"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

venerdì 7 novembre 2014

René Guénon Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi - 10. L’illusione delle statistiche

René Guénon
Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi 

10. L’illusione delle statistiche

Ritorniamo ora a considerare il punto di vista più propriamente «scientifico» come lo intendono i moderni.
Questo punto di vista è sostanzialmente caratterizzato dalla pretesa di ridurre tutte le cose alla quantità, e di non tenere in alcun conto quel che non è riducibile ad essa e di considerarlo in un certo senso come inesistente; si è persino arrivati a pensare e a dire comunemente che tutto quanto non può essere «numerato», cioè espresso in termini puramente quantitativi, è, appunto per ciò, sprovvisto di ogni valore «scientifico» ; e questa pretesa non si applica solo alla «fisica» nel significato ordinario della parola, ma a tutto l’insieme delle scienze «ufficialmente» ammesse oggi, ivi compreso, come abbiamo già visto, anche il campo psicologico.
Le spiegazioni da noi date in precedenza bastano a far capire che, a questo modo, si lascia fuori tutto quanto è veramente essenziale nella più ristretta accezione del termine, e che, a cadere in preda di una scienza del genere è, in realtà, soltanto un «residuo» del tutto incapace a spiegare qualsiasi cosa; desideriamo tuttavia insistere ancora un po’ su un aspetto molto caratteristico di questa scienza, il quale mette in particolare evidenza come essa si illuda su ciò che è possibile trarre da semplici valutazioni numeriche; cosa questa che si riallaccia del resto, in modo diretto, agli argomenti che abbiamo trattato per ultimi.
La tendenza all’uniformità, in effetti, che la si applichi nell’ambito «naturale» oppure nell’ambito umano, conduce ad ammettere, ed in certo qual modo a stabilire come principio (noi dovremmo piuttosto dire «pseudo-principio»), che esistono ripetizioni di fenomeni identici, la qual cosa, in virtù del «principio degli indiscernibili», è una pura e semplice impossibilità. Quest’idea si traduce in particolare nell’affermazione corrente secondo cui «le stesse cause producono sempre gli stessi effetti», il che, enunciato in questa forma, è decisamente assurdo, perché di fatto, in un ordine successivo di manifestazione, non possono esserci né le stesse cause né gli stessi effetti; eppure non si arriva forse a dire comunemente che «la storia si ripete», quando in realtà esistono solo corrispondenze analogiche fra certi periodi e fra certi avvenimenti? Quel che si dovrebbe dire, è che cause paragonabili tra loro sotto certi rapporti producono effetti ugualmente paragonabili sotto gli stessi rapporti; ma a parte certe rassomiglianze, che se si vuole rappresentano un’identità parziale, vi sono sempre necessariamente delle differenze, proprio perché, per ipotesi, si tratta di due cose distinte e non di una sola e stessa cosa. È vero che queste differenze, per il fatto stesso di essere distinzioni qualitative, sono tanto minori quanto più ciò che si considera appartiene ad un grado più basso della manifestazione, e che, di conseguenza, si accentuano nella stessa misura le somiglianze, così da far pensare in taluni casi ad una specie di identità, ad un’osservazione superficiale ed incompleta; ma in realtà le differenze non si eliminano mai completamente, altrimenti si sarebbe addirittura al di sotto di ogni manifestazione. Quand’anche tali differenze risultassero dall’influenza di circostanze di tempo e luogo cangianti senza posa, non per questo si potrebbero trascurare; in verità, per comprenderle, bisogna rendersi conto che, contrariamente all’opinione dei moderni, lo spazio ed il tempo reali non sono soltanto contenenti omogenei e modi della quantità pura e semplice, ma che esiste anche un aspetto qualitativo delle determinazioni temporali e spaziali. Comunque sia, c’è da chiedersi come, trascurando le differenze e rifiutandosi in un certo senso di vederle, si possa pretendere di costituire una scienza «esatta». A rigore e effettivamente di «esatto» non può esserci che la matematica pura in quanto essa veramente si riferisce al dominio della quantità; quel che resta della scienza moderna non è e non può essere, in tali condizioni, se non un tessuto di approssimazioni più o meno grossolane, e ciò non soltanto nelle applicazioni, in cui tutti più o meno sono obbligati a constatare l’inevitabile imperfezione dei mezzi di osservazione e di misura, ma anche nello stesso punto di vista teorico. Le supposizioni irrealizzabili che costituiscono quasi tutta la sostanza della meccanica «classica», la quale poi serve da base a tutta la fisica moderna, potrebbero fornire qui una moltitudine di esempi caratteristici.[1]
L’idea di prendere la ripetizione in qualche modo a fondamento di una scienza tradisce un’ulteriore illusione di ordine quantitativo, la quale consiste nella convinzione che il solo accumulare un gran numero di fatti possa servire di «prova» ad una teoria. Eppure è evidente, per poco che vi si rifletta, che i fatti di uno stesso genere sono sempre in moltitudine indefinita, per cui non si può mai constatarli tutti, senza contare che gli stessi fatti si accordano generalmente bene con numerose teorie diverse. Si dirà che la constatazione di un più grande numero di fatti dà almeno una maggiore «probabilità» alla teoria: ma questo modo di procedere equivale a riconoscere che non si può assolutamente arrivare ad una certezza qualsiasi e quindi che le conclusioni enunciate non hanno proprio niente di «esatto»; ed equivale pure ad ammettere il carattere del tutto «empirico» della scienza moderna, i cui fautori, per una strana ironia, si compiacciono di tacciare di «empirismo» le conoscenze degli antichi, quando in realtà è vero esattamente il contrario, perché tali conoscenze, di cui essi ignorano del tutto la vera natura, partivano da principi e non da constatazioni sperimentali, e quindi si può ben dire che la scienza profana è costituita esattamente al rovescio della scienza tradizionale. Si può anche dire che, per quanto insufficiente sia l’«empirismo» in se stesso, quello della scienza moderna è ben lungi dall’essere integrale, poiché trascura o elimina una parte considerevole dei dati dell’esperienza, tutti quelli cioè che presentano un carattere prettamente qualitativo. L’esperienza sensibile, non diversamente da qualsiasi genere di esperienza, non può assolutamente vertere sulla quantità pura, e più ci si avvicina a questa, più ci si allontana da quella realtà che si pretende constatare e spiegare; e, di fatto, non sarebbe difficile accorgersi come le teorie più recenti sono anche quelle che hanno meno rapporto con tale realtà, e che più volentieri sostituiscono quest’ultima mediante «convenzioni», non diremo del tutto arbitrarie (in quanto è impossibile fare una «convenzione» senza che vi sia qualche ragione per farla), ma perlomeno arbitrarie al massimo, cioè quasi prive di fondamento nella vera natura delle cose.
Dicevamo un momento fa che la scienza moderna, per il fatto stesso di voler essere completamente quantitativa, rifiuta di tener conto delle differenze tra i fatti particolari, perfino in casi in cui queste differenze sono più accentuate, cioè in quelli ove gli elementi qualitativi hanno maggior predominanza su quelli quantitativi; ed è soprattutto in questo caso che si può dire che le sfugge la parte più considerevole della realtà, e che l’aspetto parziale ed inferiore della verità che essa può afferrare nonostante tutto (poiché l’errore totale non può avere altro senso che quello d’una negazione pura e semplice) si trova pertanto ridotto pressoché a niente. È così soprattutto quando si arriva a prendere in esame fatti di ordine umano, i più altamente qualitativi di tutti quelli che tale scienza intende comprendere nel proprio ambito, e che tuttavia essa si sforza di trattare esattamente come gli altri, come quelli che essa rapporta non soltanto alla «materia organizzata», ma anche alla «materia bruta»: essa in effetti non ha che un solo metodo che uniformemente applica agli oggetti più diversi, appunto perché, dal suo particolare angolo visuale, è incapace di distinguerne le differenze essenziali. È appunto in quest’ordine umano, si tratti di storia, di «sociologia», di «psicologia» o di qualunque altro genere di studi, che appare nel modo più pieno il carattere fallace delle «statistiche» a cui i moderni attribuiscono tanta importanza. Qui, come in tutti gli altri casi, tali statistiche consistono soltanto nel contare un numero più o meno grande di fatti, supposti tutti completamente simili tra loro, ché, diversamente, la loro somma non avrebbe significato alcuno; ed è evidente che a questo modo si ottiene soltanto un’immagine della realtà tanto più deformata quanto più i fatti in questione non sono effettivamente simili e paragonabili che in misura minima, cioè quanto più considerevoli sono l’importanza e la complessità degli elementi qualitativi che essi implicano. Solamente che, con l’incolonnare a questo modo cifre e calcoli, ci si crea, mentre si cerca di darla agli altri, una certa illusione di «esattezza» che si potrebbe qualificare «pseudo-matematica». Di fatto però, senza nemmeno accorgersene, grazie alle idee preconcette, si trae indifferentemente da queste cifre quasi tutto quel che si vuole, tanto sono prive di significato in se stesse; lo prova il fatto che le stesse statistiche, fra le mani di scienziati diversi anche se dediti alla stessa «specialità», danno spesso luogo, a seconda delle loro rispettive teorie, a conclusioni del tutto diverse se non addirittura diametralmente opposte. In queste condizioni, le cosiddette scienze «esatte» dei moderni, col far intervenire le statistiche e col voler pretendere di trarne previsioni per l’avvenire (sempre in virtù della supposta identità di tutti i fatti considerati, siano essi passati o futuri), non sono in realtà se non semplici scienze «congetturali», secondo l’espressione impiegata volentieri dai promotori di una certa astrologia moderna detta «scientifica» (che riconoscono in tal modo più francamente di altri di che cosa si tratta), la quale non ha certamente se non rapporti molto vaghi e lontani, ammesso che ne abbia qualcuno oltre alla terminologia, con la vera astrologia tradizionale degli antichi, oggigiorno tanto perduta quanto le altre conoscenze dello stesso ordine. Questa «neo-astrologia», nel tentativo di darsi una base «empirica» e senza ricollegarsi ad alcun principio, fa appunto un grande uso delle statistiche, le quali anzi vi occupano un posto preponderante; è appunto per questa ragione che si pensa di poterla onorare dell’epiteto «scientifica» (il che implica del resto il rifiuto di attribuire tale carattere all’astrologia vera, così come a tutte le scienze tradizionali similmente costituite), e tutto ciò è ben significativo e caratteristico della mentalità moderna.
La supposizione di una identità tra i fatti che in realtà sono solo dello stesso genere, cioè paragonabili esclusivamente sotto certi rapporti, oltre a contribuire, come abbiamo spiegato, a creare l’illusione di una scienza «esatta», soddisfa molto bene il bisogno di semplificazione eccessiva, altra caratteristica assai stupefacente della mentalità moderna; talché si potrebbe, senza la minima intenzione ironica, qualificare tale mentalità di pretto «semplicismo», tanto nelle sue concezioni «scientifiche», quanto in tutte le altre sue manifestazioni. Tutte queste cose sono del resto solidali, e il bisogno di semplificare accompagna necessariamente la tendenza a tutto ridurre al quantitativo, e per di più la rinforza, poiché evidentemente nulla può esistere di più semplice della quantità. Se si riuscisse a spogliare interamente un essere o una cosa delle sue qualità proprie, il «residuo» ottenuto presenterebbe sicuramente il massimo di semplicità, e, al limite, tale estrema semplicità sarebbe quella che non può appartenere se non alla quantità pura, cioè a quelle «unità», tutte simili tra loro, che costituiscono la molteplicità numerica; ma ciò è così importante da richiedere ulteriori riflessioni.



[1] Dove si è mai visto, per esempio, un «punto materiale pesante», un «solido perfettamente elastico», un «filo inestensibile e senza peso» ed altre non meno immaginarie «entità» di cui abbonda questa scienza considerata come «razionale» per eccellenza?

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