"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

sabato 15 novembre 2014

René Guénon, Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi, 14. Meccanicismo e materialismo

René Guénon
Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi

14. Meccanicismo e materialismo 

Il primo prodotto del razionalismo, nel campo cosiddetto «scientifico», fu il meccanicismo cartesiano; il materialismo doveva venire solo più tardi, poiché, come abbiamo spiegato altrove, il termine, e ciò che esso rappresenta datano propriamente dal secolo XVIII; del resto, quali che fossero le intenzioni dello stesso Cartesio (ed infatti dalle sue idee spinte fino alle estreme conseguenze logiche si sono potute trarre teorie assai contrastanti fra loro), c’è pur sempre dall’uno all’altro una filiazione diretta.
A questo proposito, non è inutile ricordare che se si può attribuire la denominazione di meccanicismo alle antiche concezioni atomistiche quali quelle di Democrito e soprattutto di Epicuro (i quali sono senza dubbio, nell’antichità, i soli «precursori» a cui i moderni possano riallacciarsi con qualche ragione) è a torto che spesso le si vuol considerare come una prima forma del materialismo, perché quest’ultimo implica anzitutto la nozione di «materia» dei fisici moderni, nozione che, a quell’epoca, era ancora ben lontana dall’esser nata. La verità è che il materialismo rappresenta soltanto una delle due componenti del dualismo cartesiano, quella appunto a cui il suo autore aveva applicato la concezione meccanicistica; bastava quindi trascurare o negare l’altra componente, oppure, che è poi lo stesso, pretendere di ridurre a quella l’intera realtà per arrivare in modo del tutto naturale al materialismo.
Contro Cartesio ed i suoi discepoli, Leibnitz ha messo assai bene in evidenza l’insufficienza di una fisica meccanicistica, perché questa, per la sua stessa natura, non può che render conto dell’apparenza esteriore delle cose, ed è incapace di spiegare alcunché della loro essenza vera; si può cioè affermare che il meccanicismo ha un valore unicamente «rappresentativo» e in nessun modo esplicativo: e non è esattamente questo il caso di tutta la scienza moderna? Non accade diversamente anche in un esempio molto semplice come quello del movimento, nonostante che esso sia quello che di solito viene considerato come suscettibile per eccellenza d’essere spiegato meccanicamente; una spiegazione del genere – dice Leibnitz – non vale se non in quanto si consideri il movimento solo come un mutamento di situazione, per il quale, quando cambia la rispettiva situazione di due corpi, è indifferente dire che il primo si muove in rapporto al secondo, oppure il secondo in rapporto al primo, dato che vi è una reciprocità perfetta. Ma le cose cambiano quando si prende in considerazione la ragione del movimento, poiché, trovandosi questa ragione in uno dei due corpi, è quello soltanto che sarà detto muoversi, mentre l’altro svolge nel cambiamento intervenuto una funzione puramente passiva; ma ciò sfugge totalmente alle considerazioni d’ordine meccanico e quantitativo. Il meccanicismo si limita quindi in definitiva a dare una semplice descrizione del movimento, qual è nelle sue apparenze esteriori, mentre è impotente a coglierne la ragione, cioè ad esprimere quell’aspetto essenziale o qualitativo del movimento che è l’unico a poterne dare la spiegazione reale: e lo stesso avverrà, a maggior ragione, per tutte le altre cose a carattere più complesso e in cui la qualità predominerà ancor di più sulla quantità. Una scienza siffatta non potrà dunque avere alcun valore di conoscenza effettiva, nemmeno per quanto riguarda il campo relativo e limitato nel quale è racchiusa.
Tale concezione in cui tutta quanta la natura dei corpi è ridotta all’estensione, e questa considerata solo dal lato quantitativo, è proprio quella che, pur nella sua manifesta insufficienza, Cartesio ha voluto applicare a tutti i fenomeni del mondo corporeo; e già allora, proprio come i meccanicisti più recenti ed i materialisti, egli non faceva a questo riguardo alcuna distinzione fra i corpi detti «inorganici» e gli esseri viventi. Diciamo gli esseri viventi, e non soltanto i corpi organizzati, perché lo stesso essere, in omaggio alla troppo famosa teoria cartesiana degli «animali-macchine» (una delle più sorprendenti assurdità che lo spirito sistematico abbia mai generato), si trova qui effettivamente ridotto al corpo; è soltanto quando passa a considerare l’essere umano che Cartesio, nella sua fisica, si crede obbligato a specificare che ciò di cui intende parlare è solo il «corpo dell’uomo». Ma, a che vale questa restrizione dal momento che, per ipotesi, tutto quanto avviene in questo corpo sarebbe esattamente lo stesso se lo «spirito» non ci fosse? L’essere umano in effetti, proprio a causa del dualismo, si trova come diviso in due parti che non riescono più a ricongiungersi e che non possono formare un composto reale; infatti, essendo tali parti supposte assolutamente eterogenee, nessun mezzo può farle entrare in comunicazione, per cui ogni azione effettiva dell’una sull’altra è resa impossibile. Per di più, si è avuta la pretesa di spiegare meccanicamente tutti i fenomeni che si producono negli animali, ivi comprese le manifestazioni di carattere più evidentemente psichico. Ci si può allora chiedere perché non si faccia lo stesso con l’uomo, e se non sia permesso trascurare l’altro termine del dualismo come non necessario alla spiegazione delle cose; di qui a considerarlo come un’inutile complicazione e a trattarlo come inesistente di fatto, poi a negarlo puramente e semplicemente, il passo è breve, specie per gente la cui attenzione è costantemente tutta rivolta verso l’ambito sensibile, come è il caso degli Occidentali moderni: è in questo modo che la fisica meccanicistica di Cartesio doveva inevitabilmente preparare la via al materialismo.
La riduzione al quantitativo era già teoricamente operata per tutto quanto appartiene propriamente all’ordine corporeo, nel senso che la possibilità di questa riduzione era già implicita nella costituzione stessa della fisica cartesiana; non restava quindi che estendere tale concezione all’insieme della realtà quale la si comprendeva, realtà che del resto, in virtù dei postulati del razionalismo, si trovava ristretta al solo ambito dell’esistenza individuale. Partendo dal dualismo, questa riduzione doveva necessariamente presentarsi come una riduzione dello «spirito» alla «materia», consistente nell’includere in quest’ultima esclusivamente tutto ciò che Cartesio aveva messo nell’uno e nell’altro dei due termini, al fine di poter ricondurre tutto ugualmente alla quantità. L’aver in qualche modo relegato «al di là delle nuvole» l’aspetto essenziale delle cose equivaleva a sopprimerlo completamente per non più voler considerare ed ammettere se non il loro aspetto sostanziale, poiché è a questi due aspetti che corrispondono rispettivamente lo «spirito» e la «materia», anche se ne offrono in verità un’immagine molto sminuita e deformata. Cartesio aveva fatto entrare nell’ambito quantitativo la metà del mondo com’egli lo concepiva, e senza dubbio la metà ai suoi occhi più importante, perché, al fondo del suo pensiero, e quali che fossero le apparenze, egli voleva essere anzitutto un fisico. Il materialismo, a sua volta, ha preteso di farci entrare il mondo intero; si trattava solo di sforzarsi di elaborare effettivamente questa riduzione mediante teorie sempre più appropriate a questo fine, ed è a tale bisogna che doveva dedicarsi tutta la scienza moderna, anche quando non si dichiarava apertamente materialista.
Oltre al materialismo esplicito e formale esiste infatti anche ciò che si può chiamare un materialismo di fatto, la cui influenza si estende molto più lontano, se molte persone, che pur non si ritengono affatto materialiste, si comportano tuttavia come tali in ogni circostanza; tra questi due materialismi c’è in definitiva una relazione molto simile a quella precedentemente citata tra razionalismo filosofico e razionalismo volgare, salvo che il semplice materialista di fatto generalmente non rivendica tale qualità, anzi sovente protesterebbe se gliela si attribuisse, mentre il razionalista volgare, fosse pure l’uomo più ignorante in materia di filosofia, è al contrario il più pronto a proclamarsi tale, fiero del titolo piuttosto ironico di «libero pensatore», mentre in realtà non è che lo schiavo di tutti i pregiudizi della sua epoca. Comunque sia, come il razionalismo volgare è il prodotto della diffusione del razionalismo filosofico presso il «grosso pubblico», con tutto ciò che la sua «messa alla portata di tutti» comporta, così il materialismo propriamente detto sta al punto di partenza del materialismo di fatto, nel senso che ha reso possibile quella generale condizione di spirito e ha effettivamente contribuito alla sua formazione; ma è fuori questione che, in definitiva, tutto si spiega sempre con lo sviluppo delle medesime tendenze costituenti il fondamento stesso dello spirito moderno. Va da sé che uno scienziato nel senso attuale del termine, anche se non fa professione di materialismo, ne sarà tanto più fortemente influenzato quanto più la sua educazione specialistica è diretta in quel senso; ed anche quando, come talora accade, lo scienziato creda di non mancare di «spirito religioso», troverà il modo di separare così completamente la sua religione dalla sua attività scientifica che la sua opera non potrà minimamente distinguersi da quella del più riconosciuto materialista; per cui, alla pari di quest’ultimo, egli svolgerà la sua funzione nella costruzione «progressiva» della scienza più esclusivamente quantitativa e più grossolanamente materiale che sia dato concepire; ed è in questo modo che l’azione antitradizionale riesce ad utilizzare a proprio vantaggio perfino quelli che, al contrario, dovrebbero essere i suoi logici avversari, se la deviazione della mentalità moderna non avesse formato degli esseri pieni di contraddizioni e, inoltre, incapaci di accorgersene. Anche qui la tendenza alla uniformità trova modo di realizzarsi, perché tutti gli uomini arrivano praticamente a pensare e ad agire nello stesso modo, ed anche ciò in cui, nonostante tutto, essi ancora differiscono, non ha più che un minimo di influenza effettiva, e non si traduce esteriormente in niente di reale; è per questo che, in un mondo siffatto e salvo ben rare eccezioni, un uomo che si dichiari cristiano non manca di comportarsi di fatto come se non ci fosse nessuna realtà al di fuori della sola esistenza corporea, ed un prete che fa «della scienza» non si diversifica sensibilmente da un universitario materialista. Quando si arriva ad una tale situazione, possono le cose andare ancora molto avanti prima che il punto più basso della «discesa» sia finalmente raggiunto?

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