"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

domenica 2 novembre 2014

René Guénon, Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi - 8. Mestieri antichi e industria moderna

René Guénon
Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi 

8. Mestieri antichi e industria moderna

L’opposizione esistente tra i mestieri antichi e l’industria moderna è, in fondo, un caso particolare e come un’applicazione dell’opposizione fra i due punti di vista qualitativo e quantitativo, rispettivamente predominanti negli uni e nell’altra.
Per rendersene conto non è inutile osservare fin d’ora che la stessa distinzione fra arti e mestieri, o fra «artista» e «artigiano», è qualcosa di specificamente moderno, quasi fosse nata dalla deviazione e dalla degenerazione, che hanno sostituito in tutte le cose la concezione profana a quella tradizionale.
Per gli antichi l’artifex è, indifferentemente, l’uomo che esercita un’arte o un mestiere; ma, in realtà, non è né l’artista né l’artigiano nel significato odierno di queste parole (per di più la parola «artigiano» tende sempre più a sparire dal linguaggio contemporaneo); è qualcosa di più dell’uno e dell’altro, perché, almeno originariamente, la sua attività è ricollegata a principi di un ordine ben più profondo. Se quindi i mestieri comprendevano in qualche modo anche le arti propriamente dette, le quali non se ne distinguevano per alcun carattere essenziale, è che la loro natura era veramente qualitativa, identica cioè a quella da tutti riconosciuta all’arte in qualche modo per definizione; soltanto che, appunto per questa ragione, i moderni relegano l’arte, nella concezione sminuita che ne hanno, in una specie di ambito chiuso, senza alcun rapporto con il resto dell’attività umana, cioè con tutto quanto essi pensano sia il «reale» nel senso grossolano che ha per loro questo termine; e arrivano perfino a qualificare «attività di lusso» quest’arte, così sfrondata d’ogni portata pratica, espressione veramente caratteristica di quella che, senza esagerazione alcuna, si potrebbe chiamare la «scempiaggine» della nostra epoca.
In ogni civiltà tradizionale, come spesso abbiamo affermato, qualsiasi attività umana viene sempre considerata come essenzialmente derivante dai principi; questo, che è particolarmente vero per le scienze, lo è altrettanto per le arti e i mestieri, e v’è d’altronde una stretta connessione tra questi e quelle perché, secondo una formula che era un assioma fra i costruttori del Medio Evo, ars sine scientia nihil, da intendersi naturalmente nel senso di scienza tradizionale e non in quello di scienza profana, perché l’unico risultato possibile dell’applicazione di questa è la nascita dell’industria moderna. Mediante questo ricollegarsi ai principi, si può dire che l’attività umana viene «trasformata», per cui, invece di ridursi a quel che è in quanto semplice manifestazione esteriore (che in definitiva è poi il punto di vista profano), si integra nella tradizione e costituisce, per colui che la compie, un mezzo per partecipare effettivamente ad essa, il che equivale a dire che tale attività riveste un carattere prettamente «sacro» e «rituale». Per questo si è potuto dire che in una civiltà del genere «ogni occupazione è un sacerdozio»;[1] noi però, ad evitare di dare a quest’ultimo termine un’estensione impropria, diremo che essa possiede in se stessa quel carattere che, volendo fare una distinzione fra «sacro» e «profano» la quale all’origine non aveva alcuna ragion d’essere, è stato conservato solo dalle funzioni sacerdotali.
Per rendersi conto del carattere «sacro» di tutta quanta l’attività umana, anche soltanto dal punto di vista esteriore, o se si vuole exoterico, si prenda in esame, ad esempio, una civiltà come quella islamica, o quella cristiana del Medio Evo, e si potrà constatare, senza difficoltà alcuna, che gli atti più comuni dell’esistenza vi hanno sempre qualcosa di «religioso». Fatto si è che in esse la religione non è assolutamente una cosa ristretta e limitata, occupante un posto a parte senza influenze effettive su tutto il resto com’è per gli Occidentali moderni (quelli almeno che consentono ancora ad ammettere una religione); essa, al contrario, compenetra tutta l’esistenza dell’essere umano o, per meglio dire, nel suo ambito si trova come inglobato tutto quanto costituisce tale esistenza, e in particolare la vita sociale propriamente detta, per cui, in queste condizioni, non può esservi assolutamente niente di «profano», salvo per coloro i quali per una ragione o per l’altra si trovano al di fuori della tradizione, e il cui caso rappresenta esclusivamente un’anomalia. Presso altri popoli, ove il nome «religione» non può convenientemente applicarsi alla forma di civiltà considerata, v’è tuttavia una legislazione tradizionale e «sacra», la quale, pur avendo caratteristiche diverse, svolge esattamente la stessa funzione; queste considerazioni sono dunque applicabili a qualsiasi civiltà tradizionale senza eccezioni. Ma c’è di più: se si passa dall’exoterismo all’esoterismo (impieghiamo qui questi termini per maggior comodità, benché essi non convengano con ugual rigore a tutti i casi) si constata, in generale, l’esistenza di un’iniziazione legata ai mestieri, la quale prende questi per base o per «supporto»;[2] occorre dunque che questi mestieri siano ancora suscettibili d’un significato superiore e più profondo per poter effettivamente fornire una via di accesso all’ambito iniziatico, ed è evidentemente sempre in ragione del loro carattere essenzialmente qualitativo che una tal cosa è possibile.
Quel che meglio consente di capirlo è la nozione di swadharma com’è intesa nella dottrina indù, nozione essa stessa tutta qualitativa, in quanto riguarda lo svolgimento da parte di ciascun essere di un’attività conforme alla sua essenza o alla sua natura propria, e per ciò stesso eminentemente conforme all’«ordine» (rita) nel senso già da noi precisato; ed è mediante questa stessa nozione, o meglio per la sua assenza, che si evidenzia nettamente il difetto della concezione profana e moderna. Secondo quest’ultima un uomo può dedicarsi ad una professione qualsiasi, ed anche cambiarla a suo piacimento, come se questa professione fosse qualcosa di puramente esteriore a lui, senza alcun reale legame con ciò che egli veramente è, cioè con ciò che lo fa essere se stesso e non un altro. Nella concezione tradizionale, al contrario, ciascuno deve normalmente svolgere la funzione cui è destinato dalla sua stessa natura, con le attitudini che questa essenzialmente implica;[3] e non può svolgerne un’altra, senza che ciò rappresenti un grave disordine che avrà una ripercussione su tutta l’organizzazione sociale di cui egli fa parte; peggio ancora, se un disordine del genere viene a generalizzarsi, i suoi effetti si ripercuoteranno sullo stesso ambiente cosmico, tutte le cose essendo legate tra loro da rigorose corrispondenze. Senza per il momento insistere oltre su quest’ultimo punto, che può anche applicarsi alle condizioni dell’epoca attuale, riassumeremo quanto abbiamo detto come segue: secondo la concezione tradizionale, sono le qualità essenziali degli esseri a determinare la loro attività; nella concezione profana, invece, queste qualità non contano, e gli individui non sono considerati altro che come «unità» intercambiabili e puramente numeriche. Quest’ultima concezione non può logicamente condurre a nient’altro che all’esercizio di un’attività prettamente «meccanica», nella quale non sussiste più niente di veramente umano, come effettivamente possiamo constatare ai giorni nostri; va da sé che i mestieri «meccanici» dei moderni, che costituiscono l’industria propriamente detta e che altro non sono se non un prodotto della deviazione profana, non possono offrire alcuna possibilità d’ordine iniziatico ed anzi possono rappresentare dei veri impedimenti allo sviluppo di ogni spiritualità; per la verità, del resto, non possono nemmeno essere considerati come autentici mestieri se si vuol conservare a questo termine il suo valore in senso tradizionale.
Se il mestiere è qualcosa dell’uomo stesso, come una manifestazione o un’espansione della sua natura propria, è comprensibile che possa servire di base ad una iniziazione, ed anche che, nella generalità dei casi, sia ciò che vi è di più adatto a questo scopo. In effetti, se l’iniziazione ha essenzialmente per fine di oltrepassare le possibilità dell’individuo umano, non è men vero che essa non può che prendere, come punto di partenza, questo individuo qual è, ma, beninteso, facendo in qualche modo leva sul suo lato superiore, cioè appoggiandosi su quanto vi è in lui di più propriamente qualitativo; ecco la ragione della diversità delle vie iniziatiche, cioè, insomma, dei mezzi utilizzati a titolo di «supporti» in conformità con le differenze delle nature individuali, differenze che interverranno d’altronde sempre meno in seguito, quanto più l’essere si inoltrerà nella via e quanto più si avvicinerà a quel fine che è per tutti il medesimo. I mezzi così impiegati non possono essere efficaci se non corrispondono realmente alla natura stessa degli esseri cui si applicano; e poiché bisogna necessariamente procedere dal più accessibile al meno accessibile, dall’esterno all’interno, è normale che essi siano presi nell’ambito di quell’attività mediante la quale tale natura si manifesta all’esterno. Ma è evidente che questa attività non può svolgere una funzione del genere se non in quanto traduce effettivamente la natura interiore; si tratta dunque di una vera questione di «qualificazione» nel significato iniziatico del termine, e, in condizioni normali, questa «qualificazione» dovrebbe essere richiesta per l’esercizio stesso del mestiere. Tutto questo mette anche in evidenza la differenza fondamentale che separa l’insegnamento iniziatico, e più in generale ogni insegnamento tradizionale, dall’insegnamento profano: quanto è semplicemente «appreso» dall’esterno è qui senza alcun valore, quale che sia la quantità delle nozioni a questo modo accumulate (perché anche in ciò appare nettamente il carattere quantitativo del «sapere» profano); quello che conta è di «risvegliare» le possibilità latenti che l’essere porta in se stesso (ed è questa in fondo il vero significato della «reminiscenza» platonica).[4]
Queste ultime considerazioni fanno inoltre comprendere come l’iniziazione, prendendo il mestiere per «supporto», avrà contemporaneamente, e in qualche modo inversamente, una ripercussione sull’esercizio di tale mestiere. L’essere, in effetti, avendo pienamente realizzato le possibilità di cui la sua attività professionale non è che una espressione esteriore, e possedendo così la conoscenza effettiva di quel che è il principio stesso di questa attività, effettuerà dà quel momento coscientemente quanto non era prima che una conseguenza del tutto «istintiva» della sua natura; e pertanto, se la conoscenza iniziatica è nata per lui dal mestiere, questo, a sua volta, diventerà il campo di applicazione di tale conoscenza, e quindi non potrà più esserne separato. Ci sarà allora corrispondenza perfetta tra interno ed esterno, e l’opera prodotta potrà essere non più soltanto un modo qualsiasi d’espressione ad un livello più o meno superficiale, ma l’espressione realmente adeguata di colui che l’avrà concepita ed eseguita, il che costituirà il «capolavoro» nel vero senso della parola. Non è difficile vedere, in tutto ciò, come il vero mestiere sia distante dall’industria moderna, tanto che si può dire si tratti di due opposti, e quanto sia disgraziatamente vero, nel «regno della quantità», che il mestiere, come volentieri affermano i fautori del «progresso» che naturalmente se ne rallegrano, sia «una cosa del passato». Nel lavoro industriale l’operaio non mette niente di se stesso, e d’altronde si avrebbe buona cura di impedirglielo qualora ne avesse la minima velleità; ma ciò non è neanche possibile, poiché tutta la sua attività consiste nel far funzionare una macchina; egli, del resto, è reso perfettamente privo di iniziativa dalla «formazione», o meglio deformazione professionale ricevuta, la quale è come l’antitesi dell’antico apprendistato, e che ha per unico scopo quello di insegnargli ad eseguire certi movimenti «meccanicamente» e sempre allo stesso modo, senza assolutamente che debba capirne la ragione né preoccuparsi del risultato, in quanto in realtà non è lui, bensì la macchina, a fabbricare l’oggetto; servitore della macchina, l’uomo deve divenire macchina egli stesso, e il suo lavoro non ha più niente di veramente umano, perché non implica più l’intervento di nessuna di quelle qualità che costituiscono propriamente la natura umana.[5] Tutto ciò conduce a quanto, nel gergo attuale, si è convenuto di chiamare la fabbricazione «in serie», il cui scopo è quello di produrre la maggior quantità possibile di oggetti, oggetti simili al massimo tra loro, e destinati all’uso di uomini che si considerano tutti ugualmente simili; si tratta con tutta evidenza, come dicevamo prima, del trionfo della quantità, nonché, per la stessa ragione, di quello dell’uniformità. Questi uomini, ridotti a semplici «unità» numeriche, si vuole farli abitare, non diremo in case, perché questo termine sarebbe improprio, ma in «alveari» i cui scompartimenti saranno tutti disegnati sullo stesso modello ed ammobiliati con gli oggetti fabbricati «in serie», in modo da far sparire dall’ambiente in cui vivranno ogni differenza qualitativa; basta prendere in esame i progetti di certi architetti contemporanei (che qualificano essi stessi queste dimore come «macchine per abitare») per vedere che non esageriamo per niente; che cosa sono diventate a questo punto l’arte e la scienza tradizionali degli antichi costruttori, e le regole rituali che presiedevano alla fondazione delle città e degli edifici nelle civiltà normali? Sarebbe inutile insistere ulteriormente, perché bisognerebbe essere ciechi per non rendersi conto dell’abisso che separa queste ultime dalla civiltà moderna, e tutti si accorgeranno senza dubbio di quanto grande sia il divario; soltanto, proprio ciò che l’immensa maggioranza degli individui attuali celebra come un «progresso» ci appare al contrario come una decadenza profonda, perché manifestamente non si tratta che degli effetti di quel movimento di caduta, sempre più accelerato, che conduce l’umanità moderna verso i «bassifondi» ove regna la quantità pura.


[1] A.M. Hocart, Les Castes, p. 27. 
[2] Possiamo anche osservare che tutto quanto ancora sussiste in Occidente di organizzazioni autenticamente iniziatiche, in qualunque stato di decadenza si trovino attualmente, non ha altra origine che quella; le iniziazioni appartenenti ad altre categorie vi sono ormai completamente scomparse da lungo tempo. 
[3] Si noti che lo stesso termine «mestiere» significa propriamente «funzione» secondo la sua derivazione etimologica dal latino ministerium. 
[4] A questo proposito, vedasi in particolare il Menone di Platone. 
[5] Si può osservare che la macchina, in un certo senso, è l’opposto dell’utensile, e non un utensile «perfezionato» come molti ritengono, perché l’utensile è, in certo qual modo un «prolungamento» dell’uomo stesso, mentre la macchina riduce quest’ultimo alle condizioni di suo servitore; e se si è potuto dire che l’«utensile generò il mestiere» , non è men vero che la macchina lo uccide; le reazioni istintive degli artigiani contro le prime macchine si spiegano pertanto da sole.

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