Fusûs al-Hikam - La saggezza dei Profeti
La sapienza divina (al-hikmat al-ilâhiyah) nel Verbo di Adamo*
La sapienza divina (al-hikmat al-ilâhiyah) nel Verbo di Adamo*
Dio (al-haqq) volle vedere le essenze (a'yan)[1] dei
suoi nomi perfettissimi (al-asma al-husna),
che il numero non può esaurire - e se vuoi, puoi anche dire: Dio volle vedere
la propria essenza ('ayn)[2] - in
un oggetto (kawn) totale che, essendo
dotato dell'esistenza (al-wujûd)[3],
riassuma l'intero ordine divino (al-amr)[4], per
manifestare cosf il suo mistero (sirr)
a Se stesso[5].
Difatti la visione (ru'yah)[6] che l'essere[7] ha di sé in se stesso non è uguale a quella offertagli da un'altra realtà di cui fa uso come di uno specchio: esso vi si manifesta a se stesso nella forma derivante dal «luogo» della visione; questa non esisterebbe senza tale «piano di riflessione» e il raggio che vi si riflette. Dio ha dapprima creato il mondo intero come una cosa amorfa[8] e priva di grazia[9], e simile a uno specchio che non è stato ancora levigato[10]; ora una regola dell'attività divina è quella di non preparare alcun «luogo» senza che questo riceva uno Spirito divino, la qual cosa è espressa [nel Corano] dall'insufflazione dello Spirito divino in Adamo[11]; e ciò non è altro [in una prospettiva complementare alla prima] che l'attualizzazione della predisposizione (al-isti'dâd) posseduta da una determinata forma, preliminarmente disposta, a ricevere l'effusione (al-fayd)[12] inesauribile della rivelazione (at-tajallî)[13] essenziale.
Quindi [fuori dalla realtà divina] vi è soltanto un puro ricettacolo (qâbil)[14]; ma anch'esso proviene dall’«Effusione santissima» (al-fayd al-aqdas) [cioè dalla manifestazione principiate, metacosmica, dove le «essenze immutabili» sono divinamente «concepite», prima della loro apparente proiezione nell'esistenza relativa][15]. L'intera realtà (al-amr)[16] infatti, dal principio alla fine, deriva unicamente da Dio, e a Lui ritorna[17]. Perciò l'ordine divino (al-amr) esigeva la chiarificazione dello specchio del mondo; e Adamo divenne la chiarezza stessa di questo specchio e lo spirito di questa forma[18].
Difatti la visione (ru'yah)[6] che l'essere[7] ha di sé in se stesso non è uguale a quella offertagli da un'altra realtà di cui fa uso come di uno specchio: esso vi si manifesta a se stesso nella forma derivante dal «luogo» della visione; questa non esisterebbe senza tale «piano di riflessione» e il raggio che vi si riflette. Dio ha dapprima creato il mondo intero come una cosa amorfa[8] e priva di grazia[9], e simile a uno specchio che non è stato ancora levigato[10]; ora una regola dell'attività divina è quella di non preparare alcun «luogo» senza che questo riceva uno Spirito divino, la qual cosa è espressa [nel Corano] dall'insufflazione dello Spirito divino in Adamo[11]; e ciò non è altro [in una prospettiva complementare alla prima] che l'attualizzazione della predisposizione (al-isti'dâd) posseduta da una determinata forma, preliminarmente disposta, a ricevere l'effusione (al-fayd)[12] inesauribile della rivelazione (at-tajallî)[13] essenziale.
Quindi [fuori dalla realtà divina] vi è soltanto un puro ricettacolo (qâbil)[14]; ma anch'esso proviene dall’«Effusione santissima» (al-fayd al-aqdas) [cioè dalla manifestazione principiate, metacosmica, dove le «essenze immutabili» sono divinamente «concepite», prima della loro apparente proiezione nell'esistenza relativa][15]. L'intera realtà (al-amr)[16] infatti, dal principio alla fine, deriva unicamente da Dio, e a Lui ritorna[17]. Perciò l'ordine divino (al-amr) esigeva la chiarificazione dello specchio del mondo; e Adamo divenne la chiarezza stessa di questo specchio e lo spirito di questa forma[18].
Circa gli angeli [di cui si parla nel racconto coranico della creazione
di Adamo][19],
essi rappresentano alcune facoltà di quella «forma»[20] del
mondo chiamata dai sufi il «Grande Uomo» (al-insân al-kabîr), cosicché
gli angeli sono per questa ciò che le facoltà spirituali e fisiche sono per
l'organismo umano[21]. Ciascuna
di tali facoltà [cosmiche] è come velata dalla propria natura; non concepisce
nulla che sia superiore alla propria essenza [relativa], poiché vi è in essa
qualcosa che pretende d'essere degna di grado elevato e di ogni dimora eccelsa
presso Dio. È cosi dal momento che essa partecipa [in un certo modo] alla
sintesi divina (al-jam'îyat al-ilâhiyah)[22]
che regge quanto proviene, sia dal lato divino (al-janâb al-ilahî)[23], sia da quello della Realtà delle realtà (haqîqat al-haqâiq)[24],
sia ancora - per mezzo di quest'organismo, sostegno di ogni facoltà - dalla
Natura universale (tabî’at al-kull)[25],
che include tutti i ricettacoli (qawâbil) del mondo, da cima a fondo[26]. Ma
la ragione discorsiva non comprenderà mai ciò, giacché tale ordine di
conoscenza deriva unicamente dall'intuizione divina (al-kashf al-ilahî); solo
grazie a questa si conoscerà la radice delle forme del mondo, in quanto sono
ricettive nei confronti degli spiriti che le governano[27].
Cosi l'essere
[adamitico] fu denominato «uomo» (insân) e «vicario » (khalîfah)
di Dio. Circa la sua qualità d'uomo, essa ne definisce la natura
sintetica [comprendente virtualmente tutte le altre nature create] e la
capacità di contenere tutte le verità essenziali. L'uomo è per Dio (al-haqq)
ciò che la pupilla è per l'occhio [la pupilla in arabo è detta «l'uomo
nell'occhio»], poiché la pupilla è lo strumento dello sguardo; difatti per il
suo tramite [ossia mediante l'Uomo universale] Dio contempla la sua creazione e
le dispensa la sua misericordia. Tale è l'uomo a un pari effimero ed eterno,
essere creato perpetuo e immortale, Verbo discriminante [per la sua conoscenza
distintiva] e unente [per la sua essenza divina][28]. Con
la sua esistenza il mondo fu compiuto. Egli è per il mondo quello che il
castone è per l'anello: il castone reca il sigillo che il re imprime sulle
casse del tesoro; e perciò l'uomo [universale] è detto il vicario di Dio, del
quale custodisce la creazione, come si custodiscono i tesori con un sigillo: finché
il sigillo del re è impresso sulle casse del tesoro, nessuno osa aprirle senza
il suo permesso; cosi l'uomo si vede affidata la tutela divina del mondo, e il
mondo non cesserà di essere custodito fino a quando vi dimorerà l'Uomo
universale (al-insân al-kâmil). Non vedi che appena egli scomparirà e sarà tolto dalle casse
del nostro mondo, nulla rimarrà di quanto Dio conservava in esse, e ne uscirà
tutto ciò che contenevano, ogni parte raggiungendo la sua parte
[corrispondente], e il tutto verrà trasferito nell'al di là, dove [l'Uomo
universale] sarà perpetuamente il sigillo sulle cassse dell'altro mondo?
Tutto quel
che è contenuto nella «forma divina», ossia la totalità dei nomi [o qualità
universali], si manifesta in questa struttura umana, che quindi si distingue
[dalle altre creature] a motivo dell'integrazione [simbolica] dell'intera esistenza. Da qui l'argomento divino di condanna per gli
angeli [che non capivano la ragione d'essere né la superiorità intrinseca di
Adamo]; rammentalo,
Dio infatti
ti esorta con l'esempio altrui, e considera come il giudizio colpisca colui che
esso colpisce. Gli angeli non comprendevano cosa
comportasse l'istituzione del vicario [di Dio in terra], e neppure cosa
implicasse l'adorazione essenziale (dhâtiyah) di Dio, giacché ognuno conosce di Dio solamente quanto
arguisce da sé. Ora gli angeli non posseggono la natura totale di Adamo; non
attuavano dunque i nomi divini la cui conoscenza è il privilegio di tale natura
e mediante i quali questa «loda» Dio [affermandone gli aspetti di bellezza e di
bontà] e lo «proclama santo» [attestandone la trascendenza essenziale]; essi
non sapevano che Iddio possiede nomi che si sottraggono alla loro conoscenza e
con cui non lo possono pertanto né «lodare» né
«proclamare
santo».
Gli angeli
furono vittime della propria limitazione quando dissero, circa la creazione [di
Adamo sulla terra]: «Vuoi porre in essa qualcuno che semini la corruzione?». Ma
cos'è questa corruzione se non la rivolta, quindi appunto ciò che proprio essi manifestavano?
Quanto dicevano di Adamo conviene al loro atteggiamento verso Dio. Se tale
possibilità [di rivolta] non fosse per altro nella loro natura, non l'avrebbero
inconsapevolmente affermata a proposito di Adamo; se avessero avuto la
conoscenza di se stessi, sarebbero stati esenti, in virtu di questa conoscenza,
dalle limitazioni che subirono; non avrebbero insistito [nella loro accusa ad
Adamo] fino a menar vanto della propria «lode» di Dio e di quello con cui lo
«proclamavano santo», mentre Adamo attuava i nomi divini che gli angeli
ignoravano, cosicché né la loro «lode» (tasbîh)
né la loro «proclamazione della santità divina» (taqdîs) erano simili a quelle d'Adamo.
Iddio ci
descrive ciò affinché siamo cauti e apprendiamo il retto atteggiamento nei suoi
confronti - a Lui la lode – liberi da pretese su quanto abbiamo attuato o
capito con la nostra scienza individuale; come potremmo d'altronde pretendere
di possedere qualcosa che ci oltrepassa [nella sua realtà universale] e che non conosciamo [essenzialmente]? Sii
dunque attento a questo ammaestramento divino sul modo con cui Dio punisce i
suoi servi piu obbedienti e piu fedeli, i suoi rappresentanti piu vicini
[secondo la gerarchia generale degli esseri].
Torniamo ora
alla sapienza [divina in Adamo]. Al riguardo possiamo dire che le idee
universali (al-umûr al-kulliyah)[29],
le quali non hanno evidentemente in sé un'esistenza individuale, sono tuttavia
presenti, in maniera intelligibile e distinta, nella mente; esse rimangono
sempre interiori rispetto all'esistenza individuale, ma determinano tutto ciò
che le appartiene. Inoltre quanto esiste individualmente è soltanto
[l'espressione di] tali idee universali, senza che cessino per questo d'essere
in sé puramente intelligibili. Sono pertanto esteriori in quanto determinazioni
implicate nell'esistenza individuale e, d'altra parte, interiori in quanto
realtà intelligibili. Tutto quello che esiste individualmente procede dalle
idee, che rimangono nondimeno inseparabilmente unite all'intelletto e non
possono essere individualmente manifestate in modo da uscire dalla loro
esistenza puramente intelligibile, si tratti di manifestazione individuale nel
tempo o fuori da esso[30]; difatti
la relazione tra l'essere individuale e l'idea universale è sempre la medesima,
sia l'essere sottoposto o meno alla condizione temporale. Ma l'idea universale
assume a sua volta certe condizioni proprie delle esistenze individuali, a
seconda delle realtà (haqâiq) che definiscono le esistenze stesse. È cosi, ad esempio, per la
relazione che unisce la conoscenza e il conoscitore o la vita e il vivente: la
conoscenza e la vita sono realtà intelligibili, distinte tra loro; ora noi
affermiamo che Dio è conoscitore e vivente, e affermiamo pure che l'angelo è
conoscitore e vivente, e altrettanto diciamo dell'uomo; in questi casi la
realtà intelligibile della conoscenza o quella della vita rimane la medesima, e
la sua relazione col conoscitore e col vivente è ogni volta identica; eppure si
dice che la conoscenza divina è eterna e quella dell'uomo effimera; vi è quindi
in questa realtà intelligibile qualcosa d'effimero per la sua dipendenza da una
condizione [limitativa]. Considera tale interdipendenza tra le realtà ideali e
quelle individuali[31]:
come la conoscenza determina colui che vi partecipa - è detto infatti
conoscitore - cosi ciò che è caratterizzato dalla conoscenza la determina a sua
volta, di modo che questa è effimera in connessione con l'effimero ed eterna in
connessione con l'eterno; e ciascun aspetto è, nei confronti dell'altro,
insieme determinante e determinato. Ovviamente le idee universali, malgrado la
loro intelligibilità, non hanno in sé esistenza [propria], ma posseggono
soltanto un'esistenza principiate; del pari quando sono attribuite agli
individui, esse ne accettano la condizione (hukm) senza tuttavia
assumerne la distinzione e la divisibilità; sono interamente presenti in ogni
cosa da esse caratterizzata, come l'umanità [la qualità di uomo], per esempio,
è totalmente presente in ogni essere particolare di quella specie senza subire
la distinzione e il numero che concernono gli individui, e senza cessare
d'essere in sé una realtà meramente intellettuale.
Ora, dal momento
che vi è interdipendenza tra quanto ha un'esistenza individuale [o sostanziale]
e quanto non l'ha ed è, a rigor di termini, solo una relazione non esistente[32] come
tale, è facile capire che gli esseri sono uniti tra loro; poiché in questo caso
vi è sempre un termine intermedio, ossia l'esistenza in sé, mentre nel primo
caso la reciproca relazione esiste nonostante l'assenza di un termine
intermedio.
Indubbiamente
l'effimero è concepibile in quanto tale, cioè nella sua natura caduca e
relativa, unicamente in connessione con un principio da cui deriva la propria
possibilità, cosicché non possiede in se stesso l'essere, ma lo riceve da un
altro cui è legato per la sua dipendenza. E certamente questo principio è in sé
necessario, è sussistente per se stesso e indipendente, nel suo essere, da ogni
altra cosa. Appunto questo principio, mediante la sua stessa essenza,
conferisce l'essere all'effimero che ne dipende.
Ma giacché
[il principio] esige di per sé [l'esistenza] dell'[essere] effimero, questo si
rivela, in tale prospettiva, [non solamente « possibile » bensì anche]
«necessario». E poiché l'effimero dipende essenzialmente dal suo principio,
deve anche apparire nella «forma»
[qualitativa] di questo in tutto ciò che ne deriva, come i nomi e le qualità, ad eccezione tuttavia
dell'autonomia principiale che
non conviene all'essere effimero, sebbene sia «necessario»; difatti è
necessario in virtu di un altro, non di se stesso.
Dato che l'essere effimero manifesta la «forma» dell'eterno, proprio
attraverso la contemplazione dell'effimero Dio ci comunica la conoscenza di Sé; Egli dice [nel Corano] che ci mostra i suoi «segni» nell'effimero
[«Mostreremo loro i nostri segni sugli orizzonti e in loro stessi... », XLI,
53]. Movendo da noi stessi perveniamo a Lui; non attribuiamo a Lui alcuna
qualità senza essere noi stessi questa qualità, con l'eccezione dell'autonomia
principiate.
Giacché lo conosciamo attraverso di noi e a principiare da noi,
attribuiamo a Lui tutto ciò che attribuiamo a noi stessi, e appunto per questo
d'altronde ci fu data la rivelazione per bocca degli interpreti [ossia dei
profeti] e Dio si descrisse a noi per mezzo di noi. Contemplandolo ci
contempliamo, e contemplandoci Egli si contempla, quantunque siamo
evidentemente numerosi come individui e generi; noi siamo uniti, è vero, in una
sola e medesima realtà essenziale, ma esiste nondimeno una distinzione tra
individui, diversamente non vi sarebbe, per altro, molteplicità nell'unità.
Parimente, sebbene siamo qualificati in tutti gli aspetti dalle qualità
che spettano a Dio medesimo, vi è [tra Lui e noi] una differenza certa, cioè la
nostra dipendenza da Lui, per quanto concerne l'Essere, e la nostra conformità
essenziale a Lui, a motivo della nostra stessa possibilità; ma Egli è
indipendente da tutto ciò che ci fa indigenti. In questo senso vanno comprese
l'eternità senza inizio (al-azal) e
l'antichità (al-qidam) di Dio, che
aboliscono d'altronde la priorità (al-awwaliyah)
divina significante il passaggio dalla non esistenza all'esistenza:
quantunque Dio sia il Primo (al-awwal) e l'Ultimo (al-âkhir), non può essere detto il
Primo nel significato temporale, poiché
sarebbe allora l'Ultimo nella stessa accezione; ora le possibilità di
manifestazione non hanno fine: sono inesauribili. Dio è chiamato l'Ultimo
perché ogni realtà alla fine torna a Lui, dopo essere stata riferita a noi: la
sua qualità di Ultimo è cosi essenzialmente la sua qualità di Primo, e
viceversa.
Sappiamo inoltre che Dio si è descritto come l'«Esteriore» (az-zâhir) e come l'«Interiore » (al-bâtin), e che ha manifestato il mondo a un tempo come interiore e come
esteriore, affinché conoscessimo l'aspetto «interiore» [di Dio] con il nostro
interiore, e quello «esteriore» con il nostro esteriore. Egli si è descritto
del pari con le qualità della clemenza e della collera, e ha manifestato il
mondo come un luogo di timore e di speranza, affinché temessimo la sua collera
e sperassimo nella sua clemenza. Si è descritto con la bellezza e la maestà e
ci ha dotati di timore reverenziale (al-haybah) e d'intimità (al-uns).
Così per tutto ciò che si riferisce a Lui e con cui si è designato. Egli
ha simboleggiato queste coppie di qualità [complementari] nelle due mani che
protese verso la creazione dell'Uomo universale, il quale riunisce in sé tutte
le realtà essenziali (haqâiq) del mondo, sia nella sua totalità che in ciascuno dei suoi
individui. Il mondo è l'apparente, e il vicario [di Dio in esso] è l'occulto.
In questo modo il sultano rimane invisibile, e in tal senso Dio dice di
nascondersi dietro veli di tenebre - ossia i corpi naturali - e veli di luce -
ossia gli spiriti sottili[33] -
poiché il mondo si compone di sostanza grossa (kathîf) e di sostanza
sottile (latîf).
[Il mondo] fa
da velo a se stesso, cosicché non può vedere Dio proprio perché vede sé; non
può mai liberarsi da solo del velo, pur sapendo di essere connesso, a motivo
della dipendenza, col suo Creatore. Il mondo infatti non partecipa
all'autonomia dell'Essere essenziale, di modo che non lo concepisce mai. In
questo aspetto Dio rimane sempre sconosciuto, sia all'intuizione che alla contemplazione,
giacché l'effimero non può agire su ciò [vale a dire sull'eterno].
Quando Dio
disse a Iblis: «...cosa t'impedisce di prosternarti dinanzi a colui che ho
creato con le mie due mani?»[34], la
menzione delle due mani indica un privilegio per Adamo; Dio allude così all’unione
in Adamo delle due forme, cioè la forma del mondo [analoga alle qualità divine
passive] e la «forma divina» [analoga alle qualità divine attive], che sono le
due mani di Dio[35]. Quanto a Iblis, egli non
è che un frammento del mondo; non ricevette la natura sintetica in virtù della
quale Adamo è il vicario di Dio. Se Adamo non fosse manifestato nella «forma»
di Colui che gli affidò la sua funzione vicariale sugli altri, non sarebbe il
suo vicario; e se non contenesse tutto quello di cui abbisogna il gregge che
deve custodire - difatti da lui dipende il gregge, ed egli deve provvedere a
tutte le sue necessità – non sarebbe il vicario di Dio per le altre [creature].
La dignità
vicariale di Dio spetta unicamente all'Uomo universale, la cui forma esteriore
è creata dalle realtà (haqâiq) e dalle forme del mondo,
e quella interiore corrisponde alla «forma» di Dio [cioè alla «somma» dei nomi
e delle qualità divine]. Per questo Iddio ha detto di lui: «Io sono il suo
udito e la sua vista», non ha detto: «il suo occhio e il suo orecchio», ma ha distinto
tra le due «forme»[36].
Lo stesso
avviene per ogni essere del mondo nell'ottica della sua realtà [trascendente];
tuttavia nessun essere contiene una sintesi simile a quella che
contraddistingue il vicario, che supera gli altri soltanto in virtu di tale
sintesi.
Se Dio non penetrasse
con la sua «forma»[37]
l'esistenza, il mondo non sarebbe; cosi gli individui non sarebbero determinati
se non vi fossero le idee universali. L'esistenza del mondo, secondo questa
verità, consiste nella sua dipendenza da Dio. In realtà ognuno dipende
[dall'altro: la «forma divina» da quella del mondo, e viceversa], nessuno è
indipendente [dall'altro]; è la pura verità, non ci esprimiamo con metafore.
D'altronde, quando parlo di quanto è assolutamente indipendente, sai cosa
voglio significare con ciò [ossia l'Essenza infinita e incondizionata]. Ognuno [sia
la «forma divina» che il mondo] è dunque unito all'altro, e nessuno può essere
separato dall'altro, capite bene quel che vi dico!
Ora conosci
il significato spirituale della creazione del corpo d'Adamo, cioè della sua
forma apparente, e della «creazione» del suo spirito, che è la sua «forma»
interiore. Adamo è quindi a un pari Dio e creatura. E hai compreso quale sia il
suo grado [cosmico], vale a dire quello della sintesi [di tutte le qualità cosmiche];
e grazie a tale sintesi è il vicario di Dio.
Adamo è l'«anima
unica» (an-nafs al-wâhidah) da cui fu creato il genere umano, secondo
la parola divina [nel Corano]: « O voi, uomini, temete il vostro Signore che vi
ha creato da un'anima unica, creando da questa la sua compagna, e diffondendo
da tale coppia molti uomini e donne» (IV, l). Le parole « temete il vostro
Signore» significano: fate della vostra forma apparente una protezione per il
vostro Signore, e fate del vostro interiore - ossia del vostro Signore - una
protezione per voi medesimi; ogni atto [o ogni ordine divino] consiste in
biasimo e in lode [in negazione e in affermazione]; siate pertanto la sua
protezione nel biasimo [cioè in quanto creature limitate] e prendetela come
protettore nella lode[38],
affinché abbiate, tra tutti gli esseri, l'atteggiamento piu retto [verso Dio].
Dopo averlo
creato, Dio fece vedere ad Adamo tutto quello che aveva posto in lui; ed Egli
tenne il tutto nelle sue due mani: l'una conteneva il mondo, l'altra Adamo e i
suoi discendenti, poi indicò a questi i gradi che occupano nell'interno di
Adamo[39].
Poiché Iddio
mi mostrò quanto immise nel procreatore primordiale, ne ho qui trascritto la
parte attribuitami, e non tutto quello che ho attuato; difatti nessun libro né
il mondo attuale possono contenere ciò. Tra le cose da me contemplate e che
poterono essere trascritte in questo libro, nella misura attribuitami
dall'Inviato di Dio - su di lui la benedizione e la pace! - vi era la sapienza
divina nel verbo di Adamo: di essa si tratta nel capitolo.
* Traduzione di Titus Burckhardt, La Sapienza dei Profeti, Edizioni Mediterranee, Roma, 1982; Versione italiana di Giorgio Jannaccone.
[1] Traduciamo a'yan con «essenze», poiché si tratta delle essenze
dei nomi in contrapposizione alle loro forme verbali o ideali. L'oggetto della
«visione» divina risiede nelle possibilità essenziali che corrispondono ai «nomi perfettissimi», cioè gli « aspetti »
universali e permanenti dell'Essere. Quando si parla dell'Essenza una e sola di
tutti i nomi o qualità divine, si usa il termine adh-dhât.
[2] La parola al-'ayn (singolare di a'yân) comporta i
significati di «determinazione essenziale», «essenza personale», «archetipo»,
«occhio», «sorgente». La frase significa pertanto che Dio volle vedere Se
stesso, con la restrizione che la sua «visione» non si riferisce alla sua
Essenza assoluta (adh-dhât), che trascende ogni determinazione perfino
principiale, bensi alla sua determinazione immediata ('aynah), al suo «aspetto personale», che è appunto caratterizzato dalle qualità
perfette la cui espressione sono i nomi.
[3] O dell'Essere, il termine al-wujûd ha infatti i due
significati. Qualche manoscritto reca la variante: «...essendo provvisto di
volti (al-wujûd)...», ossia di molteplici «piani di riflessione»
che differenziano l'irradiamento (at-tajalli)
divino.
[4] L'ordine divino è simboleggiato dalla parola «sii!» (kun), ed è quindi ipentico al principio
dell'esistenza.
[5] Allusione alla parola divina (hadith qudsi) rivelata per bocca del Profeta: «Ero un tesoro nascosto, ho voluto essere
conosciuto (o conoscere) e ho creato il mondo».
[6] L'atto visivo è assunto a simbolo della conoscenza nella sua natura
universale.
[7] Letteralmente «la cosa» (ash-shay'). lbn 'Arabi adopera il vocabolo
«cosa» per designare una realtà che non vuole definire in alcun modo; egli
non dice «l'Essenza» (adh-dhât), per non affermare la
trascendenza e la non manifestazione di ciò di cui si parla, e neppure dice «
l'Essere o «l'esistenza» (al-wujûd), per non farne
risaltare l'immanenza e la manifestazione.
[8] Od «omogenea» (musawwi),
cioè non recante ancora l'impronta qualitativa e differenziata dello
Spirito.
[9] Rawh: «grazia», «libertà»; alcuni leggono ruh, «spirito».
[10] E il caos
primordiale, dove le possibilità di manifestazione, ancora virtuali, si confondono
nell'indifferenziazione della loro materia.
[11] «E quando l'avrò
formato e avrò insufflato in lui il mio Spirito…» (Cor., XV, 29).
[12] L'immagine di
un'«effusione», di un «traboccamento» o di una «emanazione» dell'Essere (al-wujûd)
o della luce divina (an-nûr) nelle «forme» ricettive
del mondo non va considerata come un'emanazione sostanziale, poiché l'Essere -
o la luce divina increata - non procede fuori da se stesso. L'immagine esprime
invece la sovrana sovrabbondanza della realtà divina, che dispiega e illumina
le possibilità relative del mondo, quantunque sia «ricca in se stessa» (ghanî
binafsih) e l'esistenza del mondo non aggiunga nulla alla sua
infinità. Il simbolismo dell'«effusione» (al-fayd) divina
si
riferisce alla parola del Profeta: «Dio creò il mondo nelle tenebre, poi versò (afâda)
su di esso la sua luce».
[13] At-tajallî
significa «rivelazione» (in un senso generico), «svelamento» e «irradiamento»:
quando il sole, coperto di nubi, si «svela», la sua luce «irradia» sulla terra.
[14] Il ricettacolo
corrisponde, nella prospettiva cosmologica, alla sostanza passiva, la materia
prima o principio plastico di un mondo o di un essere. Il ricettacolo che,
nella visuale puramente metafisica, si contrappone - in maniera del tutto
principiale e logica - all'«effusione» incessante del l'Essere, si riduce alla
possibilità principiale, l'archetipo o l'«essenza immutabile» (al-a'yn
ath-thâbitah) di un mondo o di un essere.
[15] Il passo è cosi
spiegato dal sufi persiano Nûr ad-din 'Abd ar-Rahmân Jamî: «La maestà di Dio (al-haqq)
si rivela in due modi: l'uno, che corrisponde alla rivelazione
interiore, puramente intelligibile, denominato dai sufi l'Effusione santissima,
consiste nell'autorivelazione di Dio che si manifesta dall'eternità a Se stesso
nella forma degli archetipi e di ciò che questi implicano come caratteri e
capacità; l'altro è l'epifania esteriore, oggettiva, detta l'Effusione santa (al-fayd
al-muqaddas), e consiste nella manifestazione di Dio mediante
l'impronta degli stessi archetipi. La seconda rivelazione è susseguente alla
prima, ed è il teatro dove compaiono le perfezioni che, secondo la prima
rivelazione, sono virtualmente contenute nei caratteri e nelle capacità degli
archetipi» (Lawaih, cap. XXX, testo persiano e traduzione inglese editi
da E.H. Whinfield e Mirza Muhammad Kazvini, «Oriental
Translation Fund» della Royal Asiatic Society, new series vol. XVI). Nel
testo citato le espressioni «forme» o «caratteri», riferite agli archetipi,
vanno
comprese come semplici «allusioni», poiché gli archetipi o «essenze immutabili»
sono evidentemente al di là di qualunque individuazione o distinzione formale.
[16] La parola amr significa anzitutto «ordine»,
«comando», ma comporta inoltre il senso di «realtà» e di «atto». L'ordine
divino «sii!», corrisponde all'atto puro.
[17] «A Lui
appartiene il regno dei cieli e della terra. A Dio le realtà faranno ritorno» (al-umur,
ossia le realtà increate delle creature) (Cor., LVII, 5).
[18] Nel testo
originale tutta la parte iniziale del capitolo, fino alla parola soprascritta, forma
una sola frase con piu proposizioni incidentali; è un insieme logico che
descrive tutti gli aspetti essenziali della manifestazione divina.
[19] «E quando il tuo
Signore disse agli angeli: In verità, costituirò un vicario in terra,
risposero: Porrai in essa qualcuno che seminerà la corruzione e verserà il
sangue, mentre noi celebriamo le tue lodi e proclamiamo la tua santità? Iddio
rispose: In verità, Io so ciò che non sapete. E insegnò ad Adamo tutti i nomi,
poi li mostrò agli angeli dicendo: Fatemi
sapere
i loro nomi, se siete veridici! Risposero: Gloria a te, non
abbiamo scienza fuorché quella che ci hai insegnato, poiché Tu sei il
Conoscitore, il Sapiente! Disse Dio: O Adamo, fa' conoscere ad essi i loro
nomi! E quando li ebbe fatti conoscere, Egli disse: Non vi avevo detto che
conosco il segreto dei cieli e della terra e so ciò che manifestate e ciò che celate? E quando
dicemmo agli angeli: Prosternatevi dinanzi ad Adamo, si prosternarono tutti tranne Iblis [il diavolo], che rifiutò,
s'inorgoglì e divenne infedele» (Cor., II,
30-34).
[20] L'espressione
«forma» (çurah) viene usata, come altre, molto liberamente dagli autori sufici,
è infatti suscettibile di diverse trasposizioni al di là del suo significato
più rigoroso di «delimitazione»; la forma di una cosa comporta un aspetto
meramente qualitativo, la qualità essendo di natura essenziale; d'altra parte
in quanto la forma di un essere si contrappone al suo spirito, essa è
riducibile simbolicamente alla funzione ricettiva della materia.
[21] Secondo l'adagio
sufico: «L'uomo è un piccolo cosmo, e il cosmo è come un grande uomo».
[22] L'unicità
divina, in virtu della quale ogni essere è unico.
[23] Il «lato divino»
è la somma delle qualità divine, la Divinità in quanto crea e domina il mondo
(il «lato creaturale »).
[24] La «Realtà delle
realtà» o «Verità delle verità» corrisponde al Verbo (Logos) come «luogo» di tutte le possibilità di manifestazione. Essa
è l'eterno mediatore, la «realtà mohammediana » (al-haqîqat al-muhammadiyah),
l’«istmo» (barzakh) sia tra l'Essere puro e l'esistenza relativa che
tra la non manifestazione e la manifestazione. È il prototipo di tutte le cose,
e non vi è nulla che non porti la sua impronta.
[25] La Natura
universale è il potere ricettivo universale, la «matrice» del cosmo. La Natura,
secondo i cosmologi ellenizzanti, si riduce al principio plastico del mondo
formale, alla radice dei quattro elementi e delle quattro qualità sensibili,
che reggono tutti i mutamenti d'ordine fisico. Ibn 'Arabi, trasponendo gli
elementi nell'ordine cosmico totale, attribuisce alla Natura una funzione molto
piu ampia, coestensiva a tutta la manifestazione, compresi gli stati angelici.
Essa è cosi l'equivalente di quello che gli Indu definiscono Mâyâ o la Shakti universale, aspetto materno e dinamico di Prakriti, la
sostanza o materia prima. Aggiungiamo tuttavia che questo principio non ha,
nell'insegnamento di Ibn 'Arabi, lo stesso compito fondamentale che assume
nella dottrina advaitica, giacché l'Islam considera le funzioni produttrici
dell'universo in un modo eminentemente «teocentrico».
[26] La creatura
«pretende» quindi alla totalità in virtu al tempo stesso della sua origine
divina, del suo prototipo universale e della sua
radice
naturale.
[27] 'Abd ar-Razzâq al-Qashânî precisa che la ragione, anch'essa generata dalla
polarità tra l'attivo e il passivo, tra l'ordine divino (al-amr) e la Natura (at-tabî'ah), non può superare questa
polarità e la comprende «dall'alto».
[28] Questi sono due
aspetti di ogni parola rivelata, e ad essi si riferiscono le due definizioni
del Corano come «recitazione» (al-qur'ân) e come
«discriminazione» (al-furqân).
[29] Gli «universali»
della Scolastica.
[30] Nel linguaggio
adottato qui da Ibn 'Arabi, l'idea di «esistenza individuale» (wujûd 'aynî) può essere simbolicamente
trasposta al di là della condizione formale, che è l'ambito dell'individuazione
vera e propria. Cosi, per esempio, un angelo non è un «individuo», perché non
rappresenta una variante all'interno di una specie; tuttavia tale
argomentazione s'addice anche agli angeli.
[31] Al-mawjûdat al-'ayniyah: le esistenze - o realtà - individuali o sostanziali; vedasi la nota
precedente.
[32] Ossia non
manifestata.
[33] Secondo la
parola del Profeta: «Dio si nasconde mediante settantamila veli di luce e di
tenebre; se Egli li togliesse, le folgorazioni del suo volto consumerebbero
chiunque lo guardi».
[34] Cor., XXXVIII,
75.
[35] S'incontra il
simbolismo delle due mani di Dio nella Cabala, soprattutto nello Zohar, dove
sono paragonate al «cielo» e alla «terra» come principi attivo e passivo della
manifestazione.
[36] Conformemente
alla sentenza divina rivelata dal Profeta (hadith qudsi): «Il mio
servo non può avvicinarsi a me con qualcosa che mi piaccia più di quanto gli impongo. Il mio servo
s'avvicina a me senza posa con opere facoltative finché l'amo; e quando l'amo, Io sono l'udito con cui ode, la
vista con cui vede, la mano con cui afferra e il piede con cui cammina; se egli
mi prega, gli do certamente, e se richiede il mio aiuto, certamente lo aiuto»
(citato da ai-Bukhari secondo Abu Hurayrah).
[37] L'espressione «forma»
è analoga nel contesto alla nozione peripatetica di forma (eidos), cioè di
tipo qualitativo; rammentiamo che la qualità può essere trasposta
nell'universale puro. In relazione alla parola del Profeta: «Dio creò Adamo
nella sua forma (çurah)», il Sufismo
denomina «forma divina» l'insieme delle qualità perfette con cui Dio si rivela
nell'universo.
[38] Commenta ai-Qashâni:
«Prendetelo come tutela nella lode attribuendo a voi le limitazioni e a Dio
tutte le qualità positive, conformemente al detto coranico: - Ogni bene che ti
tocca viene da Dio, e ogni male che ti coglie viene da te stesso - (Cor., IV, 79)».
[39] Secondo la
narrazione coranica: «E quando il tuo Signore trasse dalle reni dei figli
d'Adamo i loro discendenti e li fece testimoni contro se stessi: Non sono lo il
vostro Signore? Essi risposero: Sì, l'attestiamo; questo affinché non diciate
nel giorno della risurrezione: In verità, l'abbiamo trascurato» (VII, 172).