"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

giovedì 13 novembre 2014

René Guénon, Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi - 13. I postulati del razionalismo

René Guénon
Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi 

13. I postulati del razionalismo

Abbiamo detto che è in nome di una scienza e di una filosofia definite «razionali» che i moderni pretendono escludere qualsiasi «mistero» dal mondo così come se lo raffigurano, e in effetti si può constatare che più angusti sono i limiti di una concezione, più essa è considerata strettamente «razionale»; è notorio d’altronde che, a cominciare dagli «enciclopedisti» del secolo XVIII, i più accaniti negatori di ogni realtà sovrasensibile mostrano una tendenza particolare ad invocare la «ragione» ad ogni piè sospinto e a proclamarsi «razionalisti».
La differenza fra questo «razionalismo» volgare e il «razionalismo» prettamente filosofico, qualunque essa sia, è soltanto una differenza di gradazione: entrambi corrispondono alle stesse tendenze che sono andate esagerandosi e contemporaneamente «volgarizzandosi» durante tutto il corso dei tempi moderni. Così sovente abbiamo avuto occasione di parlare del «razionalismo» e di definirne i principali caratteri, che, su questo argomento, potremmo accontentarci di rinviare a qualcuna delle nostre opere precedenti;[1] esso è tuttavia talmente legato alla concezione stessa di una scienza quantitativa, che non possiamo dispensarci dal dirne qui ancora qualche parola.
Ricorderemo quindi che il razionalismo propriamente detto risale a Cartesio, e che di conseguenza si trova, fin dalla sua origine, direttamente associato all’idea di una fisica «meccanicistica». Il Protestantesimo, introducendo nella religione con il «libero esame» una specie di razionalismo, gli aveva del resto preparato la strada, anche se allora il termine non esisteva ancora essendo stato inventato solo quando la stessa tendenza si affermò esplicitamente nel campo filosofico. Il razionalismo in tutte le sue forme si definisce essenzialmente mediante la credenza nella supremazia della ragione, proclamata come un vero e proprio «dogma», e la conseguente negazione di tutto ciò che appartiene all’ordine sovraindividuale, in particolare quindi l’intuizione intellettuale pura, il che implica logicamente l’esclusione di ogni vera conoscenza metafisica. Questa negazione ha anche per conseguenza, in un altro ordine, il rigetto di ogni autorità spirituale, quest’ultima essendo necessariamente di origine «sovraumana»; razionalismo ed individualismo sono dunque così strettamente solidali che, di fatto, soventissimo si confondono, a parte il caso di talune recenti teorie filosofiche che pur non essendo razionalistiche sono tuttavia non meno esclusivamente individualistiche. Possiamo segnalare fin d’ora quanto tale razionalismo si accordi con la moderna tendenza alla semplificazione: quest’ultima, il cui naturale modo di procedere è sempre quello di ridurre le cose ai loro elementi inferiori, si afferma infatti innanzi tutto con la soppressione di tutto l’ambito sovraindividuale, per poi arrivare più tardi a voler ricondurre la parte restante, cioè tutto quel che appartiene all’ordine individuale, alla sola modalità sensibile o corporea, la quale verrà in definitiva limitata ad un semplice aggregato di determinazioni quantitative. Non è difficile vedere come tutte queste cose siano rigorosamente concatenate e costituiscano altrettante tappe necessarie di una stessa «degradazione» delle concezioni che l’uomo ha di se stesso e del mondo.
Un altro genere di semplificazione inerente al razionalismo cartesiano è quella che si manifesta, da un lato, col ridurre tutta intera la natura dello spirito al «pensiero», e, dall’altro, quella del corpo all’«estensione»; e abbiamo già visto come in quest’ultima relazione risieda il fondamento stesso della fisica «meccanicistica» e, si può dire, il punto di partenza dell’idea di una scienza completamente quantitativa.[2] Ma non è tutto: dal lato del «pensiero» un’altra semplificazione abusiva si instaura nel modo stesso di concepire la ragione da parte di Cartesio: egli la chiama anche «buon senso» (il che, se si pensa all’accezione corrente di questa espressione, evoca una nozione di livello singolarmente mediocre) e la definisce come «la cosa meglio distribuita a questo mondo», il che, oltre a sottintendere già una specie di idea «ugualitaria», è anche manifestamente falso; si tratta qui, da parte sua, di una pura e semplice confusione tra la ragione «in atto» e la «razionalità», in quanto quest’ultima è proprio una caratteristica specifica dell’essere umano come tale.[3] Certamente la natura umana risiede tutta intera in ogni individuo, ma vi si manifesta in maniere molto diverse a seconda delle qualità proprie che rispettivamente appartengono a questi individui, qualità che in loro si uniscono a tale natura specifica per costituire l’integralità della loro essenza. Pensare diversamente è come pensare che gli individui umani siano tra loro tutti simili e non differiscano se non solo numero. Di qui discendono direttamente tutte quelle considerazioni sull’«unità dello spirito umano» che i moderni invocano senza posa a spiegazione di ogni genere di cose, alcune delle quali poi non sono per niente d’ordine «psicologico», come ad esempio il ritrovare i medesimi simboli tradizionali in tutti i tempi ed in tutti i luoghi. A parte la considerazione che non è affatto lo «spirito» che essi hanno in vista, ma semplicemente il «mentale», non può trattarsi nella fattispecie che di una falsa unità, perché l’unità vera non può appartenere all’ambito individuale; questo ambito è del resto il solo a poter esser preso in considerazione da coloro che parlano così, o anche, più in generale, da tutti coloro che credono di poter parlare di «spirito umano» come se allo spirito si potesse attribuire un carattere specifico. In ogni caso, la comunità di natura degli individui nella specie può dare esclusivamente manifestazioni di ordine molto generale, né può assolutamente render conto di similitudini le quali, al contrario, vertono su particolari molto precisi. Ma come far capire a questi moderni che l’unità fondamentale di tutte le tradizioni non si spiega veramente se non in virtù di quel che v’è in esse di «sopraumano»? D’altra parte, e per ritornare a cose esclusivamente umane, è evidentemente ispirandosi alla concezione cartesiana che Locke, il fondatore della psicologia moderna, ha creduto di poter affermare che, per sapere cosa pensavano ai loro tempi i Greci ed i Romani (il suo orizzonte intellettuale non andava oltre l’antichità «classica» occidentale), non c’è che da ricercare che cosa pensano gli Inglesi ed i Francesi dei giorni nostri, poiché l’«uomo è dappertutto e sempre il medesimo». Niente di più falso naturalmente, e tuttavia gli psicologi sono rimasti fermi a tale concezione, perché, mentre credono di parlare dell’uomo in generale, la maggior parte delle loro affermazioni è applicabile in realtà soltanto all’europeo moderno. Non è forse questo un credere già realizzata quell’uniformità che in effetti si tende attualmente ad imporre a tutti gli individui umani? È vero che proprio in ragione degli sforzi effettuati in questo senso le differenze vanno attenuandosi, e che così l’ipotesi degli psicologi è oggi meno completamente falsa di quel che non fosse ai tempi di Locke (a condizione beninteso di guardarsi dal volerne estendere come lui l’applicazione al passato); però, come abbiamo detto in precedenza, nonostante tutto, il limite non potrà mai essere raggiunto, e, fintanto che durerà questo mondo, ci saranno sempre delle differenze irriducibili. E infine, per di più, ha senso prendere per prototipo, come mezzo per conoscere veramente la natura umana, un «ideale» che a rigore non può essere qualificato se non come «infraumano»?
Ciò detto, resta da spiegare perché il razionalismo è legato all’idea di una scienza esclusivamente quantitativa, o, per meglio dire, perché questa deriva da quello; e, a questo proposito, bisogna riconoscere che vi è una notevole parte di verità nelle critiche indirizzate da Bergson a quella che egli chiama a torto l’«intelligenza», e che in realtà è soltanto la ragione, o meglio un particolare uso della ragione basato sulla concezione cartesiana, in quanto in definitiva è da questa concezione che sono derivate tutte le forme del razionalismo moderno. Da notare, del resto, che spesso i filosofi dicono delle cose molto più giuste quando argomentano contro altri filosofi, che non quando vengono ad esporre i propri punti di vista; per cui, siccome ciascuno vede molto bene i difetti degli altri, si distruggono in certo qual modo a vicenda. È per questo che Bergson, se ci si dà la pena di rettificare i suoi errori di terminologia, mette bene in mostra i difetti del razionalismo (il quale, ben lungi dal confondersi con il vero «intellettualismo», ne è al contrario la negazione) e le insufficienze della ragione, e tuttavia non è meno colpevole a sua volta quando, per supplire a queste ultime, si cala nell’«infrarazionale» invece di elevarsi al «sovrarazionale» (ed è per questa ragione che la sua filosofia è altrettanto individualistica ed altrettanto ignara dell’ordine sovraindividuale quanto quelle dei suoi avversari). Quando dunque egli rimprovera alla ragione, a cui noi qui non abbiamo che da restituire il suo vero nome, di «scindere artificialmente il reale», non abbiamo affatto bisogno di adottare la sua idea del «reale», fosse pure a titolo ipotetico e provvisorio, per comprendere ciò che in fondo egli vuol dire: si tratta manifestamente della riduzione di tutte le cose ad elementi supposti omogenei o identici tra loro, ossia nient’altro che la loro riduzione al quantitativo, poiché è solo da questo punto di vista che si possono concepire elementi del genere. E questa «scissione» evoca pure molto chiaramente gli sforzi fatti per introdurre una discontinuità che è caratteristica esclusiva della quantità pura o numerica, cioè in definitiva la tendenza, da noi già segnalata più indietro, a non voler ammettere come «scientifico» se non ciò che è suscettibile di essere «numerato».[4] Del pari, quando egli dice che la ragione è a suo agio soltanto quando viene applicata al «solido», che in qualche modo è il suo campo proprio, sembra rendersi conto della tendenza che essa presenta inevitabilmente, se lasciata a se stessa, a «materializzare» tutto, nel significato comune del termine, cioè a considerare di tutte le cose esclusivamente le modalità più grossolane, perché sono quelle in cui la qualità è più diminuita a vantaggio della quantità; solamente che egli sembra considerare piuttosto il punto di arrivo di questa tendenza che non quello di partenza, e ciò potrebbe farlo accusare di una certa esagerazione, poiché esistono evidentemente dei gradi in questa «materializzazione». Ma se si fa riferimento allo stato attuale delle concezioni scientifiche (o piuttosto, come vedremo in seguito, ad uno stato ora già un po’ sorpassato), è certo che esse sono anche le più vicine a rappresentarne l’ultimo o il più basso livello, quello in cui la «solidità» intesa a questo modo ha raggiunto il suo massimo; ed anche ciò è un segno particolarmente caratteristico del periodo a cui siamo arrivati. Beninteso, non pretendiamo che lo stesso Bergson abbia compreso queste cose così nettamente come risulta dalla suddetta «traduzione» del suo linguaggio, anzi la cosa sembra assai poco probabile date le molteplici confusioni da lui costantemente commesse, ma non è men vero che, di fatto, questi modi di vedere gli sono stati suggeriti dalla constatazione dello stato attuale della scienza, e che, a questo titolo, la testimonianza di un incontestabile rappresentante dello spirito moderno non si può giudicare trascurabile. Quanto alle sue teorie, a ciò che esse rappresentano esattamente, ne troveremo il significato in un’altra parte del presente studio: per ora, possiamo dire soltanto che esse corrispondono ad un aspetto diverso, ed in certo qual modo ad un’altra tappa, di quella deviazione il cui insieme costituisce propriamente il mondo moderno.
Per riassumere quanto precede possiamo ancora dire questo: il razionalismo, che è la negazione di qualsiasi principio superiore alla ragione, ha per conseguenza «pratica» l’impiego esclusivo di tale ragione accecata, se così si può dire, per il fatto stesso di essere isolata dall’intelletto puro e trascendente di cui, normalmente e legittimamente, essa non può che riflettere la luce nell’ambito individuale. Una volta persa ogni comunicazione effettiva con questo intelletto sovraindividuale, la ragione non ha altra possibilità che quella di tendere verso il basso, cioè verso il polo inferiore dell’esistenza, ed immergersi sempre più nella «materialità»; di pari passo, essa perde a poco a poco l’idea stessa della verità, ed arriva a ricercare esclusivamente la maggior comodità per la sua comprensione limitata, trovando del resto in ciò una soddisfazione immediata dal fatto stesso che tale tendenza verso il basso la conduce nel senso della semplificazione e dell’uniformizzazione di ogni cosa; essa obbedisce quindi tanto più facilmente e più in fretta a questa tendenza, quanto più gli effetti di essa sono conformi ai suoi desideri, e questa discesa sempre più rapida deve necessariamente sfociare, alla fine, in quello che abbiamo chiamato il «regno della quantità».



[1] Cfr. soprattutto R. Guénon, Orient et Occident, Paris, 1924 [trad. it.: Oriente e Occidente, Torino, 1965] e La crise du monde moderne, cit. 
[2] Da notare anche, quanto al modo di concepire la scienza da parte di Cartesio, la sua pretesa che si possa giungere ad avere di tutte le cose delle idee «chiare e distinte», simili cioè alle idee matematiche, e ad ottenere così una «evidenza» che è ugualmente possibile solo in matematica. 
[3] Se si accetta la definizione classica dell’essere umano come un «animale ragionevole», la «razionalità» è rappresentata in esso dalla «differenza specifica» mediante la quale l’uomo si distingue da tutte le altre specie del genere animale; essa non è del resto applicabile se non all’interno di questo genere, o, in altri termini, non è propriamente se non ciò che gli Scolastici chiamavano una differentia animalis; pertanto non si può parlare di «razionalità» per quanto riguarda gli esseri appartenenti ad altri stati di esistenza, in particolare quelli sovraindividuali come per esempio gli angeli; e ciò è coerente col fatto che la ragione è una facoltà di ordine esclusivamente individuale che non può assolutamente oltrepassare i limiti dell’ambito umano. 
[4] Sotto questo rapporto si può dire che, di tutti i significati inclusi nel termine latino ratio, nell’uso «scientifico» che viene fatto attualmente della ragione, se ne è conservato uno solo, quello di «calcolo».

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