Destino, Provvidenza e Libero Arbitrio[1]
Non è possibile pensare ad alcun evento che abbia luogo al di fuori di una possibilità logicamente antecedente ed effettivamente imminente al suo aver luogo; e in questo senso, ogni nuovo individuo è l’esito di una potenzialità prenatale, che muore come potenzialità inizialmente al primo concepimento, e poi durante tutta la vita, man mano che i vari aspetti di questa potenzialità sono ridotti ad atto, in accordo con una volontà in parte conscia e in parte inconscia che cerca sempre di realizzarsi.
Possiamo esprimere lo stesso in altre parole dicendo che l’individuo viene al mondo per realizzare certi scopi o propositi suoi peculiari. La nascita è un’opportunità.
Il campo in cui si procede da potenzialità ad atto è quello della libertà dell’individuo; il “libero arbitrio” del teologo è, in accordo con la parabola dei talenti, una libertà di far uso o di trascurare l’opportunità di diventare ciò che uno può diventare nelle circostanze in cui è nato; queste “circostanze” della nascita consistono nel suo anima-corpo e nel resto del suo ambiente, o mondo, definito come un insieme specifico di possibilità.
Evidentemente la libertà dell’individuo non è illimitata; non può realizzare l’impossibile, ossia ciò che è impossibile per lui, sebbene possa essere possibile in qualche altro “mondo” definito sopra. In particolare, non può essere nato in un mondo diverso da dove è effettivamente nato, o possedere altre possibilità rispetto a quelle di cui è stato naturalmente (per nascita) dotato; non può realizzare ambizioni per la realizzazione delle quali non esista disposizione nella sua natura; egli è se stesso, e nessun altro. Certe specifiche e in parte uniche possibilità gli sono aperte, e certe altre possibilità, di solito immensamente più numerose, gli sono precluse; come essere finito, non può essere allo stesso tempo un uomo a Londra e un leone in Africa. Queste possibilità e impossibilità, che sono quelle della sua natura e predeterminate da essa, e che non si può pensare gli siano state arbitrariamente imposte, ma solo come la definizione della sua natura, rappresentano ciò che chiamiamo il fato o destino dell’individuo; qualsiasi cosa accada all’individuo è solamente la riduzione ad atto di una data possibilità quando l’occasione si presenta, mentre tutto ciò che non accade non era realmente una possibilità, ma solo la concezione ignorante che lo fosse.
La libertà dell’arbitrio individuale è quindi la libertà di fare ciò che l’individuo può fare, o l’astenersi dal farlo. Qualunque cosa uno faccia effettivamente in date circostanze è ciò che uno vuole fare in quelle circostanze: essere forzato ad agire o soffrire contro il proprio volere non è coercizione del volere, ma dei suoi strumenti, e solo in apparenza una coercizione dell’individuo stesso nella misura in cui egli identifica “se stesso” con i suoi strumenti.
Inoltre, il destino dell’individuo, ciò che farà di sé in date circostanze, non gli è del tutto oscuro, ma piuttosto manifesto nella misura in cui egli realmente conosce se stesso e comprende la sua natura. Val la pena notare che questa misura di preveggenza (provvidenza) non interferisce in alcun modo con il suo senso di libertà; uno pensa semplicemente alle decisioni future come un presente da risolvere. Di fatto c’è coincidenza tra preveggenza e libero arbitrio. Allo stesso modo, ma limitato al livello in cui si possa realmente conoscere l’essenza di un altro, si può prevedere il suo peculiare destino; la cui previsione non governa in alcun modo la condotta di quella creatura. E infine, se presumiamo una provvidenza onnisciente in Dio, che dalla sua posizione al centro della ruota inevitabilmente vede il passato e il futuro ora, il quale “ora” sarà lo stesso domani come lo era ieri, questo non interferisce in alcun modo con la libertà di ogni creatura nella sua sfera propria. Come espresso da Dante: “La contingenza … tutta è dipinta nel cospetto etterno: necessità però quindi non prende” (Paradiso XVII, 37-40). Le nostre difficoltà qui sorgono soltanto perché pensiamo alla provvidenza come una preveggenza nel senso temporale, come se uno vedesse oggi ciò che dovrà succedere domani. Lontana dall’essere preveggenza in questo senso temporale, la divina provvidenza è una visione sempre contemporanea all’evento. Pensare a Dio come se guardasse avanti nel futuro o indietro a un evento passato è insensato quanto lo sarebbe chiedere cosa Egli stesse facendo “prima” di fare il mondo.
Non che sia del tutto impossibile sottrarsi a un destino previsto. Il destino è per coloro che hanno mangiato dell’Albero, e questo include sia quella “frazione” (pada, amsa) dello Spirito che entra in tutti gli esseri nati, e sembra soffrire con loro, e queste stesse cose create, nella misura in cui identificano “se stessi” con il corpo-anima. Il destino è necessariamente una passione di bene e male; come tale si presenta a noi come qualcosa che potremmo accogliere o evitare, al tempo stesso non possiamo rifiutarlo, senza diventare altro da ciò che siamo. Quest’accettazione la spieghiamo a noi stessi in termini di ambizione, coraggio, altruismo, o rassegnazione a seconda del caso. A ogni modo, è la nostra natura che ci costringe a perseguire un destino del quale siamo preavvertiti, per quanto fatale sia il risultato atteso. La futilità degli avvertimenti è un tema caratteristico della letteratura eroica; non che gli avvertimenti siano screditati, ma l’onore dell’eroe gli impone di continuare come ha cominciato; oppure perché al momento critico l’avvertimento viene dimenticato. Per questo diciamo che l’uomo è “condannato”.
Un esempio significativo del ritirarsi e al contempo accettare un destino previsto può essere citato nell’“esitazione” di un Messia. È così che nel Ṛg Veda, X. 51 Agni teme il suo destino di prete sacrificale e auriga cosmico, e deve venire persuaso; così il Buddha “che teme di essere ferito” è completamente persuaso da Brahma (Saṃyutta Nikayha, I. 138 e Dīgha-Nikāya II. 33); e allo stesso modo Gesù prega “Padre … allontana da me questo calice; tuttavia non come io voglio, ma come Tu vuoi” (Marco, 14, 36) e “Padre, liberami da questa ora; ma io sono venuto appunto per quest’ora” (Giovanni, 12, 27).
Il desiderio non deve essere confuso con il rimpianto. Il desiderio presuppone una possibilità che è veramente tale, oppure immaginata esserlo. Non possiamo desiderare l’impossibile, ma solo rimpiangerne l’impossibilità. Si può provare rimpianto per ciò che è accaduto, ma non è un desiderio che non fosse avvenuto; è il rimpianto che “sia dovuto accadere” come avvenuto; perché niente accade se non per necessità. Se c’è una dottrina su cui scienza e teologia sono perfettamente d’accordo, è che il corso degli eventi sia causalmente determinato; come dice San Tommaso: “Se Dio governasse da solo (e non anche tramite le cause mediate), il mondo sarebbe privato della perfezione della causalità …
Tutte le cose (che appartengono alla catena del fato) … sono fatte da Dio per mezzo delle cause seconde” (Summa Theologiæ, I. 103. 7 e 2, e 116. 4 e 1). La Śvetāsvatra Upaniṣad (I. 1-3) distingue in maniera simile Brahma, Spirito di Dio, l’Uno, come causa permanente[2], dal suo Potere o Mezzo operativo (śakti = māyā, ecc.), conosciuto come tale dai contemplativi, ma “considerato” (cintyam) come una pluralità di “combinazioni causali di tempo, ecc. con lo spirito passibile” (kāranāni kālatmayuktāni), quest’ultimo “poiché non è una combinazione delle serie, tempo, ecc.” non è il padrone del suo destino, almeno finché rimane dimentico della sua identità con lo Spirito trascendentale. Allo stesso modo Śaṇkarācarya spiega che Brahman non opera arbitrariamente, bensì in accordo con le varie proprietà inerenti ai caratteri delle cose come esse sono in se stesse, cose che debbono il loro essere a Brahman, ma sono individualmente responsabili delle loro modalità d’essere. Questa è, ovviamente, la visione tradizionalmente ortodossa; come espresso da Plotino (VI. 4.3) “tutto viene offerto, ma il ricevente riesce a prendere solo così poco”, e Boehme “come è l’armonia, vale a dire, la forma di vita, in ogni cosa, così è anche il suono della voce eterna al suo interno; nel santo, santa, nel perverso, perversa … quindi nessuna creatura può biasimare il suo creatore, come se l’avesse creata malvagia” (Sig. Rerum XVI. 6, 7 e Forty Questions VIII. 14).
Possiamo esprimere lo stesso in altre parole dicendo che l’individuo viene al mondo per realizzare certi scopi o propositi suoi peculiari. La nascita è un’opportunità.
Il campo in cui si procede da potenzialità ad atto è quello della libertà dell’individuo; il “libero arbitrio” del teologo è, in accordo con la parabola dei talenti, una libertà di far uso o di trascurare l’opportunità di diventare ciò che uno può diventare nelle circostanze in cui è nato; queste “circostanze” della nascita consistono nel suo anima-corpo e nel resto del suo ambiente, o mondo, definito come un insieme specifico di possibilità.
Evidentemente la libertà dell’individuo non è illimitata; non può realizzare l’impossibile, ossia ciò che è impossibile per lui, sebbene possa essere possibile in qualche altro “mondo” definito sopra. In particolare, non può essere nato in un mondo diverso da dove è effettivamente nato, o possedere altre possibilità rispetto a quelle di cui è stato naturalmente (per nascita) dotato; non può realizzare ambizioni per la realizzazione delle quali non esista disposizione nella sua natura; egli è se stesso, e nessun altro. Certe specifiche e in parte uniche possibilità gli sono aperte, e certe altre possibilità, di solito immensamente più numerose, gli sono precluse; come essere finito, non può essere allo stesso tempo un uomo a Londra e un leone in Africa. Queste possibilità e impossibilità, che sono quelle della sua natura e predeterminate da essa, e che non si può pensare gli siano state arbitrariamente imposte, ma solo come la definizione della sua natura, rappresentano ciò che chiamiamo il fato o destino dell’individuo; qualsiasi cosa accada all’individuo è solamente la riduzione ad atto di una data possibilità quando l’occasione si presenta, mentre tutto ciò che non accade non era realmente una possibilità, ma solo la concezione ignorante che lo fosse.
La libertà dell’arbitrio individuale è quindi la libertà di fare ciò che l’individuo può fare, o l’astenersi dal farlo. Qualunque cosa uno faccia effettivamente in date circostanze è ciò che uno vuole fare in quelle circostanze: essere forzato ad agire o soffrire contro il proprio volere non è coercizione del volere, ma dei suoi strumenti, e solo in apparenza una coercizione dell’individuo stesso nella misura in cui egli identifica “se stesso” con i suoi strumenti.
Inoltre, il destino dell’individuo, ciò che farà di sé in date circostanze, non gli è del tutto oscuro, ma piuttosto manifesto nella misura in cui egli realmente conosce se stesso e comprende la sua natura. Val la pena notare che questa misura di preveggenza (provvidenza) non interferisce in alcun modo con il suo senso di libertà; uno pensa semplicemente alle decisioni future come un presente da risolvere. Di fatto c’è coincidenza tra preveggenza e libero arbitrio. Allo stesso modo, ma limitato al livello in cui si possa realmente conoscere l’essenza di un altro, si può prevedere il suo peculiare destino; la cui previsione non governa in alcun modo la condotta di quella creatura. E infine, se presumiamo una provvidenza onnisciente in Dio, che dalla sua posizione al centro della ruota inevitabilmente vede il passato e il futuro ora, il quale “ora” sarà lo stesso domani come lo era ieri, questo non interferisce in alcun modo con la libertà di ogni creatura nella sua sfera propria. Come espresso da Dante: “La contingenza … tutta è dipinta nel cospetto etterno: necessità però quindi non prende” (Paradiso XVII, 37-40). Le nostre difficoltà qui sorgono soltanto perché pensiamo alla provvidenza come una preveggenza nel senso temporale, come se uno vedesse oggi ciò che dovrà succedere domani. Lontana dall’essere preveggenza in questo senso temporale, la divina provvidenza è una visione sempre contemporanea all’evento. Pensare a Dio come se guardasse avanti nel futuro o indietro a un evento passato è insensato quanto lo sarebbe chiedere cosa Egli stesse facendo “prima” di fare il mondo.
Non che sia del tutto impossibile sottrarsi a un destino previsto. Il destino è per coloro che hanno mangiato dell’Albero, e questo include sia quella “frazione” (pada, amsa) dello Spirito che entra in tutti gli esseri nati, e sembra soffrire con loro, e queste stesse cose create, nella misura in cui identificano “se stessi” con il corpo-anima. Il destino è necessariamente una passione di bene e male; come tale si presenta a noi come qualcosa che potremmo accogliere o evitare, al tempo stesso non possiamo rifiutarlo, senza diventare altro da ciò che siamo. Quest’accettazione la spieghiamo a noi stessi in termini di ambizione, coraggio, altruismo, o rassegnazione a seconda del caso. A ogni modo, è la nostra natura che ci costringe a perseguire un destino del quale siamo preavvertiti, per quanto fatale sia il risultato atteso. La futilità degli avvertimenti è un tema caratteristico della letteratura eroica; non che gli avvertimenti siano screditati, ma l’onore dell’eroe gli impone di continuare come ha cominciato; oppure perché al momento critico l’avvertimento viene dimenticato. Per questo diciamo che l’uomo è “condannato”.
Un esempio significativo del ritirarsi e al contempo accettare un destino previsto può essere citato nell’“esitazione” di un Messia. È così che nel Ṛg Veda, X. 51 Agni teme il suo destino di prete sacrificale e auriga cosmico, e deve venire persuaso; così il Buddha “che teme di essere ferito” è completamente persuaso da Brahma (Saṃyutta Nikayha, I. 138 e Dīgha-Nikāya II. 33); e allo stesso modo Gesù prega “Padre … allontana da me questo calice; tuttavia non come io voglio, ma come Tu vuoi” (Marco, 14, 36) e “Padre, liberami da questa ora; ma io sono venuto appunto per quest’ora” (Giovanni, 12, 27).
Il desiderio non deve essere confuso con il rimpianto. Il desiderio presuppone una possibilità che è veramente tale, oppure immaginata esserlo. Non possiamo desiderare l’impossibile, ma solo rimpiangerne l’impossibilità. Si può provare rimpianto per ciò che è accaduto, ma non è un desiderio che non fosse avvenuto; è il rimpianto che “sia dovuto accadere” come avvenuto; perché niente accade se non per necessità. Se c’è una dottrina su cui scienza e teologia sono perfettamente d’accordo, è che il corso degli eventi sia causalmente determinato; come dice San Tommaso: “Se Dio governasse da solo (e non anche tramite le cause mediate), il mondo sarebbe privato della perfezione della causalità …
Tutte le cose (che appartengono alla catena del fato) … sono fatte da Dio per mezzo delle cause seconde” (Summa Theologiæ, I. 103. 7 e 2, e 116. 4 e 1). La Śvetāsvatra Upaniṣad (I. 1-3) distingue in maniera simile Brahma, Spirito di Dio, l’Uno, come causa permanente[2], dal suo Potere o Mezzo operativo (śakti = māyā, ecc.), conosciuto come tale dai contemplativi, ma “considerato” (cintyam) come una pluralità di “combinazioni causali di tempo, ecc. con lo spirito passibile” (kāranāni kālatmayuktāni), quest’ultimo “poiché non è una combinazione delle serie, tempo, ecc.” non è il padrone del suo destino, almeno finché rimane dimentico della sua identità con lo Spirito trascendentale. Allo stesso modo Śaṇkarācarya spiega che Brahman non opera arbitrariamente, bensì in accordo con le varie proprietà inerenti ai caratteri delle cose come esse sono in se stesse, cose che debbono il loro essere a Brahman, ma sono individualmente responsabili delle loro modalità d’essere. Questa è, ovviamente, la visione tradizionalmente ortodossa; come espresso da Plotino (VI. 4.3) “tutto viene offerto, ma il ricevente riesce a prendere solo così poco”, e Boehme “come è l’armonia, vale a dire, la forma di vita, in ogni cosa, così è anche il suono della voce eterna al suo interno; nel santo, santa, nel perverso, perversa … quindi nessuna creatura può biasimare il suo creatore, come se l’avesse creata malvagia” (Sig. Rerum XVI. 6, 7 e Forty Questions VIII. 14).
Da: www.http://letteraespirito.wordpress.com
[1] Ananda K. Coomaraswamy, Fate, Foresight, and Free-will,
in Studies in Comparative Religion, vol. 13, no 3 & 4, 1979; What
is Civilisation?, cap. IX, Lindisfarne Press, Great Barrington, 1989.
[2] Yah … adhitisthati, al verso 3. Entrambi i significati sono inclusi, cioè “Egli annulla” e “Egli si stabilisce”. L’oggetto corrispondente è adhiṣthānam; come in Ṛg Veda, X. 81. 2, dove si pone la domanda “Qual è il suo supporto?” (kim … adhiṣthānam) riguardo “l’immortale Spirito incorporeo”, è il corpo mortale (sárīra) che è sotto il potere della Morte essendo “supporto” così sinonimo di “campo” (kṣetra) nella Bhagavad Gītā, XIII. 2, dove ancora ci si riferisce così al “corpo”.
[2] Yah … adhitisthati, al verso 3. Entrambi i significati sono inclusi, cioè “Egli annulla” e “Egli si stabilisce”. L’oggetto corrispondente è adhiṣthānam; come in Ṛg Veda, X. 81. 2, dove si pone la domanda “Qual è il suo supporto?” (kim … adhiṣthānam) riguardo “l’immortale Spirito incorporeo”, è il corpo mortale (sárīra) che è sotto il potere della Morte essendo “supporto” così sinonimo di “campo” (kṣetra) nella Bhagavad Gītā, XIII. 2, dove ancora ci si riferisce così al “corpo”.
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