"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

mercoledì 19 novembre 2014

René Guénon, Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi - 16. La degenerazione della moneta

René Guénon
Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi

16. La degenerazione della moneta

Giunti a questo punto della nostra esposizione, non sarà forse inutile fare una digressione, almeno in apparenza, per dare, sia pure molto sommariamente, alcune indicazioni su una questione che può sembrare soltanto un riferimento ad un fatto molto particolare, ma che costituisce invece un esempio lampante dei risultati della concezione della «vita ordinaria», ed in pari tempo una eccellente «illustrazione» del modo in cui quest’ultima è legata al punto di vista esclusivamente quantitativo, e che, soprattutto attraverso quest’ultimo aspetto, si ricollega in realtà direttamente al nostro argomento: si tratta della questione della moneta.
Certamente, se ci si attiene soltanto al semplice punto di vista «economico» com’è inteso oggi, sembra proprio che la moneta sia qualcosa che appartiene interamente al «regno della quantità»; è del resto a questo titolo che essa svolge, nella società moderna, la funzione preponderante che tutti ben conoscono e sulla quale sarebbe evidentemente superfluo insistere. In verità, però, il suddetto punto di vista «economico» e l’annessa concezione esclusivamente quantitativa della moneta non sono se non il prodotto di una degenerazione, in definitiva abbastanza recente; inoltre la moneta ha avuto alla sua origine e ha conservato a lungo un carattere completamente diverso ed un valore prettamente qualitativo, per stupefacente che ciò possa sembrare ai nostri contemporanei.
Una osservazione facile da fare, per poco che si abbiano «occhi per vedere», è che le monete antiche sono letteralmente coperte di simboli tradizionali, sovente scelti fra quelli che presentano un significato più particolarmente profondo. Così si è osservato espressamente che presso i Celti i simboli raffigurati sulle monete trovano spiegazione solo se li si rapporta a conoscenze dottrinali caratteristiche dei Druidi, il che implica quindi un intervento diretto di questi ultimi in tale campo; ed è fuori questione che ciò che è vero per i Celti sotto questo profilo lo è ugualmente per gli altri popoli dell’antichità, naturalmente tenendo conto delle modalità proprie alle loro rispettive organizzazioni tradizionali. Questo si accorda in modo perfetto con l’inesistenza del punto di vista profano nelle civiltà strettamente tradizionali: la moneta, là dove esisteva, non poteva di per sé essere la cosa profana che più tardi è divenuta; e se lo fosse stata, come si potrebbe spiegare l’intervento di un’autorità spirituale che evidentemente non vi avrebbe avuto niente a che vedere, e allo stesso modo: come si potrebbe capire che diverse tradizioni considerino la moneta un oggetto veramente colmo di una «influenza spirituale», la cui azione poteva effettivamente esercitarsi in virtù dei simboli che ne costituivano il normale «supporto»? Aggiungiamo che, in tempi abbastanza recenti, un ultimo vestigio di questa nozione si poteva ancora trovare in alcuni motti di carattere religioso che certamente non avevano più un valore propriamente simbolico, ma che tuttavia erano come un ricordo dell’idea tradizionale ormai più o meno incompresa; dopo esser stati relegati, in certi paesi, intorno all’«orlo» delle monete, anche questi motti hanno finito con lo sparire completamente, ed in effetti essi non avevano alcuna ragion d’essere, dato che la moneta rappresentava ormai soltanto un segno di ordine unicamente «materiale» e quantitativo.
Il controllo dell’autorità spirituale sulla moneta, in qualsiasi modo si sia esercitato, non è del resto un fatto esclusivamente limitato all’antichità, e difatti, senza uscire dai confini del mondo occidentale, molti indizi mostrano che esso deve essersi perpetuato fin verso la fine del Medio Evo, cioè finché tale mondo ha posseduto una civiltà tradizionale. In effetti non ci si potrebbe spiegare diversamente il fatto che taluni sovrani, a quell’epoca, siano stati accusati di avere «alterato le monete»; se i loro contemporanei gliene fecero colpa, bisogna concluderne che essi non avevano la libera disponibilità del titolo della moneta, e che, cambiandolo di propria iniziativa, essi andarono al di là dei diritti riconosciuti al potere temporale.[1] In qualsiasi altro caso, un’accusa del genere sarebbe stata evidentemente priva di senso; a quel tempo, del resto, il titolo della moneta non avrebbe avuto che un’importanza del tutto convenzianale, e, in definitiva, poco sarebbe importato che essa fosse costituita da un metallo qualsiasi oppure da semplice carta come in gran parte lo è oggi, in quanto ciò non avrebbe impedito di continuare a farne esattamente lo stesso uso «materiale». Nella fattispecie doveva quindi esserci qualcosa di tutt’altro ordine, e noi possiamo dire di un ordine superiore, perché è solo in questo modo che quell’alterazione poteva assumere un carattere di gravità così eccezionale da arrivare perfino a compromettere la stabilità stessa della potenza reale; agendo in tal modo, infatti, quest’ultima usurpava le prerogative dell’autorità spirituale, la quale, in definitiva, è l’unica fonte autentica di ogni legittimità. Ed è così che fatti del genere, che praticamente gli storici profani non sembrano affatto comprendere, concorrono anch’essi ad indicare molto nettamente come la questione della moneta, sia nel Medio Evo sia nell’antichità, presentasse aspetti completamente ignorati dai moderni.
È dunque accaduto, nel caso della moneta, quanto generalmente accade per tutte le cose che, a questo o ad altro titolo, svolgono una funzione nell’esistenza umana: sono state cioè spogliate a poco a poco di ogni caratteristica «sacra» o tradizionale, per cui quella stessa esistenza, nel suo insieme, è diventata del tutto profana e si è infine ridotta alla bassa mediocrità della «vita ordinaria» quale è visibile al giorno d’oggi. L’esempio della moneta mostra parimenti come questa «profanizzazione», se è lecito adoperare un simile neologismo, si operi principalmente mediante la riduzione delle cose al loro solo aspetto quantitativo; si è finito, in effetti, col non riuscire neppure più a concepire che la moneta sia qualcosa di diverso dalla rappresentazione di una pura e semplice quantità; ma se questo caso è in proposito particolarmente preciso perché in certo qual modo spinto alle estreme conseguenze, è però ben lungi dall’essere il solo in cui una riduzione del genere appaia aver contribuito a racchiudere l’esistenza nell’orizzonte ristretto del punto di vista profano. Quanto abbiamo detto del carattere eminentemente quantitativo dell’industria moderna, e di tutto ciò che si riferisce ad essa, permette di capirlo abbastanza bene: circondando costantemente l’uomo con i prodotti di questa industria, non permettendogli per così dire più di vedere altro (se non, per esempio, nei musei, come semplici «curiosità» non aventi alcun rapporto con le circostanze «reali» della sua vita, né per conseguenza alcuna influenza effettiva su quest’ultima), lo si costringe veramente a chiudersi nel cerchio ristretto della «vita ordinaria», come in una prigione senza uscita. In una civiltà tradizionale, al contrario, ciascun oggetto, oltre ad essere perfettamente appropriato all’uso a cui era immediatamente destinato, era fatto in modo che ad ogni istante, proprio perché se ne faceva realmente uso (al posto di trattarlo in certo qual modo come cosa morta alla maniera dei moderni nei confronti di tutto ciò che essi considerano «opere d’arte»), poteva servire da «supporto» di meditazione, il quale ricollegava l’individuo a qualcosa di diverso dalla semplice modalità corporea, ed aiutava pertanto ciascuno ad elevarsi ad uno stato superiore a seconda delle sue capacità.[2] Quale abisso fra questi due modi di concepire l’esistenza umana!
Questa degenerazione qualitativa di tutte le cose è del resto strettamente legata a quella della moneta, come lo dimostra il fatto che si è comunemente arrivati a «stimare» un oggetto solo attraverso il suo prezzo, considerato unicamente come una «cifra», una «somma», o una quantità numerica di moneta; per la maggior parte dei nostri contemporanei, in effetti, qualsiasi giudizio su un oggetto si basa quasi sempre esclusivamente sul suo costo. Abbiamo sottolineato il termine «stimare» a causa del duplice significato che gli è proprio, qualitativo e quantitativo; oggi il primo significato è stato perso di vista, oppure, che è poi lo stesso, si è trovato il modo di ridurlo al secondo, ed è così che non soltanto si «stima» un oggetto secondo il suo prezzo, ma anche un uomo secondo la sua ricchezza.[3] Non diversamente sono andate le cose per il termine «valore», su cui, notiamolo di sfuggita, si basa il curioso abuso di certi filosofi recenti che sono arrivati, per caratterizzare le loro teorie, perfino ad inventare l’espressione «filosofia dei valori»; alla base del loro modo di pensare sta l’idea che ogni cosa, a qualunque ordine si riferisca, è suscettibile di essere concepita quantitativamente ed espressa numericamente; ed il «moralismo», che è d’altronde la loro preoccupazione dominante, si trova in questo modo direttamente associato al punto di vista quantitativo.[4] Questi esempi dimostrano del pari come sia in atto una vera degenerazione del linguaggio, che accompagna o segue inevitabilmente quella di tutte le cose: effettivamente, in un mondo dove ci si sforza di ridurre tutto alla quantità, bisogna evidentemente servirsi di un linguaggio che anch’esso evochi soltanto idee prettamente quantitative.
Per ritornare alla specifica questione della moneta, dobbiamo ancora aggiungere come a questo riguardo si sia prodotto un fenomeno veramente degno di nota: la moneta, dopo aver perduto ogni garanzia di ordine superiore, ha visto il suo stesso valore quantitativo, cioè quello che nel gergo degli «economisti» viene chiamato «potere d’acquisto», ridursi senza posa, sicché si può immaginare un punto limite, al quale ci si avvicina sempre più, in cui essa avrà perduto ogni ragion d’essere, anche semplicemente «pratica» o «materiale», e dovrà sparire quasi da sola dall’esistenza umana. Si dovrà convenire che si è in presenza di uno strano ricorso delle cose, di non difficile comprensione del resto date le nostre precedenti spiegazioni: poiché la quantità pura si trova propriamente al di sotto di ogni esistenza, quando si spinge la riduzione alle sue estreme conseguenze, come nel caso della moneta (caso più eclatante di molti altri perché con esso si è quasi arrivati al limite), non ci si può che trovar di fronte ad una vera dissoluzione. Ciò può già servire a mostrare che, come dicevamo prima, la sicurezza della «vita ordinaria» è in realtà qualcosa di molto precario, e non solo a questo riguardo come vedremo in seguito; ma la conclusione che se ne potrà trarre sarà in definitiva sempre la stessa: il termine reale della tendenza che conduce gli uomini e le cose verso la quantità pura non può essere che la dissoluzione finale del mondo attuale.



[1] Si veda R. Guénon, Autorité spirituelle et pouvoir temporel, Paris, 1929, p. 111 [trad. it.: Autorità spirituale e potere temporale, Milano, 1972, p. 141], dove abbiamo fatto riferimento particolare al caso di Filippo il Bello, e dove abbiamo avanzato l’ipotesi di un rapporto assai stretto tra la distruzione dell’Ordine del Tempio e l’alterazione delle monete, cosa che non è difficile da capire se si ammettesse, almeno come molto verosimile l’idea che l’Ordine del Tempio avesse allora, insieme ad altre funzioni, quella di esercitare il controllo spirituale su tale dominio; non ci dilungheremo oltre, ma ricorderemo che è precisamente a quel momento che riteniamo di poter far risalire gli inizi della deviazione moderna propriamente detta.  
[2] Su questo argomento, si potranno consultare i numerosi studi di A.K.Coomaraswamy, il quale l’ha abbondantemente sviluppato e «illustrato» in tutti i suoi aspetti e con tutte le precisazioni del caso.  
[3] Gli americani sono andati tanto avanti in questo senso da dire comunemente che un uomo «vale» una data somma, volendo indicare in questo modo la cifra a cui è valutata la sua fortuna; inoltre essi non dicono che un uomo riesce nei suoi affari, bensì che «è un successo», il che equivale a identificare completamente l’individuo con i suoi guadagni materiali.  
[4] Quest’associazione, del resto, non è neanche del tutto nuova, perché si può condurre di fatto all’«aritmetica morale» di Bentham, che risale alla fine del secolo XVIII.

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