Presentazione a Ibn Arabî - Kitâb
Fusûs al-Hikam
(“Il Libro dei Castoni delle Saggezze”)
L’opera di cui presentiamo la traduzione integrale svolge, in seno all’esoterismo islamico come nell’intero universo tradizionale, una funzione eccezionale. Trasmessa al 'più grande dei Maestri', assieme al suo titolo, dallo stesso Profeta, contiene una dottrina universale di una elevazione metafisica e di un’ampiezza esistenziale e ciclica senza equivalenti. Il favore di cui gode nel Tasawwuf, dove ha dato origine da parte dell’élite intellettuale a diverse dozzine di commentari, non è quindi usurpato; e altrettanto si può dire della reputazione che trova in Occidente, nonostante che sino ad ora non sia stata presentata se non in maniera insoddisfacente.
Vero è che rendere conto di uno scritto di questa
portata è una scommessa, tanto ricchi sono gli insegnamenti che veicola. Per di
più, questi sono espressi in uno stile conciso, allusivo fino all’ellissi, che
richiede costantemente di essere interpretato. Allo splendore e alla diversità
delle luci si aggiunge la presenza di segreti spesso indicati in modo tanto
discreto da poter passare inosservati, che appaiono soltanto attraverso il tale
o il talaltro dettaglio significativo, posto ad attirare l’attenzione.[1]
La presentazione del 'Libro dei Castoni
delle Saggezze' (Kitâb Fusûs al-Hikam) è tuttavia facilitato dalla breve
introduzione di Ibn Arabî, che in poche parole espone la quintessenza ed il
significato dell’opera. Ci sembra il caso, nella prefazione, di esaminare
questo significato alla luce dell’odierno contesto tradizionale, ossia nella
prospettiva dottrinale aperta da René Guénon e continuata da Michel Vâlsan. In
effetti, l’insegnamento di questi due Maestri contiene degli elementi decisivi
che chiariscono il senso escatologico del presente trattato in una maniera che
i commentatori hanno solo potuto intravedere, e che probabilmente hanno dovuto
tacere per delle ragioni di opportunità ciclica.[2]
A questo proposito, prima di tutto
rileviamo il fatto singolare che Ibn Arabî fornisce la lista completa dei
capitoli che compongono la sua opera non all’inizio di questa, né alla fine, ma
dopo il primo capitolo, che tratta della Saggezza 'divina' nel Verbo di Adamo.
L’autore stabilisce una separazione netta tra questo capitolo iniziale e
l’insieme di quelli che gli succedono. Questo modo di procedere sottolinea come
le differenti manifestazioni del Verbo nel corso del presente ciclo
dell’umanità terrestre sono tutte derivanti dal 'padre degli uomini', per
quanto riguarda la loro modalità corporea. Tuttavia questa interpretazione
rende conto del solo aspetto esteriore, poiché l’indicazione che viene fornita
in questo maniera fa anche allusione ad una tradizione esoterica oltremodo
misteriosa relativa al “Tesoro d’Adamo”[3]. Questo
è descritto dai commentatori e dagli storici musulmani come un Cofano (Tâbût)
nel quale si trovano le immagini dei profeti della discendenza d’Adamo,
l’ultima delle quali è quella del Sigillo della profezia, Muhammad, su di lui la
Grazia e la Pace! Questo deposito fu trasmesso per via di eredità profetica
prima di tutto a Seth, poi ad Abramo, ad Ismaele e ai profeti d’Israele in
maniera ininterrotta, essendo l’Arca dell’Alleanza, secondo la tradizione
islamica, nient’altro che una delle forme storiche prese da questo Tâbût primordiale.
La cosa più straordinaria è che un simile deposito, almeno per quanto riguarda
il suo contenuto apparente, era detenuto dagli Imperatori di Bisanzio. Nel
corso di un incontro notturno negli appartamenti imperiali, l’Imperatore
Eraclio mostrò a tre Compagni del Profeta, inviatigli in ambasciata dal Califfo
Abû Bakr, un grande cofano a scomparti, da cui estrasse in successione dei
pezzi di seta nera su ciascuno dei quali si trovava dipinta una figura umana.
L’Imperatore spiegò loro che Adamo aveva domandato al suo Signore di fargli
vedere i profeti della sua discendenza, e che allora “Dio produsse le loro
forme su delle pezze di seta del Paradiso”. Egli aggiunse che i ritratti che
possedeva non erano che delle copie di queste figure primordiali, fatte
all’epoca del Profeta Daniele. Secondo Michel Vâlsan, quest’ultimo era lui
stesso l’autore di questi esemplari. Sottolineiamo che questa serie di ritratti
cominciava con Adamo e terminava con Muhammad. La tradizione del 'Tesoro
d’Adamo' non è quindi proprietà esclusiva dell’esoterismo islamico, anche se è
peraltro quest'ultimo che, per riprendere un’espressione di Réne Guénon a
proposito del segno della Croce[4], “ne
possiede la dottrina”. Ed è precisamente questa dottrina che è stata formulata,
con incomparabile maestria, nel trattato del quale qui presentiamo la
traduzione.
Rendendo conto delle due menzioni
coraniche del termine Tâbût, riguardanti entrambe Mosè[5], Michel
Vâlsan diceva: "In entrambi i casi, non si tratta di una semplice
questione di tradizione simbolica e dottrinale, ma di un deposito sacrosanto e
reale, di virtù divina, oracolare e operativa, costituente il principio ed il
centro di una tradizione[6] in tutta
la sua realtà spirituale e istituzionale." Riguardo al primo caso, egli
precisava che "nelle parole divine rivolte alla madre di Mosè, è detto
«calato nel Tâbût (fî at-Tâbût)», e non in 'un' tâbût,
essendo il termine determinato; questo vuol dire che si tratta di una cosa
preesistente, precedentemente 'conosciuta', e ciò non può riferirsi che al Tâbût
permanente, o ancora ad uno dei suoi adattamenti tipici di cui allora era più
specialmente causa". E anche, ciò che è ancora più esplicito, che la
madre di Mosè lo rimetteva così “al Tâbût assoluto in quanto Arca
permanente dei tesori tradizionali da salvaguardare durante i periodi di
pericolo esteriore.”
Queste differenti indicazioni mostrano
che il vero Tesoro d’Adamo fa parte della Tradizione primordiale, alla quale si
rapporta ugualmente il 'Libro dei Castoni delle Saggezze', cosa che spiega lo
strano posto dato da Ibn Arabî all'elenco dei capitoli. Tuttavia, tale dottrina
è considerata in questo trattato dal punto di vista proprio dell’Islam.
Quest'ultimo si presenta da una parte come una restaurazione del Culto assiale
e come il supporto provvidenziale d’una manifestazione finale della Tradizione
immutabile, e dall’altra come l’erede della totalità delle verità metafisiche e
delle modalità tipiche della realizzazione iniziatica rivelate nelle forme
tradizionali anteriori. Se dunque la lista dei capitoli pone i differenti
profeti nella dipendenza di Adamo in ragione del fatto che sono tutti suoi
figli secondo la carne, questo deve essere compreso prima di tutto come un
segno del rispetto delle convenienze a suo riguardo da parte del vero Maestro
dell’opera, che non è altri che il Profeta, su di lui la Grazia e la Pace!,
dato che è lui che la trasmette direttamente all’autore; quest’ultimo del resto
si descrive come un semplice interprete che “rispetta i limiti tracciati per
lui dall’Inviato d’Allâh, senza aggiungere o togliere nulla”, e che “trasmette
solo ciò che gli è stato trasmesso”. Muhammad, Sigillo dei Profeti, realizza la
Totalità principiale che esprime al grado delle verità trascendenti la
'perfezione passiva', e analogicamente, in una prospettiva ciclica, il
compimento del nostro stato d’esistenza, simboleggiato dal 'punto d’arresto'
che comporta la 'cristallizzazione finale' dell’insieme dei suoi 'risultati'
spirituali[7]. Egli
rappresenta il Tutto tanto nella sua origine, dato che trasmette l’opera
nell’interezza del suo contenuto, quanto nel suo termine, visto che la sua
propria Saggezza è qualificata dall’Incomparabilità principiale (fardiyya)
dovuta precisamente al fatto che è il solo a detenere il Tutto. La Saggezza di
Adamo, che è quella dell’”unità originale”, è inclusa nella sua. Ugualmente,
dal punto di vista supremo l’”Uno” esprime la prima affermazione in seno alla
Possibilità Totale. È per questa ragione che il Profeta, rendendo testimonianza
del suo proprio grado, ha detto di aver ricevuto “la Scienza dei primi e degli
ultimi“. Aggiungiamo che a questo significato caratteristico della sua propria
Saggezza corrisponde un’altra particolarità formale del 'Libro dei Castoni', ossia
il numero simbolico dei suoi capitoli che è in realtà di ventisette poiché,
secondo l’indicazione data dallo stesso autore, conviene includervi il capitolo
su Adamo, a dispetto del posto privilegiato che occupa all’inizio dell’opera[8].
Che senso prende questo deposito sacro
che è costituito dal Tesoro di Adamo quando lo si considera nella prospettiva
dell’eredità tradizionale muhammadiana? Anche qui è alla scienza, anch’essa
incomparabile, di Michel Vâlsan che abbiamo fatto ricorso. Egli fa innanzitutto
notare, a proposito del passaggio coranico relativo all’Arca dell’Alleanza, che
i commentatori fanno derivare il termine tâbût dalla radice t-w-b,
"che esprime l’idea di 'ritorno' (da cui quella di 'pentimento' e di
'riconciliazione'), che è qui giustificata in diversi modi, che potrebbero
essere viceversa in rapporto con l’idea di un certo ritorno della grazia divina
verso Israele." Si tratta dunque, come è stato detto prima, di una delle
forme particolari prese storicamente dal Tâbût primordiale. Per mostrare
che l’istituzione di questo “è effettivamente ricollegata ad Adamo”, il nostro
rimpianto Maestro cita un passaggio della sura della Giovenca (Al Baqarah)
che menziona la discesa e l’esilio sulla Terra del 'Padre degli uomini': «Allora
Adamo ricevette dal suo Signore delle Parole (Kalimât), e il
Signore ritornò a lui (tâba ‘Alay-hi); in verità, Egli è Colui
che ama ritornare e perdonare (at-Tawwâb), il molto
Misericordioso (ar-Rahîm)» (Cor. 2, 36-37). Ed aggiunge questo
commentario, essenziale per la comprensione del nostro argomento: "Abbiamo
qui il primo momento in cui nella storia sacra interviene la nozione di tawba
(…), alla quale è collegato il significato arabo di tâbût, e che, per
come la intendono i commentatori, investe allo stesso tempo sia il servo che il
Signore[9]. In
questo caso viene enunciato il nome divino at-Tawwâb (del quale ar-Rahîm
funge da qualificativo), che è indice d’una teofania adeguata, logicamente la
prima in rapporto a questo nome. Si può anche notare che in questa
riconciliazione vi è un aspetto di 'alleanza', nel senso biblico di questa
parola, il che richiama inoltre una delle qualificazioni dell’Arca presso gli
Israeliti."
Si sottolinea la presenza nei versetti
citati, del termine kalimât, che è utilizzato nei capitoli dei Fusûs
per designare le differenti manifestazioni del Verbo universale. In effetti, è
per mezzo dei 'Verbi di Allâh' che ogni volta si opera il Ritorno divino verso
un popolo o una comunità a un determinato momento del ciclo storico; sono loro
ad essere i supporti successivi della 'teofania adeguata'; e, almeno quando si
tratta di inviati divini, sono sempre loro a fissare i mezzi con i quali
estendere all’insieme della comunità di cui hanno la responsabilità la grazia
legata a questo Ritorno, come pure le condizioni della Riconciliazione divina.
La moltitudine di queste riconciliazioni e di queste alleanze è indicata dalla
morfologia del nome divino at-Tawwâb la cui forma nominale, simile a
quella del Nome 'Allâh', implica un accento d’intensità e d’universalità.
Tutto questo conferma senza alcun dubbio
la relazione tra il 'Libro dei Castoni' e la dottrina esoterica del Tâbût
adamitico; inoltre, il punto di vista particolare dell’ 'eredità muhammadiana'
è evocato dalla presenza, nel passaggio coranico citato, del Nome ar-Rahîm
(il molto Misericordioso), che, a differenza di ar-Rahmân, è non solo un
Nome divino ma anche un nome del Profeta, su di lui la Grazia e la Pace; e cosa
ancor più degna di nota è che questo nome lo qualifica in quanto manifestazione
perfetta della Forma di Allâh, ossia dell’Uomo Universale considerato
come Califfo Supremo[10].
Sottolineando che il Nome ar-Rahîm menzionato in questo passaggio “serve
da qualificativo al Nome at-Tawwâb”, Michel Vâlsan indica che le
successive alleanze divine che intervengono nel corso della storia terrestre si
operano sotto l’autorità e l’egida del 'Califfato muhammadiano', designazione
che qui esprime, in un linguaggio islamico, la permanenza della Presenza e
delle Scienze divine nel cuore dello stato umano.
La funzione nell’insegnamento esoterico
dell’Islam del 'Libro dei Castoni delle Saggezze' implica al più alto grado il
principio di una Riconciliazione divina universale. Ognuno dei suoi capitoli
esprime un aspetto fondamentale della Saggezza eterna identificata al
'castone', ossia al cuore di un profeta, e lo illumina alla luce d’una dottrina
metafisica suprema che trascende di gran lunga le tre religioni monoteiste alle
quali appartengono nominalmente i Verbi profetici che di volta in volta sono
menzionati e studiati. Tutte le verità fondatrici delle forme tradizionali sono
qui riunite in una sintesi finale che rivela la loro unità essenziale. In un
momento ciclico in cui queste forme, in quanto tali irriducibili le une alle
altre, sono per la prima volta messe a confronto, e in cui il loro apparente
antagonismo fa il gioco della sovversione, l’affermazione esplicita del loro
principio comune appare come una Grazia e una Benedizione ultime indirizzate
all’insieme degli uomini. Mentre le manifestazioni storiche del Tâbût
adamitico suggellavano le alleanze che rinnovavano il Patto primordiale,
permettendo alle diverse comunità umane diversificate nel tempo e nello spazio
di ritrovare, secondo modalità e condizioni variabili, lo statuto originale
perduto, la formulazione islamica della dottrina del Tesoro d’Adamo comporta
delle virtualità che non sono dello stesso ordine. Certo, le condizioni d’una
nuova alleanza sono fissate dalla Legge trasmessa dal Sigillo dei profeti; e
altrettanto certamente questa legge nella sua modalità formale è incompatibile
con le legislazioni sacre anteriori, che essa abroga in linea di principio,
conformemente alle esigenze del Diritto sacro. Tuttavia in rapporto alla Verità
universale questo apparente particolarismo non ha altra ragion d’essere che
portare il supporto provvidenziale e misericordioso d’una riconciliazione
finale e totale dell’insieme delle forze tradizionali che sussistono ed operano
presentemente nel mondo. L’Islam, per come è in linea di principio e in quanto
resta intatto nonostante le incomprensioni d’ogni sorta che oggi lo sfigurano,
instaura una comunità fraterna che s’identifica virtualmente all’umanità
intera. Le Saggezze e le Vie iniziatiche anteriori sono riunite nel suo seno in
una formulazione nuova direttamente ricollegata alla luce e alla guida
muhammadiane, cosa della quale il presente trattato apporta un’eclatante
testimonianza. I tipi profetici precedenti sono realizzati come altrettante
modalità comprese nella Saggezza della Legge islamica totale, in virtù del
principio tradizionale secondo cui “i Santi sono gli eredi dei Profeti”. Da
questo punto di vista, il 'Libro dei Castoni delle Saggezze' appare essere il
libro per eccellenza della Maestria spirituale al suo più alto grado. Nello
stesso tempo, l’insegnamento dottrinale di cui è veicolo costituisce il
supporto di una manifestazione privilegiata della Sakîna[11],
e possiede per tale motivo un’autorità particolare. Esso detiene le chiavi che
aprono la comprensione intima delle verità rivelate e dei segreti che
appartengono alle tradizioni anteriori, al punto che è possibile affermare che
ogni opposizione alla Dottrina sacra che espone, opposizione fatta nel nome di
una forma tradizionale particolare o di un credo limitativo, implica
necessariamente una concordante incomprensione di questa stessa forma
tradizionale e di questo credo; e ciò è vero anche quando, com'è troppo spesso
il caso, questa opposizione proviene da musulmani dotati di scarsa comprensione
che ignorano la natura della religione che professano, e la vera ragione della
sua eccellenza.
Se l’insegnamento esoterico contenuto in
questo libro si rivolge all’Elite intellettuale degli uomini, quale che sia la
religione o la forma rivelata alla quale appartengono, esso è nondimeno
puramente muhammadiano nella sua fonte, ed esclusivamente islamico nella sua
espressione e nei suoi riferimenti tradizionali. Questo è un elemento
essenziale, il cui pieno intendimento domina e condiziona l'intellezione dei
suoi diversi capitoli. In tal senso osserviamo che è possibile considerare
l’unità metafisica dell’insieme sotto più punti di vista. È possibile
innanzitutto rapportarla al Profeta, su di lui la Grazia e la Pace, che in
quanto Uomo Perfetto (al-insân al-kâmil), possiede la Scienza e la
Profezia universali, e riunisce in sé le Saggezze rappresentate dalle
differenti manifestazioni del Verbo divino; e questo perché egli è la fonte
prima del presente lavoro, come abbiamo detto. Ma è anche possibile riferire
questa unità anche all’autore apparente, ossia a Ibn Arabî, poiché questi, in
quanto Sigillo della Sanità muhammadiana, sintetizza tutte le modalità e tutti
i gradi della realizzazione metafisica. Da questo punto di vista, i differenti
Verbi menzionati nei Fusûs appaiono come altrettanti tipi spirituali
realizzabili secondo la loro formulazione muhammadiana, il che implica una
certa trasposizione dei casi che li riguardano, esplicitamente indicata in
diversi capitoli; per esempio nel nono, in cui dopo aver spiegato la Saggezza
dello Yûsuf (Giuseppe) 'storico', lo Sheikh al-Akbar tratta della realizzazione
iniziatica e dell’eccellenza dello “Yûsuf muhammadiano”. Questo punto di vista,
che è quello della Santità universale, predomina nell’opera. Del resto Ibn
Arabî indica espressamente nel suo testo introduttivo che il Libro dei Fusûs
si rivolge “alle Genti d’Allâh che sono i Maestri dei cuori”, ossia i modelli e
le guide sulla Via della realizzazione spirituale. Questo spiega perché i suoi
capitoli siano considerati dai commentatori del Tasawwuf come
altrettante 'Stazioni iniziatiche', e perché in base a questo essi giustificano
l’ordine di successione delle differenti Saggezze, che non sempre è quello
della manifestazione storica dei Verbi corrispondenti; così la Saggezza di
Sulaymân (Salomone) è esposta prima di quella di suo padre Dâwûd (Davide), e
quella di Yahyâ (Giovanni Battista) prima di quella di Zakhariyyâ (Zaccaria).
Infine, questa unità metafisica può essere rapportata a ’Isâ ibn Maryam, 'Gesù
figlio di Maria', che, secondo il Corano, è «il Suo Verbo che Egli ha
proiettato in Maria» (Cor. 4,171). ‘Isâ è il Verbo da cui procedono tutti i
Verbi come dall'unica loro essenza[12], ed è
per mezzo di Maryam che sono resi molteplici. In effetti ella simboleggia la
Sostanza divina che è la 'madre delle forme'. Se Maryam è la sola delle grandi
figure coraniche alla quale non è espressamente consacrato alcun capitolo
dell’opera, non è solamente perché è una donna, secondo la spiegazione
ordinaria, ma è anche e soprattutto perché essa rappresenta il Mistero da cui
procedono tutte le Saggezze.
Questo triplice punto di vista mette in
evidenza la relazione dei Fusûs con la dottrina dei 'tre Sigilli'
dell’esoterismo islamico: Muhammad, Sigillo dei Profeti; Ibn Arabî, Sigillo
della Santità muhammadiana; il Cristo della Seconda Venuta, Sigillo della
Santità universale. Ricordiamo che questi Sigilli non dipendono dalla forma
islamica nel senso restrittivo e limitativo di questa espressione, ma dal
Centro iniziatico Supremo. Essi sono 'indipendenti' a riguardo dell’Islam nella
misura in cui è questo a dipendere da loro dal punto di vista della sua
definizione formale e dei suoi riadattamenti ciclici[13]. Se
dunque i dati relativi al Tesoro d’Adamo ricollegano l’ispirazione di questo
lavoro alla Tradizione primordiale, la dottrina dei Sigilli mette in luce la
sua funzione escatologica, evocata nell’ultimo capitolo dalla Saggezza
muhammadiana propriamente detta. In effetti, la fardiyya racchiude un
significato che si ricollega al numero 3, di cui il 27 rappresenta, in
corrispondenza con ciascun Sigillo, le tre potenze visibili. In questa
prospettiva, si noterà ancora che il simbolismo delle gemme, suggerito e
implicito in quello dei castoni, appartiene al regno minerale, come la
Gerusalemme Celeste; del resto, la rivelazione del Cofano adamitico e del suo
contenuto, nella misura autorizzata da Dio, appare veramente come un'
'apocalisse', ossia come uno svelamento dei misteri nascosti. Se il Tâbût assoluto
e primordiale, considerato in quanto Arca “dei tesori tradizionali da
salvaguardare durante i periodi di pericolo esteriore", può essere
identificato con la Legge universale proclamata dal Profeta, che Allâh spanda
su di lui la Sua Grazia unitiva e la Sua Pace, questi stessi tesori,
eminentemente rappresentati dalle Saggezze dei Verbi, permangono inalterati
nella loro unità inviolabile e nella loro permanente attualità attraverso la
decadenza del nostro mondo, poiché contengono e preservano, nell’attesa d’una
Provvidenza e d’una Benedizione nuove, i principi spirituali del ciclo futuro.
L’unità principiale dei Verbi si riflette
in una particolarità nel titolo dei capitoli: sia le Saggezze qualificate per
mezzo di termini indicativi delle Stazioni iniziatiche che i Verbi
corrispondenti, nominalmente attribuiti ai diversi profeti, sono grammaticalmente
indeterminati, il che costituisce un simbolo di totale universalità. Se per
esempio si prende il primo capitolo, bisogna comprendere che non si tratta de
'la Saggezza divina nel Verbo d’Adamo', ma di una Saggezza assoluta e
indeterminata qualificata come “divina” quando la si consideri essere quella
del Verbo universale esaminato nella sua espressione adamitica. Per la stessa
ragione questi capitoli non sono numerati, contrariamente a quelli delle Futûhât.
Ed è unicamente per una questione di comodità che una tale numerazione appare
presso i commentatori. Se nella traduzione del testo sono stati preferiti i
nomi coranici dei profeti, in luogo dei loro equivalenti francesi, ciò è dovuto
proprio al fine di preservare questa unità formale dell’insieme.
L’ispirazione da cui procede l’opera
conferisce al suo stile una grande spontaneità; nondimeno essa appare ben
elaborata, soprattutto nelle diverse parti in cui le idee si succedono secondo
una logica al contempo razionale nelle sue concatenazioni e tradizionale nei
suoi riferimenti. La sua comprensione richiede una vasta conoscenza della
tradizione islamica in generale e degli insegnamenti dello Sheikh al-Akbar in
particolare, principalmente quelli contenuti nelle Futûhât.
Il testo è ben stabilito, e comporta
tutto sommato poche varianti. D’altra parte, innumerevoli passaggi sono resi
ambigui dall’estrema concisione del loro stile. La traduzione obbliga
continuamente a scegliere tra più interpretazioni, senza che nulla permetta di
stabilire con certezza quale sia la più conforme alle intenzioni dell’autore.
Peraltro è evidente che questa indeterminatezza implicante più sensi è da
questi voluta; raramente l’adagio traduttore traditore [in italiano nel
testo, ndt] è stato più appropriato. Per tale motivo è grande il pericolo di
aggiungere indebitamente dei significati che un esame scrupoloso del testo o
del contesto esige vengano scartati; o ancor peggio, di comprendere altre cose
rispetto a ciò che è realmente scritto, e di introdurre nella traduzione delle idee
preconcette. La minima disattenzione può determinare un controsenso. La
difficoltà risulta ancor più grande quando la dottrina suprema esposta nei Fusûs
al-Hikam porta lo Sheikh al-Akbar a commentare certi dati
tradizionali in una maniera che differisce dalle loro interpretazioni
anteriori.
Tutto ciò spiega e giustifica il gran
numero di commentari tradizionali ai quali l’opera ha dato luogo; secondo Osman
Yahyâ oltre un centinaio. È impossibile tener conto di tutte le spiegazioni che
sono state proposte, e nulla sarebbe più contrario all’insegnamento di
Ibn Arabî che cercare di riassumerle tutte. In nostro fine è stato di
presentare in francese una traduzione completa e intellegibile, cosa che
comunque richiede il ricorso ad abbondanti note, anche quando le si riduce
all’indispensabile. Questo è il metodo da noi scelto. In ogni capitolo, la
traduzione è posta all’inizio. Una distinzione fondamentale è stata stabilita
tra le note che si rapportano alla comprensione del testo e quelle che
concernono l’insegnamento dottrinale. Le prime figurano a piè di pagina, e in
esse sono indicate le varianti, le interpretazioni divergenti, i riferimenti, e
il senso letterale dei termini arabi in trascrizione. Le seconde sono precedute
da una presentazione sintetica della qualificazione propria alla Saggezza
studiata e del Verbo nominale corrispondente a tale Saggezza, in riferimento
all’insieme del capitolo, e a volte anche a degli elementi tradizionali
estranei al testo attinti dai commentari in lingua araba o dall’insegnamento
dei nostri due Maestri, Sheikh Abd al-Wâhid (René Guénon) e Sheikh Mustafâ
(Michel Vâlsan); attraverso la loro mediazione, è stato possibile operare degli
accostamenti significativi con le Rivelazioni anteriori all’Islam. Di seguito a
questa presentazione iniziale figurano le interpretazioni dottrinali
complementari riguardanti in particolar modo questo o quel passaggio. Per
facilitare la loro consultazione abbiamo diviso il testo della traduzione in
paragrafi numerati, che possono comportare più capoversi. Beninteso questa
divisione, come quella inizialmente stabilita tra le note relative al testo e
quelle riferite alla dottrina, è dovuta unicamente ad una ragione pratica,
poiché spesso la comprensione dottrinale è direttamente tributaria di quella
del testo, e viceversa. (…)
[1]
Ne sia esempio la
qualificazione della Saggezza nel titolo del capitolo, che può benissimo non
essere spiegata nel testo che segue.
[2]
Su questo punto,
vedi il nostro studio René Guénon et l’avénement du troisième Sceau, pagg.
54-5.
[3]
A proposito di
questa tradizione, vedi Michel Vâlsan Le Coffre d’Héraclius et la tradition
du “Tâbût” adamique in Etudes Traditionelles (Studi Tradizionali),
1962-1963 [vedi la traduzione italiana dal titolo Il cofano di Eraclio,
a cura della Edizioni del Veltro]. A meno d’indicazioni contrarie, è a questo
studio che noi faremo riferimento nelle pagine seguenti.
[4]
Vedi Il
simbolismo della Croce, cap. III, nota 2. Secondo René Guénon, un
personaggio che nell’Islam occupava “anche da un semplice punto di vista
essoterico un rango molto elevato” un giorno disse: “Se i Cristiani hanno
il segno della Croce, i Musulmani ne hanno la dottrina”.
[5]
La prima (Cor.
2,248) si riferisce al cofano di papiro rivestito d’asfalto e di pece nel quale
Mosè bambino fu lanciato nelle acque del Nilo; la seconda (Cor. 20,39) all’Arca
dell’Alleanza.
[6]
Si tratta
chiaramente della Tradizione mosaica.
[7]
A tale proposito
vedi René Guénon, Il Regno della quantità e i Segni dei tempi, cap. XX.
[8]
Il significato
simbolico di questo numero sarà spiegato nel nostro commento sul Verbo di
Muhammad.
[9]
Questa spiegazione
è resa necessaria poiché il termine tawba, nel suo significato corrente,
indica il 'pentimento' del servo, mentre qui si tratta di un 'ritorno' da parte
del Signore, che implica un senso di riconciliazione. Precisiamo che Tawwâb e
tawba hanno la stessa radice.
[10]
Cfr. Etudes
Traditionelles (Studi Tradizionali), 1963, p. 84-85. Qâchânî considera la
Forma dell’Uomo Universale come essere il Nome Supremo di Allâh, conformemente
al hadîth secondo il quale “Allâh ha creato Adamo secondo la Sua Forma”.
[11]
Michel Vâlsan ha
mostrato il legame tra la Sakîna e la dottrina del Tâbût, in
riferimento a Cor. 2,248.
[12]
Nel capitolo 360
delle Futûhât, commentando il versetto dove si dice che Maryam «aggiunge fede ai Verbi del suo Signore» (Cor. 66,12), Ibn Arabî precisa: “Non
era altri che ‘Isâ, di cui Egli aveva fatto delle forme (molteplici) per lei”.
[13]
Cfr. René
Guénon e l’avvento del terzo Sigillo, cap. V. Il riferimento alla dottrina
dei Sigilli permette di comprendere perché, secondo l’indicazione data da Jandî,
Ibn Arabî aveva proibito che i Fusûs fossero posti nella stessa
rilegatura insieme alle altre sue opere.
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