Sul «Barzakh»*
I
Un esempio assai esplicito del doppio senso dei simboli[1] è dato dall'uso dell'espressione barzakh nell'esoterismo islamico. La parola barzakh è generalmente nota come designante nella teologia islamica un certo stato intermedio nell'evoluzione postuma dell'essere umano.
Ma
l’esoterismo le dà un significato molto meno ristretto, pur basandosi d'altronde in
maniera rigorosa sull'interpretazione metafisica dei versetti coranici che contengono il termine barzakh. Uno di questi versetti si trova
nella sura Ar-Rahman: «Egli produce i due mari che si incontrano; fra
i due mari c'è un istmo ( = barzakh) che essi non oltrepassano».
E un altro si trova nella sura Al-Furqan: «Ed è
Lui a produrre i due mari, l'uno dolce e potabile, l'altro salato e amaro; e ha fatto in mezzo
ad essi un istmo (=barzakh) e una
barriera insormontabile».
Secondo alcune
interpretazioni note in ambito sufico, i due mari simboleggiano rispettivamente
la Quiddità e le Qualità[2] , o,
in altre accezioni, il manifestato e il non-manifestato, l'informale e il formale, la conoscenza immediata
e la conoscenza teorica ecc. In definitiva, i due mari possono rappresentare i due gradi più o meno elevati, ma sempre consecutivi,
della gerarchia dell'Essere (wujud).
Quanto al barzakh,
che secondo una prospettiva «esterna» ha necessariamente il senso definito
di «tramezzo», «elemento divisorio», esso può essere soltanto questo per una
prospettiva che gli applica il principio della non-alterità. Quando lo si
considera sotto il rapporto della sua situazione ontologica, se così si può
dire, esso può apparire come un semplice tramezzo non solo dal punto di vista
del grado di minore realtà, mentre, visto «dall'alto», deve costituire il punto
di passaggio fra i due mari.
Lo si potrebbe dunque
paragonare a un prisma che decompone la luce integrale d’un mondo superiore nei vari
colori d’un mondo inferiore, o, ancora, a
una lente che concentra i raggi provenienti dall’alto filtrandoli attraverso un
solo punto d’inversione.
Il barzakh è dunque elemento di separazione solo
in quanto è esso stesso il punto d'origine di una prospettiva separativa alla
quale esso si presenta come limite. E ciò trova d’altronde un’analogia
in quello che viene chiamato il «punto cieco» nell'occhio fisico, nel luogo
stesso in cui il nervo ottico lo perfora.
Queste considerazioni sui
due aspetti complementari del barzakh spiegano a sufficienza
perché tale espressione sia talvolta usata, nel sufismo, come un sinonimo di qutb, «polo».
“Quello che viene chiamato
il barzakh di un
qualunque dominio dell'esistenza - diceva
lo shaykh Sî Muhammad Tadili
d’El-Jadîda - non è altro che il polo che regge tale dominio e dà ad esso la
sua crescita”.
Come traspare
dall'espressione «crescita», lo skaykh Tadilî
aveva presenti soprattutto le applicazioni cosmologìche della teoria del barzakh: “In conformità della gerarchia dei
mondi contenuti nel kawn el-kabîr[3], ogni modo o grado
dell’individualità umana è presieduto da un barzakh, così come ogni facoltà umana è governata da un
simile polo”.
Ciò può venir constatato,
nella maniera più facile, nelle facoltà della concezione mentale, dove i barazikh
(plurale
di barzakh) costituiscono i cardini dei complementari
«soggetto» e «oggetto», come pure nelle facoltà di percezione sensibile.
“Tutti i barazikh
dell’uomo - diceva inoltre lo shaykh
Tadilî - dipendono dal suo barzakh
centrale,
che è il cuore (qalb)[4] mediatore
fra i domini dello Spirito (Rûh) e dell’anima individuale (nafs)”.
D’altronde, l’aspetto
fisico del cuore esprime assai chiaramente i diversi caratteri dei barazikh, poiché, secondo lo shaykh
Tadilî, “è possibile rappresentarsi
simbolicamente questi barazikh della
gerarchia umana come altrettanti punti inafferrabili da cui emana una
vibrazione luminosa, alternante
concentrazione ed espansione in modo continuo e spontaneo. Ogni pulsazione d’un
barzakh produce una trasformazione
della luce vitale.
Perché questa trasformazione non si inverta e non divenga,
per una negligenza individuale, fatalmente «discendente», essa deve essere
sempre determinata dall’orientamento spirituale e sostenuta da strumenti quali
il dhikr (incantazione) o da metodi derivati dalla
scienza della respirazione”. D'altronde questi metodi si basano, da un certo
punto di vista, sull’analogia esistente fra le fasi della respirazione e la pulsazione dei barazikh.
Quanto al dhikr, occorre notare che tale parola significa anche «rammemorazione», «ricordo»,
il che consente di cogliere delle analogie fra
l’incantazione e il ricorso al barzakh
della memoria, situato fra
i «mari» del ricordo e dell’oblio[5].
II
La natura bifronte, analoga
a quella di Giano, che è tipica del barzakh,
la sua duplice funzione di congiunzione e di separazione nel senso verticale, si traduce, sul piano orizzontale, nell’alternarsi
di espansione e concentrazione. Sono, evidentemente, altrettanti aspetti del medesimo
complementarismo. Ricorrendo a un’espressione
logica elementare, è possibile rappresentare queste dualità rispettivamente con l'affermazione e la
negazione.
Questo ci porta a
un'applicazione corrispondente
della formula della Shahada[6], che
può essere definita essa stessa il barzakh
dottrinale per eccellenza.
Generalmente la Shahada viene divisa in due parti, di cui la prima, Lâ ilâha, è chiamata an-nafz, la negazione, o as-salb, la
soppressione, mentre la seconda, ill'Allâh, è detta al-ithbat, l'affermazione.
Ma, per applicare la Shahada più esplicitamente ancora alla teoria del barzakh, la suddivideremo in tre parti: Lâ
ilâha, illâ e Allâh[7].
E per meglio renderei conto
della natura del barzakh, cioè di illâ, che si trova collocato tra il «mare» della negazione, Lâ ilâha,
e il «mare» dell’affermazione, Allâh, lo scomporremo nei suoi
elementi costitutivi: la particella in (=se), che esprime una
condizione, e la (=non), che esprime una negazione.
Ora, quando si sarà compreso che la particella in è un’affermazione condizionata, poiché ridà a ilahun (nominativo di ilâha)[8] la realtà, a condizione che questa non sia altro che la realtà di Allâh, si
noterà che l’affermazione
e la negazione sono
contenute nel vocabolo illâ in ordine inverso in rapporto all’affermazione e alla negazione che «inquadrano» per così dire
l’intera formula.
Questa inversione non è naturalmente una semplice questione di ordine
delle parole, poiché, come abbiamo indicato, la particella in è il «punto di riflessione» per la grazia di Allâh che si estende fino all'illusorio ilâhun: di ciò è possibile rendersi conto sostituendo il termine ilâha con una qualunque nozione positiva, la quale
sarà allora negata in quanto essa si afferma, almeno illusoriamente, accanto all'ipseità di Allâh, e sarà affermata
in quanto si identifica essenzialmente o principialmente
con l’ipseità di Allah. D’altra
parte, il
secondo elemento di illâ, la particella negativa lâ,
si presenta in
qualche modo come il «punto di riflessione» della prima
parte della Shahada, costituita dalla negazione Lâ ilâha: il primo la della formula nega la nozione di «divinità» espressa
dalla forma indeterminata ilâhun, mentre il secondo la singolarizza
questa stessa nozione nella forma determinata Allâh («La Divinità»), che simboleggia qui la non comparabilità, e non la determinazione nel
senso restrittivo
del termine.
L’espressione illâ mostra dunque assai chiaramente le due funzioni del barzakh, che
consistono da un lato nella mediazione in senso «ascendente», vale a dire nel passaggio
dal manifestato al
non-manifestato, passaggio o trasformazione che avviene sempre
attraverso il punto cieco d'un’estinzione, o d’una morte - punto cieco
che è al contempo il
punto d'inversione
dei rapporti.
La Shahada mostra che questi due aspetti apparentemente opposti sono integrabili nella concezione della «non-alterità», concezione che evidentemente oltrepassa il dominio della ragione e che, appunto per questo, dà alla sua espressione, la Shahada, una
certa apparenza
di pleonasmo[9].
I differenti aspetti del barzakh sono rappresentati, d'altro
canto, nel tracciato del Sigillo di
Salomone, e questo ci induce a considerare il rapporto del barzakh con
al-insan al-kamil, «l'uomo universale», che, esprimendo l’analogia costitutiva di microcosmo e macrocosmo, è certamente il barzakh per eccellenza, o il simbolo per
eccellenza, il che è poi lo stesso.
L'uomo universale, in
Islam, è Muhammad, che comprende in sé
tutto il hamd[10], l’aspetto
positivo dell'esistenza. Il suo ruolo di barzakh è espresso dalla seconda
delle due Shahâdatayn: Muhammadun rasùlu'llah, «Muhammad (è) l'inviato d'Allah».
Quando si pongono a
confronto le due formule fondamentali Lâ ilâha ill'Allâh e Muhammadun rasûlu'llah, occorre notare che nella prima
il barzakh si presenta precipuamente
sotto il suo aspetto trasformatore (illâ=
se non) e nella seconda sotto il suo aspetto di mediatore e di conservatore (rasûl =inviato).
Riferiamo ancora, dopo tali
considerazioni, un’interpretazione sufica del versetto seguente, tratto dalla
sura Ar-Rahman: «Egli produce i due mari che si incontrano; fra i due mari c'è un istmo
(barzakh) che essi non oltrepassano». L’interpretazione in questione si riferisce
all'Uomo universale e consiste nell’affermazione secondo cui il Profeta è l’«istmo»,
mentre i «due mari» sono rispettivamente Sayyidnâ
'Alî e
Sayyidatnâ Fâtima[11].
III
La Risâla qushayriyya (Epistola qushayrita), famosissimo trattato
dello shaykh Abu’l-Qaçim al-Qushayrî[12], contiene
fra l’altro una sorta di compendio di certi «termini tecnici» tipici del
sufismo. Alcuni orientalisti vi hanno voluto vedere una specie di psicologia
religiosa, e questo perché, in effetti, alcuni dei termini commentati da al-Qushayrî
riguardano il simbolismo dei sentimenti. Non è sbagliato vedere in ciò una «psicologia», vale a dire una scienza dello psichismo umano, poiché
l'avvaloramento e il controllo degli elementi o energie psichiche fanno
necessariamente parte integrante della Tarîqa («via» o metodo), ma è
fuori luogo non rendersi
conto della prospettiva simbolica in questa
scienza sufica dello psichismo, prospettiva che conferisce a quest’ultimo tutta la sua
portata spirituale.
Se le considerazioni qui
formulate a proposito del barzakh le applicassimo ad alcuni passi dell'Epistola qushayrita,
risulterebbe evidente il piano
essenzialmente metafisico di quella che si è voluta chiamare una «psicologia religiosa».
Abbiamo visto che la
duplice natura del barzakh si
riflette su un qualunque piano cosmico attraverso l’alternanza delle due fasi di concentrazione e di
espansione. Nel dominio delle emozioni, queste fasi si traducono nella maniera
più diretta nei due modi primordiali secondo cui lo psichismo reagisce su
quanto esso considera «realtà», vale a dire da una parte avremo il timore, che
è una contrazione verso il centro della coscienza,
e dall’altra avremo la gioia, o la speranza, che è un’espansione[13].
Ora, quando si tratterrà di
integrare consapevolmente queste due fasi nell’ordine universale, occorrerà che
esse non si riferiscano più a qualcosa
che sia
concepito come loro
superiore. Quando il timore (al-khawf) e la speranza (ar-rajâ’)
saranno orientati verso Allah,
Essenza universale, non per questo verranno cancellati dal dominio psichico, ma
saranno in qualche maniera ritmizzati, non essendo più sottoposti agl’impulsi caotici; si potrebbe dire che
verranno determinati, in un certo modo, dal «Presente» nel tempo e dal «Centro» nello spazio, il polo che
li regge e il fine verso cui tendono essendo divenuti una sola e medesima
realtà.
Se le fasi di timore e
speranza sono così determinate e assorbite dalla permanente attualità del presente immediato, di modo che
il faqîr[14] che le realizza è
diventato il «figlio dell’attimo» (ibnu’l-waqt), esse manifesteranno degli
aspetti più essenziali e le si designerà mediante espressioni racchiudenti un significato cosmologico più
generale, come quelle di «contrazione»
(qabd) e di «espansione» (bast)[15].
Tali fasi possono poi
trasformarsi negli stati complementari di hayba,
espressione che possiamo tradurre solo approssimativamente con «terrore della
maestà», e di uns, «intimità». Mentre
delle due fasi di «contrazione» e di «espansione» (qabd wa bast) si dice che l’una è in proporzione dell’altra, da cui
si deduce che bisogna considerarle
come manifestantisi su un solo e medesimo
piano, dello stato di hayba è
detto che si identifica con quello di ghayba,
«assenza» o «rapimento». È qui che ha luogo un passaggio dall’orizzontale alla verticale: e, in virtù dell’inversione
attraverso la porta stretta del barzakh, l’assenza (nel mondo del farq, ossia della separatività) diventa Presenza (hudûr) nel mondo del jam’,
dell'unione.
Al-Qushayrî cita le
seguenti parole di Al-Junayd[16]: “«Il
timore» di Allâh mi contrae (qabd),
la speranza di Lui mi espande (bast);
la Verità (haqîqa) mi unisce e la
Giustizia (haqq) mi separa. Se Egli
mi contrae col timore, mi estingue a me stesso (afnânî ‘annî), e se mi espande
con la speranza, mi rinvia a me stesso. Se mi unisce mediante la
Verità, mi ammette alla Sua Presenza (ahdaranî),
e se mi separa
mediante la
Giustizia, mi rende testimone dell'altro-da-me e quindi pone fra me e Lui un velo”.
* Tratto da: Symboles. Recueil d'essais, Arché, Milano, 198o
[1] Cfr. l'articolo di René Guénon, Du double sens des symboles, in "Etudes Traditionnelles", numero di luglio 1937.
[1] Cfr. l'articolo di René Guénon, Du double sens des symboles, in "Etudes Traditionnelles", numero di luglio 1937.
[2] La spiegazione di questi termini la si trova nell'antologia di 'Abd
al-Karim al-Jili, De I'Homme universel
(al-insan al-kâmil), trad. di Titus Burckhardt, Paris 1975 , Dervy-Livres.
[3] Il macrocosmo. Secondo un detto sufico, “il Cosmo è simile a un uomo grande e l’uomo è simile a un piccolo cosmo”.
[4] È assai significativo, sotto questo rapporto, che la radice della parola qalb, QLB,
implichi
l’idea di «rovesciare», mentre la radice QBL implica quella di «mettere l’uno di fronte all’altro», da cui l’espressione qibla (orientamento rituale); la parola qalb ha d’altronde anche il significato di
«stampo», data l’inversione esistente fra «negativo» e «positivo» nella stampa.
[5] L’uso dei tempi, nella lingua araba, si rapporta al medesimo ordine di
analogie: non è il presente del verbo che viene usato per simboleggiare l’eterno, ma il passato
definito, o piuttosto quello che ad esso corrisponde in arabo.
[6] La «testimonianza», cioè la formula
fondamentale Lâ ilâha illà Allâh, «non c'è divinità se non
La Divinità». La traduzione letterale è la seguente: Lâ= non; ilâha =divinità; in= se, lâ= non (in+ lâ= illâ); Allâh =La Divinità. Secondo i grammatici arabi, il nome Allâh è originariamente costituito dall’articolo
determinativo al e dal sostantivo ilâhu (nominativo di ilâha).
[7] «Non c'è divinità»; «se non»; «La Divinità».
[8] Ilàhun
=divinità, una
divinità; al-ilàhu =La Divinità; ilàha =accusativo
dipendente dalla negazione.
[9] Ciò ha provocato numerose
traduzioni cervellotiche della Shahâda, fra cui una delle meno false è la seguente:
«non c'è dio eccetto Allah», traduzione che, a causa della sua
insufficienza, ha indotto molti a vedere
nella Shahâda soltanto l'affermazione di un «monoteismo» assai semplicistico.
[10] I nomi più essenziali del Profeta sono: ‘Abd Allâh, «servitore di Allah»"; Ahmad, «il
migliore dei glorificanti»; Muhammad, «il migliore dei glorificati». Ahmad è considerato come
l’aspetto esoterico di Muhammad.
[11] ‘Alî è
il Khalîfa (=luogotenente) esoterico
per eccellenza; Fâtima è la figlia del Profeta e la sposa di ‘Alî.
[12] Al-Qushayri fu discepolo di Abû 'Ali
ad-Daqqâq e visse
dal 376 al 465 dell'Egira, ossia dal 986 al
1074 d. C.
[13] Questa espansione propria alla gioia si trova espressa in maniera del tutto spontanea, in arabo,
nel verbo insharaha, «rallegrarsi», che
vuoi dire letteralmente «allargarsi», «espandersi», in rapporto al petto colmo di gioia. Il verbo inbasata, che pure significa «rallegrarsi», contiene anch’esso, etimologicamente, un senso di
«espansione». Per l’analogia fra il timore e la contrazione, si potrebbero citare le immagini verbali di
parecchi lingue; notiamo soltanto, come esempio
particolarmente evidente, la parentela fra la parola tedesca Angst, «paura»,
e il latino angustus, «stretto».
[14] Il «povero» in Allâh o per Allâh.
[15] Fra i nomi di Allâh troviamo: al-Qâbid,
«Colui che contrae» o «Colui che afferra», e al-Bâsit, «Colui che allarga».
[16] Abû’l-Qâçim al-Junayd, originario di una famiglia persiana, visse a
Baghdad, dove mori nel 277 dell'Egira, 910 d.C.
Fu uno dei maestri più grandi, chiamato
«signore della truppa» e «pavone dei sapienti».