René Guénon
Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi
10. L’illusione delle statistiche
Ritorniamo ora a considerare il punto di vista più
propriamente «scientifico» come lo intendono i moderni.
Questo punto di vista è sostanzialmente caratterizzato dalla pretesa di ridurre tutte le cose alla quantità, e di non tenere in alcun conto quel che non è riducibile ad essa e di considerarlo in un certo senso come inesistente; si è persino arrivati a pensare e a dire comunemente che tutto quanto non può essere «numerato», cioè espresso in termini puramente quantitativi, è, appunto per ciò, sprovvisto di ogni valore «scientifico» ; e questa pretesa non si applica solo alla «fisica» nel significato ordinario della parola, ma a tutto l’insieme delle scienze «ufficialmente» ammesse oggi, ivi compreso, come abbiamo già visto, anche il campo psicologico.
Le spiegazioni da noi date in precedenza bastano a far capire che, a questo modo, si lascia fuori tutto quanto è veramente essenziale nella più ristretta accezione del termine, e che, a cadere in preda di una scienza del genere è, in realtà, soltanto un «residuo» del tutto incapace a spiegare qualsiasi cosa; desideriamo tuttavia insistere ancora un po’ su un aspetto molto caratteristico di questa scienza, il quale mette in particolare evidenza come essa si illuda su ciò che è possibile trarre da semplici valutazioni numeriche; cosa questa che si riallaccia del resto, in modo diretto, agli argomenti che abbiamo trattato per ultimi.
Questo punto di vista è sostanzialmente caratterizzato dalla pretesa di ridurre tutte le cose alla quantità, e di non tenere in alcun conto quel che non è riducibile ad essa e di considerarlo in un certo senso come inesistente; si è persino arrivati a pensare e a dire comunemente che tutto quanto non può essere «numerato», cioè espresso in termini puramente quantitativi, è, appunto per ciò, sprovvisto di ogni valore «scientifico» ; e questa pretesa non si applica solo alla «fisica» nel significato ordinario della parola, ma a tutto l’insieme delle scienze «ufficialmente» ammesse oggi, ivi compreso, come abbiamo già visto, anche il campo psicologico.
Le spiegazioni da noi date in precedenza bastano a far capire che, a questo modo, si lascia fuori tutto quanto è veramente essenziale nella più ristretta accezione del termine, e che, a cadere in preda di una scienza del genere è, in realtà, soltanto un «residuo» del tutto incapace a spiegare qualsiasi cosa; desideriamo tuttavia insistere ancora un po’ su un aspetto molto caratteristico di questa scienza, il quale mette in particolare evidenza come essa si illuda su ciò che è possibile trarre da semplici valutazioni numeriche; cosa questa che si riallaccia del resto, in modo diretto, agli argomenti che abbiamo trattato per ultimi.
La tendenza all’uniformità, in effetti, che la si applichi
nell’ambito «naturale» oppure nell’ambito umano, conduce ad ammettere, ed in
certo qual modo a stabilire come principio (noi dovremmo piuttosto dire
«pseudo-principio»), che esistono ripetizioni di fenomeni identici, la qual
cosa, in virtù del «principio degli indiscernibili», è una pura e semplice
impossibilità. Quest’idea si traduce in particolare nell’affermazione corrente
secondo cui «le stesse cause producono sempre gli stessi effetti», il che,
enunciato in questa forma, è decisamente assurdo, perché di fatto, in un ordine
successivo di manifestazione, non possono esserci né le stesse cause né gli
stessi effetti; eppure non si arriva forse a dire comunemente che «la storia si
ripete», quando in realtà esistono solo corrispondenze analogiche fra certi
periodi e fra certi avvenimenti? Quel che si dovrebbe dire, è che cause
paragonabili tra loro sotto certi rapporti producono effetti ugualmente
paragonabili sotto gli stessi rapporti; ma a parte certe rassomiglianze, che se
si vuole rappresentano un’identità parziale, vi sono sempre necessariamente
delle differenze, proprio perché, per ipotesi, si tratta di due cose distinte e
non di una sola e stessa cosa. È vero che queste differenze, per il fatto
stesso di essere distinzioni qualitative, sono tanto minori quanto più ciò che
si considera appartiene ad un grado più basso della manifestazione, e che, di
conseguenza, si accentuano nella stessa misura le somiglianze, così da far
pensare in taluni casi ad una specie di identità, ad un’osservazione
superficiale ed incompleta; ma in realtà le differenze non si eliminano mai
completamente, altrimenti si sarebbe addirittura al di sotto di ogni
manifestazione. Quand’anche tali differenze risultassero dall’influenza di
circostanze di tempo e luogo cangianti senza posa, non per questo si potrebbero
trascurare; in verità, per comprenderle, bisogna rendersi conto che,
contrariamente all’opinione dei moderni, lo spazio ed il tempo reali non sono
soltanto contenenti omogenei e modi della quantità pura e semplice, ma che
esiste anche un aspetto qualitativo delle determinazioni temporali e spaziali.
Comunque sia, c’è da chiedersi come, trascurando le differenze e rifiutandosi
in un certo senso di vederle, si possa pretendere di costituire una scienza
«esatta». A rigore e effettivamente di «esatto» non può esserci che la
matematica pura in quanto essa veramente si riferisce al dominio della
quantità; quel che resta della scienza moderna non è e non può essere, in tali
condizioni, se non un tessuto di approssimazioni più o meno grossolane, e ciò
non soltanto nelle applicazioni, in cui tutti più o meno sono obbligati a
constatare l’inevitabile imperfezione dei mezzi di osservazione e di misura, ma
anche nello stesso punto di vista teorico. Le supposizioni irrealizzabili che
costituiscono quasi tutta la sostanza della meccanica «classica», la quale poi
serve da base a tutta la fisica moderna, potrebbero fornire qui una moltitudine
di esempi caratteristici.[1]
L’idea di prendere la ripetizione in qualche modo a
fondamento di una scienza tradisce un’ulteriore illusione di ordine
quantitativo, la quale consiste nella convinzione che il solo accumulare un
gran numero di fatti possa servire di «prova» ad una teoria. Eppure è evidente,
per poco che vi si rifletta, che i fatti di uno stesso genere sono sempre in
moltitudine indefinita, per cui non si può mai constatarli tutti, senza contare
che gli stessi fatti si accordano generalmente bene con numerose teorie
diverse. Si dirà che la constatazione di un più grande numero di fatti dà
almeno una maggiore «probabilità» alla teoria: ma questo modo di procedere
equivale a riconoscere che non si può assolutamente arrivare ad una certezza
qualsiasi e quindi che le conclusioni enunciate non hanno proprio niente di
«esatto»; ed equivale pure ad ammettere il carattere del tutto «empirico» della
scienza moderna, i cui fautori, per una strana ironia, si compiacciono di
tacciare di «empirismo» le conoscenze degli antichi, quando in realtà è vero
esattamente il contrario, perché tali conoscenze, di cui essi ignorano del
tutto la vera natura, partivano da principi e non da constatazioni
sperimentali, e quindi si può ben dire che la scienza profana è costituita
esattamente al rovescio della scienza tradizionale. Si può anche dire che, per
quanto insufficiente sia l’«empirismo» in se stesso, quello della scienza
moderna è ben lungi dall’essere integrale, poiché trascura o elimina una parte
considerevole dei dati dell’esperienza, tutti quelli cioè che presentano un
carattere prettamente qualitativo. L’esperienza sensibile, non diversamente da
qualsiasi genere di esperienza, non può assolutamente vertere sulla quantità
pura, e più ci si avvicina a questa, più ci si allontana da quella realtà che
si pretende constatare e spiegare; e, di fatto, non sarebbe difficile
accorgersi come le teorie più recenti sono anche quelle che hanno meno rapporto
con tale realtà, e che più volentieri sostituiscono quest’ultima mediante
«convenzioni», non diremo del tutto arbitrarie (in quanto è impossibile fare
una «convenzione» senza che vi sia qualche ragione per farla), ma perlomeno
arbitrarie al massimo, cioè quasi prive di fondamento nella vera natura delle
cose.
Dicevamo un momento fa che la scienza moderna, per il fatto
stesso di voler essere completamente quantitativa, rifiuta di tener conto delle
differenze tra i fatti particolari, perfino in casi in cui queste differenze
sono più accentuate, cioè in quelli ove gli elementi qualitativi hanno maggior predominanza
su quelli quantitativi; ed è soprattutto in questo caso che si può dire che le
sfugge la parte più considerevole della realtà, e che l’aspetto parziale ed
inferiore della verità che essa può afferrare nonostante tutto (poiché l’errore
totale non può avere altro senso che quello d’una negazione pura e semplice) si
trova pertanto ridotto pressoché a niente. È così soprattutto quando si arriva
a prendere in esame fatti di ordine umano, i più altamente qualitativi di tutti
quelli che tale scienza intende comprendere nel proprio ambito, e che tuttavia
essa si sforza di trattare esattamente come gli altri, come quelli che essa
rapporta non soltanto alla «materia
organizzata», ma anche
alla «materia bruta»: essa in effetti non ha che un solo metodo che
uniformemente applica agli oggetti più diversi, appunto perché, dal suo
particolare angolo visuale, è incapace di distinguerne le differenze
essenziali. È appunto in quest’ordine umano, si tratti di storia, di
«sociologia», di «psicologia» o di qualunque altro genere di studi, che appare
nel modo più pieno il carattere fallace delle «statistiche» a cui i moderni
attribuiscono tanta importanza. Qui, come in tutti gli altri casi, tali
statistiche consistono soltanto nel contare un numero più o meno grande di
fatti, supposti tutti completamente simili tra loro, ché, diversamente, la loro
somma non avrebbe significato alcuno; ed è evidente che a questo modo si
ottiene soltanto un’immagine della realtà tanto più deformata quanto più i
fatti in questione non sono effettivamente simili e paragonabili che in misura
minima, cioè quanto più considerevoli sono l’importanza e la complessità degli
elementi qualitativi che essi implicano. Solamente che, con l’incolonnare a
questo modo cifre e calcoli, ci si crea, mentre si cerca di darla agli altri,
una certa illusione di «esattezza» che si potrebbe qualificare
«pseudo-matematica». Di fatto però, senza nemmeno accorgersene, grazie alle
idee preconcette, si trae indifferentemente da queste cifre quasi tutto quel
che si vuole, tanto sono prive di significato in se stesse; lo prova il fatto
che le stesse statistiche, fra le mani di scienziati diversi anche se dediti
alla stessa «specialità», danno spesso luogo, a seconda delle loro rispettive
teorie, a conclusioni del tutto diverse se non addirittura diametralmente
opposte. In queste condizioni, le cosiddette scienze «esatte» dei moderni, col
far intervenire le statistiche e col voler pretendere di trarne previsioni per
l’avvenire (sempre in virtù della supposta identità di tutti i fatti
considerati, siano essi passati o futuri), non sono in realtà se non semplici
scienze «congetturali», secondo l’espressione impiegata volentieri dai
promotori di una certa astrologia moderna detta «scientifica» (che riconoscono
in tal modo più francamente di altri di che cosa si tratta), la quale non ha
certamente se non rapporti molto vaghi e lontani, ammesso che ne abbia qualcuno
oltre alla terminologia, con la vera astrologia tradizionale degli antichi,
oggigiorno tanto perduta quanto le altre conoscenze dello stesso ordine. Questa
«neo-astrologia», nel tentativo di darsi una base «empirica» e senza
ricollegarsi ad alcun principio, fa appunto un grande uso delle statistiche, le
quali anzi vi occupano un posto preponderante; è appunto per questa ragione che
si pensa di poterla onorare dell’epiteto «scientifica» (il che implica del
resto il rifiuto di attribuire tale carattere all’astrologia vera, così come a
tutte le scienze tradizionali similmente costituite), e tutto ciò è ben
significativo e caratteristico della mentalità moderna.
La supposizione di una identità tra i fatti che in realtà
sono solo dello stesso genere, cioè paragonabili esclusivamente sotto certi
rapporti, oltre a contribuire, come abbiamo spiegato, a creare l’illusione di
una scienza «esatta», soddisfa molto bene il bisogno di semplificazione
eccessiva, altra caratteristica assai stupefacente della mentalità moderna;
talché si potrebbe, senza la minima intenzione ironica, qualificare tale
mentalità di pretto «semplicismo», tanto nelle sue concezioni «scientifiche»,
quanto in tutte le altre sue manifestazioni. Tutte queste cose sono del resto
solidali, e il bisogno di semplificare accompagna necessariamente la tendenza a
tutto ridurre al quantitativo, e per di più la rinforza, poiché evidentemente
nulla può esistere di più semplice della quantità. Se si riuscisse a spogliare
interamente un essere o una cosa delle sue qualità proprie, il «residuo»
ottenuto presenterebbe sicuramente il massimo di semplicità, e, al limite, tale
estrema semplicità sarebbe quella che non può appartenere se non alla quantità
pura, cioè a quelle «unità», tutte simili tra loro, che costituiscono la
molteplicità numerica; ma ciò è così importante da richiedere ulteriori
riflessioni.
[1] Dove
si è mai visto, per esempio, un «punto materiale pesante», un «solido
perfettamente elastico», un «filo inestensibile e senza peso» ed altre non meno
immaginarie «entità» di cui abbonda questa scienza considerata come «razionale»
per eccellenza?
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