René Guénon
Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi
19. I limiti della storia e della geografia
Abbiamo detto in precedenza che; a causa delAbbiamo detto in precedenza che; a causa delle differenze qualitative esistenti fra i diversi periodi di tempo, per esempio fra le diverse fasi di un ciclo come il nostro Manvantara (ed è evidente che, al di là dei limiti di durata della presente umanità, ancor più diverse devono essere le condizioni), nell’ambiente cosmico generale, e specialmente nell’ambiente terrestre che ci riguarda più direttamente, si producono certi cambiamenti di cui la scienza profana, nel suo orizzonte limitato al solo mondo moderno che ne ha visto i natali, non può farsi alcuna idea, cosicché, di qualunque epoca si voglia occupare, tale scienza offre sempre la rappresentazione di un mondo le cui condizioni sarebbero state simili a quelle attuali.
D’altro canto abbiamo visto che gli psicologi moderni immaginano l’uomo come se fosse stato sempre mentalmente tal quale è oggi; e quel che a questo proposito è vero per gli psicologi, lo è altrettanto per gli storici, i quali valutano le azioni degli uomini dell’antichità o del Medio Evo esattamente come valuterebbero quelle dei loro contemporanei, attribuendo loro le stesse motivazioni e le stesse intenzioni; si tratta evidentemente, a proposito sia dell’uomo che dell’ambiente, di un’applicazione di quelle concezioni semplificate ed «uniformizzanti» che ben corrispondono alle tendenze attuali; quanto a sapere come questa «uniformizzazione» del passato possa per converso conciliarsi con le teorie «progressistiche» ed «evoluzionistiche», ecco un problema che non ci incaricheremo certo di risolvere, ma che senza dubbio rappresenta un ulteriore esempio delle innumerevoli contraddizioni della mentalità moderna.
Quando parliamo di cambiamenti dell’ambiente, non intendiamo
soltanto fare allusione ai cataclismi più o meno estesi che in qualche modo
sottolineano i «punti critici» del ciclo; questi sono cambiamenti bruschi
corrispondenti a vere e proprie rotture d’equilibrio, e, anche nel caso, per
esempio, della scomparsa di un solo continente (casi del genere si riscontrano
effettivamente nella storia della presente umanità), è facile capire come tutto
l’insieme dell’ambiente terrestre ne subisca le ripercussioni, per cui la «faccia del mondo», se così
si può dire, viene ad esserne notevolmente modificata. Ma vi sono anche
modificazioni continue ed insensibili, le quali, all’interno di un periodo in
cui non si producono cataclismi, finiscono però con l’ottenere a poco a poco
risultati quasi altrettanto considerevoli; è fuori questione che non si tratta
di semplici modificazioni «geologiche» nel significato che queste hanno per la
scienza profana, e che, in ogni caso, è errato considerare i cataclismi stessi
solo da questo punto di vista esclusivo, che, come sempre, si limita a quanto
vi è di più esteriore; per noi, si tratta di qualcosa d’un ordine molto più
profondo, che agisce sulle condizioni stesse dell’ambiente, cosicché, anche se
non si prendessero in considerazione i fenomeni geologici, i quali sono in
questo contesto dettagli di secondaria importanza, gli esseri e le cose non ne
risulterebbero meno cambiati in senso vero e proprio. Quanto alle modificazioni
artificiali prodotte dall’intervento dell’uomo, esse ne sono soltanto delle
conseguenze, nel senso che, come abbiamo già spiegato, sono proprio le
condizioni specifiche di tale o tal altra epoca a renderle possibili; se
tuttavia l’uomo può agire in modo più profondo sull’ambiente, è in senso
psichico più che corporeo, e ciò che abbiamo detto sugli effetti
dell’atteggiamento materialistico può bastare a farlo comprendere.
Attraverso i dati esposti fin qui, è ora facile rendersi
conto del senso generale secondo cui si effettuano questi cambiamenti, senso
che noi abbiamo caratterizzato come la «solidificazione» del mondo, che dà a
tutte le cose un aspetto sempre più rispondente (benché pur sempre inesatto in
realtà) alla maniera in cui esse vengono prese in esame dalle concezioni
quantitative, meccanicistiche o materialistiche; è per questo, come abbiamo
detto, che la scienza moderna riesce nelle sue applicazioni pratiche, ed è per
questo che la realtà ambientale non pare infliggerle smentite troppo clamorose.
In epoche anteriori, in cui il mondo non era così «solido» com’è diventato
oggi, e in cui le modalità corporee e le modalità sottili dell’ambito
individuale non erano così completamente separate (benché, come vedremo in
seguito, anche allo stato attuale ci siano riserve da porre per quanto riguarda
tale separazione), non sarebbe potuto essere così. Non solo l’uomo, poiché le
sue facoltà erano molto meno strettamente limitate, non vedeva il mondo con gli
stessi occhi di oggi, e vi scorgeva cose che ormai gli sfuggono interamente,
ma, correlativamente, il mondo stesso, in quanto insieme cosmico, era proprio
diverso qualitativamente, perché possibilità di un altro ordine si riflettevano
nell’ambito corporeo ed in qualche modo lo «trasfiguravano». È per questo che
quando certe «leggende» parlano, per esempio, di un tempo in cui le pietre
preziose erano tanto comuni quanto lo sono ora i ciottoli più grossolani, forse
ciò non dev’essere preso solo in un senso tutto simbolico. Che tale senso
simbolico, in casi del genere, esista sempre è fuori questione, ma non è detto
che sia il solo, difatti ogni cosa manifestata è necessariamente essa stessa un
simbolo in rapporto ad una realtà superiore; comunque sia non riteniamo di dover
insistere oltre perché, su questo argomento, abbiamo avuto ben altre occasioni
di dare chiarimenti, sia d’ordine generale, sia per casi più particolari quali
il valore simbolico dei fatti storici e geografici. Cercheremo invece di
prevenire un’obiezione che potrebbe essere sollevata a proposito dei suddetti
cambiamenti qualitativi nella «faccia del mondo»: si potrà forse dire che, se è
così, le vestigia delle epoche scomparse, che ad ogni piè sospinto si scoprono,
dovrebbero darne testimonianza, mentre, lasciando da parte le epoche
«geologiche» e per restare alla storia umana, gli archeologi ed anche i
«preistorici» non trovano mai niente del genere, anche quando i risultati dei
loro scavi li riportino nel più lontano passato. La risposta; in fondo, è semplicissima:
anzitutto queste vestigia, nello stato in cui si presentano oggi, e in quanto
facenti parte per conseguenza dell’ambiente attuale, sono per forza di cose
partecipi, come tutto il resto, della «solidificazione del mondo»; se non ne
fossero state partecipi, la loro esistenza non sarebbe più in accordo con le
condizioni generali ed esse sarebbero completamente scomparse; ciò è senza
dubbio avvenuto per molte cose di cui non si può più trovare la minima traccia.
In secondo luogo, gli archeologi esaminano queste stesse vestigia con occhi di
moderni, che non riescono a cogliere se non la modalità più grossolana della
manifestazione, per cui, quand’anche qualcosa di più sottile vi fosse rimasto
aderente nonostante tutto, essi sarebbero certamente incapaci di accorgersene;
il loro modo di trattare queste cose è identico in definitiva a quello che i
fisici meccanicistici riservano alle loro, perché la loro mentalità è la stessa
e le loro facoltà sono egualmente limitate. Si dice che quando un tesoro viene
cercato da qualcuno a cui esso, per una ragione qualsiasi, non è destinato,
l’oro e le pietre preziose si trasformano per lui in carbone ed in pietre
volgari; i moderni dilettanti di scavi dovrebbero trar profitto da quest’altra
«leggenda»!
Comunque sia, è assolutamente certo che gli storici, proprio
per il fatto di intraprendere tutte le loro ricerche ponendosi da un punto di
vista moderno e profano, incontrano nel tempo certe «barriere»
praticamente invalicabili. La prima di queste «barriere»,
come abbiamo detto altrove, si trova verso il secolo VI prima dell’era
cristiana, ove comincia, secondo le concezioni attuali, quella che si può
chiamare la storia propriamente detta, anche se l’antichità che essa prende in
esame è, tutto sommato, di un’antichità abbastanza relativa. Si dirà senza
dubbio che i recenti scavi hanno permesso di risalire molto più indietro,
scoprendo resti di un’antichità ben più lontana; questo fino ad un certo punto
è vero, però, fatto assai rimarchevole, da quel momento non vi è più alcuna
cronologia certa, al punto che le divergenze nella stima delle date di oggetti
ed avvenimenti sono di secoli e talora perfino di interi millenni; per di più
non si riesce ad avere alcuna idea, sia pure molto inesatta, sulle civiltà di
tali epoche più lontane, poiché non sono più reperibili, in ciò che esiste
attualmente, quei termini di paragone che ancora si incontrano quando si ha a
che fare con l’antichità «classica»; il che non significa che questa, come pure
il Medio Evo ancor più prossimo a noi nel tempo, non sia fortemente deformata
dalle rappresentazioni fornite dagli storici moderni. Del resto, tutto ciò che
di più antico gli scavi archeologici hanno fatto conoscere finora non risale in
verità se non pressappoco agli inizi del Kali
Yuga, dove naturalmente si trova una seconda «barriera»; e se, con un mezzo
qualsiasi, si riuscisse a valicare quest’ultima, se ne troverebbe ancora una
terza, corrispondente all’epoca dell’ultimo grande cataclisma terrestre, cioè a
quello che tradizionalmente viene designato come la sparizione dell’Atlantide.
Evidentemente sarebbe del tutto inutile cercare di risalire ancora più
indietro, perché, prima che gli storici siano giunti a tal punto, il mondo
moderno avrà avuto tutto il tempo di scomparire a sua volta!
Queste poche indicazioni bastano a far capire quanto vane
siano tutte le discussioni a cui i profani (e con questo termine dobbiamo
intendere qui tutti coloro che sono impregnati dello spirito moderno) possono
tentare di dedicarsi a proposito dei primi periodi del Manvantara, dei tempi dell’«età dell’oro» e della «tradizione
primordiale», nonché di fatti molto meno lontani quali il «diluvio» biblico, se
lo si intende nel significato letterale più immediato che si riferisce al
cataclisma dell’Atlantide; cose di questo genere sono e saranno sempre
completamente fuori della loro portata. Del resto, è per ciò che essi le
negano, come negano senza distinzione tutto quanto in una maniera o nell’altra
li oltrepassa, poiché tutti i loro studi e le loro ricerche, intrapresi
partendo da un punto di vista falso e limitato, possono arrivare solo alla
negazione di tutto quanto non è incluso in quel punto di vista; e per di più
questa gente è talmente convinta della propria «superiorità»,
da non voler ammettere l’esistenza o la possibilità di qualcosa che sfugga alle
sue investigazioni; certamente, dei ciechi avrebbero altrettante ragioni di
negare l’esistenza della luce e di trarne pretesto per vantare la propria
superiorità rispetto agli uomini normali.
Quello che abbiamo detto sui limiti della storia, nella sua
concezione profana, può ugualmente applicarsi alla geografia, poiché anche qui
molte cose sono completamente sparite dall’orizzonte dei moderni; si paragonino
le descrizioni degli antichi geografi con quelle dei geografi moderni, e si
sarà spesso indotti a chiedersi se sia veramente possibile che gli uni e gli
altri si riferiscono ad uno stesso paese. Peraltro si tratta di antichi in
senso molto relativo, e difatti, per constatare cose di questo genere, non c’è
bisogno di risalire al di là del Medio Evo; certamente nell’intervallo che li
separa da noi non c’è stato alcun cataclisma considerevole; ora, com’è che il
mondo, malgrado ciò, ha potuto cambiar d’aspetto a tal punto e così
rapidamente? I moderni diranno – lo sappiamo bene – che gli antichi hanno visto
male, o che hanno riferito male quello che hanno visto; ma tale spiegazione, la
quale equivale in definitiva a supporre che, prima della nostra epoca, tutti
gli uomini fossero affetti da disturbi sensoriali o mentali, è veramente troppo
«semplicistica» e
«negativa»; e se si vuole esaminare la questione con tutta imparzialità, perché
non sarebbero invece i moderni a veder male o addirittura a non vedere del
tutto certe cose? Essi proclamano trionfalmente che «la terra è ora interamente
scoperta» – e forse ciò non è così vero come credono – e si figurano che, per
contro, essa era in gran parte sconosciuta agli antichi, per cui ci si può
chiedere di quali antichi per l’appunto essi vogliano parlare, e se pensano
proprio che, prima di loro, non ci fossero altri uomini oltre agli Occidentali
dell’epoca «classica», e che il mondo abitato si riducesse ad una piccola
porzione dell’Europa e dell’Asia Minore; essi aggiungono che «questo ignoto, in
quanto ignoto, non poteva che essere misterioso»; ma dove mai hanno visto gli
antichi dichiarare che quelle erano cose «misteriose», o non sono piuttosto
loro che le dichiarano tali perché non le comprendono più? All’inizio, essi
affermano ancora, si videro delle «meraviglie», poi, più avanti, ci furono
soltanto delle «curiosità» o delle «cose singolari», infine «ci si accorse che
queste cose singolari si piegavano a leggi generali che gli scienziati
cercavano di fissare». Ma ciò che essi, bene o male, descrivono a questo modo,
non è forse proprio la successione delle tappe della limitazione delle facoltà
umane, tappe delle quali l’ultima corrisponde a quella che si può chiamare la
mania delle spiegazioni razionali con tutto ciò che queste presentano di
grossolanamente insufficiente? Quest’ultimo modo di vedere, da cui deriva la
geografia moderna, in effetti, data soltanto dai secoli XVII e XVIII, cioè
dall’epoca stessa che vide originarsi e diffondersi la mentalità
razionalistica, cosa che viene a confermare la nostra interpretazione; a partire
da questo momento, le facoltà di concezione e di percezione, che permettevano
all’uomo di cogliere qualcosa che non fosse soltanto il modo più grossolano ed
inferiore della realtà, si erano totalmente atrofizzate, mentre il mondo stesso
si era di pari passo irrimediabilmente «solidificato».
Con simili considerazioni si arriva in definitiva a questo:
o una volta si vedevano cose che oggi non si vedono più, perché si sono avuti
cambiamenti considerevoli nell’ambiente terrestre o nelle facoltà umane, o piuttosto
contemporaneamente in entrambi, tali cambiamenti essendo tanto più rapidi
quanto più ci si avvicina alla nostra epoca; oppure quella che viene chiamata
la «geografia» aveva anticamente un significato diverso da quello odierno. In
realtà, i due termini di questa alternativa non si escludono affatto e ciascuno
dei due esprime un lato della verità, poiché la concezione che si ha di una
scienza dipende naturalmente sia dall’angolo visuale da cui si considera il suo
oggetto, sia dalla misura in cui si è capaci di cogliere effettivamente le
realtà in essa implicite: mettendo insieme questi due aspetti, una scienza
tradizionale ed una scienza profana, anche se portano lo stesso nome (il che
indica generalmente che la seconda è un residuo della prima), sono così
profondamente diverse da essere realmente separate da un abisso. Orbene, esiste
realmente una «geografia sacra» o tradizionale che i moderni ignorano
completamente così come tutte le altre conoscenze dello stesso genere: c’è un
simbolismo geografico come c’è un simbolismo storico, ed è il valore simbolico
che dà alle cose il loro significato profondo, perché esso è il mezzo che
stabilisce la loro corrispondenza con realtà d’ordine superiore; ma, per
determinare effettivamente questa corrispondenza, bisogna essere capaci, in una
maniera o nell’altra, di percepire nelle cose stesse il riflesso di quelle
realtà. È per questo che vi sono luoghi più particolarmente adatti a servire da
«supporto» all’azione delle «influenze spirituali», ed è su ciò che si è sempre
basata la fondazione di certi «centri» tradizionali principali o secondari, di
cui gli «oracoli» dell’antichità ed i luoghi di pellegrinaggio forniscono gli
esempi esteriormente più appariscenti; per contro vi sono altri luoghi che sono
non meno particolarmente favorevoli al manifestarsi di «influenze» di carattere
del tutto opposto, appartenenti alle più basse regioni dell’ambito sottile. Ma
cosa può importare ad un occidentale moderno che, per esempio, ci sia una
«porta dei Cieli» in un certo luogo, od una «bocca degli Inferi» in un certo altro, dal momento che lo «spessore» della
sua costituzione «psicofisiologica» è tale che assolutamente in nessuno dei due
egli può provare qualcosa di speciale? Queste cose sono dunque letteralmente
inesistenti per lui, il che, è sottinteso, non vuole affatto dire che esse
abbiano cessato di esistere; ed è del resto vero che, essendosi ridotte in
certo qual modo al minimo le comunicazioni dell’ambito corporeo con l’ambito
sottile, per poterle constatare occorre uno sviluppo delle stesse facoltà molto
maggiore di un tempo, mentre sono proprio queste facoltà che, ben lungi dallo
svilupparsi, sono andate al contrario generalmente affievolendosi ed hanno
finito con lo sparire nella «media» degli individui umani,
così che la difficoltà e la rarità di percezioni di quest’ordine ne sono state
doppiamente accresciute, permettendo ai moderni di deridere i racconti degli
antichi.
A questo proposito vogliamo ancora aggiungere un’osservazione
concernente certe descrizioni di esseri strani presenti in quei racconti.
Poiché quelle descrizioni risalgono naturalmente, come massimo, all’antichità
«classica», in cui già si era prodotta un’incontestabile degenerazione dal
punto di vista tradizionale, è assai probabile che vi si siano introdotte
confusioni di più generi; per cui una parte di tali descrizioni può in realtà
derivare da «sopravvivenze» di un simbolismo non più compreso,[1]
un’altra parte può riferirsi alle apparenze rivestite dalle manifestazioni di
certe «entità» o «influenze» appartenenti all’ambito sottile, ed un’altra
ancora, senza dubbio non la più importante, può realmente essere la descrizione
di esseri che ebbero una esistenza corporea in tempi più o meno lontani, ma
appartenenti a specie in seguito scomparse, o sopravvissute solo in condizioni
eccezionali e con molto rari rappresentanti, per cui se ne possono incontrare
ancor oggi checché ne pensino coloro che immaginano che a questo mondo non vi
sia più per essi niente di sconosciuto. È evidente che, per discernere che cosa
si trovi al fondo di tutto ciò, occorrerebbe un lavoro molto lungo e difficile,
tanto più che le «fonti» di cui si dispone sono lungi dal rappresentare puri
dati tradizionali; è evidentemente più semplice e più comodo respingere tutto
in blocco come fanno i moderni, i quali del resto non capirebbero certo meglio
i veri e propri dati tradizionali, che continuerebbero a vedere come
indecifrabili enigmi; essi persisteranno, naturalmente, in tale atteggiamento
negativo fino a che nuovi cambiamenti nella «faccia del mondo» non giungano
infine a distruggere la loro ingannevole sicurezza.
[1] La Storia Naturale di Plinio, in
particolare, sembra essere una «fonte» quasi inesauribile di esempi riferentisi
a casi di questo genere, fonte alla quale, del resto, tutti i suoi successori
hanno assai abbondantemente attinto.
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