René Guénon
Il bisogno di semplificare, per quel che ha di illegittimo e abusivo, è, come abbiamo detto, un tratto distintivo della mentalità moderna. In virtù di questo bisogno, applicato al campo scientifico, certi filosofi sono arrivati a sostenere, come una specie di «pseudo-principio» logico, l’affermazione che «la natura agisce sempre per le vie più semplici».
Si tratta evidentemente di un postulato del tutto gratuito, in quanto non si vede che cosa possa obbligare la natura ad agire proprio così e non altrimenti; condizioni ben diverse dalla semplicità possono intervenire nelle sue operazioni ed avere la meglio su di essa, sì da determinarla ad agire attraverso vie le quali, almeno dal nostro punto di vista, appaiono spesso molto complicate.
In verità, questo «pseudo-principio» non è niente di più che un augurio formulato per una specie di «pigrizia mentale»: ci si augura che le cose siano il più possibile semplici, perché, se lo fossero in effetti, sarebbero tanto più facili da capire; e inoltre ciò si accorda bene con la concezione tutta moderna e profana di una scienza «alla portata di tutti», cosa manifestamente possibile solo a patto che la sua semplicità arrivi a livello «infantile», e che qualsiasi considerazione d’ordine superiore o realmente profondo ne sia rigorosamente esclusa.
La traccia di una tal condizione di spirito già la si trova
espressa, un po’ prima dell’inizio dei tempi moderni, nell’adagio scolastico: «entia non sunt multiplicanda praeter
necessitatem»,[1] il quale ha senso solo se
si tratta di «speculazioni» del tutto ipotetiche, ma allora ciò non presenta
alcun interesse; difatti è solo nel campo della matematica pura che l’uomo può
validamente limitarsi ad operare su costruzioni mentali senza doverle
paragonare a qualsivoglia altra cosa; e in questo caso, se egli può
«semplificare» a suo piacimento, è perché il suo oggetto è soltanto la
quantità, le cui combinazioni, se la si suppone ridotta a se stessa, non sono
affatto comprese nell’ordine effettivo della manifestazione. Per contro, dal momento
che si deve tener conto di talune constatazioni di fatto, le cose vanno ben
diversamente, ed è giocoforza riconoscere che spesso la stessa «natura» sembra
veramente ingegnarsi a moltiplicare gli esseri praeter necessitatem; per esempio, quale soddisfazione logica può
provare l’uomo a constatare la moltitudine e la varietà prodigiose delle specie
animali e vegetali i cui rappresentanti vivono intorno a lui? Ciò è certamente
assai distante dalla semplicità postulata da quei filosofi che vorrebbero
piegare la realtà alla comodità della loro comprensione e di quella della «media» dei loro simili; e se le
cose stanno così nel mondo corporeo, il quale tra l’altro non è che un campo di
esistenza molto limitato, non sarà forse, e a maggior ragione, altrettanto vero
per gli altri mondi, anzi si potrebbe dire in proporzione indefinitamente
maggiore?1 D’altra parte, per tagliar corto ad ogni discussione su
questo argomento, basta ricordare che, come abbiamo spiegato altrove, tutto
quanto è possibile è anche reale nel suo ordine e seconda il proprio modo di
essere, e che la possibilità universale, essendo necessariamente infinita, ha
in sé il posto per tutto quanto non è un’impossibilità pura e semplice; ma,
appunto, non è forse ancora lo stesso bisogno di semplificazione abusiva che
spinge i filosofi, nella costituzione dei loro «sistemi», a voler sempre
limitare in un modo o nell’altro la possibilità universale?[2]
Quel che appare particolarmente curioso è che la tendenza
alla semplicità intesa a questo modo, così come la tendenza all’uniformità che
va di pari passo con essa, viene interpretata, da chi ne è influenzato, come
uno sforzo di «unificazione», mentre in realtà si
tratta di un’«unificazione» alla rovescia, come tutto quanto è diretto verso
l’ambito della quantità pura o verso il polo sostanziale e inferiore
dell’esistenza, per cui ritroviamo qui quella specie di caricatura dell’unità
già da noi segnalata sotto altri aspetti[3]. Che
infatti anche la vera unità possa definirsi «semplice», è vero in tutt’altro
senso e solo perché essenzialmente indivisibile; il che esclude necessariamente
ogni «composizione» ed implica per essa l’assoluta impossibilità ad essere
concepita come costituita di parti. Una specie di parodia di questa
indivisibilità si ritrova d’altronde in quella attribuita ai loro «atomi» da
quei filosofi e da quei fisici che non si accorgono della sua incompatibilità
con la natura corporea: essendo infatti l’estensione indefinitamente
divisibile, un corpo, cioè qualcosa di esteso per definizione, è
necessariamente sempre composto di parti, quand’anche sia o lo si voglia
supporre piccolo, per cui la nozione di corpuscoli indivisibili è per se stessa
contraddittoria; ma, evidentemente, una nozione del genere ben si accorda con
la ricerca di una semplicità spinta così lontano da non corrispondere più alla
benché minima realtà.
L’unità principiale, d’altro canto, pur nella sua assoluta
indivisibilità, è tuttavia di una complessità estrema, se così si può dire,
poiché contiene «eminentemente» tutto ciò che, discendendo ai gradi inferiori,
costituisce l’essenza o il lato qualitativo degli esseri manifestati. Basta
riportarsi alle nostre precedenti spiegazioni sul vero significato in cui va intesa
l’«estinzione dell’io», per capire che è in quel momento che ogni qualità «trasformata» si trova nella sua
pienezza, e che la distinzione, affrancata da ogni limitazione «separativa», è veramente portata al
grado supremo. La limitazione appare, appena si entra nell’esistenza
manifestata, sotto la forma delle condizioni stesse che determinano ogni stato
e ogni modo di manifestazione; man mano che si scende ai livelli più bassi di
tale esistenza, la limitazione diventa sempre più rigorosa, come pure sempre
più ristrette sono le possibilità inerenti alla natura degli esseri, il che
equivale a dire che l’essenza degli esseri va semplificandosi nella stessa
misura; e questa semplificazione prosegue gradualmente fino al di sotto della
stessa esistenza, cioè fino all’ambito della quantità pura, là ove essa è
finalmente portata al suo massimo con la soppressione completa di ogni
determinazione qualitativa.
È evidente, da quanto precede, come la semplificazione segua
strettamente quel cammino discendente che, nel linguaggio attuale di
ispirazione «dualistica» cartesiana, verrebbe
descritto come diretto dallo «spirito» verso la «materia»; per inadeguati che
siano questi due termini, quali sostituti di «essenza» e di «sostanza», non è
forse inutile adoperarli qui per farci meglio capire. In effetti, è veramente
straordinario che si voglia applicare questa semplificazione a quanto riguarda
l’ambito «spirituale», per lo meno in ciò che si è ancora capaci di concepirne,
con l’estenderla alle concezioni religiose così come a quelle filosofiche e
scientifiche. L’esempio più tipico a questo proposito è il Protestantesimo,
dove tale semplificazione si traduce sia nella pressoché completa soppressione
dei riti, sia nella predominanza accordata alla morale sulla dottrina, quest’ultima
sempre più semplificata e sminuita anch’essa, tanto da ridursi quasi a nulla
con quelle poche formule rudimentali che ognuno può intendere a modo suo; e il
Protestantesimo, nelle sue molteplici forme, è del resto la sola produzione
religiosa dello spirito moderno, quando quest’ultimo non era ancora giunto a
rigettare ogni religione, ma già cominciava, in virtù delle tendenze
antitradizionali che gli sono inerenti, o meglio che lo costituiscono
propriamente, ad avviarsi in quella direzione. Ai limiti di questa
«evoluzione», come si dice oggi, la religione è sostituita dalla «religiosità»,
cioè da un vago sentimentalismo senza alcuna reale portata: ecco cosa ci si
compiace di considerare come un «progresso». A dimostrare come per la mentalità
moderna tutti i rapporti normali siano rovesciati, sta il fatto che si vuol
vedere in ciò una «spiritualizzazione» della religione, quasi lo
«spirito» non fosse che una cornice vuota od un «ideale» tanto nebuloso quanto
insignificante; e si tratta in effetti di quella che certi nostri contemporanei
chiamano anche «religione epurata»,
ed essa lo è in effetti talmente, che si trova svuotata di ogni contenuto
positivo e non ha più il minimo rapporto con una qualsiasi realtà!
V’è pure da notare come tutti i sedicenti «riformatori» vantino costantemente la
pretesa di ritornare ad una «semplicità primitiva», la quale senza dubbio non è
mai esistita se non nella loro immaginazione; questo è forse un mezzo di tutto
comodo per dissimulare il vero carattere delle loro innovazioni, ma molto
spesso può anche essere un’illusione di cui essi stessi sono le vittime: è ben
difficile infatti stabilire fino a che punto i promotori apparenti dello
spirito antitradizionale siano realmente coscienti della funzione che svolgono,
perché una funzione del genere presuppone già in loro una mentalità falsata;
inoltre non si vede come la pretesa in questione possa conciliarsi con l’idea
di un «progresso» di cui contemporaneamente si vantano di essere gli agenti,
contraddizione questa che basta da sola ad indicare l’anormalità di una
situazione del genere. Comunque sia, già che abbiamo accennato all’idea stessa
della «semplicità primitiva», non si riesce a capire perché mai le cose
dovrebbero sempre cominciare con l’essere semplici, per complicarsi in seguito;
al contrario, se si pensa che il germe di un essere qualsiasi deve
necessariamente contenere la virtualità di tutto quel che tale essere diverrà
in seguito, il che equivale a dire che tutte le possibilità che si
svilupperanno nel corso dèlla sua esistenza vi sono già incluse, si è indotti a
pensare che l’origine di tutte le cose dev’essere in realtà estremamente
complessa, ed è questa appunto la complessità qualitativa dell’essenza; il
germe è piccolo solo sotto l’aspetto della quantità o della sostanza, per cui,
trasponendo simbolicamente l’idea di «grandezza», si può dire in ragione
dell’analogia inversa che il più piccolo in quantità deve essere il più grande
in qualità.[4] Similmente, ogni
tradizione contiene, fin dall’origine, tutta intera la dottrina, comprendendo
in principio la totalità degli sviluppi e degli adattamenti che potranno
legittimamente procederne nel corso dei tempi, così come le applicazioni cui
essa può dar luogo in tutti i campi; per cui gli interventi puramente umani non
possono che limitarla e sminuirla, se non snaturarla del tutto, ed è appunto in
questo che consiste realmente l’opera di tutti i «riformatori».
Un’altra cosa singolare è che i «modernisti» di tutte le
specie (e qui non intendiamo parlare soltanto di quelli occidentali, ma anche
di quelli orientali, i quali d’altronde non sono che degli «occidentalizzati»),
vantando come un «progresso»
nell’ordine religioso la semplicità dottrinale, parlano spesso della religione
come se dovesse esser riservata a degli sciocchi, o per lo meno come se
dovessero esser forzatamente tali, per ipotesi, coloro cui essi si rivolgono;
credono forse costoro, affermando a torto o a ragione che una dottrina è
semplice, di offrire ad un uomo, sia pure appena intelligente, una ragione valida
per adottarla? Si tratta in fondo anche qui di una manifestazione dell’idea
«democratica» in virtù della quale, come dicevamo più indietro, si vuol mettere
anche la scienza «alla
portata di tutti»; ed
è appena il caso di far osservare che questi stessi «modernisti» sono anche
sempre, come conseguenza necessaria del loro atteggiamento, gli avversari
dichiarati di ogni esoterismo; va da sé che quest’ultimo, che per definizione
si indirizza esclusivamente all’élite, non ha affatto da esser semplice, per cui
la negazione dell’esoterismo si presenta come prima tappa obbligata di
qualsiasi tentativo di semplificazione. La religione propriamente detta poi, o,
più in generale, la parte più esteriore di ogni tradizione, deve evidentemente
esser tale che ciascuno possa comprenderne qualcosa a seconda delle sue
capacità, ed è in questo senso che essa si indirizza a tutti; ma ciò non vuol
dire che essa debba ridursi a quel minimo accessibile al più ignorante (inteso
non sotto l’aspetto dell’istruzione profana, la quale qui assolutamente non
interessa), od al meno intelligente; al contrario essa deve possedere qualcosa
che sia, per così dire, al livello delle possibilità di tutti gli individui,
per quanto elevate siano, ed è soltanto in questo modo ch’essa può fornire un
«supporto» adeguato a quell’aspetto interiore il quale, in ogni tradizione non
mutilata, ne rappresenta il necessario complemento e prende origine dall’ordine
iniziatico propriamente detto. Ma i «modernisti», col rigettare proprio
l’esoterismo e l’iniziazione, negano per conseguenza alle dottrine religiose
ogni significato profondo, e così, proprio pretendendo di «spiritualizzare» la religione, cadono al
contrario nel più ristretto e grossolano «letteralismo», quello in cui lo
spirito è più completamente assente; in questo modo essi dimostrano con un
esempio lampante come sia spesso anche troppo vera la frase di Pascal «chi vuol
fare l’angelo fa la bestia»!
Ma non abbiamo ancora finito con la «semplicità primitiva», poiché tale espressione potrebbe trovare applicazione
almeno in un senso: ci riferiamo all’indistinzione del «caos», che in un certo
qual modo è proprio «primitivo» perché appunto si trova «all’inizio»; però esso
non vi è solo, poiché qualsiasi manifestazione presuppone necessariamente,
contemporaneamente ed in correlazione, l’essenza e la sostanza, ed il «caos» ne
rappresenta soltanto la base sostanziale. Se i fautori della «semplicità primitiva» la intendessero a questo
modo, non avremmo certo opposizione da fare, perché è appunto a questa
indistinzione che arriverebbe finalmente la tendenza alla semplificazione se
potesse realizzarsi fino alle sue ultime conseguenze; ma ancora una volta
bisogna tener presente che questa semplicità ultima, essendo al di sotto della
manifestazione e non in essa, non corrisponderebbe affatto ad un vero «ritorno
all’origine». A questo proposito, e per risolvere un’apparente antinomia,
bisogna fare una distinzione netta fra le due prospettive rispettivamente riferentisi
ai due poli dell’esistenza. Quando si dice che il mondo si è formato a partire
dal «caos», lo si prende in esame unicamente dal punto di vista sostanziale; ed
in tal caso bisogna considerare questo inizio come intemporale, perché
evidentemente il tempo non esiste nel «caos», ma solo nel «cosmo». Quindi, se
ci si vuol riferire all’ordine di sviluppo della manifestazione, che
nell’ambito dell’esistenza corporea ed in virtù delle condizioni che
definiscono quest’ultima si traduce in un ordine di successione temporale, non
è da questo lato che bisognerà partire, bensì dal lato del polo essenziale, da
cui la manifestazione, conformemente alle leggi cicliche, si allontana
costantemente per discendere verso il polo sostanziale. La «creazione», in
quanto risoluzione del «caos», è in certo qual modo «istantanea» ed è propriamente il fiat lux biblico; ma quel che è veramente all’origine stessa del
«cosmo» è la Luce primordiale vera e propria, cioè lo «spirito puro» in cui
sono le essenze di tutte le cose; ed effettivamente, a partire da lì, il mondo
manifestato non può far altro che andare in basso sempre più verso la
«materialità».
[1] Questo
adagio, analogamente a quello secondo cui «nihil
est in intellectu quod non prius fuerit in sensu», prima formulazione di
quanto più tardi sarà chiamato «sensualismo»,
è di quelli a cui non si può trovare alcun autore definito, ed è verosimile che
essi appartengano già al periodo di decadènza della Scolastica, cioè ad un
periodo che in effetti, nonostante la «cronologia» corrente, è già più l’inizio
dei tempi moderni che non la fine del Medio Evo, se, come abbiamo spiegato
altrove, bisogna far risalire tale inizio già al secolo XIV.
[2] A
questo proposito si potrebbero contrapporre, all’adagio scolastico della
decadenza, le concezioni dello stesso san Tommaso d’Aquino sul mondo angelico,
«ubi omne individuum est species infima»,
cioè ove le differenze fra gli angeli non sono l’analogo delle «differenze individuali» nel
nostro mondo (lo stesso termine individuum
è quindi improprio in realtà trattandosi effettivamente di stati
sovraindividuali), bensì delle «differenze
specifiche». La ragione vera di ciò risiede nel fatto che ogni angelo
rappresenta in certo qual modo l’espressione di un attributo divino, com’è
d’altronde evidente nella costituzione dei nomi dell’angelologia ebraica.
[3] È per
questa ragione che Leibnitz affermava che «ogni sistema è vero in ciò che
afferma e falso in ciò che nega», cioè che esso contiene una parte di verità
proporzionale a quanto ammette di realtà positiva, ed una parte di errore
corrispondente a ciò che di questa realtà esclude; conviene aggiungere però che
è proprio il lato negativo o limitativo a costituire appunto il «sistema» come
tale.
[4] Ricordiamo
qui la parabola evangelica del «granello di senape» ed i testi similari delle Upanishad già da noi citati altrove (L’Homme et son devenir selon le Vêdânta, cit.,
cap. III); e aggiungeremo ancora, a questo proposito, che lo stesso Messia è
denominato «germe» in un gran numero di passi biblici.
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