"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

venerdì 31 gennaio 2014

Ibn 'Arabî, La nozione di «Shari’ah»

Ibn 'Arabî
La nozione di «Shari’ah»
(La Legge, o la Strada Maestra)


(Al-Futûhât al-Makkiyyah, Cap. 262)

La Sharî’ah è attaccamento rigoroso alla Servitù (iltizâmu-l-‘Ubûdiyyah) attraverso l’attribuzione dell’atto a te (bi-nisbati-l-fi’li ilaïka).

(Versi:)
In verità la Sharî’ah è un limite (hadd) senza tracciati tortuosi, sul quale le Genti delle alte stazioni spirituali avanzano.
Essi salgono sui gradini delle intelligenze e delle aspirazioni verso una dignità alla quale accedono e che non perdono più.
Di là apportano una cosa di un valore immenso, e non li si rimprovera per ciò che danno.
La Sharî’ah comprende, da una parte, la Via Visibile (as-Sunna az-Zâhira) che gli Inviati hanno trasmesso per ordine di Allâh, dall’altra parte, la via istituita da iniziativa personale (as-sunnatu-llatî ibtudi'at) allo scopo di avvicinarsi ad Allâh; questo ultimo modo di istituzione è quello menzionato nella parola di Allâh: “una rahbâniyya che essi (seguaci di Gesù) hanno istituito per loro iniziativa personale (ibtada’û-hâ) (Corano 57:27)[1], così come nella parola dell’Inviato: “Colui che traccerà nell’Islam una buona via (sunna hasana) ecc.”[2], parola la quale ci ha accordato la licenza di istituire di propria iniziativa (ibtidâ) ciò che è «buono» (hasan), e ha messo anche una ricompensa per colui che avrà istituito questo bene così come per coloro che l’avranno praticato.
Inoltre, ci ha insegnato che colui che rende ad Allâh un culto secondo quanto gli permette la sua vista speculativa (naz’ar) - questo quando non si trovi su una via determinata di istituzione divina - sarà riunito, (nella Resurrezione), come costituisse da solo una «comunità» (ummah)[3] senza un capo (imâm)[4] da seguire. Il Legislatore ha considerato un tale essere «buono» (khayr) e l’ha fatto entrare nella categoria dei «buoni» (akhyâr): è così che Allâh ha detto di Abramo: “In verità, Abramo era una comunità, ummah, votata ad Allâh... ” (Corano, 16:120) e questo prima che Abramo ricevesse la Rivelazione[5].
L’Inviato di Allâh – su di lui la Pace - ha detto anche: “Sono stato suscitato per perfezionare le virtù (caratteri) nobili (Makârimu-l-Akhlâq)”[6]: di conseguenza colui che pratica i «nobili caratteri» si trova su una «via legale» (shar’) proveniente dal suo Signore, anche se non lo sa. Il Profeta ha chiamato una tale pratica «bene» (khayr), nel hadith che riguarda Hakîm ibn Hizâm che, all’epoca dell’Ignoranza preislamica, aveva fatto molte opere virtuose, come l’affrancamento di schiavi, elemosine, benefici verso i genitori, atti di liberalità, ecc.; quando questi gli chiese quale fosse il valore di tutto ciò, gli rispose: “Sei stato già praticante dell’Islam (aslamta) per tutto ciò che hai fatto come bene (khayr) precedentemente”. Il Profeta chiamò dunque «bene» quello, ed annunciò allo stesso tempo al praticante la ricompensa divina.
La Sharî’ah, se tu non la comprendi in questo modo, non la comprendi affatto.
Quanto al “perfezionamento dei caratteri nobili” esso consiste nella spogliazione dalle villanie che sono state loro sovrapposte; poiché mentre la nobiltà dei caratteri è cosa essenziale, la loro bassezza è cosa accidentale: questa non ha fondamento divino (= in divinis) e non è dunque che una sovrapposizione accidentale la cui base sono i desideri psichici, mentre la nobiltà dei caratteri ha un fondamento divino, vale a dire l’esistenza degli stessi Caratteri Divini (al-Akhlâqu-l-Ilâhiyya)[7]. Il perfezionamento dei caratteri nobili portato dal Profeta fu manifestato nella spiegazione chiara che diede sul come metterli in atto, poiché egli ha precisato i modi necessari di praticare questi caratteri affinché fossero effettivamente «nobili», e fossero rimossi i caratteri meschini che li ricoprono. È per questo che in tutto l’universo non c'è che Sharî’ah.
Sappi, d’altra parte, che la Sharî’ah ha fornito la formulazione di ciò che conviene alla comunità alla quale Allâh ha prescritto ciò che ha prescritto. Tra le sue disposizioni, ce ne sono alcune che sono venute in seguito ad una domanda della comunità, e delle altre per mozione divina diretta. È per questo che il Profeta diceva: “Lasciatemi stare, fintantoché vi lascio stare!”[8]. Perché molte delle disposizioni istituite nella Legge sono arrivate a seguito di domande poste dalla comunità, senza le quali, le rispettive prescrizioni non sarebbero state stabilite. - Le cause occasionali, degli statuti religiosi che riguardano questo e l’altro mondo sono cose conosciute ai Sapienti istruiti sulle circostanze della rivelazione e delle istituzioni legali. - Si dice, per esempio, sharra’tu-r-rumha qibala-hu = “ho rivolto la lancia verso lui”, vale a dire “l’ho mirato con la lancia andando verso lui”[9].
La Sharî’ah fa tuttavia parte delle Haqâ‘iq (plurale di haqîqah = «verità essenziale»). Pur essendo una haqîqah, essa è chiamata Sharî’ah (a causa della sua promozione alla funzione legislativa per rispondere alle necessità della comunità umana). Essa è integralmente haqq, «verità legale». Colui che decide secondo la Legge lo fa secondo una verità di diritto e ha la sua ricompensa presso Allâh per il fatto di prendere la sua decisione sulla base che lui deve osservare nel suo giudizio.
(Si pone una domanda) Se colui in favore del quale è stato pronunciato un giudizio non ha il diritto reale dalla sua parte, mentre questo diritto è presso colui contro il quale il giudizio è stato pronunciato, la causa presso Allâh è tale come fu stabilita nel giudizio o come essa è effettivamente? Alcuni tra noi dicono che la causa è presso Allâh tale quale fu pronunciata nel giudizio; altri dicono che è presso Allâh come essa è in se stessa. In questa domanda c’è un aspetto che esige un esame attento degli argomenti. Allo stesso modo, quando c’è un’accusa portata contro donne caste, Allâh fa cadere il castigo sull’accusatore che non ha portato quattro testimoni in appoggio alla sua accusa; ora costui può essere veritiero nella sua accusa; in un caso speciale dove l’accusatore era realmente bugiardo, Allâh si è espresso tuttavia come nel caso generale: “Perché i calunniatori non portarono quattro testimoni al proposito? Se non possono portare i testimoni allora presso Allâh sono quelli i mentitori” (Corano, 24:13).
L’espressione «quelli» (ulâika) vuole designare il caso specifico o il caso generale? La pena della flagellazione dell’accusatore è dovuta solamente al fatto del suo proposito accusatorio non sostenuto da quattro testimoni. Inoltre, c’è il caso dove i testimoni citati sono dei testimoni falsi quanto al fatto da provare, e dove la loro testimonianza comporta il castigo dell’imputato che viene ucciso e che avrà la sua ricompensa integrale nella vita futura, malgrado la solidità del giudizio reso contro lui in questo mondo, mentre i testimoni falsi e l’accusatore bugiardo saranno castigati nella vita futura, sebbene si sia stabilito la «verità di diritto» (al-haqq) sulla base delle loro parole. È per questo che l’Inviato di Allâh ha detto: “Io non sono che un uomo. Voi venite a portare i vostri processi davanti a me: ed è possibile che uno sia più abile nella sua arringa del suo avversario, e allora se attribuisco al primo ciò che appartiene in realtà all’altro, che non l’accetti, perché così non gli avrò attribuito che una parte del Fuoco”. Tuttavia in simili casi l’Inviato di Allâh aveva pronunciato il suo giudizio in favore del primo attribuendogli ciò che era di diritto dell’altro, e lo aveva attribuito in quanto «diritto» del vincitore, mentre costui sarebbe stato invece castigato nella vita futura, proprio come (inversamente) saranno puniti coloro, (nella vita futura), per «maldicenza» (ghîbah) e «rapporti malevoli» (namîmah) coloro, anche se dicono la verità (haqq), poiché nella Legge tutto ciò che è vero non è necessariamente legato alla felicità.
Per il fatto che la Sharî’ah è un’espressione che designa lo statuto (al-hukm) fissato per l’essere assoggettato alla Legge, e che l’autorità (at-tahakkum) su di lui si esercita tramite essa, il soggetto legale è «servitore» (‘abd). Costui è costretto alla «servitù» per il fatto che la regola non gli permette di sollevare la testa da solo; non può né «muoversi», né «fermarsi» senza che la Legge abbia a riguardo una prescrizione che si stimi adeguata. È per ciò che l’Ordine iniziatico (at-Tâifah) considera la Sharî’ah come impegno alla servitù, perché il servitore è sempre governato.
In quanto alla formula iniziatica (menzionata all’inizio del capitolo) che parla della «attribuzione dell’atto a te», si spiega per il fatto che quando non fai ciò che vuole il tuo Maestro tu sei in fallo, ma in caso contrario non sei da biasimare. È per questo d’altronde che non si puniscono coloro che sono privi della ragione.
Questo basterà per definire la Sharî’ah “Ed Allâh dice la Verità, è Lui che guida sulla Via!” (Corano, 33:4).

Traduzione dall’Arabo in francese e note di Michel Vâlsan, articolo pubblicato in Etudes Traditionnélles.
Versione italiana tratta da: Oriente e Occidente n° 3, Marzo 2011


[1] La rahbâniyya - lo “stato monacale”, da rahbân - “monaco”, è considerata come il tipo dell'istituzione sacra che non proviene da un Inviato divino (in specie il Cristo) ma dalla sua posterità. Questo termine può anche designare per estensione ogni legislazione stabilita da ijtihâd (sforzo giurisprudenziale) degli uomini spirituali o giureconsulti; perciò si è anche definito alcune volte il rahbân come “il giureconsulto che apporta nuove soluzioni nella sua religione” (ar-rahbânu huwa-l-mujtâhidu fi dini-hi). Vedere a questo proposito la nota 46 della nostra traduzione del Livre de l’Extinction dans la Contemplation di Ibn Arabî, Études Traditionnelles, marzo-aprile 1961, pag. 94. 
[2] Ecco il testo completo del hadith: “Colui che traccerà nell’Islam una buona via, (sunnah hasanah) avrà la ricompensa di questa e la ricompensa di coloro che l’avranno praticata dopo lui, senza che ciò diminuisca in qualche misura la loro ricompensa. E colui che traccerà nell’Islam una cattiva via (sunnah sayyi'ah) avrà su lui il fardello di questa ed il fardello di quelli che l'avranno praticata senza che ciò diminuisca in qualche misura il loro fardello”. 
[3] Questo è certamente il caso dei pagani preislamici in Arabia, ma anche di ogni essere al quale una via tradizionale integrale o vera faccia difetto. 
[4] I termini ummah ed imâm vengono da una stessa radice verbale che esprime l’idea “di avere una direzione”. Si potrebbe dire che una ummah è una “comunità” in quanto segue una direzione unica come una sola entità; si può dire per analogia che un essere isolato e ridotto ai suoi soli mezzi è al tempo stesso il "dirigente" (al-imâm), il “diretto” (al-ma'mûm) e la “comunità” (al-ummah), in quanto collettività che segue una direzione che gli è propria. 
[5] Prima della rivelazione di una legge organizzatrice che istituisca una gerarchia propriamente detta, i membri della “comunità” devono essere considerati come fruenti di una relativa “autonomia” caratteristica questa di uno statuto umano più vicino alle origini. Allorché la detta rivelazione ha luogo, si produce una differenziazione ed un’ordinanza nuova: l’imâm prende la testa della ummah. È per questo che Allâh dice al patriarca: “In verità, ti istituisco Imâm per gli uomini”... (Corano, 2, 124). A sottolineare che, secondo il contesto coranico ciò deve corrispondere al momento in cui, nella Genesi, Abram “padre elevato”, vede il suo nome cambiato in Abraham che nel testo biblico stesso è interpretato come “padre di moltitudine”, momento che è quello di un'elezione tra le nazioni e di una Alleanza. Tuttavia, per quanto il nome di Abraham designi anche una ummah (cf. Corano, 16, 120; vedere Le Triangle de l’Androgyne E.T., mai-juin 1964, pag. 133, nota 2), qui Abraham può rappresentare la comunità non-associazionista consacrata alla concezione dell’Identità Suprema che gioca il ruolo di imâm (capo) rispetto alle altre comunità tradizionali. In quanto a questo aspetto delle cose è notevole, tenuto conto della terminologia rigorosa del Corano, che il versetto che ricordiamo parla di “Imâm per gli uomini” e non per questo o quell’altro popolo.  
[6] Cfr. lo hadith: “Ho ricevuto le Parole Sintetiche (ûti'tu Jawâdmi'al-Kalimi) e sono stato suscitato per completare i caratteri nobili (wa bu’ithtu li-utammima Makârima-l-Akhlâqi)”. 
[7] Cfr. lo hadith: “Allâh ha Trecento caratteri; colui che è impregnato (takhallaqa) di uno solo di questi entrerà in Paradiso”; un altro hadith esorta: “Impregnatevi (caratterizzatevi) dei caratteri di Allâh (takhallaqû bi-akhlâqi-Allâh)!”. A questo riguardo Ibn ‘Arabî stabilisce altrove importanti distinzioni che non possiamo trattare qui (Cfr. Futûhât, cap. 73, quest. da 46 a 50). 
[8] Ciò che stava a significare: “Non ponetemi troppe domande finché non me ne preoccupo io dei vostri bisogni, perché le risposte che verrebbero alle vostre domande porterebbero inevitabilmente delle determinazioni nuove che non possono che aumentare i carichi e le restrizioni”.  
[9] Da ciò risulta che il senso della parola Sharî’ah che viene dalla stessa radice di sharra’tu = “ho mirato”, implica le idee di “orientamento corrispondente” e di “risposta adeguata” e che di conseguenza la Legge è fatta in vista della comunità alla quale è imposta e che essa si spiega dunque per questo.

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