"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

domenica 9 novembre 2014

René Guénon, Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi - 11. Unità e semplicità

René Guénon
Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi 

11. Unità e semplicità

Il bisogno di semplificare, per quel che ha di illegittimo e abusivo, è, come abbiamo detto, un tratto distintivo della mentalità moderna. In virtù di questo bisogno, applicato al campo scientifico, certi filosofi sono arrivati a sostenere, come una specie di «pseudo-principio» logico, l’affermazione che «la natura agisce sempre per le vie più semplici».
Si tratta evidentemente di un postulato del tutto gratuito, in quanto non si vede che cosa possa obbligare la natura ad agire proprio così e non altrimenti; condizioni ben diverse dalla semplicità possono intervenire nelle sue operazioni ed avere la meglio su di essa, sì da determinarla ad agire attraverso vie le quali, almeno dal nostro punto di vista, appaiono spesso molto complicate.
In verità, questo «pseudo-principio» non è niente di più che un augurio formulato per una specie di «pigrizia mentale»: ci si augura che le cose siano il più possibile semplici, perché, se lo fossero in effetti, sarebbero tanto più facili da capire; e inoltre ciò si accorda bene con la concezione tutta moderna e profana di una scienza «alla portata di tutti», cosa manifestamente possibile solo a patto che la sua semplicità arrivi a livello «infantile», e che qualsiasi considerazione d’ordine superiore o realmente profondo ne sia rigorosamente esclusa.
La traccia di una tal condizione di spirito già la si trova espressa, un po’ prima dell’inizio dei tempi moderni, nell’adagio scolastico: «entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem»,[1] il quale ha senso solo se si tratta di «speculazioni» del tutto ipotetiche, ma allora ciò non presenta alcun interesse; difatti è solo nel campo della matematica pura che l’uomo può validamente limitarsi ad operare su costruzioni mentali senza doverle paragonare a qualsivoglia altra cosa; e in questo caso, se egli può «semplificare» a suo piacimento, è perché il suo oggetto è soltanto la quantità, le cui combinazioni, se la si suppone ridotta a se stessa, non sono affatto comprese nell’ordine effettivo della manifestazione. Per contro, dal momento che si deve tener conto di talune constatazioni di fatto, le cose vanno ben diversamente, ed è giocoforza riconoscere che spesso la stessa «natura» sembra veramente ingegnarsi a moltiplicare gli esseri praeter necessitatem; per esempio, quale soddisfazione logica può provare l’uomo a constatare la moltitudine e la varietà prodigiose delle specie animali e vegetali i cui rappresentanti vivono intorno a lui? Ciò è certamente assai distante dalla semplicità postulata da quei filosofi che vorrebbero piegare la realtà alla comodità della loro comprensione e di quella della «media» dei loro simili; e se le cose stanno così nel mondo corporeo, il quale tra l’altro non è che un campo di esistenza molto limitato, non sarà forse, e a maggior ragione, altrettanto vero per gli altri mondi, anzi si potrebbe dire in proporzione indefinitamente maggiore?1 D’altra parte, per tagliar corto ad ogni discussione su questo argomento, basta ricordare che, come abbiamo spiegato altrove, tutto quanto è possibile è anche reale nel suo ordine e seconda il proprio modo di essere, e che la possibilità universale, essendo necessariamente infinita, ha in sé il posto per tutto quanto non è un’impossibilità pura e semplice; ma, appunto, non è forse ancora lo stesso bisogno di semplificazione abusiva che spinge i filosofi, nella costituzione dei loro «sistemi», a voler sempre limitare in un modo o nell’altro la possibilità universale?[2]
Quel che appare particolarmente curioso è che la tendenza alla semplicità intesa a questo modo, così come la tendenza all’uniformità che va di pari passo con essa, viene interpretata, da chi ne è influenzato, come uno sforzo di «unificazione», mentre in realtà si tratta di un’«unificazione» alla rovescia, come tutto quanto è diretto verso l’ambito della quantità pura o verso il polo sostanziale e inferiore dell’esistenza, per cui ritroviamo qui quella specie di caricatura dell’unità già da noi segnalata sotto altri aspetti[3]. Che infatti anche la vera unità possa definirsi «semplice», è vero in tutt’altro senso e solo perché essenzialmente indivisibile; il che esclude necessariamente ogni «composizione» ed implica per essa l’assoluta impossibilità ad essere concepita come costituita di parti. Una specie di parodia di questa indivisibilità si ritrova d’altronde in quella attribuita ai loro «atomi» da quei filosofi e da quei fisici che non si accorgono della sua incompatibilità con la natura corporea: essendo infatti l’estensione indefinitamente divisibile, un corpo, cioè qualcosa di esteso per definizione, è necessariamente sempre composto di parti, quand’anche sia o lo si voglia supporre piccolo, per cui la nozione di corpuscoli indivisibili è per se stessa contraddittoria; ma, evidentemente, una nozione del genere ben si accorda con la ricerca di una semplicità spinta così lontano da non corrispondere più alla benché minima realtà.
L’unità principiale, d’altro canto, pur nella sua assoluta indivisibilità, è tuttavia di una complessità estrema, se così si può dire, poiché contiene «eminentemente» tutto ciò che, discendendo ai gradi inferiori, costituisce l’essenza o il lato qualitativo degli esseri manifestati. Basta riportarsi alle nostre precedenti spiegazioni sul vero significato in cui va intesa l’«estinzione dell’io», per capire che è in quel momento che ogni qualità «trasformata» si trova nella sua pienezza, e che la distinzione, affrancata da ogni limitazione «separativa», è veramente portata al grado supremo. La limitazione appare, appena si entra nell’esistenza manifestata, sotto la forma delle condizioni stesse che determinano ogni stato e ogni modo di manifestazione; man mano che si scende ai livelli più bassi di tale esistenza, la limitazione diventa sempre più rigorosa, come pure sempre più ristrette sono le possibilità inerenti alla natura degli esseri, il che equivale a dire che l’essenza degli esseri va semplificandosi nella stessa misura; e questa semplificazione prosegue gradualmente fino al di sotto della stessa esistenza, cioè fino all’ambito della quantità pura, là ove essa è finalmente portata al suo massimo con la soppressione completa di ogni determinazione qualitativa.
È evidente, da quanto precede, come la semplificazione segua strettamente quel cammino discendente che, nel linguaggio attuale di ispirazione «dualistica» cartesiana, verrebbe descritto come diretto dallo «spirito» verso la «materia»; per inadeguati che siano questi due termini, quali sostituti di «essenza» e di «sostanza», non è forse inutile adoperarli qui per farci meglio capire. In effetti, è veramente straordinario che si voglia applicare questa semplificazione a quanto riguarda l’ambito «spirituale», per lo meno in ciò che si è ancora capaci di concepirne, con l’estenderla alle concezioni religiose così come a quelle filosofiche e scientifiche. L’esempio più tipico a questo proposito è il Protestantesimo, dove tale semplificazione si traduce sia nella pressoché completa soppressione dei riti, sia nella predominanza accordata alla morale sulla dottrina, quest’ultima sempre più semplificata e sminuita anch’essa, tanto da ridursi quasi a nulla con quelle poche formule rudimentali che ognuno può intendere a modo suo; e il Protestantesimo, nelle sue molteplici forme, è del resto la sola produzione religiosa dello spirito moderno, quando quest’ultimo non era ancora giunto a rigettare ogni religione, ma già cominciava, in virtù delle tendenze antitradizionali che gli sono inerenti, o meglio che lo costituiscono propriamente, ad avviarsi in quella direzione. Ai limiti di questa «evoluzione», come si dice oggi, la religione è sostituita dalla «religiosità», cioè da un vago sentimentalismo senza alcuna reale portata: ecco cosa ci si compiace di considerare come un «progresso». A dimostrare come per la mentalità moderna tutti i rapporti normali siano rovesciati, sta il fatto che si vuol vedere in ciò una «spiritualizzazione» della religione, quasi lo «spirito» non fosse che una cornice vuota od un «ideale» tanto nebuloso quanto insignificante; e si tratta in effetti di quella che certi nostri contemporanei chiamano anche «religione epurata», ed essa lo è in effetti talmente, che si trova svuotata di ogni contenuto positivo e non ha più il minimo rapporto con una qualsiasi realtà!
V’è pure da notare come tutti i sedicenti «riformatori» vantino costantemente la pretesa di ritornare ad una «semplicità primitiva», la quale senza dubbio non è mai esistita se non nella loro immaginazione; questo è forse un mezzo di tutto comodo per dissimulare il vero carattere delle loro innovazioni, ma molto spesso può anche essere un’illusione di cui essi stessi sono le vittime: è ben difficile infatti stabilire fino a che punto i promotori apparenti dello spirito antitradizionale siano realmente coscienti della funzione che svolgono, perché una funzione del genere presuppone già in loro una mentalità falsata; inoltre non si vede come la pretesa in questione possa conciliarsi con l’idea di un «progresso» di cui contemporaneamente si vantano di essere gli agenti, contraddizione questa che basta da sola ad indicare l’anormalità di una situazione del genere. Comunque sia, già che abbiamo accennato all’idea stessa della «semplicità primitiva», non si riesce a capire perché mai le cose dovrebbero sempre cominciare con l’essere semplici, per complicarsi in seguito; al contrario, se si pensa che il germe di un essere qualsiasi deve necessariamente contenere la virtualità di tutto quel che tale essere diverrà in seguito, il che equivale a dire che tutte le possibilità che si svilupperanno nel corso dèlla sua esistenza vi sono già incluse, si è indotti a pensare che l’origine di tutte le cose dev’essere in realtà estremamente complessa, ed è questa appunto la complessità qualitativa dell’essenza; il germe è piccolo solo sotto l’aspetto della quantità o della sostanza, per cui, trasponendo simbolicamente l’idea di «grandezza», si può dire in ragione dell’analogia inversa che il più piccolo in quantità deve essere il più grande in qualità.[4] Similmente, ogni tradizione contiene, fin dall’origine, tutta intera la dottrina, comprendendo in principio la totalità degli sviluppi e degli adattamenti che potranno legittimamente procederne nel corso dei tempi, così come le applicazioni cui essa può dar luogo in tutti i campi; per cui gli interventi puramente umani non possono che limitarla e sminuirla, se non snaturarla del tutto, ed è appunto in questo che consiste realmente l’opera di tutti i «riformatori».
Un’altra cosa singolare è che i «modernisti» di tutte le specie (e qui non intendiamo parlare soltanto di quelli occidentali, ma anche di quelli orientali, i quali d’altronde non sono che degli «occidentalizzati»), vantando come un «progresso» nell’ordine religioso la semplicità dottrinale, parlano spesso della religione come se dovesse esser riservata a degli sciocchi, o per lo meno come se dovessero esser forzatamente tali, per ipotesi, coloro cui essi si rivolgono; credono forse costoro, affermando a torto o a ragione che una dottrina è semplice, di offrire ad un uomo, sia pure appena intelligente, una ragione valida per adottarla? Si tratta in fondo anche qui di una manifestazione dell’idea «democratica» in virtù della quale, come dicevamo più indietro, si vuol mettere anche la scienza «alla portata di tutti»; ed è appena il caso di far osservare che questi stessi «modernisti» sono anche sempre, come conseguenza necessaria del loro atteggiamento, gli avversari dichiarati di ogni esoterismo; va da sé che quest’ultimo, che per definizione si indirizza esclusivamente all’élite, non ha affatto da esser semplice, per cui la negazione dell’esoterismo si presenta come prima tappa obbligata di qualsiasi tentativo di semplificazione. La religione propriamente detta poi, o, più in generale, la parte più esteriore di ogni tradizione, deve evidentemente esser tale che ciascuno possa comprenderne qualcosa a seconda delle sue capacità, ed è in questo senso che essa si indirizza a tutti; ma ciò non vuol dire che essa debba ridursi a quel minimo accessibile al più ignorante (inteso non sotto l’aspetto dell’istruzione profana, la quale qui assolutamente non interessa), od al meno intelligente; al contrario essa deve possedere qualcosa che sia, per così dire, al livello delle possibilità di tutti gli individui, per quanto elevate siano, ed è soltanto in questo modo ch’essa può fornire un «supporto» adeguato a quell’aspetto interiore il quale, in ogni tradizione non mutilata, ne rappresenta il necessario complemento e prende origine dall’ordine iniziatico propriamente detto. Ma i «modernisti», col rigettare proprio l’esoterismo e l’iniziazione, negano per conseguenza alle dottrine religiose ogni significato profondo, e così, proprio pretendendo di «spiritualizzare» la religione, cadono al contrario nel più ristretto e grossolano «letteralismo», quello in cui lo spirito è più completamente assente; in questo modo essi dimostrano con un esempio lampante come sia spesso anche troppo vera la frase di Pascal «chi vuol fare l’angelo fa la bestia»!
Ma non abbiamo ancora finito con la «semplicità primitiva», poiché tale espressione potrebbe trovare applicazione almeno in un senso: ci riferiamo all’indistinzione del «caos», che in un certo qual modo è proprio «primitivo» perché appunto si trova «all’inizio»; però esso non vi è solo, poiché qualsiasi manifestazione presuppone necessariamente, contemporaneamente ed in correlazione, l’essenza e la sostanza, ed il «caos» ne rappresenta soltanto la base sostanziale. Se i fautori della «semplicità primitiva» la intendessero a questo modo, non avremmo certo opposizione da fare, perché è appunto a questa indistinzione che arriverebbe finalmente la tendenza alla semplificazione se potesse realizzarsi fino alle sue ultime conseguenze; ma ancora una volta bisogna tener presente che questa semplicità ultima, essendo al di sotto della manifestazione e non in essa, non corrisponderebbe affatto ad un vero «ritorno all’origine». A questo proposito, e per risolvere un’apparente antinomia, bisogna fare una distinzione netta fra le due prospettive rispettivamente riferentisi ai due poli dell’esistenza. Quando si dice che il mondo si è formato a partire dal «caos», lo si prende in esame unicamente dal punto di vista sostanziale; ed in tal caso bisogna considerare questo inizio come intemporale, perché evidentemente il tempo non esiste nel «caos», ma solo nel «cosmo». Quindi, se ci si vuol riferire all’ordine di sviluppo della manifestazione, che nell’ambito dell’esistenza corporea ed in virtù delle condizioni che definiscono quest’ultima si traduce in un ordine di successione temporale, non è da questo lato che bisognerà partire, bensì dal lato del polo essenziale, da cui la manifestazione, conformemente alle leggi cicliche, si allontana costantemente per discendere verso il polo sostanziale. La «creazione», in quanto risoluzione del «caos», è in certo qual modo «istantanea» ed è propriamente il fiat lux biblico; ma quel che è veramente all’origine stessa del «cosmo» è la Luce primordiale vera e propria, cioè lo «spirito puro» in cui sono le essenze di tutte le cose; ed effettivamente, a partire da lì, il mondo manifestato non può far altro che andare in basso sempre più verso la «materialità».


[1] Questo adagio, analogamente a quello secondo cui «nihil est in intellectu quod non prius fuerit in sensu», prima formulazione di quanto più tardi sarà chiamato «sensualismo», è di quelli a cui non si può trovare alcun autore definito, ed è verosimile che essi appartengano già al periodo di decadènza della Scolastica, cioè ad un periodo che in effetti, nonostante la «cronologia» corrente, è già più l’inizio dei tempi moderni che non la fine del Medio Evo, se, come abbiamo spiegato altrove, bisogna far risalire tale inizio già al secolo XIV. 
[2] A questo proposito si potrebbero contrapporre, all’adagio scolastico della decadenza, le concezioni dello stesso san Tommaso d’Aquino sul mondo angelico, «ubi omne individuum est species infima», cioè ove le differenze fra gli angeli non sono l’analogo delle «differenze individuali» nel nostro mondo (lo stesso termine individuum è quindi improprio in realtà trattandosi effettivamente di stati sovraindividuali), bensì delle «differenze specifiche». La ragione vera di ciò risiede nel fatto che ogni angelo rappresenta in certo qual modo l’espressione di un attributo divino, com’è d’altronde evidente nella costituzione dei nomi dell’angelologia ebraica. 
[3] È per questa ragione che Leibnitz affermava che «ogni sistema è vero in ciò che afferma e falso in ciò che nega», cioè che esso contiene una parte di verità proporzionale a quanto ammette di realtà positiva, ed una parte di errore corrispondente a ciò che di questa realtà esclude; conviene aggiungere però che è proprio il lato negativo o limitativo a costituire appunto il «sistema» come tale. 
[4] Ricordiamo qui la parabola evangelica del «granello di senape» ed i testi similari delle Upanishad già da noi citati altrove (L’Homme et son devenir selon le Vêdânta, cit., cap. III); e aggiungeremo ancora, a questo proposito, che lo stesso Messia è denominato «germe» in un gran numero di passi biblici.

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