’avénement du troisième Sceau, pagg. 54-5.
 
[3] A proposito di questa tradizione, vedi Michel Vâlsan Le Coffre d’Héraclius et la tradition du “Tâbût” adamique in Etudes Traditionelles (Studi Tradizionali), 1962-1963 [vedi la traduzione italiana dal titolo Il cofano di Eraclio, a cura della Edizioni del Veltro]. A meno d’indicazioni contrarie, è a questo studio che noi faremo riferimento nelle pagine seguenti.
 
[4] Vedi Il simbolismo della Croce, cap. III, nota 2. Secondo René Guénon, un personaggio che nell’Islam occupava “anche da un semplice punto di vista essoterico un rango molto elevato” un giorno disse:  “Se i Cristiani hanno il segno della Croce, i Musulmani ne hanno la dottrina”.
 
[5] La prima (Cor. 2,248) si riferisce al cofano di papiro rivestito d’asfalto e di pece nel quale Mosè bambino fu lanciato nelle acque del Nilo; la seconda (Cor. 20,39) all’Arca dell’Alleanza. 
[6] Si tratta chiaramente della Tradizione mosaica. 
[7] A tale proposito vedi René Guénon, Il Regno della quantità e i Segni dei tempi, cap. XX. 
[8] Il significato simbolico di questo numero sarà spiegato nel nostro commento sul Verbo di Muhammad. 
[9] Questa spiegazione è resa necessaria poiché il termine tawba, nel suo significato corrente, indica il 'pentimento' del servo, mentre qui si tratta di un 'ritorno' da parte del Signore, che implica un senso di riconciliazione. Precisiamo che Tawwâb e tawba hanno la stessa radice. 
[10] Cfr. Etudes Traditionelles (Studi Tradizionali), 1963, p. 84-85. Qâchânî considera la Forma dell’Uomo Universale come essere il Nome Supremo di Allâh, conformemente al hadîth secondo il quale “Allâh ha creato Adamo secondo la Sua Forma”.
 
[11] Michel Vâlsan ha mostrato il legame tra la Sakîna e la dottrina del Tâbût, in riferimento a Cor. 2,248. 
[12] Nel capitolo 360 delle Futûhât, commentando il versetto dove si dice che Maryam «aggiunge fede ai Verbi del suo Signore» (Cor. 66,12), Ibn Arabî precisa: “Non era altri che ‘Isâ, di cui Egli aveva fatto delle forme (molteplici) per lei”. 
[13] Cfr. René Guénon e l’avvento del terzo Sigillo, cap. V. Il riferimento alla dottrina dei Sigilli permette di comprendere perché, secondo l’indicazione data da Jandî, Ibn Arabî aveva proibito che i Fusûs fossero posti nella stessa rilegatura insieme alle altre sue opere.

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