Muhyi-d-dîn Ibn ‘Arabî
Il Trattato dell’Unità - Risâlatu-l-Ahadiyyah
* A breve pubblicheremo l’importante trattato del Tasawwuf intitolato Trattato dell’Unità pubblicato sulla Rivista di Studi Tradizionali n° 7 e 8 e ripubblicato sul n° 66 dalla quale abbiamo tratto la seguente edizione. Riportiamo qui sotto «Presentazione» e «Introduzione», a cura di P.N., 'Abdul-Hadî e Pietro Nutrizio, pubblicate sulla stessa rivista per introdurre il tema dottrinale e la questione di attribuzione del trattato qui pubblicato con il nome di Ibn ‘Arabî.
Altre traduzioni in francese, che ci ripromettiamo di pubblicare prossimamente, attribuiscono il saggio ad uno shaykh di nome Al-Balyânî, sono:
1) Il Trattato dell’Identità Suprema. Traduzione e Introduzione e di Michel Vâlsan (pubblicato in italiano nella rivista Oriente e Occidente n° 2, Milano, Novembre 2012 a cura dell’«Associazione Oriente e Occidente».
2) Epître sur l'unicité absolue, Traduzione e Introduzione di Michel Chodkiewicz.
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Dalla Rivista di Studi Tradizionali n° 66
…Il primo scritto che presentiamo […] è la traduzione di uno dei testi fondamentali della dottrina metafisica sotto la forma che essa riveste presso i popoli di razza araba. La sua traduzione dalla lingua originaria è dovuta ad un Occidentale: John Gustav Agelii, nato a Sala, in Svezia, nel 1869, e morto a Barcellona nel 1917. Pittore (a questo titolo il suo nome è ancora oggi noto negli ambienti culturali svedesi), egli viaggiò moltissimo, studiando a fondo e assimilando con grande facilità le lingue dei paesi che visitava. Con la collaborazione di un medico italiano conosciuto a Parigi, Enrico Insabato, pubblicò in Egitto una rivista: Il Convito, nella quale fece apparire numerosi articoli e traduzioni in italiano di trattati dell' esoterismo islamico. Trascorse alcuni anni nel mondo musulmano e venne in contatto con personaggi di grande importanza cosi negli ambienti esoterici come in quelli exoterici dell'Islàm - verso l'anno 1907 divenne discepolo di uno dei maestri spirituali fra i piu conosciuti e rispettati del tempo, lo Shaykh ‘Abd ar-Rahman Elish al-Kebîr, e nell'Islâm assunse il nome di ‘Abdul-Hadî. La traduzione che presentiamo è stata pubblicata per la prima volta nei numeri di giugno, luglio, agosto 1911 della rivista francese La Gnose[1]; essa era preceduta da una breve introduzione di ‘Abdul-Hadî che noi conserviamo traducendola dal francese con il testo stesso. Avvertiamo che la nostra traduzione del testo è stata mantenuta volontariamente molto letterale, ad eccezione dei passi in cui ciò si sarebbe prestato a confusioni od oscurità troppo marcate.
…Il primo scritto che presentiamo […] è la traduzione di uno dei testi fondamentali della dottrina metafisica sotto la forma che essa riveste presso i popoli di razza araba. La sua traduzione dalla lingua originaria è dovuta ad un Occidentale: John Gustav Agelii, nato a Sala, in Svezia, nel 1869, e morto a Barcellona nel 1917. Pittore (a questo titolo il suo nome è ancora oggi noto negli ambienti culturali svedesi), egli viaggiò moltissimo, studiando a fondo e assimilando con grande facilità le lingue dei paesi che visitava. Con la collaborazione di un medico italiano conosciuto a Parigi, Enrico Insabato, pubblicò in Egitto una rivista: Il Convito, nella quale fece apparire numerosi articoli e traduzioni in italiano di trattati dell' esoterismo islamico. Trascorse alcuni anni nel mondo musulmano e venne in contatto con personaggi di grande importanza cosi negli ambienti esoterici come in quelli exoterici dell'Islàm - verso l'anno 1907 divenne discepolo di uno dei maestri spirituali fra i piu conosciuti e rispettati del tempo, lo Shaykh ‘Abd ar-Rahman Elish al-Kebîr, e nell'Islâm assunse il nome di ‘Abdul-Hadî. La traduzione che presentiamo è stata pubblicata per la prima volta nei numeri di giugno, luglio, agosto 1911 della rivista francese La Gnose[1]; essa era preceduta da una breve introduzione di ‘Abdul-Hadî che noi conserviamo traducendola dal francese con il testo stesso. Avvertiamo che la nostra traduzione del testo è stata mantenuta volontariamente molto letterale, ad eccezione dei passi in cui ciò si sarebbe prestato a confusioni od oscurità troppo marcate.
P.N.
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«L'Identità Suprema» nell’esoterismo islamico
Gli unici punti
contestabili sono il titolo dell'opera e il
nome dell'autore.
L'opera è
spesso designata come «Il trattato (Risâlah) della conoscenza del
Signore attraverso la conoscenza di
se stessi». Si tratta infatti dell'argomento della dissertazione. Altri titoli: «Il trattato della conoscenza di se stessi», «La chiave
della conoscenza (di Allâh) », «Kitâbul-Alif», «Kitâbul-Ajwibah»,
«Il trattato di Balabâni» (dal nome di un presunto autore). Il titolo usato piu
di frequente dagli scrittori e dai Dervishi è: «Risâlatul-Ahadiyah»,
ovvero «Trattato dell'Unità». È quello che noi adottiamo.
La questione dell'autore
non è mai stata definitivamente chiarita. Che egli si chiami in ogni caso
Mohammad ‘Abd-Allâh, possiamo affermare con sicurezza, ma ciò non ci è di molto
aiuto. I manoscritti che precisano ulteriormente il nome dell’autore si
dividono in due categorie: gli uni dicono che l'autore è Mohammad Abu ‘Abd-Allâh
ibn ‘Alî Muhyi-d-dîn ibn ‘Arabi el Hâtimî et-Tâ’î el Andalûsî, di soprannome il
piu grande degli Shuyukh, morto
nell’anno 638 dell'Egira. Sono convinto che il nostro grande Maestro è, di
fatto, l'autore di questo ammirevole trattato. Lo stile sta ad indicarlo in
modo abbastanza certo. Gli altri manoscritti l’attribuiscono a un tale Mohammad
o 'Abd-Allâh Balabâni, Bilbani o anche
Balayani. Chi può essere questo Shaykh? Esiste un Awhaduddîn ‘Abd-Allâh el-Balayâni (morto nell'anno 686
dell'Egira). Potrebbe anche darsi che Balabâni sia un soprannome curdo
persiano, da Bala=alto, e Ban=voce. Negli ambienti intellettuali
curdi si è infatti sempre ritrovata, piu forse che da ogni altra parte, una grande
venerazione per Muhyi-d-dîn. Balabâni potrebbe dunque essere una parafrasi
curda di Es-Shaykhul-Akbar, ovvero il piu grande degli Shuyukh, o maestri spirituali. Allâh meglio d'ogni
altro conosce la verità su questo punto.
Ho sentito dire che qualche manoscritto attribuisce la paternità di questo
trattato ad uno dei Suyûtî. Mi sembra inverosimile che un'opera di questo
genere abbia potuto avere per autore uno di questi due eruditi, giacché non di
un prodotto dello studio si tratta, ma di maestria esoterica. Tale questione dell'autore
rimane perciò insoluta fino a che nuovi fatti intervengano. Per conto mio sono
intimamente convinto che l’autore ne è Muhyi-d-dîn ibn 'Arabî, ma non posso in
questo momento refutare scientificamente un’opinione contraria.
‘Abdul-Hadî
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Per quel che ci concerne,
faremo soltanto osservare che è contenuta in questo trattato in generale, e in
alcuni passi di esso in particolare, la confutazione esplicita di quel genere
di obiezioni, abituali negli orientalisti[2] che
consistono nell'interpretazione dello stato (maqâm) di Fanâ come un «vuoto» o una «sparizione» pura e
semplice di ogni carattere formale della creatura, senza che nulla venga a
«sostituirvisi». In realtà, come dimostra chiaramente il testo che presentiamo,
in una via di conoscenza, qual è il Tasawwuf,
non è questione di «sparizioni» di sorta, almeno nel senso qualitativo in cui
pare che la cosa sia intesa da questi critici, bensi del passaggio da stati di
conoscenza caratterizzati da limiti piu ristretti a stati conoscitivi meno
limitati, fino allo stato di Identità Suprema col Principio metafisica stesso.
Il vedere in questo processo soltanto la negazione e in qualche modo la
«distruzione» del limite senza un corrispondente passaggio, al di là di esso,
all'affermazione che tale superamento comporta,
e che anzi è la sola «legittima» ragione della
«distruzione» stessa, è di fatto la causa principale delle interpretazioni di
cui stiamo parlando. Se questo
genere di interpretazioni può servire abbastanza
bene a un
certo tipo di critica delle teorie della conoscenza orientali a vantaggio di prospettive
piu esteriori,
in cui
interviene necessariamente
la nozione di «grazia» (la quale d'altronde, per quanto legittima nel
suo piano, è attualmente usata
nei modi piu vaghi e meno comprensibili), in realtà non fa che rivelare in chi le esprime una fondamentale incapacità a sollevarsi dalla prospettiva teologica a
quella della metafisica
pura. Una considerazione dello
stesso genere si potrebbe fare
anche a proposito delle
interpretazioni occidentali del
Nirvana nelle dottrine buddistiche, al quale d'altra parte non si riduce tutta la prospettiva metafisica di questa forma tradizionale, giacché il Nirvana è in essa inteso
generalmente come una «tappa» nella via che conduce al Paranirvana, in qualche modo corrispondente al
Fanâ al-fanâi di cui si parla nella Risâlatu-l-Ahadiyyah.
È opportuno accennare qui al fatto che il punto di vista dell'autore di questo trattato è uno dei piu puramente metafisici che
siano stati espressi verso l’«esterno»
nell’ambito della tradizione esoterica islamica; non è difficile trovare nella Risâlatu-l-Ahadiyyah punti
di contatto con la dottrina metafisica del Vêdânta indu, senza che con ciò sia affatto il caso di ricercare l'esistenza di «influenze» sull'esoterismo islamico da parte di quest'ultima. Volendo infatti riassumere in poche parole l'asserto essenziale della Dottrina
contenuta nella Risâlah, si potrebbe dire che, cosi come per Brahma nella tradizione indu, Allâh solo è; le cose, i mondi, gli esseri che ci appaiono
distinti, non
sono altro che Lui in realtà. Considerate differenti da
Lui, le cose sono prive di esistenza;
sono esclusivamente contingenti, perciò effimere perché senza «radice». È quanto afferma il testo: «L'esistenza delle cose è
la Sua Esistenza senza che
esse siano».
Per il mutasawwuf alla ricerca della Conoscenza suprema, cosi come per lo Yogî che nelle stesse condizioni si
appoggia al Vêdânta, si tratta di passare effettivamente al di là degli stati
dell'Essere. Ed è di fatto questo che indica il testo dicendo, a proposito
dell' affermazione «il Sufi è eterno»: «... ma tale “boccone” non può gustarlo
se non quegli la cui “gola” sia piu vasta dei due mondi (il mondo di Dunyâ e il mondo di Âkhira, ovvero il mondo sensibile e il mondo « sovrasensibile»).
Pietro Nutrizio
[1] Dal 1911 in poi sono state fatte altre
traduzioni in lingue europee, particolarmente in inglese (Margaret Smith), ma
tra esse e quella da noi presentata non sussistono differenze di particolare importanza
quanto al senso.
[2] In modo particolare, come diciamo altrove, quelli di tendenza «teologica».
[2] In modo particolare, come diciamo altrove, quelli di tendenza «teologica».