René Guénon
Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi
Abbiamo detto che è in nome di una scienza e di una filosofia definite «razionali» che i moderni pretendono escludere qualsiasi «mistero» dal mondo così come se lo raffigurano, e in effetti si può constatare che più angusti sono i limiti di una concezione, più essa è considerata strettamente «razionale»; è notorio d’altronde che, a cominciare dagli «enciclopedisti» del secolo XVIII, i più accaniti negatori di ogni realtà sovrasensibile mostrano una tendenza particolare ad invocare la «ragione» ad ogni piè sospinto e a proclamarsi «razionalisti».
La differenza fra questo «razionalismo» volgare e il «razionalismo» prettamente filosofico, qualunque essa sia, è soltanto una differenza di gradazione: entrambi corrispondono alle stesse tendenze che sono andate esagerandosi e contemporaneamente «volgarizzandosi» durante tutto il corso dei tempi moderni. Così sovente abbiamo avuto occasione di parlare del «razionalismo» e di definirne i principali caratteri, che, su questo argomento, potremmo accontentarci di rinviare a qualcuna delle nostre opere precedenti;[1] esso è tuttavia talmente legato alla concezione stessa di una scienza quantitativa, che non possiamo dispensarci dal dirne qui ancora qualche parola.
Ricorderemo quindi che il razionalismo propriamente detto
risale a Cartesio, e che di conseguenza si trova, fin dalla sua origine,
direttamente associato all’idea di una fisica «meccanicistica». Il
Protestantesimo, introducendo nella religione con il «libero esame» una specie
di razionalismo, gli aveva del resto preparato la strada, anche se allora il
termine non esisteva ancora essendo stato inventato solo quando la stessa
tendenza si affermò esplicitamente nel campo filosofico. Il razionalismo in
tutte le sue forme si definisce essenzialmente mediante la credenza nella
supremazia della ragione, proclamata come un vero e proprio «dogma», e la conseguente
negazione di tutto ciò che appartiene all’ordine sovraindividuale, in
particolare quindi l’intuizione intellettuale pura, il che implica logicamente
l’esclusione di ogni vera conoscenza metafisica. Questa negazione ha anche per
conseguenza, in un altro ordine, il rigetto di ogni autorità spirituale,
quest’ultima essendo necessariamente di origine «sovraumana»; razionalismo ed
individualismo sono dunque così strettamente solidali che, di fatto,
soventissimo si confondono, a parte il caso di talune recenti teorie
filosofiche che pur non essendo razionalistiche sono tuttavia non meno
esclusivamente individualistiche. Possiamo segnalare fin d’ora quanto tale
razionalismo si accordi con la moderna tendenza alla semplificazione:
quest’ultima, il cui naturale modo di procedere è sempre quello di ridurre le
cose ai loro elementi inferiori, si afferma infatti innanzi tutto con la
soppressione di tutto l’ambito sovraindividuale, per poi arrivare più tardi a
voler ricondurre la parte restante, cioè tutto quel che appartiene all’ordine
individuale, alla sola modalità sensibile o corporea, la quale verrà in
definitiva limitata ad un semplice aggregato di determinazioni quantitative.
Non è difficile vedere come tutte queste cose siano rigorosamente concatenate e
costituiscano altrettante tappe necessarie di una stessa «degradazione» delle concezioni che
l’uomo ha di se stesso e del mondo.
Un altro genere di semplificazione inerente al razionalismo
cartesiano è quella che si manifesta, da un lato, col ridurre tutta intera la
natura dello spirito al «pensiero», e, dall’altro, quella del corpo
all’«estensione»; e abbiamo già visto come in quest’ultima relazione risieda il
fondamento stesso della fisica «meccanicistica» e, si può dire, il punto
di partenza dell’idea di una scienza completamente quantitativa.[2] Ma
non è tutto: dal lato del «pensiero» un’altra semplificazione abusiva si
instaura nel modo stesso di concepire la ragione da parte di Cartesio: egli la
chiama anche «buon senso» (il che, se si pensa all’accezione corrente di questa
espressione, evoca una nozione di livello singolarmente mediocre) e la
definisce come «la cosa meglio distribuita a questo mondo», il che, oltre a
sottintendere già una specie di idea «ugualitaria», è anche manifestamente
falso; si tratta qui, da parte sua, di una pura e semplice confusione tra la
ragione «in atto» e la «razionalità», in quanto quest’ultima è proprio una
caratteristica specifica dell’essere umano come tale.[3]
Certamente la natura umana risiede tutta intera in ogni individuo, ma vi si
manifesta in maniere molto diverse a seconda delle qualità proprie che
rispettivamente appartengono a questi individui, qualità che in loro si
uniscono a tale natura specifica per costituire l’integralità della loro
essenza. Pensare diversamente è come pensare che gli individui umani siano tra
loro tutti simili e non differiscano se non solo
numero. Di qui discendono direttamente tutte quelle considerazioni
sull’«unità dello spirito umano» che i moderni invocano senza posa a
spiegazione di ogni genere di cose, alcune delle quali poi non sono per niente
d’ordine «psicologico», come ad esempio il ritrovare i medesimi simboli
tradizionali in tutti i tempi ed in tutti i luoghi. A parte la considerazione
che non è affatto lo «spirito» che essi hanno in vista,
ma semplicemente il «mentale»,
non può trattarsi nella fattispecie che di una falsa unità, perché l’unità vera
non può appartenere all’ambito individuale; questo ambito è del resto il solo a
poter esser preso in considerazione da coloro che parlano così, o anche, più in
generale, da tutti coloro che credono di poter parlare di «spirito umano» come
se allo spirito si potesse attribuire un carattere specifico. In ogni caso, la
comunità di natura degli individui nella specie può dare esclusivamente
manifestazioni di ordine molto generale, né può assolutamente render conto di
similitudini le quali, al contrario, vertono su particolari molto precisi. Ma
come far capire a questi moderni che l’unità fondamentale di tutte le
tradizioni non si spiega veramente se non in virtù di quel che v’è in esse di
«sopraumano»? D’altra parte, e per ritornare a cose esclusivamente umane, è
evidentemente ispirandosi alla concezione cartesiana che Locke, il fondatore
della psicologia moderna, ha creduto di poter affermare che, per sapere cosa
pensavano ai loro tempi i Greci ed i Romani (il suo orizzonte intellettuale non
andava oltre l’antichità «classica» occidentale), non c’è che da ricercare che
cosa pensano gli Inglesi ed i Francesi dei giorni nostri, poiché l’«uomo è
dappertutto e sempre il medesimo». Niente di più falso naturalmente, e tuttavia
gli psicologi sono rimasti fermi a tale concezione, perché, mentre credono di
parlare dell’uomo in generale, la maggior parte delle loro affermazioni è
applicabile in realtà soltanto all’europeo moderno. Non è forse questo un
credere già realizzata quell’uniformità che in effetti si tende attualmente ad
imporre a tutti gli individui umani? È vero che proprio in ragione degli sforzi
effettuati in questo senso le differenze vanno attenuandosi, e che così
l’ipotesi degli psicologi è oggi meno completamente falsa di quel che non fosse
ai tempi di Locke (a condizione beninteso di guardarsi dal volerne estendere
come lui l’applicazione al passato); però, come abbiamo detto in precedenza,
nonostante tutto, il limite non potrà mai essere raggiunto, e, fintanto che
durerà questo mondo, ci saranno sempre delle differenze irriducibili. E infine,
per di più, ha senso prendere per prototipo, come mezzo per conoscere veramente
la natura umana, un «ideale» che a rigore non può essere qualificato se non
come «infraumano»?
Ciò detto, resta da spiegare perché il razionalismo è legato
all’idea di una scienza esclusivamente quantitativa, o, per meglio dire, perché
questa deriva da quello; e, a questo proposito, bisogna riconoscere che vi è
una notevole parte di verità nelle critiche indirizzate da Bergson a quella che
egli chiama a torto l’«intelligenza», e che in realtà è soltanto la ragione, o
meglio un particolare uso della ragione basato sulla concezione cartesiana, in
quanto in definitiva è da questa concezione che sono derivate tutte le forme
del razionalismo moderno. Da notare, del resto, che spesso i filosofi dicono
delle cose molto più giuste quando argomentano contro altri filosofi, che non
quando vengono ad esporre i propri punti di vista; per cui, siccome ciascuno
vede molto bene i difetti degli altri, si distruggono in certo qual modo a
vicenda. È per questo che Bergson, se ci si dà la pena di rettificare i suoi
errori di terminologia, mette bene in mostra i difetti del razionalismo (il
quale, ben lungi dal confondersi con il vero «intellettualismo», ne è al
contrario la negazione) e le insufficienze della ragione, e tuttavia non è meno
colpevole a sua volta quando, per supplire a queste ultime, si cala
nell’«infrarazionale» invece di elevarsi al «sovrarazionale» (ed è per questa
ragione che la sua filosofia è altrettanto individualistica ed altrettanto
ignara dell’ordine sovraindividuale quanto quelle dei suoi avversari). Quando
dunque egli rimprovera alla ragione, a cui noi qui non abbiamo che da
restituire il suo vero nome, di «scindere artificialmente il reale», non
abbiamo affatto bisogno di adottare la sua idea del «reale», fosse pure a
titolo ipotetico e provvisorio, per comprendere ciò che in fondo egli vuol
dire: si tratta manifestamente della riduzione di tutte le cose ad elementi
supposti omogenei o identici tra loro, ossia nient’altro che la loro riduzione
al quantitativo, poiché è solo da questo punto di vista che si possono
concepire elementi del genere. E questa «scissione» evoca pure molto
chiaramente gli sforzi fatti per introdurre una discontinuità che è
caratteristica esclusiva della quantità pura o numerica, cioè in definitiva la
tendenza, da noi già segnalata più indietro, a non voler ammettere come
«scientifico» se non ciò che è suscettibile di essere «numerato».[4] Del
pari, quando egli dice che la ragione è a suo agio soltanto quando viene
applicata al «solido», che in qualche modo è il suo campo proprio, sembra
rendersi conto della tendenza che essa presenta inevitabilmente, se lasciata a
se stessa, a «materializzare» tutto, nel significato comune del termine, cioè a
considerare di tutte le cose esclusivamente le modalità più grossolane, perché
sono quelle in cui la qualità è più diminuita a vantaggio della quantità;
solamente che egli sembra considerare piuttosto il punto di arrivo di questa
tendenza che non quello di partenza, e ciò potrebbe farlo accusare di una certa
esagerazione, poiché esistono evidentemente dei gradi in questa
«materializzazione». Ma se si fa riferimento allo stato attuale delle
concezioni scientifiche (o piuttosto, come vedremo in seguito, ad uno stato ora
già un po’ sorpassato), è certo che esse sono anche le più vicine a
rappresentarne l’ultimo o il più basso livello, quello in cui la «solidità»
intesa a questo modo ha raggiunto il suo massimo; ed anche ciò è un segno
particolarmente caratteristico del periodo a cui siamo arrivati. Beninteso, non
pretendiamo che lo stesso Bergson abbia compreso queste cose così nettamente
come risulta dalla suddetta «traduzione» del suo linguaggio, anzi la cosa
sembra assai poco probabile date le molteplici confusioni da lui costantemente
commesse, ma non è men vero che, di fatto, questi modi di vedere gli sono stati
suggeriti dalla constatazione dello stato attuale della scienza, e che, a
questo titolo, la testimonianza di un incontestabile rappresentante dello
spirito moderno non si può giudicare trascurabile. Quanto alle sue teorie, a
ciò che esse rappresentano esattamente, ne troveremo il significato in un’altra
parte del presente studio: per ora, possiamo dire soltanto che esse
corrispondono ad un aspetto diverso, ed in certo qual modo ad un’altra tappa,
di quella deviazione il cui insieme costituisce propriamente il mondo moderno.
Per riassumere quanto precede possiamo ancora dire questo:
il razionalismo, che è la negazione di qualsiasi principio superiore alla
ragione, ha per conseguenza «pratica» l’impiego esclusivo di tale ragione
accecata, se così si può dire, per il fatto stesso di essere isolata
dall’intelletto puro e trascendente di cui, normalmente e legittimamente, essa
non può che riflettere la luce nell’ambito individuale. Una volta persa ogni
comunicazione effettiva con questo intelletto sovraindividuale, la ragione non
ha altra possibilità che quella di tendere verso il basso, cioè verso il polo
inferiore dell’esistenza, ed immergersi sempre più nella «materialità»; di pari passo, essa perde
a poco a poco l’idea stessa della verità, ed arriva a ricercare esclusivamente
la maggior comodità per la sua comprensione limitata, trovando del resto in ciò
una soddisfazione immediata dal fatto stesso che tale tendenza verso il basso
la conduce nel senso della semplificazione e dell’uniformizzazione di ogni
cosa; essa obbedisce quindi tanto più facilmente e più in fretta a questa
tendenza, quanto più gli effetti di essa sono conformi ai suoi desideri, e
questa discesa sempre più rapida deve necessariamente sfociare, alla fine, in
quello che abbiamo chiamato il «regno della quantità».
[1] Cfr.
soprattutto R. Guénon, Orient et Occident,
Paris, 1924 [trad. it.: Oriente e
Occidente, Torino, 1965] e La crise
du monde moderne, cit.
[2] Da
notare anche, quanto al modo di concepire la scienza da parte di Cartesio, la
sua pretesa che si possa giungere ad avere di tutte le cose delle idee «chiare
e distinte», simili cioè alle idee matematiche, e ad ottenere così una «evidenza» che è ugualmente
possibile solo in matematica.
[3] Se si
accetta la definizione classica dell’essere umano come un «animale
ragionevole», la «razionalità»
è rappresentata in esso dalla «differenza
specifica» mediante la quale l’uomo si distingue da tutte le altre specie del
genere animale; essa non è del resto applicabile se non all’interno di questo
genere, o, in altri termini, non è propriamente se non ciò che gli Scolastici
chiamavano una differentia animalis; pertanto
non si può parlare di «razionalità» per quanto riguarda gli esseri appartenenti
ad altri stati di esistenza, in particolare quelli sovraindividuali come per
esempio gli angeli; e ciò è coerente col fatto che la ragione è una facoltà di
ordine esclusivamente individuale che non può assolutamente oltrepassare i
limiti dell’ambito umano.
[4] Sotto
questo rapporto si può dire che, di tutti i significati inclusi nel termine
latino ratio, nell’uso «scientifico»
che viene fatto attualmente della ragione, se ne è conservato uno solo, quello
di «calcolo».
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